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Per un programma sulla giustizia
Redazione 23 dicembre 2005 11:19
Pubblichiamo i contributi redatti dai Giuristi Democratici per la discussione ela redazione di un programma giustizia dell'Unione.
I testi sono pubblicati su Diritto di Critica - novembre 2005 - e seguono al convegno tenutosi il 29 otobre 2005 a Roma.

PER UN PROGRAMMA SULLA GIUSTIZIA: il contributo dei Giuristi Democratici

di Carmine Malinconico *

L'ondata conservatrice (e per certi aspetti schiettamente reazionaria) che si è abbattuta sull' Italia negli ultimi 5 anni ha lasciato sul campo di battaglia della Democrazia e dei diritti di cittadinanza molti morti e feriti.
Tra le vittime illustri della nuova destra di governo senza dubbio vi è il "sistema Giustizia", ossia quel sistema che rende concreto il Diritto del cittadino a poter ricorrere, o ad essere processato, ad/da un Giudice imparziale, qualificato, in tempi ragionevoli, a costi non proibitivi, con regole preordinate, certe e comprensibili, e con le necessarie ed ampie garanzie contro l'arbitrio dei pubblici poteri e contro la prepotenza eventuale della parte più forte, nonché (oggi lo si può dire tranquillamente) con senso di umanità e in una prospettiva di reinserimento sociale.
Vittima illustre, dunque, se è vero che su di essa, sulla sua esistenza ed efficienza le società moderne avevano, ed hanno ancora, affidato buona parte delle loro fortune. La buona Giustizia è, per molti, il migliore indicatore di una Buona Società, e noi aggiungeremmo che una Giustizia che garantisce diritti e libertà è un buon viatico per immaginare Stato e Società più vicini, meglio relazionati, con il primo più equilibrato e la seconda più libera e giusta.

I disastri di questa triste stagione, al contrario, hanno reso il sistema Giustizia l'ombra di sè stesso.
La scelta chiara di disinvestire nel settore è divenuta la costante di ogni finanziaria. Non si tratta solo di far diminuire le risorse destinate al Ministero della Giustizia, cosa in sé già grave, ma di decidere scientemente che l'amministrazione della giustizia non è più un elemento centrale e qualificante dell'agire pubblico. Lasciare l'organico della Magistratura e del personale amministrativo cronicamente sottodimensionato, lasciare le strutture in decadenza permanente, privare gli uffici dei fondi perfino per la stenotipia dei processi, non sono semplici storture amministrative, sono scelte di politica giudiziaria.
La difficoltà a mettere mano a riforme strutturali necessarie (ed esempio quelle dei servizi di cancelleria, o quelle dei giudici onorari, o quelle del codice penale) per privilegiare la novellistica frammentata, disorganica, che normalmente crea più problemi di quanti ne risolve, è forse incapacità, forse sottovalutazione, forse volontà politica.
Infine la scelta di piegare, senza vergogna, il sistema giustizia all'uso personale, o all'interesse di categorie ristrette, privilegiate e ben rappresentate nell'ambito governativo, resta la cifra di maggiore coerenza dell'idea di giustizia che la nuova destra di governo ha introitato, sulla scia dei bisogni e delle intenzioni di quel gruppo di potere asceso al governo per guidare la svolta autoritaria e neocorporativa in Italia.
Era in qualche modo prevedibile che la più organica produzione normativa che costoro fossero in grado di licenziare sarebbe stata una riforma dell'ordinamento giudiziario che "normalizzasse" la magistratura, ridisegnando, o cominciando a ridisegnare, la gerarchia tra i poteri e le funzioni dello Stato. Non ci appartiene l'idea che la Magistratura in quanto tale sia, per così dire, la punta di diamante dello schieramento democratico nel nostro paese, e non ignoriamo le molte volte nelle quali settori della magistratura si sono posti scientemente al servizio di poteri forti ed abbiano rappresentato un elemento di forza della conservazione. Non di meno riteniamo che la lotta contro quella riforma, a fianco della Magistratura e delle forze democratiche, sia oggi un dato qualificante della difesa della Giurisdizione e, dunque della democrazia.

Noi speriamo ardentemente, come ormai la maggior parte degli italiani, che le prossime elezioni politiche spazzino via la schiera degli uomini-azienda, fascisti riciclati, integralisti della razza bianca, razzisti ignoranti, intellettuali riqualificati e delinquenti salvati dalle immunità parlamentari.
Ma, come è noto, la legge della dialettica governa la storia e rende l'equilibrio sempre instabile e precario.
Sconfitta la destra, si apre immediatamente il tema del che fare, e non solo nel campo della giustizia. Noi ovviamente, e per fortuna, ci limitiamo a questo.
Ci sembra quasi ovvio premettere che non riterremmo giammai sufficiente, per quanto necessario, il solo porre immediatamente rimedio ad alcuni dei guasti più evidenti in materia di giustizia. Sappiamo che "riformare la riforma" sull'ordinamento giudiziario sarà necessario, che abolire la Bossi - Fini (e con essa la prima ipotesi introdotta in Italia di detenzione senza reato) sarà assolutamente necessario.
Ma non ci accontenteremmo mai di questo, cioè del rimediare: riteniamo necessario progettare con veduta più ampia, andando a sciogliere alcuni nodi centrali che hanno reso fin'ora il sistema giustizia zoppo, inadeguato, inutilizzabile per molti.
Ridurre la lunghezza dei processi, sia civili che penali, procedere tendenzialmente verso il rito unico in sede civile, riformare i servizi di cancelleria, riformare la Magistratura Onoraria, disciplinare diversamente il sistema delle conciliazioni, frenare i processi di esternalizzazione e privatizzazione dei processi, riformare le ipotesi di risoluzione alternativa dei conflitti, riformare e riqualificare l'accesso alle professioni forensi, rendere effettivo e non virtuale il diritto di difesa anche per i meno abbienti, portare a compimento la necessaria riduzione di un sistema penale ancora ipertrofico, rendere effettiva la tutela della vittima del reato, ridare senso all'espressione "funzione rieducativa della pena".
Questo ed altro noi pensiamo sia sul tavolo del futuro governo di centro sinistra.
Questo ed altro pensiamo sia da inserire nel progetto Giustizia dell'Unione.
Sappiamo bene che non tutte le voci sono concordanti nella coalizione, conosciamo alcune delle differenze e non temiamo di confrontarci con esse.
Giusto per accennare e chiarire su alcuni punti: noi non siamo dell'idea che al principio di celerità del processo si debba sacrificare qualunque altra cosa, ad esempio la qualità della decisione giudiziaria o la salvaguardia delle garanzie per l'imputato o la parte più debole. Celerità si, ma ragionevolmente condizionata dall'esigenza di una buona giustizia e di una effettiva garanzia per le parti processuali.
Noi diffidiamo grandemente di forme generalizzate e non controllate di "privatizzazione" della Giustizia. Se una forma seria di mediazione, ai fini di una risoluzione non giudiziaria del conflitto, può andar bene ed è auspicabile in alcuni ambiti penali, il penale minorile, ad esempio, o il penale minore che implica il conflitto tra persone, al contrario riteniamo che la mediazione privata sia rischiosa in ambito civile, lavorativo, contrattuale, dove la maggior forza socio-economica di una delle parti trova minori ostacoli e contrappesi che in ambito giurisdizionale.
Noi riteniamo che il nodo centrale della politica criminale non sia l'adeguata ed esemplare punizione, quanto piuttosto la prevenzione, sia di tipo generale in ambito sociale, sia di tipo specifico da operarsi sui patrimoni economici, sui rapporti tra poteri pubblici e criminalità, sulla gestione del denaro pubblico e degli enti di spesa.
Noi riteniamo che la prospettiva seria di politica carceraria sia quella di ampliare e rendere funzionali le misure alternative alla detenzione e non certo quella di costruire nuove carceri.

C'è un gran lavoro da fare, dunque, non semplice né breve.
Come Associazione Giuristi Democratici siamo stati invitati a dare il nostro contributo ad un programma dell'Unione sulla Giustizia . Coinvolgere le realtà associative ci sembra un buon inizio, un metodo giusto che raccogliamo, auspicando che un numero sempre maggiore di realtà si sentano coinvolte in questo progetto.
Faremo la nostra parte, con la serietà alla quale siamo abituati, con il rigore necessario e con l'apertura mentale di chi, sapendo di non aver sciolto tutti i nodi possibili, ma orgoglioso del suo patrimonio di elaborazione e riflessione, sa mettersi lealmente in gioco.
Questo numero di DIRITTO di CRITICA è quasi interamente dedicato a questa impresa (fa eccezione la seconda parte del saggio del Prof. Santoro che riteniamo giusto pubblicare ora), con articoli sui temi che abbiamo maggiormente dibattuto ed elaborato (diritto e processo penale, processo del lavoro, diritto internazionale ) e altri su argomenti che abbiamo affrontato da minor tempo, ma comunque, ci sembra di poter dire, con risultati più che discreti (processo civile, questione carceraria, diritto di famiglia, magistratura onoraria).
E' un numero che utilizzeremo certamente per approfondire il dibattito al nostro interno, ma che soprattutto offriamo ai nostri interlocutori.
Noi, pur con qualche eccezione, non siamo per professione "pensatori", siamo operatori del diritto e quando riflettiamo ci portiamo dietro inevitabilmente il bagaglio della nostra esperienza "sul campo".
Si tenga conto di questa realtà che, seppure rende il nostro riflettere forse meno organico, complessivo ed "ordinato", costituisce comunque un valore aggiunto ed accresce, perdonate il peccato di orgoglio, l'utilità del nostro contributo.


*avvocato in Nola. Responsabile della redazione di DIRITTO di CRITICA

SUL PROCESSO CIVILE di Giorgio Marpillero
Il processo civile dovrebbe soddisfare alcuni requisiti essenziali: essere accessibile nei costi, contenuto nei tempi di realizzazione, capace di fornire un risultato (sentenza) qualitativamente apprezzabile. Purtroppo, non è una esigenza comune. Viviamo in un Paese dove consistenti gruppi di potere (economici, politici, leciti o malavitosi) traggono beneficio dall'assenza di un sistema giudiziario efficiente.
Certamente la buona amministrazione della giustizia è un obiettivo condiviso da tutta la sinistra, un elemento fondante del suo programma politico; ma, su come raggiungere l'obiettivo, su come realizzare un processo che abbia le caratteristiche sopra richiamate, la discussione è ancora aperta.
Una discussione che registra punti di convergenza importanti ma, anche, forti motivi di dissenso.
In primo luogo, vi è la condivisa richiesta che lo Stato torni ad investire "nel sistema giustizia", nella convinzione che ogni euro speso per l'amministrazione giudiziaria comporta un ben maggior risparmio sulle spese indotte dalla carenza di giurisdizione. Oggi le risorse destinate al Ministero della Giustizia sono inadeguate, per la metà utilizzate per un apparato carcerario che presenta condizioni di vita di cui bisogna vergognarsi. Nella distribuzione delle rimanenti risorse, alla giustizia civile spettano poco più delle briciole. E' un quadro sconfortante, dove le proposte di attuazione del "Processo Civile Telematico" richiamano un immaginario più fantascientifico che giuridico.
Per una società democratica è essenziale essere capace di soddisfare la domanda di giustizia dei cittadini. E' necessario attrezzarsi in tal senso ma con la consapevolezza che, per certi versi, il processo non è una fonte inesauribile.
Amministrare la giustizia, comporta l'esigenza di gestire adeguatamente le risorse - quali esse siano - scegliendo tra diverse politiche di spesa e di investimento.
E' in tale contesto che, nel dibattito della sinistra italiana, si registrano voci discordi sul futuro del nostro processo civile, in particolare riguardo al ruolo che deve avere la Magistratura Onoraria ed al ricorso a forme di risoluzione delle controversie alternative al processo (le c.d. ADR ma, più in generale, gli istituti di conciliazione).
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E' innegabile la necessità e l'utilità dei magistrati onorari nell'esercizio della giurisdizione.
E' altrettanto innegabile che nell'attuale sistema processuale il ricorso alla magistratura onoraria non è temporaneo o marginale, bensì strutturale.
Negli ultimi anni il legislatore, quale che fosse la maggioranza parlamentare, ha tentato di porre rimedio alla crisi della giustizia in maniera univoca: sottraendo al Giudice togato quote sempre più consistenti del processo che vengono attribuite ai GdP, ai GOT, ai GOA, ai Notai, a nuovi soggetti via via delegati ad amministrare la giustizia.
I "Giudici di Pace" sono la componente più numerosa, incaricati di decidere le cosiddette controversie "minori"; sempre che un credito di € 15.000 per un sinistro stradale sia questione di poco conto.
I G.O.T. "Giudici Onorari di Tribunale" sono utilizzati diversamente da distretto a distretto, generalmente si fanno carico della attività istruttoria; in sostanza è un magistrato onorario che sente i contendenti ed i testimoni e poi trasmette il fascicolo ad un giudice togato che farà la sentenza.
I G.O.A. "Giudici Onorari Aggregati" hanno avuto l'incarico di svuotare gli armadi dalle cause arretrate, anche perché nel processo civile il rimedio dell'amnistia non può essere applicato.
Ai Notai sono state assegnate le procedure esecutive immobiliari. Sempre ai Notai qualcuno vorrebbe assegnare separazioni consensuali e divorzi congiunti.
In settori più particolari del processo civile vi sono altre numerosissime figure di giudici onorari (si pensi in particolare ai Tribunali per i Minori).
Le dimensioni del fenomeno sono eloquenti. Nel processo civile, il numero dei magistrati onorari ha ampiamente superato quello dei togati. Circa il 40% delle cause civili sono di competenza dei GdP.
Le cause c.d. "minori", assegnate alla magistratura onoraria, in realtà rappresentano il contenzioso dove attore è la "persona fisica", il contenzioso che attiene i diritti e gli interessi propri del cittadino.
Certamente il ricorso alla magistratura onoraria ha avuto un effetto positivo sulla durata dei processi, la media attuale di una causa avanti ai GdP è 11 mesi, davanti al Tribunale è di 30 mesi. Ma, per ottenere questa celerità, si è pagato un prezzo in termini di minor qualità del prodotto.
Il Giudice Onorario non è messo in condizione di fornire il medesimo servizio di un Giudice togato. L'esperienza di questi anni ha permesso di apprezzare il considerevole impegno profuso dai Magistrati Onorari ma la loro preparazione non è paragonabile con quella dei Giudici togati.
Si è realizzata una sorta di dicotomia, un sistema dove, sostanzialmente, si è costretti a scegliere tra un processo più rapido od un processo capace di pervenire ad una sentenza "più giusta". E' evidente che l''assenza anche di uno solo di questi requisiti, si risolve nella negazione di un effettivo diritto alla giustizia.
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Un secondo fenomeno che potrebbe modificare profondamente l'amministrazione della giustizia civile è quello della c.d. "giustizia alternativa" o, meglio, delle "forme alternative di giustizia", le ADR (Alternative Dispute Resolutions), intese come possibilità di sottrarre la risoluzione del conflitto non solo al Giudice togato ma alla stessa amministrazione pubblica.
Una trasformazione profonda, definita con l'impronunciabile termine di "degiurisdizionalizzazione" del processo, in sostanza la "esternalizzazione" del servizio giustizia.
A proporre l'adozione di istituti di "giustizia alternativa" sono, con ragioni che muovono da esigenze incontrovertibili, tanto la Comunità Europea quanto il sistema imprenditoriale.
L'argomento non è rinviabile nè eludibile, se ne deve discutere in modo franco perchè vi sono due possibili "letture" del fenomeno, letture che conducono a scenari non solo diversi ma contrapposti.
La prima organica proposta di legge in materia fu il "progetto Folena" del 1998 e da sempre nella sinistra sono in molti a considerare le ADR un importante istituto, che non deve "sostituire" il processo ma che può "prevenire" il processo. Le ADR non sarebbero deputate a risolvere autoritativamente il conflitto ma possono tentare di conciliarlo, con una evidente ricaduta deflattiva sulle cause civili.
Di tutt'altra natura la "lettura" che pone le ADR nel solco della privatizzazione della giustizia.
In realtà l'idea è tutt'altro che nuova: i lunghi, costosi e inconcludenti processi che si svolgono nei Tribunali verrebbero sostituiti dagli agili istituti di "conciliazioni stragiudiziali" e da "arbitrati" affidati anche a strutture private. Ovviamente per essere efficaci le "Alternative Dispute Resolutions" devono essere vincolanti, in sostanza la parte insoddisfatta non potrà poi rivolgersi al Giudice. Ancora una volta "meno stato e più mercato", è già successo per la Sanità e per l'Istruzione (anch'essi servizi fondamentali, anzi diritti costituzionali) perché non dovrebbe accadere per la Giustizia. Quale dovrebbe essere l'impedimento se il "privato" è in grado di fornire una soluzione delle controversie civili meno costosa di quella pubblica (e ci vuol poco) e più rapida (e ci vuol ancora meno). Ed è sterile eccepire che non si può privatizzare il servizio giustizia perché si violerebbe la nostra Costituzione (una difesa male impostata perché sostituisce l'autorità della norma all'autorevolezza del principio che la norma tutela; una difesa facilmente superabile con il banale assunto che tutte le leggi - anche quelle costituzionali - si possono modificare).
Il punto di approdo di questa "lettura" è evidente, si persegue un sistema di relazioni contrattuali ove il soggetto debole (lavoratore autonomo, conduttore, consumatore) deve demandare la risoluzione dell'eventuale controversia ad un soggetto terzo; con buona pace delle più elementari forme di garanzia, di pubblicità e di imparzialità.
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La necessità della Magistratura Onoraria e l'opportunità di istanze conciliative non sono in discussione.
Il problema è un altro, è decidere quale sarà, al di là di esigenze episodiche o marginali, la struttura del nostro processo civile.
Come Giuristi Democratici siamo convinti che, nell'amministrare la giustizia civile, possa e debba essere salvaguardato un processo pubblico governato dal Giudice togato, un processo capace di soddisfare le esigenze di celerità, economia e qualità da cui siamo partiti.
Per farlo sono indispensabili talune scelte, politiche e ordinamentali, che realizzino idee e proposte che appartengono al comune sentire di tutta la sinistra.
- E' necessario aumentare il numero dei Magistrati togati. Negli ultimi anni il numero dei Magistrati togati non è stato adeguato alla maggior domanda di giustizia. Quando vi fu la scolarizzazione di massa si moltiplicarono i professori, la maggiore richiesta di tutela della salute ha determinato un corrispondente aumento dei medici (e non vennero create figure spurie di professori onorari nè medici vennero sostituiti dagli infermieri). Ed allora non si capisce perché, se aumenta la domanda di tutela dei diritti, non debba aumentare il numero dei Magistrati come accaduto in altri paesi europei.
- E' necessaria una più razionale distribuzione degli Uffici Giudiziari e dei Giudici sul territorio.
- E' necessario che il Magistrati togati siano utilizzati nella funzione giurisdizionale, oggi troppi di loro sono distaccati presso il Ministero o altrove.
- E' necessario semplificare il processo, ponendo fine al moltiplicarsi dei riti, anzi immaginando l'adozione del rito del lavoro quale unico rito.
- E' necessario modificare il processo, riducendo l'attività d'udienza a quanto utile per il corretto contraddittorio. E bisogna riconoscere che le modifiche introdotte con la legge 80/2005 vanno in quella direzione.
- E' necessaria una diversa presenza del Giudice nel processo e l'istituzione dell'Ufficio del Giudice, ovvero di una struttura che sappia coadiuvare con il Magistrato sollevandolo da incombenze che non richiedono necessariamente la sua personale partecipazione (ricerche giurisprudenziali, preparazione dei fascicoli, verifica delle notifiche e delle comunicazioni...).
- E' indispensabile rafforzare la struttura delle cancellerie e pensare all'introduzione di figure di funzionari quale quella del Rechtspfleger tedesco (al quale sono attributi l'emissione dei Decreti Ingiuntivi e la gestione delle esecuzioni mobiliari, restando di natura giurisdizionale le sole eventuali fasi di opposizione).
- E' indispensabile modificare la cultura, ed anche gli interessi degli operatori del diritto. Per quanto riguarda Giudici e Avvocati, realizzando condizioni che incentivino una più veloce definizione della controversia (ad esempio, l'attuale sistema di parcellazione, consono al principio "dum pendet rendet", può essere sostituito con l'introduzione di tariffe che premino la soluzione rapida dei giudizi; è un meccanismo già adottato dal sistema tedesco).
Non sappiamo se la prossima legislatura potrà e vorrà adeguare il processo civile alle aspettative dei cittadini, ma siamo certi che se lo farà, i Giuristi Democratici non faranno mancare il loro contributo di idee e di esperienze.
DIRITTO E PROCESSO DEL LAVORO di Roberto Lamacchia
Molto abbiamo già detto e scritto sulle varie questioni in tema di giustizia; in particolare vogliamo ricordare il documento "Per la costruzione di un progetto unitario della sinistra in tema di giustizia" dell'ottobre 2003 ed il successivo "Spunti di ulteriore riflessione su un progetto" del gennaio 2005.
Si tratta, dunque, per noi, di rivisitare e rimodernare quelle considerazioni nei vari settori trattati, alla luce delle modificazioni nel frattempo intervenute e degli approfondimenti cui siamo giunti, anche in una chiave propositiva, oltre che di analisi.
Nel campo del diritto del lavoro, tali rivisitazioni e approfondimenti non possono che avere riferimento alla L. 30 ed ai successivi decreti delegati.
Come già abbiamo detto: il Libro Bianco prospettava una vera e propria rivoluzione nel campo del diritto del lavoro e propugnava l'adozione di "norme leggere" che orientassero l'attività dei soggetti destinatari, senza costringerli ad un determinato comportamento.
Il Libro Bianco è stato, ora, trasformato, con scarse modifiche, nel D.Lgs. n. 30/2003; e subito sono stati presentati i progetti di legge delegati; già lo strumento utilizzato, quello della legge di delega, avrebbe dovuto indurre a qualche timore, posto che, così facendo, si impedisce sostanzialmente un autentico esame da parte del Parlamento, dopo l'approvazione dei principi generali, delle norme elaborate dal Governo, sulla base di quei principi; mai era avvenuto che si utilizzasse una simile procedura in una materia tanto delicata, come il rapporto di lavoro e, per giunta, in una fase di sua radicale trasformazione.
Tutti i decreti delegati sono caratterizzati da una logica neoliberista e mirano a rendere operativa l'abolizione di alcuni principi-cardine del nostro ordinamento in tema di diritto del lavoro: il rapporto di lavoro subordinato diventa una delle varie possibilità di svolgimento dell'attività lavorativa, e quella meno confacente allo spirito del Libro Bianco; la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro viene preventivamente affidata ad enti bilaterali, con la partecipazione delle OO.SS., onde l'impugnazione avanti il Giudice del Lavoro diventerà ancora più difficile; il divieto di intermediazione di manodopera viene abolito, con l'introduzione autorizzata, anzi, auspicata, di una forma di caporalato, con l'unica differenza che esso viene affidato a società iscritte in appositi registri; vengono istituite nuove forme di lavoro, quale quello a chiamata, lo staff leasing e le prestazioni di lavoro occasionale, che hanno come caratteristica preminente quella di scindere il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro: il lavoratore è considerato uno strumento che può essere utilizzato quando e se serve.
Insomma, la nuova normativa istituisce una vera e propria nuova forma "normale" del rapporto di lavoro, quella che il Prof. Gallino ha efficacemente definito "giusto in tampo".
"Giusto in tempo", rappresenta un principio organizzativo secondo il quale il lavoratore è considerato esattamente alla stregua di una merce, onde deve venir utilizzato solamente nel momento e nel luogo in cui è necessario: la codificazione nella legge 30 delle agenzie di somministrazione e delle aziende utilizzatrici rende evidente ed ufficiale la trasformazione del concetto di lavoratore.
La flessibilità, inoltre, finisce con lo spostare sempre più verso il fronte di lavoro autonomo e parasubordinato, o comunque atipico, il modello "normale" di rapporto di lavoro; ciò determina, ovviamente, pesanti conseguenze in relazione alla tutela dei diritti di quei lavoratori atipici che avranno difficoltà ad organizzarsi sindacalmente, sia per la diversità delle figure lavorative tra loro, sia per l'insicurezza che caratterizza il loro rapporto di lavoro.
Ma la flessibilità non riduce solo la sicurezza del lavoratore nel mantenimento del suo posto di lavoro: essa incide anche su quelle altre sicurezze che caratterizzano lo svolgimento sereno di una vita lavorativa, quale la sicurezza previdenziale e quella di un reddito dignitoso.
Ora, è vero che i principi costituzionali in materia di tutela del lavoro non sono stati toccati, ma è evidente che la nuova produzione normativa, unita a quel convincimento circa l'ineluttabilità ed anzi l'utilità della flessibilità ed addirittura ad una interiorizzazione del proprio stato di precarietà da parte dei lavoratori atipici, determinerà con molta probabilità conseguenze drammatiche sul livello di garanzia e di tutela dei diritti dei lavoratori e, in ogni caso, sarà di ostacolo ad una lettura e ad una applicazione progressiva dei principi costituzionali.
Ed in ogni caso, è evidente come le nuove forme di lavoro siano solo parzialmente coperte dalle garanzie costituzionali, posto che esse avevano presente, al momento della loro formulazione, il modello classico di rapporto di lavoro, vale a dire quello subordinato, a tempo indeterminato.
Ed ancora, come si può pensare che la nuova normativa sia compatibile con un quadro costituzionale così indiscutibile circa la specificità data alla tutela del lavoratore in quanto soggetto debole; i dubbi di costituzionalità che si stanno profilando sono assai numerosi.
Di più: l'erosione della tutela del lavoro subordinato, che si attua attraverso la creazione, preferenziale, di altre figure di rapporto di lavoro, rappresenta essa stessa di per sé una violazione costituzionale, se è vero, come è vero, che essa non è disponibile nemmeno per il legislatore, in quanto attiene, come affermato da Mortati, alla stessa "forma di Stato".
Nemmeno i giuslavoristi di parte padronale speravano di poter arrivare così facilmente ad una radicale ed epocale trasformazione del rapporto di lavoro; ed invece, grazie all'accettazione pedissequa della flessibilità come valore fondamentale da parte di molti giuslavoristi, anche di parte sindacale, grazie allo spregiudicato uso della L. 30, nota come Legge Biagi, presentata, cioè, come figlia di una vittima del terrorismo e, dunque, come legge da difendere ad ogni costo; grazie, ancora, al discutibile uso dei decreti delegati che non consentono di entrare nel cuore della questione; grazie, infine, alla clamorosa, in termini numerici, e catastrofica, in termini di risultati, sconfitta elettorale del 2001, oggi ci troviamo di fronte ad una situazione ribaltata rispetto al passato.
Si è rotto il rapporto temporale e spaziale tra datore di lavoro e lavoratore, si è esaurita (o molto indebolita) la funzione delle OO.SS. nella gestione delle nuove figure di lavoro, o perché nemmeno coinvolte, stante la natura prevalentemente individuale e autorizzata del nuovo rapporto di lavoratipico, o perché, comunque, le OO.SS. non appaiono in grado, per loro struttura, di a governare esigenze soggettive diverse, in un quadro, quello della flessibilità, che prescinde dalle esigenze collettive.
Si è superata l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che per anni ha puntigliosamente segnato i limiti tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo; si è eliminato il divieto di intermediazione di mano d'opera; si è, in definitiva, trasformato il lavoratore in merce.
E tutto ciò in nome di due principi:
1) quello del mercato, che parrebbe esigere tale riposizionamento del rapporto di lavoro;
2) quello delle esigenze soggettive del lavoratore, precedentemente sacrificate sull'altare delle esigenze collettive.
Ora, se il secondo principio presenta qualche aspetto di verità, nel senso che sovente non si è riusciti, da parte sindacale a coniugare le istanze collettive con quelle individuali e dunque può essere opportuna una rettifica dei comportamenti sindacali; il primo principio appare generico e falso, improntato ad ottenere mano libera per il padronato nell'organizzazione del lavoro, in nome del principio che se l'impresa è competitiva, cresce l'occupazione e migliorano le condizioni economiche dei dipendenti.
Si tratta dell'applicazione, nell'ambito normativo, del principio della riduzione del costo del lavoro (e dunque dei salari), già applicato con successo (per loro) dalle aziende; gli anni trascorsi ci hanno dimostrato come, a fronte dell'effettiva riduzione del costo, del lavoro, con una reale perdita del potere d'acquisto dei salari, non è corrisposto un aumento dell'occupazione, a meno di voler prendere per buoni i dati di Berlusconi, che considera occupati anche i lavoratori precari con contratti di durata settimanale.
Occorrerebbe, perciò, riesaminare il concetto di flessibilità, sia dell'occupazione, sia della forma della prestazione e trovare un giusto equilibrio tra le esigenze del mercato e dei soggetti interessati ed il necessario rispetto dei diritti fondamentali del lavoratore.
Occorre, cioè, non essere schiavi del mercato: il fatto che oggi, secondo alcuni dati, circa i 2/3 delle nuove assunzioni avvengono con contratti atipici, non deve significare che quel tipo di contratto è il contratto necessariamente vincente: è evidente che l'imprenditore, a fronte della possibilità di stipulare un contratto per lui più vantaggioso, vi faccia ricorso, ma non vi è prova alcuna che, se avesse dovuto operare all'interno del rapporto di lavoro "normale", a tempo indeterminato, le assunzioni non vi sarebbero state.
Ed allora, dobbiamo avere il coraggio di tornare indietro, ad una concezione del rapporto di lavoro che dia la priorità al rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato, pur evitando certe posizioni di eccessiva rigidità verso altre forme contrattuali, purché non siano tali da:
a) non trasformare il lavoratore in merce;
b) non ridurre la sicurezza sul lavoro;
c) non impedire di non trasformare l'attuale situazione in una più favorevole ai lavoratori, come la Costituzione impone (e come oggi è impossibile fare, con gli strumenti normativi vigenti).
Si deve, dunque, non solo andare ad una abrogazione della L. 30, ma anche operare una rivisitazione del concetto di flessibilità, distinguendo, come fa il Prof. Gallino, tra flessibilità buona e flessibilità cattiva.
Occorre, poi, ripristinare il rapporto datore di lavoro - lavoratore, con eliminazione delle forme di caporalato oggi previste e delle possibilità dell'esistenza di un imprenditore senza dipendenti; occorre ritornare ad un'applicazione dell'art. 2070 c.c. che leghi il contratto di lavoro applicabile al tipo di attività merceologica svolta dall'imprenditore, onde evitare che nello stesso luogo di lavoro operino lavoratori dipendenti da appaltatori o sub-appaltatori, ognuno con un contratto collettivo diverso, a fianco di lavoratori a progetto, lavoratori in affitto e dipendenti dell'imprenditore medesimo.
Occorre, ancora, rivedere la normativa sull'orario di lavoro per impedire che, in applicazione di direttive europee, si subisca un arretramento dei diritti acquisiti in questo campo.
La lotta contro le direttive europee (e per la loro modifica) in materia di lavoro (v. la Direttiva Bolkenstein) appare particolarmente importante in questa fase: d'altronde, è noto il vizio genetico dell'Unione Europea che è nata come CECA e poi come CEE, sempre con caratteristiche accentuatamente mercantili, senza alcun riguardo, almeno sino alla Carta di Nizza, al problema dei diritti, e di quelli dei lavoratori in particolare.
In un simile quadro, non deve essere trascurata la prossima, probabile adozione da parte dell'Unione Europea del Trattato Costituzionale, pur recentemente bocciato dai referendum in Francia ed in Olanda.
So bene di toccare un tasto particolarmente delicato, perché in molti sostengono l'assoluta necessità di adottare quel testo come primo gradino per un'estensione dei principi democratici anche a Stati aventi deficit di democrazia, ma non posso esimermi dal dire che quel testo è francamente deludente (parlo naturalmente della parte relativa alla Carta dei Diritti Sociali) e potrebbe rappresentare un rischio di arretramento, in prospettiva, per quegli Stati costituzionalmente più avanzati.
In altre parole, invece di cogliere l'occasione fornita dall'elaborazione di un nuovo strumento costituzionale per reperire nuove regole fondanti in relazione ai nuovi diritti sociali che si sono andati delineando ed affermando nell'ultima fase storica, ed introdurle, attraverso il Trattato Costituzionale Europeo, negli ordinamenti nazionali, si corre il rischio di fornire a quelle posizioni, ben note in Italia, che hanno come obiettivo la disarticolazione del nostro sistema costituzionale, la possibilità di rafforzarsi, nel momento in cui alcuni principi-cardine del nostro ordinamento costituzionale non compaiono più con la stessa forza nel Trattato Costituzionale Europeo.
La materia del lavoro è emblematica, sotto questo profilo: si è già ricordato come, per il nostro ordinamento, il lavoro assurga a diritto fondante, diritto che lo Stato si impegna a promuovere e a proteggere in ogni situazione; ora, invece, la bozza di Trattato Costituzionale riporta il diritto al lavoro tra i diritti sociali, come quello alla libera circolazione, alla libera espressione del pensiero, alla libertà religiosa ecc.: non si tratta di cambiamento di poco conto, si trasforma il diritto al lavoro nel diritto a lavorare, che è tutt'altra cosa.
E' dunque evidente il rischio di una trasformazione sociale del ruolo del cittadino lavoratore, prodotta da una norma costituzionale europea che potrebbe avere ripercussioni se non sul nostro assetto costituzionale, quantomeno sull'interpretazione che di tale diritto potrà fare la magistratura.
Se appare grave la questione di diritto sostanziale, non meno preoccupante appare la situazione sotto il profilo processuale.
Qui, infatti, è in atto un tentativo di "normalizzazione" che si basa, da un lato, sulla tendenziale privatizzazione della giustizia del lavoro, dall'altro sul tendenziale riassorbimento del rito del lavoro nel processo civile.
Sotto il primo profilo, non si può non rilevare come il Libro Bianco individui l'arbitrato come lo strumento principe per amministrare "con maggiore equità ed efficienza" le controversie di lavoro, con una evidente delegittimazione della Magistratura, rea, evidentemente, di aver operato sino ad ora in maniera iniqua ed inefficiente.
La scelta operata è resa, poi, ancora più grave se si considera che l'arbitrato auspicato dal Libro Bianco è un arbitrato secondo equità, svincolato, dunque, dal rispetto di leggi e contratti ed impugnabile solo per vizi di procedura.
In una tale situazione, il ruolo delle OO.SS. apparirebbe fortemente ridimensionato: quale motivo (e quale legittimazione) avrebbero le OO.SS. per stipulare contratti, se poi fosse possibile all'arbitro disattenderli per motivi di equità? Né i lavoratori avrebbero ragione di scioperare per la sottoscrizione di un contratto, se poi esso potesse essere disapplicato dall'arbitro, in caso di controversia.
Non trascurabile, poi, appare il rischio che i costi dell'arbitrato, anche solo gli acconti da versare agli arbitri, rappresentino un forte disincentivo per i lavoratori a ricorrere alla giustizia.
Il processo del lavoro deve restare gratuito; in tale ottica non va dimenticata la tendenza strisciante ad aggravare di costi la procedura, applicando con sempre maggior frequenza anche ai lavoratori sconfitti il principio della soccombenza nelle liti e gravando il lavoratore anche di altri costi aggiuntivi, quali il costo di notifica per raccomandata, il costo di cartoline e buste per le notifiche, il costo della trasferta in ipotesi di pignoramento, il costo da corrispondere all'Istituto Vendite.
Anche in relazione al secondo aspetto di preoccupazione sopraevidenziato, vale a dire il tendenziale assorbimento del processo del lavoro in quello civile ordinario, non si può non osservare che esso è frutto della progressiva perdita di incisività del rito del lavoro nell'immaginario sociale; ricordo come il processo del lavoro avesse come sua prerogativa principale, accanto al principio del favor lavoratoris, la sua pubblicità, testimoniata dal fatto che le udienze si svolgevano nelle aule della (allora) Pretura ed erano, ovviamente, pubbliche non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, nel senso che era quasi sempre presente qualche persona interessata.
Da qualche anno a questa parte, le udienze si svolgono nel chiuso delle stanze dei Magistrati e nessuno vi partecipa; anzi, molti ritengono, addirittura, che le udienze siano private!
Se a ciò aggiungiamo la tendenziale onerosità delle cause ed il sempre calante favor lavoratoris, appare evidente che l'opera di riduzione del processo del lavoro a processo ordinario è in stadio avanzato.
La motivazione che sostiene questa trasformazione sarebbe costituita dal fallimento del processo del lavoro che giustificherebbe la rinuncia a quel rito peculiare.
La realtà è, però, ben diversa da quella che ci si vuole mostrare.
Non risponde al vero, infatti, che il processo del lavoro abbia dimostrato di non poter funzionare; esso soffre di gravi squilibri territoriali, ma la sua essenza come sistema, è assolutamente realizzabile, come è dimostrato dalla positiva situazione esistente in alcuni distretti, come quelli di Torino, Genova, Milano ed altri; se, dunque, in altre situazioni il processo del lavoro non ha funzionato, la causa va ricercata in problemi organizzativi e, comunque, collaterali rispetto al rito.
Nel corso di un recente incontro avvenuto a Fiesole tra l'associazionismo ed i responsabili giustizia dei vari partiti dell'Unione, si è elaborato un documento che, per la parte relativa al processo del lavoro, può essere qui riproposta, contenendo linee generali condivisibili e che rappresentano anche proposte concrete, di immediata attuabilità.
Ripropongo, dunque, la parte di quel documento, la cui stesura era stata curata dal Dott. Gilardi.
Alla tendenza in atto di dar risposta ai problemi del processo del lavoro con l'estinzione generalizzata dell'arbitrato, occorre contrapporre un monitoraggio attento delle situazioni in cui il rito del lavoro ha fallito i suoi obiettivi e di quelle in cui, viceversa, ha funzionato ed un'analisi approfondita delle cause delle disfunzioni che, a parte altri fattori, si riconducono essenzialmente a) alla mole enorme del contenzioso previdenziale, alimentato sia dalla scarsa linearità della legislazione previdenziale, sottoposta a continue integrazioni e modificazioni, sia dalla lentezza burocratica e dalla inadeguata organizzazione degli enti previdenziali ed assistenziali (specie in alcune zone d'Italia) che incentivano un contenzioso determinato esclusivamente dall'incredibile ritardo nell'adempimento di prestazioni riconosciute come dovute dagli stessi enti (indennità di disoccupazione e rivalutazione di essa, assegni familiari, indennità per il lavoro agricolo, indennità di economiche per malattia e per maternità etc.); b) alla mancanza di un sistema di rilevazione di dati statistici in ordine alla natura ed alla tipologia delle cause pendenti, idonea a consentire una concreta razionalizzazione degli organici dei tribunali ed il potenziamento delle risorse nelle sedi maggiormente carenti di personale.

Occorrono quindi iniziative legislative rivolte non a smantellare il processo del 1973, costituente tuttora uno strumento essenziale della tutela del lavoro, ma a) ad incidere con norme chiare sulle procedure amministrative degli enti di assistenza e di previdenza anche allo scopo di evitare il contenzioso legale del tutto antieconomico; b) a razionalizzare l'organico dei Tribunali del lavoro, con un'adeguata politica delle risorse e con opportuni rimedi organizzativi interni.

A fronte del sostanziale insuccesso del tentativo obbligatorio di conciliazione e dell'arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi, e nell'ottica del mantenimento e rafforzamento, con gli opportuni correttivi, dell'impianto del processo voluto dal legislatore del '73, pare opportuna la previsione di una fase conciliativa, precontenziosa ma endoprocessuale, come quella prevista dalla "Commissione per lo studio e per la revisione della normativa processuale del lavoro" istituita nella precedente legislatura (c.d. Commissione "Foglia"), così come appare urgente - attualmente i licenziamenti arrivano in cassazione, di media, dopo 7/8 anni ma anche dopo 10/12 anni - l'introduzione di una procedura abbreviata per le controversie relative ai licenziamenti ed ai trasferimenti, sulla falsariga del procedimento ipotizzato dalla Commissione per ultimo citata.

Quanto al contenzioso previdenziale, spesso connotato dal carattere di serialità e ripetitività degli adempimenti (semplice presa d'atto degli esiti di una perizia medica, conteggi in tema di indennità la cui verifica matematica è spesso già frutto di un controllo incrociato tra le difese delle parti in causa, etc.), nel corso del seminario è stata riproposta l'ipotesi di introduzione di "sezioni stralcio", sulla falsariga di quanto previsto per il rito ordinario dalla l. n. 276/1997, con devoluzione del contenzioso previdenziale ad un giudice onorario specializzato (magistrati del Lavoro o docenti della materia in pensione), allo scopo di far fronte all'enorme arretrato che si è venuto a creare, specie nel Sud, determinando una vere "emergenza nell'emergenza".

Più in generale possono essere qui ricordate le proposte incentrate su una forte valorizzazione della fase amministrativa, prevedendo l'armonizzazione delle singole procedure esistenti presso i vari enti e la loro articolazione in un unico grado, con relativa uniformità dei termini, ed il rafforzamento del carattere di terzietà per il tramite di sedi contenziose esterne rispetto alle sedi degli enti interessati (costituzione di organi amministrativi collegiali a cui dovrebbero partecipare anche i rappresentanti delle parti interessate e comunque consulenti che abbiano specifiche competenze medico legali, e potenziamento qualitativo dell'istruttoria, garantendo il contraddittorio anche attraverso l'assistenza tecnico-legale).

Torino, 21 ottobre 2005
Roberto Lamacchia


LA GIUSTIZIA ITALIANA HA DAVVERO BISOGNO DI UNA MAGISTRATURA ONORARIA? di Tecla Faranda
L'amministrazione della giustizia in Italia si avvale ormai da oltre un decennio da oltre diecimila magistrati onorari, tra i quali oltre 4.000 Giudici di Pace(GDP), 2.000 Magistrati Onorari di Tribunale (GOT), 1.500 Vice Procuratori Onorari (VPO) e altre figure in esaurimento quali i Giudici Onorari Aggregati di Tribunale (GOA).
Il comune denominatore di queste figure è soltanto, tuttavia, quello di non essere inquadrati nei ranghi della magistratura ordinaria, esercitando ( o potendo eventualmente esercitare) i giudici onorari altre professioni in modo più o meno prevalente (ordinariamente quella forense o notarile), posto che le funzioni assegnate alle varie categorie di magistrati onorari sono tra loro diverse.
In particolare, mentre i giudici di pace detengono una competenza specifica per materia e per valore - e dunque nulla li differenzia dalla magistratura ordinaria e togata, almeno sotto questo aspetto - le altre figure della magistratura onoraria sono destinate a far fronte alle contingenti emergenze dell'ordinamento giudiziario, quali si sono via via configurate nel tempo , in modo sovente differenziato rispetto ai diversi uffici giudiziari e spesso non coerente con le obiettive esigenze di tutela giurisdizionale dei cittadini e spesso con qualche dubbio sul rispetto del principio del Giudice naturale.
La stratificazione di interventi normativi che si sono succeduti nel tempo senza un programma organico ma con pura e dichiarata funzione emergenziale e i numerosi correttivi apportati nel tentativo di far fronte ad incongruenze determinatesi proprio in relazione ad una carenza progettuale di fondo ha ormai determinato una confusione totale nell'assetto della magistratura onoraria che ha finito per creare anche scompensi e incertezze inaccettabili nei fruitori del servizio oltre a scontentare l'intera categoria dei magistrati onorari che rappresenta ormai il precariato della giustizia.
Se,infatti, gli interventi legislativi in materia rispondevano in passato ad un'esigenza forse legittima - e comunque non riscontrabile soltanto nel nostro Paese, ma in tutte le democrazie avanzate - di far fronte ad una domanda di giustizia crescente e spesso creata da nuovi diritti oggi tutelabili in sede giudiziaria, il ricorso ormai generalizzato e con carattere di stabilità a strumenti dettati dalla pura emergenza e dunque dichiaratamente temporanei fa pensare ad un processo di "terziarizzazione" della giustizia che è come tale inaccettabile in tale ambito come in altri (educazione, sanità) in cui si ravvisa lo stesso intento di sub-appaltare le funzioni dello stato sociale a soggetti privati allo scopo di risparmiare sui "costi fissi" che un semplice aumento dell'organico della magistratura ordinaria comporterebbe.
Di tale ormai insanabile disordine e della schizofrenia normativa in materia di magistratura onoraria, sempre in bilico nei vari interventi che si sono succeduti nel tempo tra esigenze contrapposte e forse inconciliabili tra di loro, non si può dire che il Legislatore non si sia accorto, posto che sono stati presentati numerosi progetti di riforma (sia generale, sia relativa ad alcuni aspetti non ultimi quelli retributivi e previdenziali) e che è stata creata già dal 2001 con Decreto Interministeriale del Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica una Commissione per la Riforma della Magistratura Onoraria (cd. Commissione Acone dal nome del suo Presidente).
Tra i disegni e le proposte di legge che affrontano la materia in modo più globale e complessivo si segnalano, in particolare,il progetto di legge n 731 d'iniziativa del deputato Siniscalchi e la proposta di legge n. 5163 d'iniziativa dei deputati Vitali, Cola,Fanfani,Buemi,Lussana,Mazzone, Cento, in cui, per la prima volta, per quanto mi è noto, è stata introdotta la definizione di "magistrati di complemento", in sostituzione di quella nota ,i quali, secondo la proposta,"si distinguono dagli altri magistrati ordinari soltanto per diversità di funzioni e modalità di reclutamento".
L'attenzione all'argomento dimostrata dal Legislatore,tuttavia, non ha portato al momento che a successive proroghe di funzioni dei magistrati onorari in carica senza che sia stata individuata la linea politica in grado di dare un regime coerente e rispettoso dei principi costituzionali a figure,ormai divenute ibride, delle varie categorie di magistrati onorari.
I giudici di pace nominati nel 1995,in possesso di requisiti meno severi di quelli attualmente previsti per il reclutamento, si sono visti infatti prorogare il mandato dagli originari 4 anni, rinnovato di 4 anni, ad ulteriori due, poi ad un altro anno e di recente, con le modifiche legislative di Luglio 2005, ad ulteriori due anni, "in attesa della riforma organica della materia", così totalizzando tredici anni di mandato già confermato dall'istituzione della figura del giudice di pace nel 2005 fino al 2008.
I punti che hanno determinato un impasse legislativa la cui durata comincia a diventare ormai imbarazzante, se la scelta politica deve essere quella di prevedere la magistratura onoraria come caratteristica stabile e ordinaria del sistema giudiziario anzichè di potenziare la struttura e l'organico della magistratura togata, sono prevalentemente: l'individuazione dei requisiti per la nomina del magistrato onorario,con particolare riguardo alla discussa questione dell'eventuale assoluta o relativa incompatibilità della funzione con l'esercizio della professione forense; l'inserimento e la formazione del magistrato onorario anche successivamente alla presa delle funzioni e per tutta la durata del mandato; la durata del mandato; l'applicabilità al magistrato onorario di norme deontologiche e di codici disciplinari che garantiscano lo svolgimento delle funzioni con garanzie per l'amministrazione della giustizia e per i cittadini che siano costituzionalmente legittime e parificabili a quelle cui sono soggetti i magistrati ordinari; il trattamento retributivo e contributivo dei compensi e la eventuale parificazione dei compensi alla retribuzione dei magistrati ordinari.
Se la discussione su tali argomenti è sempre stata ed è attualmente vivacissima anche in ambiti extra-legislativi e soprattutto in sede di OUA (Organismo Unitario dell'Avvocatura), di Magistratura Democratica, di FEDERMOT e nell'ambito delle varie associazioni che riuniscono giudici di pace e magistrati onorari, il Parlamento non ha ancora trovato la sua strada.
E' noto che anche ultimamente la riforma dell'ordinamento giudiziario ha eluso il problema, stralciando la parte sulla riforma della magistratura onoraria che pure avrebbe dovuto e potuto avere una posizione di assoluta rilevanza nell'ambito di una riforma che si ripromette di dare un nuovo assetto al mondo della giustizia.
E' d'altra parte intuitivo che la regolamentazione della magistratura onoraria e l'abbandono di un sistema di precariato ormai selvaggio presuppone un inserimento organico di figure diverse nell'ambito del sistema giudiziario che avrebbe un suo peso anche da un punto di vista finanziario, smentendo una politica di contenimento dei costi fissi che sembra avere in larga parte finora ispirato la politica in materia di magistratura onoraria.
Se infatti si prevedesse l'inserimento organico dei magistrati onorari e l'incompatibilità dell'esercizio di altre funzioni - principalmente l'incompatibilità con l'esercizio della professione forense - nell'ambito di un sistema che ha già scelto come criterio di reclutamento il possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense - si dovrebbe garantire un regime reddituale e contributivo paragonabile se non identico a quello dei magistrati e ciò non solo perchè,in caso contrario, il reclutamento dei magistrati onorari diventerebbe di fatto impossibile ( o limitato a categorie marginali di professionisti,magari pensionati), ma anche perchè il diverso regime sarebbe comunque probabilmente incostituzionale - oltre che forse comunque ingiusto - per la violazione del principio di uguaglianza.
Ma in tale ipotesi, peraltro, sembra irragionevole pensare ad una figura di magistrato onorario - e forse l'espressione un po' demodé di "magistrato di complemento" servirebbe a rendere meno eclatante la contraddizione nei termini - come a una figura inserita stabilmente nell'ordinamento giudiziario e che comunque esercita esclusivamente le medesime funzioni degli altri magistrati ordinari.
Se in questa ottica ci si deve interrogare sull'effettiva necessità di inventare una nuova figura di magistrato onorario o di complemento,destinato ad essere un magistrato ordinario diversamente reclutato e retribuito rispetto agli "altri" in base ad oscuri principi, si potrebbe,tuttavia, forse pensare che la professionalità, in parte diversa, rappresentata ,per esempio e prevalentemente ,dagli avvocati (ma anche dai notai) potrebbe dare un contributo importante all'amministrazione della giustizia e che pertanto l'inserimento di altre professionalità nel sistema giudiziario - inserimento peraltro già avviato in settori specifici, quali le esecuzioni immobiliari -potrebbe essere un'occasione importante di progresso e di razionalizzazione o modernizzazione della giustizia.
Ma tale contributo potrebbe essere opportunamente orientato ed impiegato in campi specifici, diversi dall'amministrazione ordinaria della giustizia e si pensi, per esempio, a questo riguardo alla tanto sbandierata ma di fatto allo stato marginale attività di mediazione o conciliazione pre-contenziosa: attività in cui gli avvocati potrebbero essere più vicini per esperienza professionale rispetto alle tradizionali funzioni dei magistrati ordinari.
Un maggiore impulso alle procedure di conciliazione pre-contenziosa, già diffuse in vari settori economici ma prive allo stato di una valenza pubblica ed obbligatoria, potrebbe sì avere un importante e istituzionalizzato effetto deflattivo rispetto al contenzioso utile al fine di contenere i costi della giustizia .
Si pensi ,per esempio, all'indubbio peso che hanno le procedure conciliative in sede giudiziaria attualmente previste in materia di lavoro e famiglia al fine di evitare il prosieguo della causa; peso che una conciliazione svolta in altra sede non ha .
E' noto a questo proposito come il ricorso alla conciliazione ex art. 322 cpc - procedura del tutto eventuale e che porta all'estinzione del giudizio se la parte così convenuta non si presenta - ha scarsissimo successo nel nostro ordinamento nonostante ne sia stata attribuita la competenza al giudice di pace, figura che,in modo solo parzialmente corretto, viene vista come giudice della conciliazione e della mediazione.
Una serie diversa di considerazioni merita ,nell'ambito della magistratura onoraria, la figura del giudice di pace.
Il giudice di pace non è ,infatti, un magistrato che solleva i magistrati ordinari da una serie di funzioni, non sempre sufficientemente e previamente individuate, che non possono svolgere, per ragioni più o meno straordinarie o contingenti, ma che appartengono comunque alla competenza esclusiva di questi ultimi.
Il giudice di pace è un magistrato che ha una competenza propria esclusiva, sia in materia civile sia, più recentemente, anche penale per materia e per valore; competenza che è anzi in progetto di essere ulteriormente allargata e che ha recentemente sperimentato l'allargamento alla materia, di rilevanza sociale notevole, dell'immigrazione.
Di onorario - intendendo la parola come sinonimo di "non professionale","non inserito nell'ordinamento generale" - la figura del giudice di pace non ha nulla se non il fatto che la funzione è esercitata da soggetti che, attualmente, possono svolgere, con i limiti di compatibilità definiti, la professione forense e che, dal punto di vista retributivo, ricevono un compenso atipico rispetto alla retribuzione dei magistrati ordinari, essendo calcolato "a cottimo" e non soggetto ad alcuna contribuzione previdenziale ( e questo, come ulteriore aspetto di schizofrenia legislativa al contrario degli altri magistrati onorari, i compensi dei quali, se esercitano la professione forense, costituiscono reddito professionale e concorrono alla determinazione dei redditi al fine della contribuzione alla cassa forense).
Per il resto i giudici di pace non si differenziano in nulla dai magistrati togati dovendo rispettare le stesse norme dei magistrati ordinari ed essendo soggetti alle stesse norme disciplinari applicabili a questi ultimi.
Anche dal punto di vista qualitativo le funzioni esercitate - smentito l'originario equivoco che avrebbe voluto il giudice di pace come giudice "vicino ai cittadini" in un concetto di tipo anglosassone ed estraneo al nostro ordinamento in cui il giudice,non necessariamente dotato di una qualche cultura giuridica, non applica le norme di diritto,ma funge in parte come conciliatore e in parte come "buon padre di famiglia" - sono di fatto del tutto analoghe a quelle dei magistrati ordinari, rispetto alla competenza dei quali l'unica differenza in meno è il valore delle controversie che è inferiore a quelle demandate ai Tribunali.
Ma, come si sa bene, la difficoltà e l'importanza della materia non è direttamente proporzionale al suo valore .
Anche l'importanza e l'utilizzabilità del criterio equitativo anzichè delle norme di diritto nell'ambito del processo avanti i giudici di pace ha del resto perso ogni importanza a seguito dei recenti interventi della Corte di Cassazione e il processo davanti al giudice di pace è ormai in tutto e per tutto assimilabile a quello avanti i magistrati di tribunali.
Ed è forse giusto così, nella nostra cultura giuridica di origine romano-germanica, nella quale le garanzie dei cittadini sono affidate a norme scritte che, per evitare che si crei una "giustizia di serie B", devono essere applicate in modo possibilmente uniforme da tutti i giudici dell'ordinamento.
Anche se la figura del giudice di pace soffre ancora di un intento iniziale legislativo un po' ibrido che non ha saputo scegliere tra due diverse linee di sviluppo - quella del giudice giurista anche se "bagatellare" e quella del giudice/buon padre di famiglia - l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale sembra essersi ormai orientata verso la prima delle due linee, limitando l'accesso ai titolari di abilitazione all'esercizio della professione forense e prevedendo una formazione preliminare rispetto all'attribuzione delle funzioni e una formazione permanente obbligatoria durante il mandato, così privilegiando la formazione professionale e i requisiti qualitativi di accesso.
Ma a questo punto ci si deve chiedere che cosa ormai differenzi il magistrato ordinario dal giudice di pace ,se non la durata del mandato e la retribuzione.
Anzi, considerando che i mandati originari sono stati sempre prorogati dall'istituzione del Giudice di Pace nel 1995 ad oggi ed ancora oltre, l'unica vera distinzione risiede attualmente nel criterio retributivo.
Se poi la pacifica ratio dell'istituzione della magistratura onoraria è stata la necessità di far fronte a carenze di organico e la conseguente volontà politica di limitare i costi fissi della giustizia, alcune recenti notizie di cronaca, secondo le quali il contenzioso pendente avanti alcuni uffici del giudice di pace sarebbe stato artificiosamente gonfiato allo scopo di aumentare in modo esponenziale i compensi dei giudici, fanno dubitare dell'efficacia del sistema retributivo previsto rispetto allo scopo prefissato,nonchè dell'opportunità di legare l'amministrazione della giustizia e l'esecuzione dei relativi atti ad un compenso "a prestazione" che potrebbe portare a scelte o comportamenti che nulla hanno a che vedere con la corretta amministrazione della giustizia,assolutamente inaccettabili e probabilmente, in molte ipotesi minori, difficilmente accertabili o punibili .
In conclusione, possiamo forse chiederci se la giustizia italiana ha davvero bisogno di una magistratura onoraria o se non ha invece bisogno di una magistratura professionale, preparata e permanentemente formata ,motivata, adeguatamente retribuita,sufficiente in numero rispetto alle esigenze effettive ed ordinarie e ovviamente adeguatamente rispettosa di principi deontologici e norme disciplinari uniformi che garantiscano il miglior funzionamento della struttura ad ogni livello.
Lo spazio per il precariato nella giustizia - ma forse il discorso si deve estendere a qualsiasi ambito dello stato sociale e dei settori tradizionalmente pubblici - non può che essere del tutto marginale e contingente e soggetto al controllo dei magistrati togati ,con un'attenzione particolare alla professionalità degli aspiranti, ai requisiti d'accesso, alla formazione preliminare e permanente, alla limitazione preventiva e certa delle competenze e delle funzioni assegnate o assegnabili con limitato ricorso alla discrezionalità dei singoli uffici nell'attribuire carichi di lavoro e funzioni.
Ciò non toglie che professionalità anche estranee alla magistratura ordinaria - e in particolare avvocati, ma anche psicologi del resto già presenti nell'ambito dei tribunali minorili - possano essere utilmente impiegate in determinate funzioni anche non precarie, purchè le funzioni siano preventivamente individuate e precisate e rispondano ad un criterio di migliore utilizzo di singole professionalità al fine di una migliore amministrazione della giustizia.
Solo così può essere garantito il rispetto dei principi costituzionali fondamentali che presiedono all'amministrazione della giustizia - e in particolare il principio di uguaglianza e il diritto al giudice naturale - e si può allontanare il fantasma di una giustizia classista o anche solo semplicemente schizofrenica, senza un progetto che la indirizzi,senza uno scopo che ne giustifichi il disegno complessivo.
Così scongiurando,in altre parole, il rischio - già spesso paventato anche in ambiti del mondo giudiziario diversi da quello di cui si è trattato - di creare o di favorire una giustizia di serie A e una giustizia di serie B.
Tecla M. Faranda








LA QUESTIONE PENALE: alcune priorità per un progetto della sinistra - di Raffaele Miraglia
La questione penale: alcune priorità per un progetto della sinistra

1) Diritto penale e consenso politico

Diritto penale e processualpenale vivono da tempo (da sempre?) sotto il giogo dell'estrema visibilità della loro capacità o incapacità a dare risposte a vere o presunte domande di giustizia e/o di sicurezza. Difficilmente un processo civile sale agli onori delle cronache. Ancora più difficilmente la cronica lentezza della giustizia civile o amministrativa diviene tema che appassiona e divide i cittadini. Quando, invece, il tema di discussione diventa se sia giusto o meno (e quanto) punire certi comportamenti, oppure se debbano o meno essere rispettate certe garanzie, l'attenzione e la discussione nella società civile si fa grande, anche e soprattutto perché l'attenzione dei media si fa grande. Diviene così inevitabile che le forze politiche - tutte - prestino un'attenzione molto particolare alla questione penale. Spesso, troppo spesso, rincorrendo facili consensi, specie quando non sono capaci di indicare con forza soluzioni apparentemente prive del consenso popolare.
Al governo Berlusconi e alla maggioranza di centrodestra deve essere riconosciuta la capacità di aver saputo creare su alcuni temi della giustizia penale un non insignificante consenso proprio su iniziative a prima vista impopolari, prima fra tutte quella di costruire un processo penale che non persegua e punisca i potenti. Si pensi a come molta parte dei cittadini approvava la legge - incostituzionale - che sottraeva il presidente del consiglio al processo, perché riteneva giusto che "l'eletto dal popolo" non potesse essere "disturbato" dai giudici. Se si torna indietro con la mente al precedente quinquennio con la maggioranza ulivista, è impossibile ricordare sulla questione penale una altrettanto ardita iniziativa, seppur fatta su ben diversi terreni e con opposti fini.
Da questa constatazione - e, sì, dalla sua banalità - occorre partire nel momento in cui ci si chiede quale possa essere un progetto di mutamento del diritto e del processo penale capace di coniugare la rigorosa volontà di dare reale attuazione ai principi, ai diritti e ai doveri inscritti nella nostra Costituzione e la necessità di costruire consenso attorno a scelte ritenute, spesso, erroneamente impopolari (al punto che si finisce per ritenere impopolare la stessa attuazione della Costituzione).

2) I mali del diritto e del processo penale

Le litanie sui mali del diritto e del processo penale si sprecano. Tentare di elencarle tutte non solo prenderebbe l'intero spazio di questa rivista, ma finirebbe per annoiare irrimediabilmente il lettore, che se le sente ripetere da tempo immemorabile. Necessario, e non facile, è un lavoro di scrematura per riuscire ad individuare quali siano i mali strutturali, quelli che vanno aggrediti per ricostruire un sistema che sappia dare attuazione ai quei principi che dovrebbero a sinistra essere ampiamente condivisi.
Abbiamo ancora un diritto penale ipertrofico. Nonostante le varie depenalizzazioni, rimangono oggetto del giudizio penale troppi comportamenti che meritano sanzioni di altro genere o non meritano proprio sanzioni.
Abbiamo un diritto penale fortemente strabico nel determinare quali e quanto siano i comportamenti sanzionabili. Sarebbe fin troppo facile segnalare come certe recenti leggi ad personam abbiano rafforzato questo strabismo. Meglio fare esempi che riguardano sanzioni scelte in altre recenti legislature. Il rubare una bicicletta nell'androne di un palazzo è punito con una pena minima di un anno di reclusione (art. 624 bis c.p.). Il demolire un immobile di interesse artistico o archeologico è punito con una pena minima di sei mesi di arresto (art. 118 T.U. sui beni culturali). Non stiamo parlando di un modello sanzionatorio risalente al periodo fascista (che pure, in massima parte, ancora i cittadini subiscono), ma di leggi approvate a poca distanza di tempo dalla medesima maggioranza parlamentare solo pochi anni fa.
Abbiamo un processo penale che ha, per alcuni imputati e alcune parti lese, tempi esasperanti e, insieme, per altri imputati, tempi ridottissimi e velocissimi (e in genere in questi processi per direttissima non vi è, visto il tipo di reato, una parte lesa in carne ed ossa, che abbia interesse a una rapida sentenza, o, addirittura, vi è una parte lesa che avrebbe tutto l'interesse a concedere all'imputato il tempo per poter cercare di risarcire il danno prima del processo).
Abbiamo un processo penale che si celebra sempre più spesso nella contumacia non voluta dell'imputato, che ignora tempi, modi ed esistenza del procedimento grazie alle norme sull'elezione di domicilio.
Abbiamo un processo costoso per la collettività e, ancora di più, per l'imputato, specie se decide di difendersi senza accedere a riti alternativi.
Abbiamo un processo dove regna (o dovrebbe regnare) l'oralità, dove sempre più spesso i protagonisti (imputati e parti lese) non conoscono sufficientemente la lingua italiana, ma abbiamo un codice che regola la traduzione degli atti e la figura dell'interprete come fossero un accadimento del tutto eccezionale.
Abbiamo un processo che, entrata a vigore la riforma dell'ordinamento giudiziario e la gerarchizzazione delle procure, rischia di vedere ancor più minata l'attuazione dell'obbligatorietà dell'azione penale.

3) Il pericolo di cure peggiori del male

Assisteremo ancora una volta alla scena di chi un giorno dice che troppi sono i reati previsti nella nostra legislazione e quello stesso giorno crea una nuova figura di reato per prevenire o sanzionare un comportamento ritenuto pericoloso e dannoso? Il timore è alto, perché la sanzione penale è una facile scorciatoia, in mancanza di risposte più articolate (e, spesso, più costose) e perché essa è di facile spendibilità in pubblico.
Paradossalmente a pagare questo tipo di scelta sono spesso anche le parti lese, a cui viene venduta la falsa illusione che stia nel processo penale la risposta al loro bisogno di un risarcimento che non è solo, né prevalentemente pecuniario nella maggioranza dei casi. Sono quelle stesse parti lese che vediamo poi lamentarsi per i tempi, i modi e gli esiti dei giudizi.
Rischi ancora maggiori li si corre quando si affronta la questione della lunghezza del processo.
Il primo è proprio connaturato alla scelta di mantenere, per ragioni di consenso sociale, un diritto penale apparentemente ipertrofico. L'inevitabile necessario compito di scremare quali fatti reato perseguire la si delega al pubblico ministero, che agirà secondo discrezionali criteri di priorità. Il parlamento si scarica di un problema e pone le basi per distruggere il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. L'altrettanto facile scorciatoia, per far celebrare comunque un certo numero di processi, è quella di delegare a giudici non professionali sempre più vaste competenze.
Il secondo rischio è quello di ragionare semplicemente in termini di efficienza, privilegiando la risposta in sé alla qualità della risposta. Dimenticando che nel campo della giustizia una risposta senza qualità equivale ad una ingiustizia. Ecco allora sorgere proposte che trovano la loro ragion d'essere solo in termini deflativi o di eliminazione di alcune incombenze, senza tenere in adeguato conto quali effetti si raggiungano in termini di risposta alla domanda di giustizia.
Il terzo rischio è quello di creare meccanismi perversi come quelli ideati nella cosiddetta legge Bossi-Fini, dove le denuncia può innescare un meccanismo per cui lo straniero viene per questo solo motivo espulso e di conseguenza non processato, con la conseguenza di negargli il diritto a vedere venir meno la ragione dell'espulsione (vedi art. 13 comma 3 quater T.U. sull'immigrazione).

4) Prime risposte nel campo del diritto sostanziale

Ultimare i lavori iniziati nella legislatura "ulivista" per la revisione del codice penale è sicuramente il fine più alto a cui tendere. Vi sono tutte le premesse perché questa aspirazione veda la sua concretizzazione. Il lavoro della commissione Grosso è qualcosa di più delle semplici fondamenta. E' certo però che i tempi per questa ormai improcrastinabile riforma non saranno quelli legati alle promesse dei fantomatici primi cento giorni, che ci stiamo abituando a sentire declamare da ogni schieramento politico. Prima della riforma del codice penale ci sono e ci saranno altri appuntamenti da affrontare e alcuni temi fondamentali da sciogliere.
Urgenza primaria è quella di modificare le norme penali contenute nella legge Bossi-Fini, ancor prima di affrontare la necessaria e più complessa rivisitazione del T.U. sull'immigrazione. Se verrà approvata la ex Cirielli, una sua quasi totale e rapida abrogazione, e non certo solo nella parte riguardante i tempi di prescrizione dei reati, dovrà essere un momento prioritario. Così come un intervento che ripristini un diritto penale dell'economia che sanzioni in termini reali quei comportamenti che creano ingentissimi danni alla collettività.
Richiedere ad una maggioranza di centrosinistra una attenzione costante alla necessità o meno di definire nuove figure di reato e una coerenza sistematica nel determinare l'entità delle sanzioni potrebbe apparire superfluo se l'esperienza non insegnasse che proprio in questi campi l'incoerenza è regnata sovrana. Forse non sarebbe inutile tenere bene a mente che per la stragrande maggioranza degli imputati un patteggiamento con pena sospesa è semplicemente un fastidio psicologico e un costo (le spese legali), privo di effettive conseguenze e privo di effetti deterrenti. C'è veramente bisogno di far lavorare a vuoto una macchina costosa per ottenere simili risultati? Sono il processo e la sanzione penale la risposta più giusta e efficace per chi ha causato un sinistro stradale con feriti e per le vittime dell'incidente? Lo sono per chi ha ingiuriato o è stato ingiuriato? E gli esempi potrebbero continuare ad libitum.
Vi è, poi, un nodo annoso, ma centrale, da affrontare. E' quello legato all'uso e alla cessione degli stupefacenti. Inutile usare il copia e incolla per riportare numeri e statistiche sull'incidenza che i reati concernenti la o collegati alla sostanza stupefacente hanno nella macchina giustizia (e nel mondo carcerario). Che la risposta penale sia la risposta meno adeguata e meno efficace è ormai patrimonio storico. Sarà possibile trasformare questo patrimonio in nuove leggi?
La lista della spesa sarebbe lunga, ma riscriverla vorrebbe dire annacquare l'indicazione delle priorità. E' per questo che vogliamo in conclusione riaffermare come la bussola debba essere l'esigenza di dare una risposta al bisogno di quel "diritto penale minimo", la cui gestazione sembra richiedere il passaggio di generazioni, e al bisogno di una coerenza sistematica e rispettosa dell'art. 27 della Costituzione nell'individuazione dell'entità e della qualità delle sanzioni da infliggersi.

5) Prime risposte nel campo processuale

Riuscire a dare concreta attuazione all'art. 111 della Costituzione appare a molti uno sforzo di Sisifo. Non appena si cerca di attuare il diritto al contraddittorio sembra allontanarsi la ragionevole durata del processo. Non appena si cerca di creare un processo dai tempi ragionevoli sembra diventare chimera il contraddittorio e regola l'eccezione contemplata al comma 5 dell'art. 111 della Costituzione. Quadrare questo cerchio e reggerlo attorno al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale sembra a molti un'impresa impossibile. La conseguenza è la nascita di proposte che negano o comprimono eccessivamente uno dei principi a favore di un altro e che costituiscono facili scappatoie al compito - arduo, ma necessario - di creare una legislazione che sia il frutto di un giusto bilanciamento fra i principi costituzionali che regolano il processo penale. Spesso queste proposte sono figlie di una cultura (nel centrosinistra) che ha mal digerito la novella costituzionale e che prende a prestito strumentalmente uno dei principi contenuti nell'art. 111 (solitamente quello della ragionevole durata) per negare gli altri o di una cultura (nel centrodestra) che strumentalmente esalta ed esaspera l'applicazione contestuale e non bilanciata di tutti i principi del 111 per giungere alla negazione il processo.
La sfida per il centrosinistra deve essere la "ragionevole" attuazione dei principi costituzionali che delineano quale deve essere il processo penale.
Qualche priorità.
Nozze con i fichi secchi non se ne dovrebbero fare e, dunque, è indispensabile lo stanziamento di fondi adeguati sia per effettuare le indagini, sia per celebrare i processi. Ma i fondi devono essere destinati anche a garantire una adeguata difesa all'imputato che non è in grado di affrontare i costi del processo accusatorio.
L'azione penale nasce dall'impulso del pubblico ministero ed è (costituzionalmente parlando) obbligatoria. Per salvaguardare e attuare questo principio sarà necessario innanzitutto mettere mano - pesantemente - a quella parte della riforma dell'ordinamento giudiziario che riguarda l'organizzazione e la gerarchizzazione delle procure. E sarà necessario respingere ogni chimera che spinge a limitare l'autonomia del p.m. nell'impulso all'azione penale e a renderlo notaio dell'attività della polizia giudiziaria (rendendolo così di fatto, anche se non di diritto, dipendente dell'esecutivo).
Il processo deve avere tempi ragionevoli, che non vuol dire fulminei. L'abrogazione di tutte le norme che prevedono il rito direttissimo per tipo di reato, anche fuori dai casi previsti dall'art. 449 c.p.p., diventa ineludibile se non si vuol rincorrere la facile strada del processo-gogna.
I tempi ragionevoli si conciliano (checché se ne dica) con il diritto dell'indagato e dell'imputato a conoscere gli atti del processo. L'attuale meccanismo dell'elezione di domicilio (e il suo distorto uso fatto da chi provvede a redigere i verbali di identificazione e che induce sistematicamente l'indagato ad eleggere domicilio presso il difensore - in genere d'ufficio) favorisce la non voluta contumacia dell'imputato. Non solo si pregiudicano i diritti di chi è sottoposto al processo, ma si determina una situazione per cui l'imputato non accede ai riti alternativi e si instaurano molti più dibattimenti di quelli che si celebrerebbero. Per risparmiare qualche ricerca e qualche notifica, si negano diritti e si moltiplicano i processi (e le notifiche ai testimoni).
Un processo basato sull'oralità e che vede sempre più spesso imputati che non capiscono e non parlano in modo adeguato la lingua italiana è un processo dove la parte non è messa in condizione di difendersi realmente. Stracciarsi le vesti per la non oralità del processo d'appello e chiudere gli occhi di fronte a questa aberrazione è, purtroppo, una abitudine diffusa e trasversale. Ridefinire le norme che regolano la traduzione degli atti e la figura, la professionalità e l'intervento dell'interprete diventa una priorità.
Anche per il processo penale lunga sarebbe la lista degli interventi da effettuare - a partire dall'irrisolta questione del difensore d'ufficio -, ma - per quel che qui si vuole sottolineare (i principali elementi critici su cui operare in modo prioritario) - le ultime parole non possono che essere dedicate alla vittima del reato. Accusa, difesa e giudici non mostrano alcun interesse alla vittima del reato, che diventa mero impulso e mera prova. Forse anche per questo se ne parla poco e poco si progetta per rispondere alla sua domanda di giustizia. E' ormai ampiamente condivisa l'analisi che segnala come la risposta ai suoi bisogni e ai suoi diritti stia prevalentemente al di fuori del processo penale. Anche la legislazione ha progressivamente delimitato e ridotto i margini di intervento della vittima nel processo, ma si è ben guardata dal dare risposte in altri ambiti e creare altri percorsi di "risarcimento", finendo per fornire una denegata giustizia. Progettare e formulare risposte adeguate, fuori dal processo penale, diventa compito urgente.
LA QUESTIONE CARCERE di Desi Bruno
I dati sono ormai tristemente noti: il numero delle persone detenute in custodia cautelare e in esecuzione pena raggiunge ormai le sessantamila presenze ( all'incirca il 55 % sono detenuti definitivi e il 45% sono in attesa della definizione del giudizio).
Altrettanto conosciuta è la composizione della popolazione carceraria, caratterizzata in gran parte da situazioni di disagio e di emarginazione, a volte aggravate da scelte politiche e legislative che hanno esasperato la consistenza dei problemi : il 27 % rappresenta, per difetto, l'area della tossicodipendenza , il 30% quella della immigrazione oltre ad una percentuale all'incirca del 10% rappresentata da altre situazioni di disagio ( psichico, legato all'alcoolismo,ecc. ).
Questi dati, citati anche da Alessandro Margara, già giudice di Sorveglianza e direttore generale degli istituti di prevenzione e pena , in una recente e migliorativa proposta di modica dell'ordinamento penitenziario ( e quindi in totale controtendenza rispetto alla recenti proposte legislative ), fanno ritenere che oltre almeno due terzi della popolazione carceraria si collochi in una fascia di disagio socio-economico e psichico.
Si tratta in prevalenza quindi di detenzione a sfondo sociale , alla quale da tempo si risponde senza un progetto complessivo capace di ridurre sensibilmente il numero di coloro che ne fanno parte: il passaggio da uno stato sociale ad uno stato penale nei confronti della marginalità si sostanzia anche per il venir meno di una rete di protezioni e strumenti capace di prevenire e poi di riassorbire fenomeni di devianza.
Il sovraffollamento viene da tempo denunciato come l'effetto più evidente dei numeri sopra citati, e tale da determinare condizioni di vita intollerabili per la riduzione di spazi vitali, in un contesto già fortemente compromesso quanto a rispetto e tutela della integrità psico-fisica della persona detenuta .
Le condizioni di sovraffollamento sono state definite come maltrattamenti dal Comitato europeo contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti : la privazione della libertà personale non può impedire la capacità di spostamento all'interno dell'istituto, o ancor prima nell'ambito della cella, negando in radice la possibilità di una vita dignitosa e comportando danni psico-fisici alle persone.
La ormai probabile costruzione di altri istituti penitenziari, , indicata , come è ovvio, necessaria per assicurare una condizione di vivibilità all'interno del carcere, è una non risposta, tesa a coprire una logica dell'esclusione sociale che trasforma il carcere in mero contenitore degli espulsi da una collettività sempre meno socialmente sicura, e a cui viene fatto credere che la propria sopravvivenza dipende dall'allontanamento di un certo tipo di devianza e non dalla ricerca di opzioni politiche diverse.
A ciò si aggiunge la fondata preoccupazione che la costruzione di nuove carceri venga accompagnata da un progetto di privatizzazione della custodia, con le distorsioni che questo comporterebbe sulla applicazione della normativa penitenziaria.
Un segnale di questa tendenza, sia pure su un fronte in parte diverso, è stato dato dalla vicenda della casa-lavoro di Castelfranco Emilia, che merita particolare attenzione non tanto per la destinazione di un istituto o parte di esso alla presenza di tossicodipendenti che per vari motivi permangono in carcere e che dovrebbero lì essere sottoposti a trattamento e cura, scelta già presente nell'ordinamento penitenziario, quanto per il progetto di affidamento della gestione ad una componente del privato sociale, la comunità di San Patrignano, che potrebbe operare con scelte trattamentali diverse da quelle del servizio socio-sanitario pubblico.
Il recente provvedimento ( l. n. 207/'2003 ) di sospensione condizionata della pena ( cd. indultino) , che aveva il condivisibile scopo di superare le difficoltà relative all'approvazione di un provvedimento di amnistia e indulto, non ha sortito, e non poteva essere diversamente, l'effetto desiderato di incidere in modo significativo sul sovraffollamento del carcere.
Come è noto il tanto auspicato provvedimento clemenziale di amnistia e indulto, che non viene più emanato dal 1990, è condizionato, almeno in apparenza, dalla difficoltà di raggiungere la maggioranza richiesta dalla Carta Costituzionale ex art. 79 ( due terzi ), ma soprattutto dal contrasto sui reati che dovevano essere estinti in conseguenza del provvedimento di amnistia , con particolare riferimento alla soglia della pena edittale ( 4 anni nelle proposte del centro-sinistra e 5 anni come pena massima nei progetti del centro-destra , il che consentirebbe di ricomprendere anche la corruzione per un atto di ufficio ) .
E' indubbio che l'emanazione di un provvedimento di indulto ( a differenza dell'amnistia che nulla incide sulle presenze in carcere )avrebbe comportato una riduzione delle presenze in carcere, ed in questo senso era ed è doveroso, ma non avrebbe risolto i temi di fondo, che avrebbero in un contenuto lasso temporale, la stessa questione:
La riduzione dell'area della detenzione sociale va perseguita attraverso scelte di politica legislativa che non abbiano di mira , contro ogni evidenza, obiettivi di tipo ideologico.

In primo luogo va riscritta la legislazione relativa ai reati in materia di stupefacenti, riprendendo anche il disegno di legge n. 2985 del giugno 2004 ( presentato dai senatori Cavallaro, Angius e Bordon ed altri ), teso a ridimensionare il trattamento sanzionatorio del T.U. ' 309/90, che appare di eccezionale durezza, nonostante le possibili riduzioni di pena e le divaricazioni tra minimo e massimo che la legislazione consente, , il che consentirebbe di utilizzare meglio le misure alternativa alla detenzione.

E' noto peraltro che una lunga carcerazione non è affatto antidoto alla ripresa della tossicodipendenza, e non è utile al fine di evitare la recidiva.
IL progetto introduce l'istituto della messa alla prova , già noto al processo minorile, per i tossicodipendenti che, in regime di sospensione del processo, intraprendono un programma terapeutico, con estinzione del reato in caso di positivo superamento della prova.
Va ripensata la possibilità di una seria politica di depenalizzazione delle droghe leggere di sperimentazione della somministrazione controllata dell'eroina (il progetto di legge in tal senso venne bocciato nel 1996 durante la XIII legislatura da una forte opposizione trasversale ) ma, per la delicatezza delle scelte che coinvolge, andrà ripresa solo a seguito di un primo intervento sulla legislazione in materia di stupefacenti che dia esiti positivi in tema di riduzione della carcerizzazione dei tossicodipendenti e di esito positivo dei programmi di intervento e riabilitazione delle misure alternative al carcere nonché tenendo presente che in parte è mutata la tipologia delle sostanze di cui si fa uso.
Ma è necessario intervenire anche sul trattamento delle persone tossicodipendenti che , rendendo possibile l'attenuazione della custodia in carcere per queste persone sia in carcere , e quindi pensando a strutture differenziate con personale proveniente dai servizi pubblici appositi, con scomparsa dell'aspetto custodiale o comunque con riduzione allo strettamente necessario sia incrementando il numero delle possibilità di cura e di recupero all'esterno.
E' notorio come il numero delle persone che potrebbe accedere agli arresti domiciliari in ambito comunitario durante la fase cautelare e dopo la definitività della sentenza attraverso l'affidamento in prova previsto dall'art. 47 bis o.p.. è di molto superiore all'inserimento effettivo, per mancanza di posti, di fondi, per la drastica riduzione dei servizi sul territorio.
Ed è altrettanto evidente che la gestione della custodia attenuata e dei luoghi esterni al carcere di cura e accoglienza per le persone tossicodipendenti dovrà essere assunto dal servizio pubblico, sia pure in raccordo positivo con il privato sociale, che dovrebbe essere monitorato soprattutto nelle strutture di tipo residenziale.
Va segnalato che peraltro le proposte legislative dell'attuale maggioranza in tema di stupefacenti e di regolamentazione del fenomeno della prostituzione, nonchè di rivisitazione dell'istituto della recidiva ( progetto di legge cd. ex Cirielli ), con previsione di inasprimento del trattamento sanzionatorio e di riduzione delle possibilità di accesso alle misure alternative delinea uno scenario di "tolleranza zero " nei confronti di quella detenzione sociale di cui si è detto.
Anche se per i tempi ormai stretti della legislatura troverà forse solo in parte concretizzazione normativa, la probabile approvazione del disegno di legge sulla recidiva ( che riguarda però, specularmente, la riduzione dei tempi di prescrizione per gravi reati come la corruzione e l'usura ) potrebbe aumentare in modo esponenziale il numero delle persone ristrette .
Vanno altresì incrementate le risorse per luoghi sostitutivi al carcere per persone affette da patologie fisiche e psichiche, per i minori ( quasi sempre sono peraltro gli stranieri che restano in custodia), nonché va ripensata, in un più ampio disegno di riforma, la previsione di circuiti differenziati anche in ragione del genere, dell'età, della specificità dei reati,ecc., questo al fine di consentire, all'interno delle strutture, un trattamento che tenga conto delle diversità.
Altro necessario intervento sul tema della detenzione dovrà essere quello relativo alla eliminazione delle differenze in tema di accesso alle misure alternative in ragione del titolo di reato e per la pretesa di comportamenti di collaborazione , come previsto dall'art. 4 bis O.P., dovendosi ritenere sufficiente e d idonea la verifica del percorso risocializzante compiuto dal detenuto e la mancanza di elementi che facciano ritenere comprovati contatti con la criminalità organizzata : sono infatti questi gli unici presupposti a cui può essere subordinato l'accesso a misure alternative al carcere finalizzate al reinserimento sociale.
Ogni discriminazione fondata sul titolo di reato e sulla richiesta di atteggiamenti collaborativi appare in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
Purtroppo, come è noto, è già intervenuta , dopo gli attentati dell'11 settembre, una estensione dell'elenco dei reati per cui valgono i requisiti sopra descritti ai reati commessi per finalità di terrorismo oltre a reati di violenza sessuale e quelli di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Altro intervento obbligato è, di tutta evidenza, è quello relativo alla revisione della normativa in tema di immigrazione sia per quanto riguarda i presupposti per l'ingresso sul territorio nazionale, sia per quanto riguarda, con riferimento al tema del carcere, le fattispecie penali.
E' necessario introdurre un sistema di ingresso dele persone migranti che consenta loro di permanere legalmente sul territorio alla ricerca di un lavoro e di una sistemazione allogiativa e che non crei clandestinità per il solo fatto di essere entrati, a cui segue un ampio panorama di reati che hanno come presupposto l'avere violato l'ordine di lasciare il territorio o di non avere rispettato il provvedimento di espulsione.
L'argomento è complesso, ma l'universo carcere continuerà ad introitare clandestini che hanno commesso reati in quanto tali o per non essere stati messi in condizione di regolarizzarsi anche nel momento in cui ciò sarebbe stato possibile per il reperimento di alloggio e occupazione, a parte il verificarsi di sanatorie come è successo nel 2002.
Va ricordato che per i detenuti extracomunitari la detenzione assume caratteri peculiari e peggiorativi, mancando per la gran parte di contatti e aiuti all'esterno,per cui permangono per un tempo più lungo in custodia cautelare e, dopo la definitività della sentenza, la pena detentiva, perde quel valore rieducativo assegnato dalla costituzione in ragione non solo della difficoltà di accesso alle misure alternative, che presuppongono relazioni, possibilità di reperire abitazione, lavoro, ecc., ma anche perchè, qualunque sia il percorso compiuto, alla fine della detenzione dovrà essere disposta l'espulsione.
A questo proposito la modifica alla disciplina dell'espulsione come misura alternativa alla detenzione, così come prevista dalla legge Bossi-Fini, che può essere disposta non su richiesta di parte, ma d'ufficio per chi ha meno di due anni da scontare,e solo per determinati reati, non solo non ha avuto neppure effetto deflattivo sul sovraffollamento carcerario, ma ha imposto l'espulsione anche a chi non aveva interesse ad ottenerla.
Va ripristinata la previsione della richiesta di espulsione facoltativa, riportando il limite a tre anni di pena da scontare e allargando l'elenco dei reati.
Va miglioratala possibilità di lavoro all'interno degli istituti, soprattutto per ecoloro che, come gli stranieri, hanno meno possibilità di uscire, sia attraverso lavori retribuiti sia attraverso il ricorso ai lavori socialmente non retributi che comportino modifiche al percorso carcereario.
E' necessario che gli enti locali, oltre a favorire l'inserimento lavorativo attraverso un valido raccordo con le cooperative sociali e il mondo dell'imprenditoria, curino la formazione dei detenuti in previsione dell'accesso a misure alternative o per il lavoro che potranno svolgere dopo la scarcerazione.
La formazione è fondamentale per incentivare il mondo del lavoro a prendere contatti con il carcre. I dati del 2004 ( www.camera.it) evidenziano come solo il 25% dei detenuti abbia usufruito di progetti di lavoro, di cui l'80% alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria ( e per lavori che vanno da quelli domestici a quelli di piccola manutenzione )e solo 2310 hanno lavorato alle dipendenze di soggetti esterni al carcere.
Ancora più allarmante il dato relativo all'utilizzo della legge "Smuraglia", che prevede agevolazioni per chi assume detenuti : 644 sono i lavoratori che hanno usufruito di questa legge.

Altro intervento necessario è quello relativo al completo passaggio della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale , previsto dalla D.l. n. 230/ '99, al fine di equiparare in via definitiva gli utenti ristretti a quelli liberi.

Va altresì incentivata la nomina, per ora circoscritta a poche città( Bologna Firenze, Roma, Torino) della figura del Garante delle persone private della libertà personale, quale figura di promozione dei diritti delle persone detenute che vivono su un determinato territorio, con compiti anche di vigilanza sulla effettiva applicazione dell'ordinamento penitenziario e del regolamento D.P.R. n. 230/2000 e di denuncia di violazioni dei diritti dei detenuti.
E' indispensabile, per rendere davvero operativa questa figura di recentissima istituzione mediante modifica degli statuti comunali, aggiungere nell'ordinamento penitenziario ( l. 354/'75 e successive modifiche ) nonchè nella legge in tema di immigrazione ( D.L. 25 luglio 1998 n. 286 ) la esplicita previsione del diritto di accesso in carcere e nei centri di detenzione temporanea.
Va infine approvato il progetto di legge, giacente in Parlamento, per la nomina del Garante a livello nazionale.

Avv.Desi Bruno
LA CRISI DELLE NAZIONI UNITE di Fabio Marcelli
La crisi delle Nazioni Unite

di Fabio Marcelli*

L'attuale crisi delle Nazioni Unite deriva senza dubbio dal dissolvimento del blocco di forze e della costellazione di rapporti di forza che ne determinarono la nascita nell'immediato dopoguerra e successivamente lo sviluppo.
In questo senso, l'Organizzazione ha sicuramente vissuto varie fasi successive, dalle origini, alla rottura fra i blocchi e alla guerra fredda, alla decolonizzazione e all'emergere di nuovi protagonisti internazionali, quali per l'appunto i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, che posero al centro dell'attenzione le questioni fondamentali relative al controllo delle risorse e alla redistribuzione della ricchezza su scala mondiale.
Contemporaneamente, nel corso degli anni Sessanta, con la distensione fra i blocchi, sembravano avviati a soluzione i problemi del disarmo, con la conclusione di una serie di trattati che prevedevano la riduzione bilanciata delle forze militari e affermavano il principio dell'uso pacifico dello spazio extra-atmosferico e degli oceani.
Può ritenersi che il momento più alto della vita dell'Organizzazione sia collocabile a metà degli anni Settanta, in significativa coincidenza con le lotte vittoriose del popolo vietnamita e di quelli che, come quello angolano e mozambicano, spazzavano via le ultime vestigia del colonialismo.
Fu nel 1974, infatti, che venivano approvati in rapida successione, da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati e il progetto di nuovo ordine economico internazionale.

* * *

Entrambi tali documenti, sui quali peraltro si registrava il voto contrario dei Paesi ricchi, erano tuttavia destinati a restare lettera morta.
Prendeva infatti corpo, negli anni successivi, la controffensiva del centro capitalista ed imperialista, che trovava in Reagan e nella Thatcher i suoi alfieri efficaci. Questi davano infatti vita a una politica basata sul riarmo intenso e la sconfessione degli impegni assunti su questo terreno, da un lato, e sul monetarismo e gli alti tassi di interesse d'altro. Tale politica, estremamente azzeccata dal punto di vista strategico, provocava, nel corso di meno di un decennio, la crisi progressiva e irrimediabile di entrambi gli antagonisti: il Blocco dell'Est, centrato sull'Unione sovietica, che si sgretolava non riuscendo a reggere, dati i suoi difetti di fondo, la corsa agli armamenti e all'innovazione tecnologica con l'Ovest, ma anche il movimento dei Paesi cosiddetti non-allineati del Terzo Mondo, che crollava progressivamente sotto il peso del debito estero.
I dividendi di tale politica venivano incassati, all'inizio degli anni Novanta, da Bush padre, il quale riusciva ad allineare gran parte della comunità internazionale, compresa parte importante del mondo arabo ed islamico, nella guerra, non necessaria, contro Saddam Hussein a seguito dell'illecita annessione del Kuwait. A tale epoca risale anche l'ambizioso programma del Nuovo ordine internazionale, il quale però era destinato anch'esso a restare in buona parte sulla carta.
Mentre infatti si accresceva a dismisura, dato il crollo di ogni antagonista, il potere degli Stati Uniti, le Nazioni Unite, data la precisa scelta dello Stato egemone di porsi sul terreno dell'unilateralismo, non riuscivano a svolgere alcun ruolo significativo nel complesso e difficile panorama del dopo-guerra fredda.
Fallivano così, uno dopo l'altro, gli interventi delle Nazioni Unite in Somalia, Haiti, nella ex-Jugoslavia e in Ruanda, aprendo lo spazio a guerre sanguinose che il difetto di un'effettiva volontà politica e dei mezzi che necessariamente devono accompagnarla impedivano di prevenire.
Nel contempo, le grandi Conferenze convocate sui temi globali dall'ambiente (Rio de Janeiro, 1992), ai diritti umani (Vienna 1993), alla popolazione (Il Cairo 1994), alle donne (Pechino 1995), costituivano delle vetrine interessanti e dei momenti di raccordo importanti fra le attività delle organizzazioni non governative attive sui vari terreni, ma non davano luogo a risultati concreti di rilievo.
Il cosiddetto Vertice del Millennio, riunito nel 2000, stabiliva a sua volta determinati obiettivi in termini di salute, istruzione ed altri diritti sociali fondamentali, ma, a cinque anni di distanza, tutti devono ammettere che tali il raggiungimento di tali obiettivi è ancora lontano.
Le politiche unilateraliste degli Stati Uniti, da un lato, e il potere crescente delle multinazionali che sono le vere ed esclusive beneficiarie della globalizzazione neoliberista, dall'altro, allontanano ogni prospettiva di soluzione su tutti questi terreni, fra loro strettamente interconnessi.
La crisi ambientale continua e si aggrava, come dimostrato dai catastrofici uragani, terremoti e maremoti che si abbattono con intensità crescente sul pianeta, per non parlare delle micidiali nuove pandemie che si affacciano o mietono da tempo milioni di vittime, dall'AIDS all'influenza aviaria.
Crescono le distanze sociali, l'emarginazione sociale e la miseria, a dispetto dei proclami della lotta contro la povertà. Appare fortemente sbagliato, in questo senso, l'appello che le Nazioni Unite hanno fatto alle grandi aziende multinazionali con il progetto "Global Compact".
Per effetto dei veti contrapposti fra i vari Stati non appare praticabile neanche il limitato obiettivo di una ristrutturazione del Consiglio di sicurezza che prenda atto in qualche modo dei nuovi rapporti di forza esistenti, dando spazio alle nuove potenze emergenti.
La guerra ha ripreso a pieno il suo ruolo centrale nella politica internazionale e l'agenda di Bush appare ancora folta e minacciosa. Gli attacchi dell'11 settembre 2001 hanno fornito un pretesto permanente all'azione armata e da questo punto di vista, forse ancora più che da altri, l'omertoso silenzio dell'organizzazione mondiale indica un fallimento grave e forse a questo punto definitivo.
Parallelamente, alla crisi dell'Organizzazione e al suo fallimento nelle aree indicate, fa da contrappunto il pieno dispiegarsi dell'azione di istituzioni più consone alla globalizzazione neoliberista, astrette a una logica puramente economicista ed in ultima analisi asservite ai bisogni ed obiettivi del capitale finanziario multinazionale, come il Fondo monetario, la Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale del commercio.

* * *

Ma quello dell'arena globale resta uno spazio di cui nessun movimento antagonista può fare a meno. Occorre quindi puntare, in prospettiva, a una rivitalizzazione delle Nazioni Unite che passa oggi attraverso il rilancio di movimenti sociali globali e il recupero di iniziativa e indipendenza da parte degli Stati ancora formalmente sovrani.
I terreni su cui organizzare questa controffensiva sono quelli della pace, per la fine delle occupazioni militari, il disarmo e l'espulsione delle basi militari, dell'economia, con l'annullamento del debito estero e la destinazione delle risorse al soddisfacimento dei diritti sociali fondamentali, dell'ambiente, con l'avvio su scala mondiale di politiche di risparmio energetico e di redistribuzione della ricchezza, della democrazia, per la costruzione della partecipazione su scala locale.
Il terreno del disarmo nucleare appare in particolare assolutamente prioritario, date le tendenze dell'amministrazione Bush a rimettere in auge anche l'estremo e devastante strumento dell'arma atomica. La scellerata politica riarmista degli Stati Uniti, d'altronde, apre spazi e conferisce legittimazione alla proliferazione, nucleare e convenzionale, in tutto il mondo. Il grave fallimento della recente Conferenza sul Trattato di non-proliferazione di New York costituisce un evidente segnale in questo senso.
Altri temi su cui occorre continuare elaborazione ed iniziativa sono quelli di uno statuto universale dei diritti umani, di drammatica attualità per i maltrattamenti inferti quotidianamente a rifugiati e migranti, di una direzione sociale dello sviluppo scientifico e tecnologico, e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici all'organizzazione sindacale e alla lotta di classe.
In altre parole, è al movimento altermondialista nato a Seattle alla fine del secondo millennio che appare oggi affidata, insieme all'avvenire dell'umanità sempre più messo a repentaglio dalle politiche imperialiste e neoliberiste, l'eredità dei padri fondatori delle Nazioni Unite, consacrata nella Carta che, a dispetto di delusioni e fallimenti, mantiene oggi un'impressionante attualità.

* ricercatore di diritto internazionale presso il CNR