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Libertà economica dell'impresa e dignità umana secondo Costituzione
Redazione 8 novembre 2019 17:09
Pubblichiamo il testo dell'intervento svolto da Cesare Antetomaso alle iniziative "Alla radice di Azzardopoli" e "Costituzione: l'art. 2 – diritti dell'uomo e doveri inderogabili di solidarietà"

Libertà economica dell'impresa e dignità umana secondo Costituzione

(Intervento svolto da Cesare Antetomaso alle iniziative "Alla radice di Azzardopoli" e "Costituzione: l'art. 2 – diritti dell'uomo e doveri inderogabili di solidarietà")

 

Uno dei meriti principali dell'articolo 2 della Costituzione repubblicana, forse poco celebrato, è quello di aver dato cittadinanza, all'interno della stessa Carta fondamentale, al principio della dignità umana.

E ciò sebbene, contrariamente a quanto è dato riscontrare nelle Costituzioni di altri Paesi e in molti atti di diritto internazionale o sovranazionale, nella Costituzione italiana difetti una definizione del concetto in questione ed una sua, per quanto generica, collocazione nell'ambito dell'ordinamento giuridico.

Il quadro normativo a cui fare riferimento oggi è primariamente quello contenuto all'interno della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, approvata nel 2000 a Nizza, la quale intitola alla dignità proprio il primo capo. Ivi, una volta affermato solennemente che «la dignità umana è inviolabile», e che essa deve quindi «essere rispettata e tutelata» (art. 1), si declinano alcune delle principali estrinsecazioni della tutela della persona in quanto tale, e segnatamente il diritto alla vita (con il conseguente divieto della pena di morte, art. 2), il diritto all'integrità fisica e psichica (con quanto da esso discende in termini di limiti all'attività medica e biologica, art. 3), la proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (art. 4) e infine la proibizione della schiavitù, del lavoro forzato e della tratta degli esseri umani (art. 5).

Ora, a parte prendere ancora una volta tristemente atto che almeno una di queste prescrizioni è di fatto largamente disattesa dal nostro Paese, attesa la formulazione pressoché inadatta allo scopo del reato di tortura recentemente introdotto nel nostro ordinamento (art. 613-bis c.p.), in barba alla convenzione dell'84 di New York delle Nazioni Unite ratificata il 27.6.'87, dal raffronto con la Carta di Nizza si può così intendere cosa la dignità significhi a livello di diritto costituzionale. E allora va detto che, pur senza esplicitare del tutto il concetto, il Costituente italiano ha fornito ampie garanzie in ordine a quei diritti che nell'ordinamento comunitario si collocano nell'orbita della dignità. Per cui, il concetto di dignità, pur non espressamente menzionato, deve comunque intendersi come presente nel tessuto costituzionale.

La dignità si manifesta in forma giuridica come l'attributo primo e irrinunciabile della "persona". Così intesa, la dignità umana è un concetto che discende da quel principio personalista che informa il nostro ordinamento. La dignità della persona significa allora che la persona umana merita assoluto rispetto di per sé.

Quindi, giammai da intendersi solo come un mezzo, bensì sempre, appunto, come fine in sé e come un presupposto del riconoscimento del valore della persona in quanto tale: un valore cui è improntato uno dei principi fondativi del patto costituzionale, quale è appunto il principio personalista. Può dunque dirsi che la centralità della persona e dell'essere umano contiene indefettibilmente al proprio interno il concetto di dignità.

La dignità come valore trova così la propria implicita affermazione nel riconoscimento del principio contenuto nell'articolo 2 della nostra Costituzione, là dove si stabilisce che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Si nota qui un arricchimento ulteriore del concetto, un salto di qualità potrebbe dirsi, che caratterizza il testo costituzionale, per cui la dignità ha contenuto valoriale non soltanto in riferimento all'essere umano in quanto tale, ma anche con riguardo all'essere umano nella sua vita di relazione e, più in generale, all’essere umano come soggetto della società in cui vive.

Una dimensione che supera la tutela dell’individuo, per cogliere quest’ultimo nei suoi rapporti con gli altri. La dimensione «sociale» della dignità trova così, contrariamente a quella eminentemente soggettiva, un ampio ed esplicito riconoscimento all'interno della Costituzione —come giustamente affermano Mario Bellocci e Paolo Passaglia.

È infatti nel primo comma dell'articolo 3 che si parla di «pari dignità sociale», in collegamento al principio di eguaglianza formale, per cui la dignità umana deve avere un valore paritario in tutti i rapporti riferibili ai cittadini. Con il che il concetto di dignità deve essere letto non soltanto in chiave di eguaglianza formale, ma anche in chiave di eguaglianza sostanziale, nel senso che l'affermazione in ambito sociale della dignità umana implica che i pubblici poteri si adoperino per garantire il pieno rispetto e il pieno sviluppo della persona, proprio in quanto portatrice di dignità.

Ecco allora che la dignità si collega strettamente con i cardini sui quali viene edificato il welfare state, del quale diviene uno dei motori principali, se non addirittura il vero centro propulsore.

Non a caso, infatti, il concetto di dignità, già perciò presente proprio all'inizio della nostra Carta, viene evocato in altre due sedi, entrambe riguardanti i rapporti economici, la cui disciplina marca la differenza maggiore da un'impronta liberale classica ad una orientata sulla prevalenza dello Stato sociale. Lo ritroviamo allora come garanzia approntata a beneficio della lavoratrice e del lavoratore, per cui questi ha «diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare [...] un'esistenza libera e dignitosa» a sé ed alla famiglia (così l'art. 36).

E, per ciò che ci riguarda più da vicino, come limite a uno dei diritti più tipici dell'età liberale moderna e contemporanea, ossia la libertà di iniziativa economica, prevista e disciplinata dall'articolo 41.

Qualche anno fa, proprio questo articolo della Costituzione ha ricevuto un attacco particolarmente virulento da parte delle organizzazioni datoriali, cui l'allora ministro dell'economia Giulio Tremonti si prestò senza parecchie esitazioni. In nome dell'antica protesta padronale contro "lacci e lacciuoli", il presidente del Consiglio dell'epoca definì i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».

Ma cosa dice di tanto scabroso l'articolo 41? Statuisce che: «L'iniziativa economica privata è libera» e «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

È a tal punto evidente come si sia in presenza di valori essenziali che non hanno nulla a che vedere con la burocrazia. Cosa c'entri la semplificazione burocratica con l'equilibrio costituzionale, secondo il quale l'impresa è libera ma non può svolgersi contro l'utilità sociale o la dignità umana, non è in realtà dato di capire. A meno che non si voglia forse dire che può (svolgersi contro).

In realtà, l'intento è uno e purtroppo non perseguito unicamente da una maggioranza di un "colore" solo: cercare l'occasione per eliminare ogni guarentigia. E allora, anche il richiamo alla libertà e dignità umana può costituire un intralcio, se l'obiettivo finale non sono tanto le autorizzazioni per le piccole imprese quanto una lavoratrice ed un lavoratore senza alcuna protezione —la vera sicurezza!— al cospetto di un'attività economica senza limiti né freni.

Come noto, la nostra legge fondamentale è il «risultato della confluenza dell'ideologia socialista e di quella cristiano sociale con quella liberale classica» (così Norberto Bobbio). Espressione significativa di questo connubio è il titolo terzo che, dopo le norme dedicate alla tutela di lavoratrici e lavoratori, salvaguarda la libertà economica. Come già visto, all’affermazione d'un diritto e d'una libertà segue subito l’indicazione di limiti e fini: «L’iniziativa economica privata è libera», ma non può essere esercitata «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; inoltre, l'attività economica può essere indirizzata «a fini sociali» (art. 41). Del pari, la proprietà privata è «riconosciuta e garantita dalla legge», che può determinarne i modi d'acquisto, di godimento e i limiti «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). Così, anche alla proprietà terriera privata la legge «impone obblighi e vincoli» al fine di «conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali», fissa «limiti alla sua estensione […] promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive, aiuta la piccola e media proprietà» (art. 44).

Tutto ciò, al fine di rendere appunto iniziativa economica e proprietà privata «accessibili a tutti».

Dunque, il programma economico sociale della Costituzione, se realizzato, porterebbe a una società dove la proprietà è diffusa e non concentrata? Sì, ma non soltanto: perché se la Costituzione non ha inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo, tuttavia il comma terzo dell'articolo 41, per cui «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» implica, almeno, un indirizzo di politica economica che tenga conto dei fini sociali, in cui la dignità umana risalta nella misura già indicata dall'articolo 3, come ricorda Lorenza Carlassare.

Altra questione, molto dibattuta tra economisti e giuristi, è capire come si conciliano le indicazioni della Costituzione col principio di una "economia di mercato aperta e in libera concorrenza" su cui si fonda l'Europa. Se si parte dalla considerazione che la libertà d'iniziativa economica, per la pluralità e coesistenza di più soggetti che ne usufruiscono, è legata al principio della libera concorrenza, ad un mercato "regolato" da una disciplina antitrust "che predetermini le regole del gioco valide per tutti", assicurando la libera esplicazione su un piano di parità delle capacità imprenditoriali di tutti gli operatori, l'ipotesi di incompatibilità sfuma. D'altronde, una disciplina antimonopolistica è già espressa nello stesso testo dell'articolo 43 della nostra Costituzione, per cui «Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano ... a situazione di monopolio...». Mercato "regolato" e libera concorrenza non devono però incidere sugli altri interessi primari tutelati dall'articolo 41 che fonda la libertà economica.

Da qualche tempo, l'idea del primato dell'economia sulla politica ha inciso sul nostro sistema fino a rischiare di metterne in discussione i valori essenziali. Natalino Irti a tal riguardo ha detto che si pone un'alternativa tra «ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici» in cui gli Stati, in concorrenza tra loro, offrono alle imprese benefici e immunità per attirare gli affari entro le rispettive sfere anziché rivendicare il primato delle decisioni politico-giuridiche ed assumere il governo dell'economia.

Facile prevedere che solo se a prevalere sarà l'ordine giuridico del mercato, il principio della dignità umana avrà certamente più possibilità di trovare applicazione.

In conclusione, può allora dirsi che il richiamo contenuto all'articolo 3 della Costituzione (che tendenzialmente riassume ed ingloba anche quelli contenuti negli articoli 36 e 41) integra il principio di cui all'articolo 2 ed in uno con questo ci fornisce una nozione nuova e più completa di dignità, annoverabile tra i «principi», chiaramente in stretto collegamento con il principio di eguaglianza (formale e sostanziale).

La dignità umana quale principio costituzionale, in definitiva, può essere colta essenzialmente in combinazione con l'istanza egualitaria che discende dall'articolo 3, ed in particolare attraverso quella serie di divieti di discriminazione che il primo comma dell'articolo scolpisce a chiare lettere («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»).

E la centralità della nozione di dignità umana all'interno dell'ordinamento italiano è assicurata dall'edificazione dell'ordinamento giuridico da un lato sul rifiuto di un'ideologia totalitaria nella quale la persona era stata funzionalizzata al benessere della collettività (così ancora Bellocci e Passaglia) e all'azione dei pubblici poteri e dall'altro sull'affermazione di un indirizzo politico che persegua il superamento di tutti gli ostacoli che limitano lo sviluppo della persona umana.

La dignità umana, perciò, non è soltanto un valore di cui il diritto è tenuto a prendere atto, bensì un principio costituzionale.