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IL LIBRO BIANCO DEI GIURISTI DEMOCRATICI 2023
Redazione 3 gennaio 2024 10:53
Pubblichiamo integralmente l'elaborato, frutto del lavoro e delle riflessioni di una moltitudine di aderenti (e non) all'Associazione Nazionale Giuristi Democratici sui temi della giustizia. Il testo è stato redatto in un lungo intervallo di tempo, e la smania legislativa (e repressiva) ha nel frattempo introdotto innovazioni e modifiche che meritano attenzione e sulle quali produrremo (e invitiamo a proporre) ulteriori contributi e aggiornamenti. Work in progress, dunque; qui le basi.

  

 

 

 

Libro bianco dei Giuristi Democratici

Edizione 2023

 


Sommario

Premessa all’edizione 2023. 6

Qualcosa su di noi 7

  1. REPUBBLICA E COSTITUZIONE. 8
  2. a) Premessa. 8
  3. b) Sistema istituzionale. 8
  4. c) Sistema elettorale. 9
  5. d) Misure per la parità elettorale di genere. 12
  6. e) Personalismo della politica. 14
  7. f) Sul numero dei parlamentari e voto di preferenza. 14
  8. g) Quarto potere. 15
  9. h) La tentazione presidenzialista. 17
  10. UNIONE EUROPEA. 19
  11. a) Premessa. 19
  12. b) Cittadinanza sociale europea. 21
  13. c) Democrazia parlamentare piena. 21
  14. d) Riduzione del potere dei governi nell’Unione. 22
  15. e) Tutela dei diritti 23
  16. COSTITUZIONE DELLA TERRA. 24
  17. AUTONOMIA DIFFERENZIATA. 26
  18. a) Premessa. 26
  19. b) Profili problematici 27
  20. BENI COMUNI 30
  21. STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA. 32
  22. a) Referendum ammissibilità. 33
  23. b) Referendum- Quorum.. 34
  24. c) Raccolta firme referendum e proposta di legge di iniziativa popolare. 34
  25. d) Italiani all’estero. 35
  26. INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA. 35
  27. a) Magistratura ordinaria. 35
  28. b) Magistratura onoraria. 37
  29. c) Separazione delle carriere. 38
  30. VINCOLI DI BILANCIO.. 40
  31. TUTELA DELL’AMBIENTE. 41
  32. a) Premessa. 41
  33. b) La giurisprudenza costituzionale. 41
  34. c) Il principio internazionalista e la tutela ambientale. 43
  35. d) La recente modifica costituzionale. 44
  36. ASILO RESPINGIMENTI ED ONG. 46
  37. a) Premessa. 46
  38. b) Respingimenti 47
  39. c) Decreto Piantedosi 49
  40. LA NORMATIVA ANTIFASCISTA. 51
  41. a) Premessa. 51
  42. b) Attualità del pericolo di una involuzione autoritaria di tipo fascista nel nostro paese. 52
  43. c) La normativa in materia. 54
  44. d) L’attuazione della XII disposizione. 59
  45. e) Legge Scelba. 61
  46. f) Il saluto fascista tra legge Scelba e legge Mancino. 62
  47. g) Limiti alla propaganda politica. 68
  48. h) La Lista CasaPound. 70
  49. i) L’esclusione della lista. 73
  50. DEMOCRAZIA DIGITALE. 74
  51. a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale. 74
  52. b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa. 75
  53. c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale. 77
  54. d) L’improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale. 79
  55. e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti 81
  56. f) L’irresponsabilità delle piattaforme digitali nell’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale. 84
  57. g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B) 86
  58. h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA) 90
  59. i) Conclusioni 93
  60. LO STATO SOCIALE DIGITALE. 97
  61. a) Premessa. 97
  62. b) La verifica dell’identità. 98
  63. c) La valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali 99
  64. d) Il primato del diritto sul codice informatico: code is not law.. 100
  65. e) Proposta. 100
  66. f) Azioni concrete per una evoluzione digitale. 100
  67. g) L’uso degli algoritmi nel procedimento amministrativo ed open source nella PA.. 102
  68. h) Proposta. 105
  69. DIRITTO PENALE. 106
  70. a) Premessa. 106
  71. CRIMINI DI SISTEMA. 107
  72. CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. 109
  73. a) Premessa. 109
  74. b) Incentivare l’autonomia. 116
  75. c) Misure cautelari: proposte. 117
  76. d) I disegni di legge oggi in discussione. 119
  77. e) I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia. 119
  78. f) La formulazione degli atti 125
  79. g) Le fonti internazionali 127
  80. h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71. 131
  81. L’USO DI NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI NELLE INDAGINI PENALI 138
  82. a) Introduzione. 138
  83. b) Le Sezioni Unite nel 2016. 138
  84. c) La richiesta di intervento del legislatore. 139
  85. d) L’attuale regolamentazione normativa. 140
  86. e) La situazione odierna e le correlate problematiche. 140
  87. f) Le proposte. 141
  88. f) Considerazioni finali. 142
  89. LA PARTE OFFESA. 143
  90. ARTICOLI 613 E 97 CPP. 145
  91. a) Premessa. 145
  92. b) de iure condendo. 146
  93. c) proposta. 147
  94. CARCERE. 147
  95. a) Premessa. 147
  96. b) Proposte. 149
  97. ERGASTOLO OSTATIVO.. 150
  98. IL REGIME DETENTIVO SPECIALE EX ART. 41-BIS O.P. 151
  99. RIPORTARE LA COSTITUZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO.. 154
  100. a) Tutela reale contro ogni licenziamento illegittimo. 157

Considerazioni preliminari circa “la civiltà giuridica di questo paese”. 157

  1. b) I principi di diritto comune. 158
  2. c) La equiparazione del contratto di lavoro a tutti gli altri 160
  3. d) L’opera di demolizione della civiltà giuridica. 165
  4. e) La norma dichiaratamente classista di cui all’art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare) 167
  5. f) Il Jobs Act, ossia il trionfo del neoliberismo: dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti. 168
  6. g) “Sorvegliare e punire”: il panottico come modello e figura del potere nella società contemporanea. 169
  7. h) La istituzionalizzazione della precarietà. 171
  8. i) La disciplina dei licenziamenti 171
  9. l) Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico. 172
  10. m) Ripristinare lo stato costituzionale di diritto. 173
  11. n) Proposte. 174
  12. TRASFERIMENTO E CESSIONE D’AZIENDA. 175
  13. DELOCALIZZAZIONI 179
  14. PROCESSO DEL LAVORO SPESE DI GIUSTIZIA. 181
  15. PRECARIATO NEL PUBBLICO IMPIEGO.. 182
  16. a) Premessa. 182

b)I contratti ex art 110 tuel 182

  1. c) Problemi di coordinamento del quadro normativo dopo il Decreto Dignità. 184
  2. d) Sulla causalità dei rapporti/contratti 184
  3. e) Sulla decadenza. 184
  4. IL RAPPORTO DI LAVORO NELLE COOPERATIVE. 185
  5. IL DIRITTO DI CITTADINANZA SOCIALE. 187

DIRITTO AL LAVORO E REDDITO.. 187

  1. a) Premessa. 187
  2. b) Il nuovo patto sociale. 190
  3. c) Il diritto al lavoro. 191
  4. d) La proposta. 192
  5. e) Il campo di lavoro. 194
  6. f) Il diritto europeo di cittadinanza sociale. 195
  7. REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE. 196
  8. a) Premessa. 197
  9. b) Formule (o “ricette”) per l’occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva. 198
  10. c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta. 200
  11. d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo. 201
  12. e) L’utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell’incremento occupazionale. 202
  13. f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario. 204
  14. g) Una proposta vantaggiosa per tutti. 207
  15. CASSA FORENSE. 209

Proposta. 210

  1. SECONDE GENERAZIONI 210
  2. I Appendice giurisprudenza antifascismo. 212

Allegato n. 1. 212

Allegato n. 2. 213

Allegato 3. 216

 

 

 

Premessa all’edizione 2023

L’idea posta alla base del lavoro che ha portato alla redazione del Libro Bianco, che finalmente vede ora la luce, era quella di consegnare alle forze politiche, sindacali ed associative approfondimenti e proposte su molte, se non tutte, le problematiche che coinvolgono la tutela dei diritti dei cittadini, consegnando, così, alla società civile un quadro di insieme di analisi e proposte che un’associazione come la nostra ha elaborato negli anni, ispirandosi sempre ad un assoluto e completo rispetto dei valori costituzionali.

Come è noto, l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici non è monosettoriale, né corporativa, onde lo sforzo compiuto è stato particolarmente esteso e di ardua realizzazione ed ha richiesto circa due anni di lavoro.

Ora, se ciò ha consentito una più completa disamina dei temi che occupano l’attività ed i progetti dell’Associazione, ha determinato che una serie di avvenimenti, di normative nuove possano aver reso meno attuali i riferimenti e le progettualità esposte nel Libro Bianco.

In particolare, l’esito delle elezioni politiche, con il successo della Destra e specificamente del partito più notoriamente vicino al fascismo, ha reso ancora più rilevante la problematica della difesa dei valori costituzionali, già messi in forte pericolo durante il periodo berlusconiano ed oggi attaccati senza alcuna remora da FdI e Lega.

In questo senso, ulteriori argomenti ed approfondimenti saranno necessari in tema di richiesta di modifiche costituzionali circa l’introduzione di forme di premierato.

Anche la riforma elettorale necessiterà di ulteriori aggiustamenti rispetto a quanto già da noi scritto nel Libro Bianco.

Ed ancora: l’entrata in vigore della Riforma Cartabia, peraltro oggi rimessa in discussione dal Governo e dalla maggioranza parlamentare, meriterebbe e meriterà un ulteriore approfondimento in vista della attuazione di un vero “giusto processo”, con il rispetto delle garanzie dei diritti dei cittadini e del diritto ad una piena uguaglianza.

Il prossimo tema in discussione sul fronte giustizia, la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, andrà ulteriormente esaminato.

La delicata questione della situazione delle carceri (dall’incremento del numero di suicidi al caso Cospito) ha acquisito un rilievo maggiore di quanto fosse immaginabile.

Analogo discorso può e deve essere fatto con riferimento all’aggravarsi della situazione immigrazione, che ha assunto, secondo il Governo, caratteristiche di emergenza, cui si intenderebbe intervenire con interventi disumani.

Ed infine, la questione della guerra in Ucraina, che ha creato spaccature non certo sulla responsabilità dell’aggressione, pacificamente attribuita alla Russia, ma sulle modalità per fermare questa guerra, che rischia, come minimo, di determinare uno stallo che può durare anni, con incommensurabili perdite di vite umane, e come massimo di portare alla catastrofe nucleare.

Insomma, per concludere, un ulteriore esame di tutte le problematiche relative alla tutela dei diritti dei cittadini richiederebbe un aggiornamento continuo delle analisi, il che porterebbe alla concreta impossibilità di intervenire in tempi reali sui singoli argomenti: dunque, abbiamo deciso consapevolmente di pubblicare il lavoro fino ad ora fatto, ben consci di una sua parziale inadeguatezza rispetto alle modifiche ed alle novità sopravvenute, ma convinti di produrre un utile materiale di analisi e di approfondimento che potrà essere via via aggiornato con produzioni di documenti settoriali.

 

Qualcosa su di noi

L'associazione Giuristi Democratici si è ricostituita formalmente nel 2004 dopo essere stata fondata nel secondo dopoguerra, tra gli altri, da Umberto Terracini, Bianca Guidetti Serra, Ugo Natoli, Romeo Ferrucci, Raimondo Ricci e Lelio Basso.

Fanno parte dell'associazione, orientata politicamente a Sinistra, avvocati, magistrati, funzionari pubblici, studiosi del diritto appartenenti al mondo dell'Università e della ricerca.

L’Associazione italiana è parte dell'associazione europea dei giuristi democratici (ELDH) e dell'associazione internazionale avvocati per i diritti umani (IADL).

Il fine dell'associazione è quello di promuovere un concreto impegno di tutti gli operatori del diritto a difesa e per l'attuazione dei principi della Costituzione repubblicana, democratica, laica e antifascista, delle istanze progressive per l'applicazione della Convenzione dei Diritti umani, per il garantismo penale, per la realizzazione di una Costituzione europea autenticamente democratica, fondata sul ripudio della guerra, con particolare riguardo ai diritti dei lavoratori, dei meno abbienti e degli emarginati e ai diritti di associazione, libertà di circolazione, riunione e manifestazione del pensiero.

DEVOLVI AI GIURISTI DEMOCRATICI IL TUO 5×1000

È possibile inserire nell'apposita sezione della dichiarazione dei redditi il codice fiscale dell'Associazione Nazionale Giuristi Democratici: 91239960379.

Associazione Nazionale Giuristi Democratici CF: 91239960379,

Vicolo Buonarroti, 2 - 35132 Padova

 

 

1.    REPUBBLICA E COSTITUZIONE

 

a) Premessa

Tra le sue primarie finalità l’Associazione Giuristi Democratici vanta la difesa della Costituzione delle Repubblica, la promozione della sua attuazione e la diffusione della conoscenza dei suoi principi e valori. Noi vogliamo che il sistema democratico nel quale siamo cresciuti e ci siamo formati come cittadini, diventi patrimonio dei nostri figli; non potremmo fare loro regalo più grande che contribuire a preservare il prezioso lavoro delle donne e degli uomini che hanno fondato la Repubblica nata dalla resistenza.

Quella italiana è una Costituzione condivisa ed è il risultato di una esperienza e di un percorso storico, politico e culturale.

Storico, perché segna la presa di coscienza di un popolo nei confronti della dittatura fascista, della guerra, e dell’occupazione nazifascista. La Costituzione segna il punto di arrivo della consapevolezza della unità nazionale, dal percorso risorgimentale, dalla formazione di uno stato unitario portatore dei principi di libertà, di uguaglianza formale e di laicità, fino al raggiungimento dei principi di uguaglianza sostanziale di solidarietà/fratellanza nel rispetto della dignità e della realizzazione individuale della persona umana, nell’ambito dei diversi contesti sociali.

Politico, perché segna i principi condivisi tra i principali filoni di pensiero sviluppatisi nell’ultimo secolo di storia, liberale, liberalsocialista, socialista e comunista e cristiano sociale e cattolico nonché la condivisione di essi tra le diverse componenti sociali presenti nel Paese.

Culturale, perché tutte le componenti sociali, consapevoli di non voler ripetere gli errori e gli orrori del passato, hanno inteso affermare i principi di solidarietà ed il rispetto formale e sostanziale dei diritti e della dignità umana, in senso universale, nei confronti di tutti i popoli e di tutte le persone, affermando il ripudio della guerra per la risoluzione delle controversie internazionali.

Da questo fondamentale punto di partenza, da difendere e tutelare, si può e si deve partire per riconoscere, affermare e tutelare i nuovi diritti, che permetteranno un rilancio del senso di solidarietà delle nostre comunità.

 

b) Sistema istituzionale

In termini politico istituzionali, i Giuristi Democratici lavorano per il rafforzamento dei bilanciamenti costituzionali e per la rigorosa separazione dei poteri.

Ciò che appare utile da difendere e da potenziare, tra le altre cose, è infatti un modello dove poteri istituzionali e poteri di governo siano separati.

Il quadro tradizionale prevedeva una suddivisione di tre poteri (giudiziario, legislativo e esecutivo). Una democrazia compiuta non può fondarsi solo su questa tripartizione.

Da un lato va integrata con il riconoscimento di un potere partecipativo, del popolo e delle sue espressioni organizzate.

In tal senso deve essere valorizzato il concetto di isonomia.

Come molti ricordano, ad Atene, prima del concetto di democrazia, ossia governo del demos, si impone un concetto ben più pregnante, quello di isonomia. Dal greco isos: "uguale" e nomos. Tradizionalmente si traduce questo concetto come uguaglianza davanti alla legge. Ma non è corretto.

Infatti nomos viene dal verbo greco νέμω (“nemo”) che significa “distribuisco”, “faccio le parti”. Tanto che l’etimologia di nomos è la stessa di numero (ossia parte). Il concetto di isonomia, quindi è quello di eguale ripartizione. Il sistema isonomico quindi è il sistema che garantisce una corretta ed eguale ripartizione.

Il concetto, anche di recente è stato adoperato in riferimento alla corretta ed equa ripartizione del potere pubblico (o della partecipazione al potere pubblico).

 “Questa operazione è tutta ispirata dal principio di isonomia, in base al quale tutti hanno diritto alla stessa quota di sovranità”… Vi è una forte correlazione logica e materiale, infatti, tra l’apposizione di limiti al potere e la libertà e l’uguaglianza, tra una giuridicità diffusa e una democrazia: per questo la democrazia può essere indicata come «un regime nel quale si riconosce al cittadino, ad ogni cittadino, la capacità di creare diritto» e che «non afferma solo il principio della pari dignità di ogni cittadino, ma della sovrana pari dignità di tutti i cittadini» (7 C. ESPOSITO, Commento all’art. 1 della Costituzione)”[1].

 

Nel contempo, e sempre in questo quadro, va separato dai tre poteri tradizionali, il potere istituzionale. Un potere arbitro, e garante di tutti gli altri poteri, così come delle regole costituzionali.

Anche per tale ragione i Giuristi Democratici hanno sempre espresso contrarietà al modello costituzionale presidenziale.

 

c) Sistema elettorale

Nessun tema più della legge elettorale coinvolge il principio democratico.

Anche il potere elettorale popolare deve incontrare dei limiti, si deve scongiurare quella che è stata definita la ‘dittatura della maggioranza’.

L’obiettivo deve essere quello di lavorare per una messa in sicurezza ulteriore della nostra Costituzione, affinché essa stessa sia a riparo da modifiche in mano alla estemporanea maggioranza, e affinché si implementino i bilanciamenti ed i contropoteri, autonomi rispetto al governo di turno.

Una riflessione moderna sulla democrazia deve infatti considerare che il corpo elettorale esprime l’interesse degli elettori attuali e raramente prende in considerazione i problemi futuri (ad esempio si veda il degrado ambientale).

Inoltre l’attribuzione di tutto il potere (governativo e legislativo) in un singolo momento elettorale plebiscitario non è prudente. È all’interno di una tale riflessione che occorre valutare in concreto i singoli istituti e contrappesi della democrazia rappresentativa[2].

Il Parlamento deve rappresentare tutti ed essere uno specchio del Paese. Le distorsioni sono antidemocratiche.

Negli ultimi anni i sistemi elettorali (ad esempio il “Rosatellum”), pur presentando alcuni aspetti positivi, quali la visibilità dei candidati nel collegio uninominale, hanno sostanzialmente deluso le aspettative che avevano suscitato. Si è prodotta una artificiale rarefazione dell'offerta politica (e quindi della possibilità dei cittadini di essere rappresentati), provocando una conseguente rarefazione della rappresentanza sociale, senza raggiungere i risultati promessi in termini di riduzione della frammentazione. Infatti non è diminuito il numero dei partiti, né il potere delle loro burocrazie, né la loro litigiosità, né i cittadini si sono avvicinati ai loro rappresentanti. Anzi è stata favorita una torsione oligarchica del sistema politico, favorendo il congedo delle classi popolari dalla politica, ridotta ad una gara di opinioni e di potere, con molti spettatori e sempre meno protagonisti.

Ne è scaturita una rendita di posizione per i dirigenti dei principali partiti politici, i quali venivano esonerati dalla concorrenza dei partiti minori e favoriti dalla rarefazione forzata dell’offerta politica.

Gli effetti delle leggi elettorali restrittive si sono intrecciati con il taglio di un terzo dei parlamentari, generando un sistema che premia oltremodo chiunque abbia anche la più piccola maggioranza. Le liste che godono e godranno, nei singoli territori, anche di una piccola maggioranza conquisteranno una larga maggioranza nazionale dei seggi. Una maggioranza sproporzionata rispetto ai voti ottenuti.

Ad esempio, la legge elettorale oggi in vigore può consentire ad una coalizione di conquistare gran parte dei collegi uninominali, puntando ad eleggere i 2/3 dei parlamentari. Un numero che permetterebbe un’agevole modifica del testo costituzionale e impedirebbe di chiedere il referendum popolare per impedire le modifiche della Costituzione.

Le norme in vigore per la modifica della Costituzione (art 138) furono, infatti, scritte in presenza di un sistema elettorale proporzionale e non sono mai state modificate per impedire che il maggioritario mettesse la Costituzione nelle mani di una minoranza di elettori per effetto di meccanismi elettorali premiali.

I moniti di chi scrive e dei più avveduti costituzionalisti, purtroppo, sono caduti nel vuoto. A questo punto, essendo caduti inascoltati gli appelli a cambiare la legge elettorale, è necessario un nuovo richiamo.

L’Associazione dei Giuristi Democratici propone quindi di tornare ad un sistema elettorale proporzionale puro. Ovviamente taluni modesti correttivi possono essere apportati.

I fautori degli sbarramenti, impliciti ed espliciti, affermano che questi rispondevano a due esigenze. Da un lato quella della governabilità: aiutare le forze maggiori a crescere, favorirebbe la formazione di maggioranze stabili. Nel contempo fornirebbe una buona motivazione alle forze minori ad aggregarsi, superando una rissosità interna che, talora, era legata a ragioni difficilmente comprensibili agli elettori.

A queste argomentazioni, però, se ne contrappongono altre, non meno valide.

Una di principio: il Parlamento è il luogo della rappresentanza e la legge elettorale non dovrebbe servire a indurre comportamenti virtuosi. Il sistema elettorale deve comportarsi come un buon traduttore: qualunque cosa dica chi è tradotto, certamente non è compito del traduttore correggerlo.

Peraltro, il difetto delle riforme dei sistemi elettorali consiste sempre nel fatto che sono promosse da chi governa in un determinato momento storico ed è chiaro che chi governa porta acqua al proprio mulino.

Insomma, in un paese in cui la cultura democratica è consolidata, e che vuole evitare una alterazione strumentale della rappresentanza politica, la legge elettorale è super partes, condivisa ed equa.

Si può prevedere uno sbarramento per formazioni molto piccole, non tanto perché non meritino di essere rappresentate, ma per favorire le aggregazioni.

Si può ipotizzare qualche piccolo premio implicito alle formazioni maggiori, ma l’essenza deve essere quella per cui la rappresentanza politica deve aprirsi, per rilanciare il senso di appartenenza e partecipazione dei cittadini. Non è chiudendo il Parlamento alla rappresentanza che si garantisce la governabilità del paese. Periodicamente riaffiora, invece, la proposta di una riforma elettorale che attribuisca la maggioranza dei seggi ad una minoranza, attraverso artifizi vari. Elezioni che conferiscano tutto il potere ad una forza politica, o meglio ancora ad un singolo gruppo dirigente. 

Non è pensabile governare contro la maggioranza del popolo, non solo per ragioni democratiche, ma perché la storia insegna che si tratta di esperienze improduttive. 

Sotto altro profilo, si è osservato che la rissosità di corrente, interna ai partiti è addirittura superiore a quella tra i partiti della coalizione di governo.  Dunque introdurre soglie, ed indurre a aggregazioni posticce non migliora l’armonia delle forze che sostengono l’Esecutivo, né riduce il potere di ago della bilancia, di piccole formazioni di deputati.

d) Misure per la parità elettorale di genere

Il principio di parità tra i sessi si configura, dunque, come irrinunciabile elemento costitutivo di qualsivoglia sistema statale costruito sui principi di libertà ed uguaglianza e proteso al buon funzionamento delle sue istituzioni[3].

Su questo presupposto, il legislatore è intervenuto con più riforme costituzionali, al fine di permettere l’inserimento nel sistema elettorale italiano di strumenti volti a correggere le disparità di genere all’interno delle assemblee rappresentative.

Dapprima con la legge costituzionale n. 2 del 2001, e poi con le leggi costituzionali n. 3 del 2001 e n. 1 del 2003, sono state poste le basi per ogni successivo intervento normativo in tal senso, il cui spirito è sintetizzato nel nuovo capoverso del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione (“La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini“) e nel settimo comma dell’articolo 117 (“Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive“).

Da quel momento, tutte le riforme volte ad inserire strumenti che facilitassero un riequilibrio della rappresentatività di genere, hanno superato il vaglio di Costituzionalità, sino a giungere all’attuale disciplina contenuta nella legge n. 165 del 2017 (il già richiamato Rosatellum).

Il Rosatellum è un sistema elettorale misto, con prevalenza della componente proporzionale.

Il 37,5% dei seggi è assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre quelli rimanenti sono attribuiti con sistema proporzionale.

Ciò premesso, l’attuale legge elettorale ha introdotto quattro diverse previsioni volte ad agevolare un equo bilanciamento tra i sessi nella rappresentanza parlamentare, riguardanti l’elezione presso sia i collegi uninominali che quelli plurinominali.

Le prime due previsioni riguardano il metodo proporzionale e dispongono che “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere” e che “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento“.

La terza previsione, invece, riguarda i collegi uninominali e, in maniera simile alle precedenti, stabilisce che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento” nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione, a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato.

La quarta e ultima previsione, infine, riguarda i poteri di controllo affidati all’Ufficio centrale nazionale e all’Ufficio elettorale regionale.

Tali previsioni, di sicuro impatto nella promozione del riequilibrio di genere, suscitano alcune riflessioni problematiche se considerate nel contesto elettorale nel suo complesso.

Per un primo aspetto, indicare la soglia del 60 per cento anziché del 50 per cento, pone evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio di pari opportunità di accesso alla competizione elettorale, poiché ogni strumento volto al raggiungimento di quegli obiettivi costituzionali prima evidenziati, non può che essere improntato ad un trattamento eguale e paritario.

Per un secondo aspetto, è insensato che la circoscrizione Estero sia stata del tutto esclusa dall’applicazione da ogni misura volta al riequilibrio della rappresentanza di genere, acuendo le critiche già espresse in merito alla creazione di una circoscrizione elettorale del tutto separata dal circuito nazionale.

Occorrerebbe poi maggiore attenzione alla visibilità delle candidature, ossia alla collocazione in lista delle donne.  

Per altro verso, le sanzioni previste per il mancato rispetto della parità di genere devono essere maggiormente severe ed efficaci.

Infine, le disposizioni sin qui esposte vengono grandemente depotenziate dal sistema delle pluricandidature, per cui è consentito che un candidato sia presente più volte in diversi collegi plurinominali (con un limite di cinque).

Ciò che accade, nel concreto, è che i candidati cd. “blindati” (cioè coloro che il partito intende far entrare in parlamento) vengono di fatto presentati in più collegi, in parte aggirando l’alternanza di genere. Se la candidata da blindare è una donna infatti – e si tratta di un’eventualità meno frequente del contrario – verrà indicata quale prima candidata in più collegi e la sua vittoria in uno di questi, permetterà a tutti gli uomini indicati quali secondi negli altri di essere eletti, con un rapporto di quattro ad una. Se invece il candidato da blindare è un uomo, piuttosto che indicarlo quale capolista in più collegi, lo si inserisce quale secondo in lista di un collegio in cui, con tutta probabilità, la prima candidata verrà eletta in un altro collegio, lasciando libero il posto al candidato blindato.

Questo sistema ha permesso alle forze politiche – chi più e chi meno – di eleggere nell’ultima tornata elettorale, nei soli collegi plurinominali, il 64 per cento di uomini e il 36 per cento di donne, con aggiramento della parità di genere.

 

e) Personalismo della politica

Negli anni del bipolarismo e del maggioritario, inaugurati dall'elezione diretta dei sindaci e proseguita con i collegi uninominali del Mattarellum e infine con la lunga e devastante stagione dei premi di maggioranza trainati dai “capi” delle coalizioni, l’attenzione si è spostata sul voto ‘alla persona’.

 L’effetto, peraltro prevedibile, è stato quello di una battaglia politica che, dai programmi e dalle visioni del mondo, si è spostata sulla persona dell’avversario.

Si così è generato un inasprimento della battaglia politica, che non solo è scivolata sul personale, ma che si è trasformata in una lotta senza esclusione di colpi.

Avere buone idee, o validi ideali, non è più stato essenziale. In una corsa a due, basta dimostrare che l’altro è peggio di te. Da una battaglia sulle proposte, si è scivolati, velocemente, ad una demolizione personale dell’avversario.

Il sistema proporzionale ha quindi anche questo vantaggio: ciascuno corre in parallelo agli altri e deve farsi carico di proposte e valori, senza poter fare conto sulle cadute degli altri contendenti.

 

f) Sul numero dei parlamentari e voto di preferenza

La costituzione italiana è un organismo complesso. Si fonda su un accorto bilanciamento, modificarla senza un grande progetto democratico è sempre un errore, soprattutto se le revisioni del testo costituzionale non sono meditate dal ceto politico.

Tagliare il numero dei parlamentari non è solo una questione di numeri o di costi, si tratta di una riforma destinata ad incidere sulle modalità di organizzazione della rappresentanza politica attraverso la quale si esprime e si realizza il principio fondamentale della Repubblica secondo cui la sovranità appartiene al popolo e che attribuisce al parlamento un ruolo centrale nel nostro sistema democratico.

Il consenso all’ultima riforma costituzionale è stato alimentato da un grande equivoco, ossia che riducendo il numero dei parlamentari si punisca la casta mentre, al contrario, si puniscono i cittadini che vedranno diminuita la possibilità di eleggere un “proprio” rappresentante.

Minando il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Aumenta, anche geograficamente, la distanza fra rappresentato e rappresentante e viene ulteriormente sacrificato il pluralismo, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante.

È certamente vero che la classe politica, oggi, è avvertita come un gruppo “sociale e professionale” privilegiato a sé stante, separato dai cittadini. Ed è altrettanto vero che questa stessa classe politica deve mostrare in prima persona di essere in sintonia con l’elettorato, anche nella consapevolezza della difficoltà del vivere quotidiano di milioni di persone. Tuttavia è preoccupante che il rapporto sia inteso solo come rapporto di tipo economico e che il parlamentare sia inteso solo come uno stipendiato, non come il proprio rappresentante nelle istituzioni. Il cittadino dovrebbe essere ben consapevole che il suo interesse è quello di avere la massima presenza, la massima rappresentanza nelle istituzioni. Ci sono ben altri costi da tagliare e potranno essere tagliati solo se l’elettore sarà rappresentato

Nel contempo va ricordato che vi è una ragione se si è giunti a questo punto. Il rapporto diretto con un deputato, percepito come proprio, è venuto completamente a cessare da molti anni. Era un rapporto che si fondava soprattutto sul voto di preferenza Da molti anni i deputati sono, per lo più, indicati dai vertici di partito e, per questo motivo, l’elettore non avverte alcun collegamento diretto con lo specifico deputato, perché non lo ha scelto e talvolta non sa neanche chi sia. Ed il deputato non è all’elettore che sente di dovere una risposta, posto che le sue possibilità di rielezione derivano solo dall’essere ricandidato (magari in un collegio sicuro), dal vertice del proprio partito. In questo quadro è chiaro che per l’elettore sia piuttosto indifferente al numero di deputati: i deputati eletti non lo rappresentano in Parlamento, rappresentano il (suo) partito.

Il taglio dei parlamentari sommato alle norme elettorali in vigore apre una ferita nella capacità di rappresentare i cittadini, i territori, le posizioni politiche esistenti nel paese, creando per di più squilibri tra le aree territoriali a parità di popolazione.

Ciò è tanto più grave alla luce della legge elettorale vigente caratterizzata da una forte quota maggioritaria (3/8 dei seggi) con liste bloccate nel proporzionale e voto obbligatoriamente congiunto tra candidato uninominale e lista collegata, con l’effetto di comprimere notevolmente la possibilità dell’elettore di scegliere i propri rappresentanti.

La crisi della rappresentanza politica non si può curare riducendo il numero dei rappresentanti ma facendo sì che gli elettori possano tornare a scegliere direttamente i propri rappresentanti di modo che il Parlamento ritorni ad essere il motore della democrazia.

 

g)  Quarto potere

Il principio di separazione dei tre poteri dello Stato risale al ‘700, a Montesquieu, che scrivendo dello spirito delle leggi, affermava come ogni funzione statale (legislativa, amministrativa e giudiziaria) debba essere esercitata da organi diversi, in modo che “il potere arresti il potere”.  Montesquieu traeva spunto, peraltro, da pensatori precedenti. Il filosofo Locke, aveva distinto tra funzione legislativa, esecutiva e federativa (relativa ai rapporti di politica estera).

Il principio di separazione dei tre poteri canonici, ha portato le democrazie occidentali, in linea di massima, a prevedere l’indipendenza della magistratura, ed a separare l’organo di vertice dell’amministrazione (ossia il Governo) dal Parlamento, cui è attribuita la funzione legislativa

Oltrepassate le soglie del nuovo millennio, occorre però chiedersi, se davvero i poteri da tenere separati siano solo tre. E conviene particolarmente chiederselo, nel momento in cui sono ancora vive nella memoria le immagini dei tristi fatti del gennaio 2021, quando i manifestanti pro Trump assalirono il congresso degli Usa per cercare di impedire la transizione presidenziale, e dell’8 gennaio del 2023, con i tumulti di Brasilia.

Rileggendo a mente fredda quei fatti, ci si accorge del principale problema del sistema presidenziale:  manca un arbitro che sia al di sopra delle parti, il cui unico compito sia quello di far rispettare le regole. Quando Trump annunciava che non avrebbe lasciato il potere, nessuno, sopra di lui, poteva richiamarlo all’ordine. Il presidente americano è capo dell’esercito (Commander in Chief), è vertice delle istituzioni, ed è anche il capo del governo, quindi non ha nessuno sopra di lui.

Si comprende allora come, in una democrazia matura, vi sia un ulteriore, fondamentale potere, che merita riconoscimento e tutela, ed è il potere attribuito agli organi deputati al mero rispetto delle regole costituzionali.

In termini teorici, si può discutere se questo sia un quarto potere, se sia la somma di tutti gli altri, se sia un potere neutro o meno, così come si discute se il bianco sia un colore, o la compresenza di tutti i colori.

Ciò che rileva è che questo ruolo di Garanzia, e di vigilanza, è essenziale nella democrazia moderna, perché la garantisce nella sua sopravvivenza. Tuttavia non si attiva solo nei momenti più drammatici, ma si esplica nel quotidiano della vita repubblicana. È il potere di definire i conflitti tra gli altri tre poteri, e di spingerli verso il rispetto dei propri confini.

Nel corso dei secoli, le democrazie hanno sviluppato questo potere di Garanzia, a discapito degli altri poteri. Ciò si inscrive in una tendenza più globale che riguarda tutti i poteri, non solo quelli pubblici.

Le riflessioni sulla democrazia matura, per cui abbiamo recuperato la definizione di Isonomia, mirano a tracciare un percorso evolutivo: ridurre lo spazio del potere, inteso come scelta arbitraria, per sottomettere ogni, pur minimo, potere, alla regola.  E quindi comprimere, bilanciare, frammentare, controllare e regolamentare ogni forma di potere, pubblico o privato, fino a togliergli l’essenza di potere per far emergere l’essenza di funzione.

La democrazia matura è quindi l’era politica in cui la Regola, democraticamente generata, nel compromesso, nella tutela delle minoranze, nel principio di partecipazione, prevale sull’esercizio arbitrario del potere. Tanto colui che è apparentemente sovraordinato (il generale, il magistrato, il proprietario), che colui che è apparentemente sotto ordinato (il soldato, l’imputato, il dipendente) hanno una via segnata e delimitata dallo steccato della norma. Il funzionario pubblico (ma anche privato), a qualunque livello, non può più fare ciò che vuole, ma è tenuto e muoversi all’interno di regole predefinite. In tal modo il potere diviene funzione.

In questo quadro si legge la crescita del potere di Garanzia (o, più correttamente, la funzione di garanzia, perché anche il garante deve agire secondo le regole). La partita democratica trova il proprio arbitro, ed i propri guardalinee.  Arbitri sempre contestati, naturalmente, perché è ben noto come i poteri siano allergici ai limiti, alle regole, agli steccati.  Ed è proprio per questo che questo quarto potere deve essere tenuto ben vivo, fortificato e separato rigorosamente dagli altri. Arbitro e giocatori non possono coincidere, se non si vuole il ripetersi della tragedia (democratica) americana, e di tanti altri paesi che hanno sottovalutato il tema e sono scivolati verso forme che non possono più definirsi, a rigore, democratiche. 

E qui va detto, ancora una volta, che la nostra Costituzione è stata davvero lungimirante e matura. Ha delineato la Corte costituzionale, che è sicura manifestazione di questo potere di Garanzia, e che giudica i conflitti tra i poteri dello Stato, e ha creato la figura apicale del Presidente della Repubblica.

 

h) La tentazione presidenzialista

Si riaffacciano, periodicamente, in Italia, le tentazioni presidenzialiste. Uno degli argomenti su cui si fa leva è quello per cui l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, renderebbe il sistema più democratico.

Vale però la pena di affrontare il tema con attenzione, per verificare se davvero il presidenzialismo sia un modello che si prospetta, nel futuro, come evoluzione naturale della democrazia, o se invece al contrario sia un relitto del passato, un attrezzo desueto e poco funzionale.

La Costituzione definisce il Presidente della Repubblica “Capo dello Stato” e “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87). Gli attribuisce la funzione di garanzia costituzionale, cioè di preservazione di quel patto fondamentale – la Costituzione – che unisce i cittadini fra loro ed è condizione di quell’unità dell’intera nazione che egli rappresenta. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2013, definisce il Presidente “garante dell’equilibrio costituzionale”.

Non può sfuggire, e lo dimostra il sentimento diffuso dopo la rielezione del Presidente Mattarella, come questa figura sia in netta crescita rispetto alle altre. Un soggetto che non rappresenta la maggioranza di governo, né un orientamento partitico. Tuttavia la figura del Presidente della Repubblica non è una fredda figura tecnica, il Presidente non è, e non è visto, come un mero arbitro.  Egli viene riconosciuto simbolicamente come portatore degli interessi dell’Istituzione, e del Popolo, come pure del Bene Comune. Un soggetto, quindi, che resta politico, ma che è chiamato a svolgere un ruolo super partes, e che viene tenuto a riparo, saggiamente, dal fango delle accuse incrociate, perché istintivamente i partiti ed i politici sanno che poggiamo tutti su un terreno comune, che può franare.

Il Presidente non è portatore della politica della maggioranza, ma incarna la Repubblica. Questa funzione simbolica è talmente forte, da avere un rilievo nei processi democratici, ed incide financo sul carattere individuale. Si può osservare come, salvi rari casi, chi è stato chiamato a ricoprire la carica presidenziale ha sentito il ruolo, e lo ha interpretato in modo corretto.

Si è sopra accennato al tema della separazione dei poteri. La riflessione sulle forme più avanzate di democrazia ci ha portato a evidenziare l’esigenza di frammentare la concentrazione del potere in un solo individuo, e di assegnare ad un soggetto super partes quello che si è definito il quarto potere.

La repubblica presidenziale, tradizionalmente auspicata dalla destra italiana, è invece articolata sui tre poteri canonici. Al presidente della repubblica, eletto direttamente dal popolo, è attribuito sia il ruolo di vertice dell’Istituzione, che in Italia oggi è svolto dal Presidente della Repubblica, sia il ruolo di capo del governo. Introdurre il presidenzialismo in Italia significa quindi eliminare la figura del Presidente della Repubblica come la conosciamo noi, di soggetto sopra le parti. Il premier assumerebbe entrambi i ruoli.

Questa semplice considerazione permette di capire perché si tratta di un arretramento. In Italia il Presidente della Repubblica è espressione del quarto potere, così come lo sono i presidenti delle Camere, le molteplici autorità indipendenti, i garanti etc

In questo contesto è chiaro che, se il Presidente fosse eletto dal popolo, non potrebbe più svolgere un simile ruolo.

L’attuale Presidente della Repubblica agisce e deve agire per il bene della collettività nel suo insieme, senza favorire una parte politica. Storicamente questo ruolo sopra le parti è stato interpretato con grande dignità dai presidenti che si sono alternati: Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ciascuno di loro si è anche esposto a critiche, ma non può non emergere il senso complessivo di una funzione rilevante, che è cresciuta nel corso del tempo, l’autorevolezza che deriva dal parlare per l’Istituzione e non per la maggioranza temporaneamente al governo. Ed un effetto simile si è avuto per altre analoghe figure di rilievo (si pensi alla presidente Marta Cartabia della Corte costituzionale). 

Nel sistema presidenziale, invece, le diverse forze proporrebbero i loro candidati, farebbero dure campagne elettorali, anche distruttive degli altrui candidati, fino alla fatidica frase, per cui l’eletto ‘non è il mio presidente’. Prendere il Presidente della Repubblica e gettarlo nella mischia di maggioranza e minoranza, costringerlo all’attività spicciola e quotidiana di governo, all’imposizione di tasse ed alle dichiarazioni polemiche contro gli avversari, non sarebbe un progresso. 

Sarebbe invece una lesione della sua alta dignità. Non è un caso che le figure più rispettate ed amate della politica italiana abbiano rivestito questo ruolo. È un ruolo che migliora la personalità politica: chi si sente chiamato ad essere migliore, spesso lo diventa. Ma ciò che più conta è che sulla dignità di questo ruolo riposa anche una parte della residua capacità degli italiani di identificarsi con la Repubblica.

E non occorre davvero soffermarsi sul danno che una democrazia subisce, quando una consistente parte dell’elettorato, sente di non avere una figura di rappresentanza nelle istituzioni. La situazione è già critica per effetto di fattori concomitanti che hanno inciso sulla vita democratica.  La frammentazione politica ha aumentato il numero dei competitori, la personalizzazione ha imbarbarito il confronto. La lotta politica, in un contesto in cui i social network sono il principale strumento di comunicazione, non ha più argini. Si scava nella vita privata dell’avversario politico e della sua famiglia. Il bersaglio non sono le proposte politiche, ma le biografie personali. Nessuno può salvarsi, perché le accuse sono spesso false ed i fatti distorti. La conseguenza è che una parte, sempre crescente, del popolo, non solo italiano, non trova più modo di riconoscersi in alcun modo nei propri rappresentanti, neanche quando ne condivide, in grandi linee, le idee e le proposte.

In questo contesto, è divenuta sempre più essenziale l’enucleazione del quarto potere, che non è solo Garanzia ma, anche e soprattutto, rappresentanza dell’unità nazionale, non solo dei territori, ma dei cittadini e delle cittadine. E le stesse forze politiche, che in taluni casi dimostrano maturità, hanno percepito che non sarebbe più accettata l’elezione di un Presidente che non fosse frutto di un compromesso su una figura riconosciuta come idonea a svolgere questo tipo di ruolo. In altri termini, per come si è venuta configurando la figura del Presidente della Repubblica Italiana, il compromesso, allargato per quanto possibile, non solo non rappresenta una sconfitta, ma rappresenta la naturale modalità di elezione (corroborata dalla indicazione costituzionale, dei due terzi, richiesti nelle prime tre votazioni).

La riflessione, su questo quarto potere è essenziale. Fondere in un sola figura il ruolo di Presidente della Repubblica e quello di Presidente del Consiglio, o attribuire ruoli di governo attivo al Presidente della Repubblica, non solo non aggiungerebbe nulla, ma sopprimerebbe il ruolo di vigilanza e, ciò che è perfino peggio, la percezione popolare di un Garante, che si fa portatore dell’idea stessa della Repubblica.

In questo la democrazia ha notoriamente un limite, nella capacità di rappresentarsi con efficacia. Questo quarto potere, attribuito a prestigiosi soggetti, dopo una condivisione tra le diverse forze politiche, è una delle espressioni migliori della democrazia stessa, che può scegliere anche chi la rappresenti simbolicamente ed idealmente. Va quindi difeso, e valorizzato ove possibile.

 

2.    UNIONE EUROPEA

 

a) Premessa

La dimensione europea è oggi indispensabile per l’agire politico ed economico del nostro Paese nel panorama mondiale, in mancanza di organizzazioni e strumenti che siano in grado di far fronte alle difficoltà globali. Solo una vera unione europea può continuare a garantire la pace e a far prevalere la cooperazione alla competizione in un continente dal quale sono partite ben due guerre mondiali e contemporaneamente essere un agente attivo di pacificazione dei conflitti che si sviluppano nel mondo. Solo una vera res publica europea può essere in grado di correggere le ingiustizie sociali e le contraddizioni di cui è responsabile la globalizzazione, ed applicare politiche finanziarie e fiscali incisive.

Anche la recente, grave, crisi sanitaria ha dimostrato che le risposte nazionali sono sempre più inadeguate. 

Occorre, quindi, distinguere tra processo formativo dell’UE, che deve andare avanti in modo deciso, con attenzione ai diritti sociali dei singoli, e conduzione politica degli ultimi anni.

Riteniamo che l'Italia e gli altri Paesi dell'area geografica europea, se vogliono perseguire finalità di cooperazione, pace e solidarietà al proprio interno nella dialettica globale, devono organizzare strategie di contrasto sia alle diseguaglianze e alle crisi sociali e ambientali sia allo strapotere della finanza e degli intenti predatori di soggetti globali. Pertanto riteniamo che l'Unione Europea debba riformarsi in due direzioni entrambe indispensabili: assumere con coerenza una chiara rappresentatività delle proprie istituzioni legislative e di governo rispetto al popolo europeo e superare il misero obiettivo di garantire la stabilità monetaria e la libera circolazione delle imprese, delle ricchezze e delle persone, per assumere stabilmente ed in coerenza con i principi fondamentali della Carta di Nizza, obiettivi di tutela e garanzia dei diritti sociali ed economici, di rimozione delle disuguaglianze e di uguaglianza e solidarietà fra gli stati membri.

 

Quanto ai limiti della conduzione politica il giudizio dei Giuristi Democratici è severo.

Il dogma della libera concorrenza, assieme alla detta priorità della stabilità della moneta e ai vincoli di bilancio, travasati in alcuni trattati istitutivi, hanno prodotto disuguaglianze dentro l'area UE. Gli stati potrebbero evitare aggregazioni e ristrutturazioni che approfondirebbero, sfruttando dissesti dovuti alla crisi, i divari fra loro; e potrebbero arginare il crollo dell'occupazione che, oltre ad essere un costo per il welfare statale, riduce i salari e i diritti dei lavoratori.

Le importanti deroghe di questi ultimi anni dimostrano che le priorità dell'UE possono divenire un ostacolo nelle fasi di crisi, ovvero, per essere più severi e sinceri, creano profonde diseguaglianze fra gli stati e favoriscono solo politiche economiche e monetarie procicliche.

Una nuova fase potrebbe aprirsi però, a seguito della nuova crisi. La sospensione nell'UE del divieto degli aiuti di stato alle imprese nazionali avvenuta con due decisioni della Commissione (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CEL) e, come più noto, la sospensione dei vincoli di bilancio del Fiscal compact vanno accolte con favore.  Quindi la possibilità degli stati di investire in deficit, oltre i parametri, diventare azionisti, acquistare imprese, esercitare la golden power in settori di interesse nazionale (di cui per i soli settori strategici già nel DL 21/2012): sono misure anticrisi che, se divenissero permanenti, segnerebbero una svolta essenziale nell'integrazione dell'UE. Assieme alle ipotesi di aiuti a fondo perduto (senza aumento del debito nazionale) e al QE della Bce (e auspicabilmente a cospicue monetizzazioni dei debiti dei paesi più esposti) renderebbero l'integrazione sostenibile e meno iniqua.

La proposta, in sostanza, è quella di dare vita a un grande progetto, un new deal a livello continentale, di cui la stessa Unione deve essere direttamente responsabile in modo unitario.

I giuristi democratici ritengono che questa possa e debba diventare l’occasione per un passo avanti deciso in senso democratico e sociale nella costruzione del processo unitario.

Si costruisca la Res Publica Europea, un soggetto pubblico garante dei diritti sociali e politici di tutti i cittadini, una  Repubblica responsabile della sanità e della scuola in tutta l’Unione.

Questo percorso ha un senso, una coerenza e forse anche una storica inevitabilità.

 

b) Cittadinanza sociale europea

Occorre poi lavorare per una cittadinanza sociale europea.

Uno status dei diritti che l’Unione garantisce a donne ed uomini. Capace in primo luogo di abbattere in ogni campo ogni discriminazione ed uniformare i diversi livelli di servizi sociali tra i paesi dell’Unione e garantirne la piena agibilità ed esigibilità. Noi puntiamo al riconoscimento ai singoli cittadini europei di un corpo di diritti sociali, che non passi attraverso la mediazione degli Stati; e perciò pretendiamo che la stessa Unione sia diretta responsabile dei diritti fondamentali (reddito, lavoro, salute, casa etc.).

Non è sufficiente che l’Europa consenta al corpo intermedio 'Italia' di fare più debito: il bilancio comunitario deve accrescere la propria entità, oltre alle proprie competenze, anche per poter sostenere i servizi sociali europei, garantendo a tutti i cittadini europei livelli uniformi.

 

c) Democrazia parlamentare piena

 Per garantire l’universalità dei diritti sociali è indispensabile che l’Unione economica e monetaria sia dotata di un vero e proprio governo politico ed economico e di un bilancio idoneo fondato su una capacità fiscale autonoma. Occorre allora ripensare e democratizzare l’attuale struttura istituzionale europea, costruendo un sistema realmente rappresentativo, che le attuali regole non garantiscono, mettendo il Parlamento in grado di esercitare il potere legislativo e un reale controllo politico sugli altri organi europei. È quindi necessario redigere con gli altri europei democratici una proposta di riforma istituzionale dell’Unione, con l’obiettivo di trasformare la stessa in una democrazia parlamentare piena.

La stessa Unione Europea dovrebbe avviare una profonda riflessione costituzionale, e verificare se non sia il caso di introdurre la figura presidenziale parlamentare di Garanzia. In particolare si potrebbe ipotizzare una doppia presidenza di genere, ossia una Presidente donna, ed un Presidente uomo, con identici poteri e compiti. Una doppia presidenza opportuna per ragioni di dimensione territoriale e di decentramento, almeno simbolico, e di avvicinamento ai territori del sud e del nord dell’Unione.

I due presidenti dovrebbero essere eletti dal Parlamento europeo, a maggioranza qualificata (ad esempio 3/5), in modo da svolgere funzione di garanzie delle minoranze, assumendo un ruolo simile a quello ora svolto dal Presidente della Repubblica in Italia o in Germania, dai monarchi parlamentari europei, e con qualche elemento di potere mutuato dal Presidente della Repubblica francese (ad esempio la ratifica dei trattati internazionali e la nomina di alti funzionari, a loro volta con ruoli di garanzia).

In questo quadro di democratizzazione dell’Unione è necessario promuovere e definire anche una riforma elettorale che preveda liste per le elezioni europee non più su base nazionale, con candidature di carattere europeo.

In tal senso viene vista con favore riforma la riforma in corso dell’Atto elettorale europeo del 1976 (che ha visto il via libera della commissione per gli Affari costituzionali -AFCO).

Dopo il via libera della plenaria di Strasburgo dovrà essere adottata all’unanimità dal Consiglio dell’UE e poi ottenere l’approvazione di tutti gli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”.

In base a tale importante riforma ogni elettore avrà a disposizione due voti: uno servirà per eleggere i deputati nelle circoscrizioni nazionali, mentre l’altro permetterà di scegliere i 28 nuovi eurodeputati aggiuntivi della circoscrizione UE.

Avranno diritto a presentare liste di candidati a livello UE “entità elettorali europee”ossia coalizioni di partiti politici di diversi paesi, e partiti politici europei (probabilmente anche gruppi parlamento europeo).

La soglia elettorale obbligatoria minima del 3,5 per cento per le grandi circoscrizioni (con almeno 60 seggi)

Nella scheda ci sarà anche Spitzen kandidaten, ossia il nome che il partito europeo candida alla carica di presidente della Commissione Europea.

In tal modo vi sarà un rafforzamento dei partiti politici europei, e le campagne transnazionali creeranno un vero dibattito paneuropeo.

 

d) Riduzione del potere dei governi nell’Unione

Ridisegnare l’Unione Europea, trasformarla in una res publica, avvicinarsi ad una democrazia parlamentare piena, significa ripensare, da un lato il ruolo dei governi nazionali, all’interno dell’Unione, e nel contempo entrare nell’ordine di idee che una riforma compiuta non potrà che riguardare anche i territori di cui è costituita l’Unione.

Ed insomma, anche il dialogo tra centro (Unione) e diramazioni locali (Stati e Regioni) non può che essere ripensato in una riforma organica. Se la politica centrale avrà maggiore spazio, in un disegno che avvicini l’Europa ad un soggetto unitario democratico, nel contempo vanno ripensate le forme dell’autonomia dei territori. Occorre quindi ripensare i meccanismi di co-decisione e di adattamento delle decisioni collettive europee.

In tal senso si può aprire un dibattito su un possibile parlamento federale costituito dai rappresentanti delle regioni d’Europa.

Tali processi di approfondimento dell'unione fra gli stati europei in senso federale, dovranno necessariamente compiersi a fianco, e condizionatamente, al progresso del disegno sociale ed economico; e nel complesso è una direzione riformatrice che consideriamo indispensabile per rendere legittima e sostenibile, dal punto di vista interno e costituzionale, la cessione di sovranità nazionale in favore di un soggetto istituzionale che rispetti i caratteri fondamentali del paradigma del costituzionalismo democratico scelto dall'Italia.

 

e) Tutela dei diritti

 Occorre riconoscere che l’Unione Europea, mentre è stata insoddisfacente sul piano delle politiche economiche si è mossa in modo più convincente sul piano della tutela dei diritti: il corpus normativo del diritto eurounitario, accanto a norme dei trattati che andrebbero urgentemente modificate, ha sviluppato un buon impianto di tutela dei diritti.

Con l'entrata in vigore del "Trattato di Lisbona", la Carta di Nizza ha acquisito il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati.

La Carta, quale fonte primaria di protezione dei diritti fondamentali nell’UE, diviene parametro di legittimità degli atti dell’Unione. Questa carta si occupa anche di diritti sociali, talora con intensità maggiore anche della Costituzione italiana, anche se questa resta un presidio a difesa dei diritti fondamentali della persona, come il diritto al lavoro e alla salute, specie laddove subordina esplicitamente a questi, alla dignità della persona e all'utilità sociale le libertà economiche e la proprietà privata e segna compiti di intervento pubblico nell'economia per il raggiungimento dell'eguaglianza sostanziale.

Appare ad esempio più netto e definito il riconoscimento del diritto di sciopero nella norma europea (Art. 28), o la tutela del lavoratore licenziato (art.30/33).

I diritti fondamentali previsti nella carta di Nizza concorrono con quelli costituzionali (Corte costituzionale  n. 269 del 2017 che afferma che si possa “ disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione” ) .

 

Anche su altri versanti il diritto eurounitario ha rappresentato un avanzamento sociale. La Cassazione, con sentenza del 23 dicembre 2014, n. 27363 ha condannato l'"abuso" del precariato nella pubblica amministrazione: con richiamo alla sentenza "Mascolo" 2014 della Corte di Giustizia Europea sulla scuola, ha dichiarato che un precariato pubblico di oltre trentasei mesi costituirebbe "abuso" di contratti a termine per contrasto con la direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999.

La Corte di Giustizia Europea ha sancito che la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale. In particolare le sentenze   Arblade e a., 1999, cause riunite C-369/96 e C-376/96 e poi  Causa C-438/05 International Transport Workers’ Federation, laddove è stato affermato che “Si deve aggiungere che, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c) e j), CE, l’azione della Comunità comporta non soltanto «un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali», ma anche «una politica nel settore sociale». L’art. 2 CE afferma infatti che la Comunità ha il compito, in particolare, di promuovere «uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche» e «un elevato livello di occupazione e di protezione sociale».  Poiché dunque la Comunità non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale, tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 136, primo comma, CE, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata e il dialogo sociale”.

La Commissione europea ha presentato il 4 marzo 2021 una proposta sulla trasparenza salariale per garantire che donne e uomini nell’UE ricevano la stessa retribuzione per lo stesso lavoro. La proposta stabilisce misure di trasparenza retributiva, come informazioni sulla retribuzione per chi cerca lavoro, il diritto di conoscere i livelli retributivi per i lavoratori che svolgono lo stesso lavoro, nonché obblighi di segnalazione del divario retributivo di genere per le grandi aziende .

Altro settore in cui il diritto comunitario è più avanzato di quello nazionale è il diritto ambientale.

Poi il diritto antitrust, e quello di protezione del consumatore.

L’Unione Europea manifesta in tal modo la sua utilità, come area più ampia di applicazione di tali normative. L’azienda pur di poter accedere ad un’area territoriale ricca come l’UE, è disposta ad accettarne le regole, in termini ambientali, di abuso di posizione dominante, di sicurezza, di protezione del consumatore, di rispetto della privacy etc.

L’UE deve quindi proseguire su tale strada per affrontare in modo unitario una ulteriore serie di misure. È infatti urgente una regolazione unitaria dei movimenti di capitale della tassazione, volta ad eliminare i paradisi fiscali (etc.).

 

3.    COSTITUZIONE DELLA TERRA

 

Nel contempo occorre sostenere la brillante intuizione politica, ed il progetto delineato da Luigi Ferrajoli, nel suo volume Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio.

Le politiche nazionali sono vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali, o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali, interessati soltanto al consenso elettorale, di affrontare le sfide e i problemi globali con politiche alla loro altezza. La democrazia odierna conosce insomma soltanto spazi ristretti e tempi brevi. Non ricorda e anzi rimuove il passato e non si fa carico del futuro, ossia di ciò che accadrà oltre i tempi delle scadenze elettorali e al di là dei confini nazionali. È affetta da localismo e da presentismo.

Occorre quindi un costituzionalismo sovranazionale, in grado di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri selvaggi dei mercati e il carattere ancora prevalentemente locale della politica e del diritto.

Una Costituzione della Terra è diversa da tutte le altre carte costituzionali, perché deve rispondere a problemi globali sconosciuti in altre epoche, e tutelare nuovi diritti e nuovi beni vitali contro nuove aggressioni, in passato impensabili. Non è un'utopia. È l'unica strada per salvare il pianeta, per affrontare la crescita delle disuguaglianze e la morte di milioni di persone nel mondo per fame e mancanza di farmaci, per occuparsi del dramma delle migrazioni forzate, per difendersi dai poteri selvaggi che minacciano la sicurezza di intere popolazioni con i loro armamenti nucleari[4].

L’ipotesi proposta da Ferrajoli è quella di una riformulazione della classica tipologia e separazione dei poteri formulata da Montesquieu: la distinzione, ancora una volta, tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia. Le istituzioni di governo sono quelle investite di funzioni politiche, di scelta e di innovazione discrezionale in ordine a quella che Ferrajoli definisce la «sfera del decidibile»: non solo, quindi, le funzioni propriamente governative di indirizzo politico e di scelta amministrativa, ma anche le funzioni legislative. Le istituzioni di garanzia sono invece quelle investite delle funzioni vincolate all’applicazione della legge, e in particolare del principio della pace e dei diritti fondamentali, a garanzia di quella che Ferrajoli definisce  la «sfera dell’indecidibile»: le funzioni giudiziarie o di garanzia secondaria, ma ancor prima le funzioni deputate alla garanzia in via primaria dei diritti sociali, come le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle assistenziali, quelle previdenziali e simili.

Sono queste funzioni e queste istituzioni di garanzia, ben più che le funzioni e le istituzioni di governo, che a livello globale è necessario sviluppare in attuazione del paradigma costituzionale. Ciò che si richiede, ai fini della garanzia della pace, dell’ambiente e dei diritti umani, è non già l’istituzione di un’improbabile e neppure auspicabile riproduzione della forma dello Stato a livello sovranazionale —una sorta di superstato mondiale, sia pure basato sulla democratizzazione politica dell’Onu— ma piuttosto l’introduzione di tecniche, di funzioni e di istituzioni adeguate di garanzia.

La costituzione della Terra oggetto della proposta si caratterizzerà – come propone lo stesso  Ferrajoli-  per un allargamento del paradigma costituzionale oltre lo Stato, in tre direzioni:

  1. a) in direzione di un costituzionalismo sovranazionale o di diritto internazionale, in aggiunta all’odierno costituzionalismo statale, tramite la previsione di funzioni e di istituzioni sovra-statali di garanzia all’altezza dei poteri economici e politici globali;
  2. b) in direzione di un costituzionalismo di diritto privato, in aggiunta all’odierno costituzionalismo di diritto pubblico, tramite l’introduzione di un sistema adeguato di regole e di garanzie nei confronti degli attuali poteri selvaggi dei mercati;
  3. c) in direzione di un costituzionalismo dei beni fondamentali, in aggiunta a quello dei diritti fondamentali, tramite la previsione di garanzie dirette a conservare e ad assicurare l’accesso di tutti al godimento di beni vitali come i beni comuni, ma anche i farmaci salva-vita e l’alimentazione di base.

 

4.    AUTONOMIA DIFFERENZIATA

a) Premessa

Negli anni novanta del secolo scorso, l’Italia attraversava una grande ubriacatura federalista. A dispetto dei tanti che allertavano sugli enormi problemi, anche pratici, che comportava ampliare la potestà legislativa delle regioni, le forze politiche maggioritarie sembravano attraversate da una vera febbre devolutiva.

La modifica del Titolo V della Costituzione è quindi approvata sul finire della legislatura per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra. Il testo fu proposto il 19 settembre 2000, e poi votato il 21 settembre nel testo oggi vigente. 

L'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, nel testo riformulato, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. "regionalismo differenziato" o "regionalismo asimmetrico", in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre), ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma).

L'ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono: tutte le materie che l'art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente; un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato: a. organizzazione della giustizia di pace; b. norme generali sull'istruzione; c. tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

L'attribuzione di tali forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita con legge rinforzata: in altri termini, in primo luogo vi deve essere un'intesa fra lo Stato e la Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi di cui all'art. 119 Cost. in tema di autonomia finanziaria; successivamente il testo deve essere approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

La norma così introdotta non ha avuto attuazione immediata. Con la legge di stabilità per il 2014, il Parlamento ha approvato alcune disposizioni di attuazione dell'art.116, terzo comma, Cost., relative alla fase iniziale del procedimento.

Dopo i referendum in Lombardia e Veneto del 2017 e la richiesta dell'Emilia Romagna, queste regioni hanno firmato, il 28 febbraio del 2018, col governo Gentiloni ormai da tempo dimissionario una pre-intesa, relativa a cinque materie specifiche (tutela di ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali),

 Si prevede per la prima volta per quelle regioni il principio della compartecipazione ai tributi erariali, cioè per la prima volta si prevede che la spesa prestabilita ad esempio per sanità ed istruzione dipenda dalle tasse riscosse in più in una specifica regione. Fino ad oggi, invece, la ripartizione dei fondi fra le regioni viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (spesa storica); viceversa le regioni che chiedono il trattamento differenziato vogliono sganciarsi da questo criterio generale ed affermare il principio per cui le somme loro erogate devono dipendere da quante tasse pagano i cittadini residenti sul loro territorio.

Sarebbe un passaggio epocale, anche dal punto di vista culturale, ed un enorme successo per il movimento federalista. Infatti si stabilirebbe il principio in virtù del quale il livello dei servizi nella regione non dipende dai ‘bisogni’ ma dal ‘reddito’ regionale . Il giudizio dei Giuristi Democratici, su questa innovazione, è ovviamente negativo.

 

b) Profili problematici

Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano: così sintetizza Mario Dogliani in uno scritto del febbraio 2019, segnalando che il regionalismo differenziato non è una questione tecnico-amministrativa, ma un processo di capitale significato politico che potrebbe mettere in discussione il principio di eguaglianza tra gli italiani nella fruizione dei servizi pubblici nazionali e nelle condizioni di vita dei cittadini abitanti le diverse regioni, sino alla messa in pericolo dello stesso principio di unità nazionale.

Secondo i commentatori il progetto di autonomia differenziata rischia di violare implicitamente i principi costituzionali di perseguimento dell’eguaglianza sociale (artt.3, 32) e di integrità della Repubblica (artt.5, 117-118-119), di parità e progressività della tassazione (art.53) e di determinazione di principi della funzione legislativa (art.76).

La disposizione dell'art. 116 comma 3° della Costituzione si intreccia inevitabilmente con il recentissimo contesto storico in cui – a partire dal 2017, anno dei referendum consultivi tenuti in Veneto e in Lombardia, sino ad oggi – si è assistito ad una estensione smisurata dell'istanza 'autonomistica' di alcune Regioni, in specie del Nord Italia.

Da un iniziale “richiesta” di trasferimento alle regioni di 5 materie tra quelle indicate dall'art. 117, si è passati (Veneto e Lombardia in particolare) alla pretesa di deliberare sulla totalità delle materie: non è irragionevole pensare che l'ampliamento sia dipeso da motivi non di natura costituzionale ma di natura politica, secondo un disegno trasversale che accomuna varie forze.

Testo e contesto, dunque: testo che però “va maneggiato con cura” (cit.), perché l'art. 116 3° comma come modificato nel 2001 consente applicazioni in conflitto con altre norme dell'ordinamento costituzionale e con i principi che le dettano, primo fra tutti l'unità e l'indivisibilità della Repubblica.

Cosa significa “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni”?

Significa innanzitutto che le competenze legislative regionali richieste non possono essere dannose o pregiudizievoli allo Stato o ad altre Regioni, pena il dissolvimento della unitarietà del Paese.

Significa che nessuna “ulteriore autonomia” può prescindere dal rispetto dei diritti fondamentali: uguaglianza tra i cittadini, in primis, in attuazione dell'art. 3 della Costituzione, che è compito dello Stato tutelare e far osservare; ma soprattutto uguaglianza e solidarietà redistributiva fondano l'imposizione tributaria disegnata dall'art. 53 cost. Una lettura estremistica dell'autonomia fiscale pretende la redistribuzione del prelievo fiscale entro lo stesso territorio, dimenticando che gli individui sono tassati in base alla loro capacità contributiva, non in base alla residenza; e se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a costituzione formalmente invariata.

Ma non è solo un problema fiscale e di risorse, ma anche di competenze e regole: si pensi alla salute, all'istruzione, al governo del territorio: materie che hanno evidente attinenza con i principi costituzionali fondamentali sui quali si fonda l'ordinamento dello Stato nella sua indivisibilità.

Occorre quindi una particolare attenzione alla concreta attuazione dell'art. 116 3° comma: la richiesta deve fondarsi su peculiarità specifiche - non occasionali o di “convenienza” - della regione e può sostenersi se circoscritta e giustificata. E, ancora, può riguardare materie il cui trasferimento alla regione richiedente sia davvero realizzabile.

Come può ritenersi giustificata una competenza legislativa regionale in materie come l'istruzione se gli articoli 33 e 34, nell'ottica del principio della libertà di insegnamento e dell'uguaglianza tra i cittadini, attribuiscono allo Stato il potere di dettare le norme generali in ragione dell'unitarietà culturale del sistema di istruzione e di ricerca?

Come può ritenersi conforme a Costituzione l'attribuzione esclusiva alle regioni richiedenti di materie che per loro natura richiamano la potestà legislativa statale, come la tutela e sicurezza sul lavoro, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione?

Nella dottrina costituzionalistica si è ipotizzato un quadro normativo insostenibile: se Veneto e Lombardia ottenessero l'autonomia differenziata a cui anelano, si produrrebbe l'abrogazione dell'art. 117 comma 3° per due sole Regioni.

L'ipotesi dimostra quanto sia labile il confine tra attuazione costituzionale e incostituzionale dell'art. 116 3° comma; sfruttando le potenzialità dell'art. 116  si potrebbe scardinare l’intero titolo V prevedendo, come nelle intese con Lombardia e Veneto, la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, III comma) in competenze esclusive di solo alcune regioni, sottraendo allo stato anche le tre materie sue esclusive previste dal II comma dell'art. 117.

Del resto, l'emergenza sanitaria è stata vissuta da alcune regioni come un'occasione per promuovere la differenziazione e la gestione autonoma nei propri territori del diritto fondamentale appartenente all'intera collettività nazionale; ma l'emergenza sanitaria ha anche scoperto il fianco dei fautori dell'autonomia differenziata, protagonisti negativi della evidente incapacità di gestire la sanità pubblica e di tutelare il diritto alla salute degli stessi concittadini regionali: se un insegnamento proviene dalla lunga gestione della pandemia è la necessità di gestire il servizio sanitario nazionale secondo criteri coerenti ed efficaci decisi a livello nazionale secondo un percorso democratico trasparente e svincolati sia dalle contingenti maggioranze alla guida delle varie giunte regionali, sia dalle diverse capacità di risposta alla crisi da parte dei servizi locali.

Dopo le “intese” del 2018-2019 tra governo e regioni, la procedura sembra essersi arenata nell’elaborazione di una proposta di una legge-quadro – per opera del ministero dei rapporti con le regioni -  la cui bozza  presenta significative lacune sulla lettura dell'art. 116 3° comma (nulla dice su adattamento a specificità locali ed esclusione di alcune materie dove deve permanere una necessaria uniformità), ma soprattutto smaschera la sua debolezza di “tenuta”: una legge cd rinforzata prevista nel procedimento dell'art. 116 3° comma, frutto dell'intesa con una regione, potrebbe modificarla, derogarla, abrogare la legge quadro e a nulla sarebbe valsa la sua eventuale approvazione. Il parlamento è così ostaggio delle dinamiche politiche fra stato e regioni e la costituzione rischia di essere stravolta in suoi aspetti fondamentali; spezzare l'unità del paese sul tema fiscale e aprire a radicali differenziazioni di competenze su istruzione e sanità, per tacer d'altro, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale ad opera di una legge ordinaria vincolata ad un accordo politico con delle regioni. Anche per tali ragioni la proposta non è stata presentata in Parlamento entro la scadenza della legislatura  nel settembre 2022.

Ciò che appare evidente in questo contesto è che, ad oggi, nessun serio coinvolgimento è stato avviato con i soggetti direttamente interessati alla vicenda costituzionale del regionalismo differenziato: l'opinione pubblica e il Parlamento.

Senza l'avvio di questo confronto, ogni proposta di attuazione dell'art. 116 3° comma rischia di restare appannaggio di limitati centri istituzionali che certo non rappresentano la comunità nella sua espressione nazionale.

L’autonomia regionale differenziata verrebbe attuata a scapito anche delle autonomie locali e degli enti di prossimità, le istituzioni più vicine alla cittadinanza, in quanto le esproprierebbe di alcuni poteri a favore di nuovi “carrozzoni” centralizzati e inefficienti, questa volta però a livello regionale. In particolare, sarebbe soppressa l'universalità dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre secondo il reddito dei loro residenti, per poter usufruire dei quali, nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca.

I c.d. LEP, ossia i livelli essenziali delle prestazioni non potrebbero né prevenire né impedire la frammentazione del paese derivante dall’autonomia differenziata. Attengono infatti al livello del servizio, e non all’organizzazione dei poteri pubblici che lo forniscono. La prova si trae dai LEA, equivalente sanitario dei LEP, che non hanno evitato il sostanziale dissolvimento del servizio sanitario nazionale.

5.    BENI COMUNI

I beni comuni possono essere qualificati – utilizzando una formula sintetica ed estremamente efficace di James Boyle -, come l’ “opposto della proprietà”. Questa definizione negativa di un’idea nuova, infatti, consente di andare oltre il concetto di “funzione sociale” della proprietà privata, così come si legge all’art. 42 della Costituzione. Il “retroterra non proprietario” sotteso ai beni comuni, infatti, è volto a garantire quelle situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni primari della persona costituzionalizzata e a rimettere in discussione il concetto stesso di cittadinanza. I beni comuni intesi come “opposto della proprietà” aprono, quindi, alla questione – tutta politica - di comprendere in che modo questa nuova pretesa di soddisfazione dei bisogni e di accesso ai beni primari che la persona costituzionalizzata porta con sé, possa trovare un riconoscimento positivo nella legislazione ordinaria ovvero a livello primario.

Procedendo a una breve ricognizione dei significati normativi assunti dal lemma “beni comuni”, possiamo partire dagli esiti della “Commissione Rodotà” istituita nel 2007 presso il Ministero della Giustizia, che ha proposto una definizione incentrata sulla relazione funzionale tra determinati beni, i diritti fondamentali e il libero sviluppo della persona. Secondo l’elenco non tassativo stilato dalla Commissione, sono da considerarsi beni comuni: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

La disciplina dei beni comuni, inoltre, avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica armonizzazione normativa con quella già vigente e riguardante gli usi civici; si prevedeva una tutela inibitoria diffusa e una tutela restitutoria in capo allo Stato. Pensata come una riforma che riguardava lo statuto civilistico della proprietà, l’inversione della individuazione della categoria tassonomica dal regime ad una ontologia naturalistica e funzionalistica, lasciava scoperto il tema del soggetto giuridico a cui avrebbe dovuto esserne affidata la gestione e l’amministrazione. Un’altra linea pratico-ermeneutica assai feconda ha interpretato la sussidiarietà orizzontale come chiave di volta per accedere a nuove forme di gestione dei c. d. “beni comuni urbani”, assenti dal dibattito teorico normativo della Commissione Rodotà, sebbene molte esperienze di gestione collettiva di spazi urbani orbitassero nel suo spazio ideale. Secondo la proposta di “Labsus – laboratorio per la sussidiarietà”, trasfusa nel regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni della città di Bologna, ripresa poi da molte altre città, i beni comuni urbani sono quei “beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l’Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva”. Tra le critiche a questa impostazione, c’è quella che ha segnalato la prassi di un abuso della sussidiarietà, che ha deresponsabilizzato le amministrazioni locali e ha prodotto una impostazione sostanzialmente competitiva tra le varie associazioni della cittadinanza attiva poste in concorrenza tra loro per la gestione di pezzi tutto sommato poco rilevanti del territorio.

 

Partendo da queste critiche, sui beni comuni urbani si sono sviluppate altre proposte, tra cui quella del nuovo istituto dell’uso civico e collettivo urbano, sperimentato a Napoli e seguito da altre amministrazioni locali, ma soprattutto dai movimenti che rivendicano la gestione diffusa dei beni comuni. L’istituto non prevede l’assegnazione in uso esclusivo ad un soggetto individuato da un patto di condivisione (come nel modello sopra citato), ma si compone, da una parte, dell’attribuzione del “diritto di uso comune” di spazi e aree urbane in proprietà pubblica o privata, e dall’altro si qualificano, sulla scia degli usi civici tradizionali, degli specifici organi assembleari come organi di gestione di tali spazi.

La proposta dei Giuristi democratici consiste nel recuperare la sintesi di questi avanzamenti politici in materia, unendo la tutela dei beni comuni come funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della personalità dei cittadini, alla partecipazione nella loro gestione e amministrazione, quale elemento qualificante. In questa ottica, quindi, sarebbe auspicabile un ripensamento ed una riscrittura dell’articolo 43 della Costituzione: questo articolo, infatti, è stato poco considerato, sia a livello teorico che politico, nonostante la grande importanza che ne avevano dato i Costituenti, in quanto avrebbe dovuto svolgere una duplice funzione, garantista ma allo stesso tempo interventista, per quanto concerne l’azione dello Stato nell’economia. Del resto, l’articolo 43 esprime una valutazione di fondo molto importante e cioè che i monopoli privati, o comunque la gestione privata delle fonti di energia e dei servizi pubblici essenziali, ostacolerebbero la realizzazione di quei “fini di utilità generale” che devono essere letti in combinato disposto con l’articolo 3, secondo comma, quindi quale estrinsecazione del principio di uguaglianza sostanziale.

Quello che va approfondito è un ponte di congiunzione tra beni comuni urbani e beni comuni naturali, perché facendo leva sui diritti fondamentali (intesi in senso ampio) e sulla gestione collettiva, si apre una divaricazione tra risorse molto diverse, che non solo non possono essere gestite nello stesso modo, ma che rispondono alla realizzazione di categorie di diritti molto diversificate. In virtù dell’indissolubile legame che connette beni comuni e dignità della persona, il loro accesso non può essere escluso in base a criteri di disponibilità economica, ma dovranno semmai caso saranno alcuni aspetti relativi alla loro gestione a dover essere segnati in chiave partecipativa, attraverso procedure istituzionali che coinvolgano la platea dei loro fruitori ovvero loro rappresentanti speciali. Esistono poi altri beni in grado di garantire il soddisfacimento di diritti che arricchiscono il catalogo di quelli fondamentali, in particolare in direzione di quelli sociali e civili. Normalmente appartengono alla categoria dei beni pubblici e privati, e in questi casi assolvono tali funzioni secondo logiche di servizio oppure di domanda e offerta; in alcuni casi però anche questi beni possono essere ripensati come beni comuni.

Ciò accade quando vengono percepiti da una collettività ampia come propri, ma non in un senso proprietario né di appartenenza ideale o territoriale, bensì comunitario: ciò si traduce nella concreta disponibilità del bene per un utilizzo e una gestione diretta secondo regole stabilite, attraverso procedure determinate dagli stessi utilizzatori. Il valore di questi beni comuni non risiede soltanto nei diritti che sono in grado di soddisfare, ma nel sistema relazionale che permette prima l’individuazione, a volte una vera e propria scoperta, di bisogni e desideri diversi, e poi l’attivazione mutualistica e cooperativa per affrontarli.

In questo caso i beni possono essere resi comuni quando viene valorizzato questo processo vitale per la democrazia, per cui si forma una comunità che, più che di un bene in sé, si prende cura in forme reciproche e solidali dei bisogni che essa è messa in condizione di esprimere.

Al riguardo, ci sembra opportuno precisare come la nostra idea di beni comuni non sia soltanto da considerarsi come “l’opposto della proprietà”, ma anche come “l’opposto della sovranità”: infatti, se si tratta di cambiare paradigma giuridico ed economico, se si tratta di superare l’individualismo proprietario e le incrostazioni della proprietà codicistica, allora si tratta anche di far emergere i legami sociali che sono sottesi ai beni primari a cui ogni singola persona, a prescindere dal fatto che sia o meno cittadino/a, deve necessariamente accedere. In questa ottica, “comune” non può essere sinonimo di “comunitario”, almeno non nella declinazione di comunità organica e chiusa, ma aperta: se non si assume consapevolezza anche di questo ulteriore mutamento di paradigma, il rischio è quello di utilizzare una formula nuova per reintrodurre nell’ordinamento “chiusure” vecchie, connesse all’appartenenza originaria di un determinato gruppo sociale rispetto a determinati beni.

Dal nostro punto di vista, quindi, la logica anti-sovrana insita nei beni comuni, produce una prassi rivendicativa e conflittuale nei confronti delle pretese speculative e di sfruttamento delle risorse naturali da parte del neo-liberismo, il cui esito ultimo - in termini politici - è l’approdo ad una “condizione istituzionale di indifferenza rispetto al soggetto che risulta essere il titolare formale” del bene fondamentale in questione, per utilizzare le parole di Rodotà. Se i beni comuni, in sintesi, appartengono a tutti e a nessuno, se tutti possono accedervi e nessuno può vantarvi diritti esclusivi, allora i valori che essi catalizzano non sono soltanto oppositivi all’individualismo proprietario, ma valorizzano i legami sociali in una logica egualitaria e solidaristica, necessariamente anti-sovrana.

 

6.    STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA

L'esercizio della sovranità popolare è un principio sancito dal primo articolo della Costituzione il quale afferma solennemente che “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Una parte di tale sovranità si esercita anche attraverso gli strumenti di democrazia diretta. L’Associazione Giuristi Democratici ha sviluppato talune proposte per rafforzare tali istituti.

a) Referendum ammissibilità

L’art. 75 recita: È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

I casi in cui non è ammesso il referendum abrogativo sono dunque un numerus clausus.

Questa norma è integrata con altra norma di rango costituzionale, l’art. 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1:

“2. - Spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso.”

La tradizionale giurisprudenza della Corte ha esteso il novero dei controlli ed valorizzato la necessità della permanente funzionalità di organi costituzionalmente necessari: “ciò che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una valutazione liminare e inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se, nei singoli casi di specie, il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all'applicazione di un precetto costituzionale, consistente in una diretta e immediata vulnerazione delle situazioni soggettive o dell'assetto organizzativo risultanti a livello costituzionale[5]. Ed in tema di referendum elettorali: “Questa Corte può spingersi soltanto sino a valutare un dato di assoluta oggettività, quale la permanenza di una legislazione elettorale applicabile, a garanzia della stessa sovranità popolare, che esige il rinnovo periodico degli organi rappresentativi[6].

La Corte ha quindi valutato di dover estendere il proprio sindacato alla normativa di risulta, non tanto per verificare la costituzionalità della stessa, quanto per accertare se l’abrogazione referendaria può condurre alla paralisi della funzionalità di un organismo necessario costituzionalmente.

In questi casi la Corte ha dichiarato inammissibili i referendum.

Vi è però da verificare se la soluzione adottata dalla Corte sia stata quella che ha maggiormente consentito il pieno dispiegarsi della previsione costituzionale dell’art. 75.

Concorrono infatti due interessi: da un lato il pieno dispiegarsi della sovranità popolare ‘diretta’ ed il diritto costituzionalmente garantito alla sottoposizione di una norma al referendum popolare. Dall’altro la necessità di garantire che l’abrogazione della norma non generi una cesura nella funzionalità di un organo.

Nella scelta adottata dalla Corte, però, piuttosto che una composizione tra i due interessi si è generato un sacrificio totale del primo, in tutti gli innumerevoli casi in cui il referendum poteva incidere su un precetto costituzionale nel senso sopra esposto.

Con il risultato di snaturare completamente l’istituto referendario. È infatti possibile, ma non certo, che attraverso un intervento manipolativo si possa garantire la perdurante funzionalità dell’organo. Inoltre, di fatto, è lasciato alla più completa causalità la possibilità di sottoporre una norma al referendum abrogativo.

b) Referendum- Quorum

 Occorre una riforma dell’istituto referendario.  Allo stato attuale, perché il referendum sia valido, devono votare più della metà degli aventi diritto. È quindi facile gioco per chi sostiene il NO di turno (a torto o a ragione) appellarsi all’astensione. In questo modo i NO si sommano all’astensione fisiologica (anziani, malati, disinteressati). L’astensione fisiologica, cresciuta negli ultimi anni, ormai è almeno del 20%. Quindi i NO consapevoli si sommano ai NO inconsapevoli e vincono sempre.

Ma c’è un’altra distorsione molto preoccupante, di cui nessuno si cura. In questo modo, infatti, l’esercizio del voto non è più garantito di fatto dalla segretezza, ma diventa palese, perché chi si limita soltanto a dichiarare che andrà a votare, implicitamente dichiara che voterà SI’.

E’ quindi possibile sapere perfettamente chi la pensa in un modo chi in un altro, dunque è possibile controllare il voto e, in taluni contesti, persino condizionarlo.

Si tratta di un esito molto grave, cui va posto subito rimedio: la proposta dei G.D. è quella di cambiare il sistema del quorum di validità: il referendum è valido e vincono i SI’, qualora rappresentino almeno il 40% degli aventi diritto al voto (e qualora siano più dei NO); a ciò si deve poi aggiungere l’opportunità di escludere dal computo del quorum dei referendum abrogativi gli italiani residenti all’estero.

 

c) Raccolta firme referendum e proposta di legge di iniziativa popolare.

Affinché gli strumenti di democrazia diretta possano essere realmente efficaci, è necessario che il loro impiego non sia monopolio di organizzazioni che dispongono di fondi consistenti e reti di amministratori autenticatori. La semplificazione e la digitalizzazione delle procedure di sottoscrizione e vidimazione dei quesiti referendari è indispensabile per rendere effettivo il diritto del cittadino all’accesso agli strumenti di democrazia diretta.

I GD hanno proposto che le sottoscrizioni per richiedere un referendum o per una iniziativa legislativa popolare, possano essere raccolte in modalità digitale. Tale proposta sembra essere stata attuata di recente. Nell’ottobre 2022 è stato emanato il decreto attuativo relativo al funzionamento della piattaforma di raccolta elettronica delle sottoscrizioni per i referendum e i progetti di legge di iniziativa popolare.

 

d) Italiani all’estero

L’esperienza maturata nel corso degli ultimi anni, ci ha convinti senza alcun dubbio della necessità e urgenza di operare una revisione sia del sistema normativo sia delle modalità operative con le quali riconoscere e fare esercitare il diritto di voto ai connazionali residenti all’estero.

Abbiamo potuto verificare che spesso il corpo elettorale chiamato ad esprimersi è composto da cittadini emigrati da decenni e che negli elenchi figurano persone già decedute. Si dovrebbe porre rimedio a troppi episodi che nel voto all'estero hanno contraddetto i principi essenziali di un'espressione di voto segreto e personale.

Troppi episodi verificatisi durante la campagna referendaria del 2016 per la modifica della Costituzione hanno confermato che il voto degli italiani all'estero non è stato espresso in modo segreto e anzi personaggi conosciuti dall'opinione pubblica hanno ritenuto di farsi fotografare durante il voto, con evidenti intenzioni di disprezzo dei principi costituzionali e delle leggi.

I seggi dovrebbero quindi essere di norma all'interno delle sedi consolari e degli Istituti di cultura italiana all'estero, oppure organizzati con tutte le necessarie garanzie in sedi pubbliche degli stati Esteri. Sarà compito dei consolati organizzare i seggi della circoscrizione Estero in modo tale da renderli fisicamente raggiungibili e accessibili nella giornata elettorale a tutti i cittadini iscritti nei propri elenchi elettorali.

Inoltre nel conteggio degli aventi diritto ai fini del quorum, si è evidenziata la scarsa affidabilità del numero degli aventi diritto al voto residenti all’estero, con conseguente artificioso e non corretto innalzamento del complessivo quorum di validità della consultazione.

Tra le proposte dei Giuristi Democratici vi potrebbe essere l'iscrizione volontaria del residente all'estero alla lista elettorale - iscrizione che dovrebbe valere per un certo numero di anni, salvo richiesta di rinnovo.

Agendo su questo "prerequisito" per poter esprimere il voto, si porrebbero molti meno problemi sulle modalità del voto, che, peraltro, ormai potrebbero essere anche telematiche.

Inoltre la richiesta di iscrizione alla lista elettorale testimonierebbe l'interesse a mantenere un rapporto con la "Patria", che in moltissimi casi è venuto meno tra chi si ritrova iscritto solo perchè decenni orsono si è iscritto all'Aire o solo perchè figlio o figlia di italiano all'estero che nemmeno ha mai messo piede in Italia.

 

7.    INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA

a) Magistratura ordinaria

Nella Costituzione le garanzie di indipendenza sono formulate direttamente nel Titolo IV per i magistrati ordinari, mentre vengono riservate alla legge ordinaria per i magistrati delle giurisdizioni speciali.

L’indipendenza riguarda l’istituzione, l’organizzazione, l’ufficio, nonché i singoli componenti dell’ufficio giusdicente che non devono essere condizionati da qualsiasi altro potere dal punto di vista generale e istituzionale Sull’importanza della separazione dei poteri, non serve dilungarsi. Non è opportuno, in uno Stato democratico, che le promozioni ed i trasferimenti dei magistrati, siano decise dal Governo, che potrebbe premiare magistrati amici e punire quelli scomodi.

La Costituzione, all’art. 104, ha stabilito garanzie di autonomia, in virtù delle quali la magistratura governa se stessa. Un’indipendenza che tutte le forze politiche a parole rispettano, ma che nei fatti infastidisce molti.

In particolare, le critiche si appuntano sulle elezioni dei componenti magistrati del CSM (definiti “togati”). È noto a molti il fatto che negli anni i magistrati si sono affiliati, più o meno formalmente, ad associazioni, di stampo prevalentemente culturale, che però sono state un trampolino di lancio per le elezioni del CSM. Formalmente queste associazioni non sono riconosciute, nel senso che sulla scheda per le elezioni non compaiono simboli. È però sicuramente vero che, in molte circostanze, queste associazioni di magistrati hanno dato indicazioni di voto, ed hanno svolto la funzione di ‘partitini’ dei magistrati.

Tuttavia, quando si critica l’esercizio del potere democratico, non si deve dimenticare che il problema non è la scelta dei rappresentanti, ma il loro controllo, ed i limiti al potere che è loro attribuito. La soluzione è stringere il nodo delle regole. Le promozioni, ed i trasferimenti dei magistrati non devono avvenire arbitrariamente, ma in base a criteri predefiniti e stringenti. Occorre potenziare i controlli, rendere trasparenti le scelte, criticabili i giudizi, effettivi i controlli, anche giurisdizionali. In Italia spesso chi è sovra ordinato (ossia posto in una posizione di potere), si sente sottratto al rispetto delle regole. Ed invece, è proprio l’esercizio di un maggiore potere che impone ancora più fortemente la necessità del rispetto della regola.

I Giuristi Democratici hanno, poi, posto l’attenzione sulla necessità di potenziare le garanzie di indipendenza anche delle giurisdizioni speciali.  In particolare del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Allo stato attuale, l’attività di governo, del Paese e del territorio, costantemente incontri sulla sua strada, spesso nelle vesti di ostacolo, la giustizia amministrativa e contabile.

Si pensi ai ricorsi in materia ambientale che interessano le piccole e grandi opere, alle nomine, agli appalti, all’urbanistica, ai ricorsi in materia elettorale. 

La giustizia penale, ed il suo potenziale dispiegarsi in piena autonomia, possono incidere indirettamente sull’attività di governo, attraverso gli attori; la giustizia amministrativa e la giustizia contabile incidono, invece, direttamente sul momento esecutivo delle scelte.

Nel tempo ciò ha generato una insofferenza del potere esecutivo rispetto ai giudici amministrativi (ed ancor più al peso del loro sindacato demolitorio) e tensioni intorno al meccanismo dei controlli.

Gli ultimi anni hanno visto il declino della cultura costituzionale del bilanciamento e dei controlimiti ai poteri - proprio in un tempo storico in cui ve ne sarebbe più bisogno - e le tensioni sono divenute espliciti attacchi.  Viene rappresentata una artificiosa contrapposizione tra interesse nazionale e rispetto delle norme, tra crescita del PIL e giustizia nell’amministrazione.

Si dimentica, in tal modo, che l’unico interesse nazionale conoscibile al diritto è quello al rispetto della legge.  Nessuno impedisce, a chi ha il potere, di modificare le norme, di cambiarne il contenuto. Ciò che però non si può concepire, senza scivolare al di fuori dello stato di diritto, è che si configuri una categoria di esercizio del potere al di fuori delle norme.

Ciò che si osserva, nei ripetuti attacchi, è come si postuli invece uno scavalcamento della legge da parte del decisore.  La regola deve divenire cedevole rispetto alla decisione assunta. Non è più la legge la portatrice dell’interesse collettivo nazionale, ma la decisione attiva, da chiunque presa, e con qualunque contenuto.

Da ciò nasce la critica a chi garantisce efficacia ai precetti, il Giudice Amministrativo (o contabile), criticato non perché inefficiente, ma perché troppo rigoroso. Da questo nasce la contemporanea pulsione ad un addomesticamento della giurisdizione amministrativa e contabile.   

Quindi, il tema della indipendenza dei giudici speciali è assolutamente fondamentale, non solo per una compiuta divisione dei poteri, ma anche per la difesa dello stato di diritto.

b) Magistratura onoraria

A nostro avviso, è opportuno che termini il “precariato” del Giudice di Pace. Allo stato attuale, stante la temporaneità dell’incarico, il giudice di pace che ha conseguito una buona esperienza deve lasciare l’incarico. Mentre assume l’incarico un soggetto privo di adeguata formazione.  Inoltre, non potrà essere certo un giovane ad investire professionalmente su una funzione di durata temporanea, ma sufficientemente lunga per impedirgli di percorrere, per tempo, altre strade.  Infatti allo stato attuale è un ruolo scelto prevalentemente da persone al termine delle proprie rispettive carriere, spesso in pensione.

Riteniamo dunque opportuna una riflessione. È indubbia l’importanza del lavoro svolto dai Giudici di Pace, di cui oggi, il sistema non potrebbe fare a più a meno.

E’ quindi opportuno che il sistema investa adeguate risorse per la formazione del Giudice di Pace. Che lo Stato dunque assuma giovani, neo laureati, con un pubblico concorso. Persone che investano professionalmente in un’attività di ausiliari della giustizia, e che dunque godano di una retribuzione stabile , della copertura previdenziale etc..

Ciò permetterebbe, peraltro, di aumentare la competenza ordinaria, per valore, almeno fino a 10.000 euro di valore.

 

c) Separazione delle carriere

Il problema della separazione delle carriere deve essere visto in maniera assolutamente laica, cercando di trovare soluzioni che evitino alcune inaccettabili commistioni tra giudice e pubblico ministero. Le norme attualmente vigenti, impediscono o rendono, comunque, estremamente difficile il passaggio da una funzione all’altra, ed hanno già, in buona parte, ovviato ai principali inconvenienti. Il restante problema di possibile commistione tra giudicante e requirente non pare tanto fondato sulla appartenenza allo stesso ordine, ma piuttosto determinato da ragioni di maggiore conoscenza e amicizia personale tra i magistrati. Si tratta, dunque, in prima battuta e senza voler essere eccessivamente superficiali, di questioni di natura personale che potrebbero essere risolte con un maggior impegno del giudicante a rispettare e applicare la propria autonomia nei confronti sia del pubblico ministero che dell’avvocato.

Il principale timore in relazione alla separazione delle carriere è che essa possa incidere sull’indipendenza della magistratura e, conseguentemente, sulla tutela dei diritti dei cittadini. Essa andrebbe ad aggiungersi, oltre che alla delegittimazione della magistratura, alla richiesta di rottura del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fulcro e base dell’uguaglianza dei cittadini. Sembra estremamente pericoloso contribuire ulteriormente all’opera di normalizzazione e limitazione dell’autonomia della magistratura attraverso una modifica costituzionale che, istituendo una doppia carriera e un doppio Consiglio superiore (partendo addirittura, al fine di aggirare la necessità della riforma costituzionale, da un doppio concorso, come è stato ipotizzato recentemente), rischia di far dipendere il pubblico ministero dal potere esecutivo. In ogni caso, un simile pubblico ministero resterebbe ancora più lontano da quella cultura della giurisdizione che dovrebbe accomunare magistratura e avvocatura; nascerebbe una autonoma cultura dell’indagine e dunque dell’accusa fondata su principi ed elementi non necessariamente coincidenti con quelli sino ad oggi seguiti, anche se in maniera non soddisfacente.

Anche molti avvocati sono, infatti, perplessi nell’idea di creare una figura di magistrato che, dall’inizio alla fine della sua carriera, sia destinato e dedicato solo al ruolo di pubblica accusa. Molti ritengono che una migliore cultura e formazione si acquisisce solo se uno stesso soggetto ricopre tutti i ruoli del processo. In astratto meglio ancora sarebbe se il magistrato svolgesse prima il ruolo di difensore, poi di accusatore, poi di giudicante, e poi ruotasse ancora. Chi ha giudicato, sarà anche più prudente nell'accusare (nel chiedere un rinvio a giudizio). Chi ha accusato e difeso sarà più consapevole nel giudicare. Negli USA, ad esempio, gli avvocati per un periodo sono chiamati a svolgere il ruolo di procuratori dell’accusa, poi tornano a fare gli avvocati difensori.

Il tema sollevato dai promotori è reale e concreto.  Chi sostiene il ruolo dell’accusa, in un giudizio, ha una posizione privilegiata, che potremmo definire come una sorta di accesso agevolato al convincimento del giudice giudicante. I promotori ritengono che sia legato ad uno spirito di corpo, che si crea per il passaggio da una funzione all’altra, e dunque al senso di colleganza. Non è così.

Il nodo è che il PM è un soggetto pubblico. Quando decide di 'accusare' si presume lo faccia nell'interesse pubblico. In sostanza, è vero che nel processo vi può essere un pregiudizio favorevole alla tesi del PM. Ma questo nasce dal fatto che il PM accusa in buona fede, perché ne è convinto, perché ha trovato la (sua) verità, giusta o sbagliata che sia, ma nel pubblico interesse, mentre l'avvocato rappresenta una parte privata (che si difende nel proprio interesse). Ecco perché nel giudizio la parte pubblica è avvantaggiata, perché un giudizio super partes, quando inizia il processo, c'è già stato. Ed è quello del PM che ha deciso di accusare l’imputato.

Questo pregiudizio non si potrà mai eliminare. È presente anche nel giudizio civile o nel giudizio amministrativo presso il TAR. Il problema è che una parte è pubblica, ed il difensore della parte pubblica agisce (o si presume agisca) nell'interesse collettivo. Il pregiudizio positivo resta, nel giudizio civile o amministrativo, anche quando la parte pubblica, ad esempio l’ente locale, è difeso da un avvocato privato

Ciò che rileva, è che nulla potrà mutare questa situazione, e certamente non il fatto di separare le carriere. Per mutare questo pregiudizio positivo all'accusa, occorrerebbero tali sconvolgimenti, da non essere affatto consigliabili.

Sotto altro profilo, la separazione delle carriere non risolverebbe i problemi della giustizia.

Si sostiene che la comunanza di carriera e logistica porterebbe come conseguenza un asservimento dei giudici allo strapotere dei pubblici ministeri, mediaticamente molto più forti. Ma ciò non sarebbe impedito se le carriere fossero due. Ed anzi si rischia un’ulteriore sovraesposizione mediatica dei pubblici ministeri, non più intralciati da regole deontologiche (già oggi sovente violate), che finirebbe per pesare, anche a livello inconscio, sui giudici, premuti dall’opinione pubblica.

Ciò che deve essere garantito è che tutti i magistrati, ed anche gli avvocati, partano da un comune terreno di “gioco”, una condivisa visione della giurisdizione. In questo impianto, poi, occorre creare un rigido e serio controllo da parte della magistratura giudicante sull’operato del pubblico ministero. Questo controllo è sovente mancato in questi anni, ma certo non è la separazione delle carriere che lo renderebbe più agevole. Servirebbe, invece, un senso di responsabilità e di vera indipendenza di ogni magistrato, oggi spesso mancante.

Un noto penalista, Astolfo Di Amato, ha sostenuto, sulle colonne del Riformista, che il condizionamento dell’accusa sulle giurisdizioni, anche su quelle superiori, è enorme, onde il problema non sarebbe quello di «tenere il pubblico ministero immerso nella cultura della giurisdizione affinché si autolimiti. Occorre, viceversa, creare le condizioni affinché la giurisdizione costituisca un momento di controllo rigoroso e non condizionabile delle attività del pubblico ministero. Ed ecco perché serve la separazione delle carriere». Se la premessa è giusta, certo non lo è il modo per raggiungere l’obiettivo: il rigoroso controllo dell’attività del pubblico ministero ben può, e anzi deve, essere perseguito, ma ciò è perfettamente compatibile con l’attuale sistema di separazione delle funzioni. Occorrerebbe, invece, correggere l’attuale cultura di alcuni pubblici ministeri (che si muovono al fine di acquisire notorietà mediatica e consenso sociale) e rafforzando nei giudici la piena autonomia non solo dai pubblici ministeri (e dagli avvocati, nei rari casi in cui ciò potrebbe succedere) ma anche dalla stampa e dall’opinione pubblica.

Si tratta, in definitiva, di approfondire il tema, discuterne collettivamente, valutarne gli aspetti positivi e quelli negativi, operare un bilanciamento tra essi, superando quella contrapposizione, dannosa per i cittadini, Avvocati-Magistrati, che da anni ha contrassegnato il tema, nella ricerca di una comune cultura della giurisdizione.

 

8.    VINCOLI DI BILANCIO

 La modifica all'art. 81 della Costituzione approvata quasi all'unanimità nel 2012 dal parlamento ha introdotto il principio del pareggio di bilancio con la formula “equilibrio tra le entrate e le spese”.

La limitazione della spesa pubblica, se non frutto di un'ideologia estremista e cieca, deve adattarsi alle esigenze della popolazione, consentire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, mentre il pareggio di bilancio comprime i diritti che la stessa costituzione, all'art. 2, definisce solennemente come inviolabili. Pertanto sarà il bilancio a sottostare alla necessità di garantire l'erogazione di prestazioni e interventi indispensabili per la tutela di diritti insopprimibili e non il contrario, come stabilito con chiarezza dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 275 del 2016. Lo stesso vincolo esterno del Fiscal compact - che pure non imponeva alcuna modifica costituzionale - si è rivelato non “inviolabile” in tempi di pandemia e di crisi economica conseguente, tanto da esser stato prontamente sospeso dalla Commissione UE. Ci troviamo infatti a dover approvare periodicamente, durante la pandemia, gli scostamenti di bilancio, quando saremmo giustificati dalle istituzioni europee.

Appare urgente, in sintonia ormai con i segnali di eccezione a livello europeo che speriamo si tradurranno in stabili riforme, rivedere l'art. 81 tornando alla originaria formulazione, o meglio ancora fissare esplicitamente la inviolabilità dei diritti fondamentali delle persone su tutto il territorio nazionale - anche a schermo contro le distorsioni che deriverebbero dalle spinte secessioniste del “regionalismo differenziato” - proprio in relazione alle esigenze degli interventi di politica economica e monetaria.

Proprio in tal senso è stato elaborato un disegno di legge costituzionale dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale: si chiede pertanto di rimuovere il pareggio di bilancio introdotto nel 2012 rendere esplicito che le politiche di spesa pubblica devono in ogni caso garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

 

9.    TUTELA DELL’AMBIENTE

a) Premessa

La questione ambientale non è estranea alla Costituzione italiana, così come non è assente nella tradizione del costituzionalismo moderno e contemporaneo[7]. D’altra parte, l’ambiente è «un presupposto di tutti gli altri diritti e, come tale, costituisce una sfida per l’intero assetto di quello che, in base alle costituzioni nate nella seconda metà del secolo scorso, si può definire lo Stato costituzionale»[8].

Nel testo originario della Costituzione la questione ambientale, seppur dimessamente, è menzionata all’art. 9.2 che richiama espressamente il compito della Repubblica di tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Successivamente, con L. cost. n. 3 del 2001, la Costituzione si è dotata di disposizioni e formule più “evolute” e rispondenti alla (drammatica) rilevanza assunta dalla questione ambientale nella società odierna.

All’interno del nuovo titolo V la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” è annoverata tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato (art. 117.2, lett. s). Alla legislazione concorrente Stato-Regioni spetta, invece, la «valorizzazione dei … beni ambientali», nonché il «governo del territorio» (art.117.3). Sono state, altresì, assegnate al medesimo comparto legislativo anche la «tutela della salute», l’«alimentazione», la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Adottando questa soluzione, seppure in un ambito del tutto peculiare (il titolo V è – com’è noto –integralmente dedicato alle autonomie territoriali), il legislatore costituzionale del 2001 ha, da una parte, ammesso – come rilevato finanche dalla Corte costituzionale - la vigenza del principio ambientalista nell’interno dell’ordinamento italiano, ritenendolo «desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali»)[9]. Dall’altra ne ha coerentemente recepito la rilevanza ordinamentale. E declinando il principio ambientalista in una duplice direzione ha assicurato la convivenza, a partire dal testo costituzionale, di un’interpretazione di tipo antropocentrico («tutela dell’ambiente») con una lettura di carattere ecocentrico (tutela dell’ «ecosistema»).

b) La giurisprudenza costituzionale

La Costituzione italiana tutela il diritto all’ambiente. Ad averlo, in più occasioni ribadito, è stata la Corte costituzionale. A tale riguardo è interessante rilevare come il giudice costituzionale sia approdato a questo esito non sulla base di una visione giusnaturalista e immanente dei diritti dell’uomo (e in quanto tale sganciata dal testo costituzionale). E neppure impiegando l’art. 2 Cost. alla stregua di una norma a fattispecie aperta (soluzione questa di per sé idonea ad assorbire all’interno della generica formula «diritti inviolabili dell’uomo» tutti quegli interessi che, venuti maturando nella coscienza sociale nel corso del tempo, non erano stati espressamente menzionati in Costituzione).

La Corte è venuta enucleando la nozione costituzionale di ambiente (e la dimensione dei diritti a essa sottesa) a partire da disposizioni puntuali e dettagliate della Costituzione italiana. È il caso della tutela del paesaggio ex art. 9, formula dalla quale il giudice costituzionale ha ricavato la definizione di  «ambiente naturale modificato dall’uomo» (Corte cost. n. 94 del 1985 e n. 151 del 1986). E del diritto alla salute come «diritto fondamentale» e «interesse della collettività» (art. 32  Cost.) dal quale non solo la Cassazione (Cass. S.U. 6.10.1979, n. 5172), ma anche la Corte costituzionale ha desunto l’esistenza del «diritto all’ambiente salubre»(Corte cost. n. 247/1974; n. 167 del 1987).

La presa di posizione assunta, già alla fine degli anni Ottanta, dal giudice costituzionale su questo punto è quanto mai netta, soprattutto nelle sue implicazioni di ordine sistemico:

«L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto»[10]

Di qui l’innestarsi di un impianto giurisprudenziale che ha consentito al giudice costituzionale di assumere la tutela dell’ambiente anche come limite da opporre all’iniziativa economica (art. 41), al diritto di proprietà (art. 42), all’uso razionale del suolo (art. 44).

A offrire una coerente ed esaustiva sintesi degli sviluppi della giurisprudenza sul diritto dell’ambiente è stato lo stesso giudice delle leggi in una sua recente sentenza:

«È noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l'espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l'ecosistema, questa Corte  con  numerose  sentenze  aveva riconosciuto (sentenza n. 247  del  1974)  la  “preminente  rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell'uomo(art. 32) e alla protezione dell'ambiente in cui questi vive (art. 9,secondo comma)”, quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210del 1987). E la  giurisprudenza  successiva  aveva  poi  superato  la ricostruzione in termini solo finalistici,  affermando  (sentenza  n.641 del 1987) che l'ambiente costituiva “un bene immateriale unitario sebbene  a  varie  componenti,  ciascuna  delle  quali   può anche costituire, isolatamente  e  separatamente,  oggetto  di  cura  e  di tutela; ma tutte, nell'insieme,  sono  riconducibili  ad  unità.  Il fatto  che  l'ambiente  possa  essere  fruibile  in  varie  forme   e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie  norme  che assicurano la tutela dei vari profili in cui si  estrinseca,  non  fa venir meno e non intacca la sua natura e  la  sua  sostanza  di  bene unitario che l'ordinamento prende in considerazione”. Il  riconoscimento  dell'esistenza  di   un   “bene   immateriale unitario” non è fine a se  stesso,  ma  funzionale  all'affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della  tutela, uniformità  che  solo  lo  Stato  può  garantire,  senza   peraltro escludere che anche altre istituzioni  potessero  e  dovessero  farsi carico degli  indubbi  interessi  delle  comunità  che  direttamente fruiscono del bene»[11].

c) Il principio internazionalista e la tutela ambientale

Tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano peculiare rilevo riveste il principio internazionalista che ha il suo perno negli artt. 10-11 Cost.   L’art. 10.1 Cost., in particolare, oltre a riconoscere implicitamente il diritto pattizio, sancisce che «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. L’istituto dell’adattamento nel diritto internazionale implica l’esistenza di un “rinvio mobile” e pertanto un recepimento automatico delle norme internazionali nell’ordinamento interno. Peculiare rilevo è venuto assumendo, all’indomani della revisione costituzionale del 2001, l’art. 117.1 Cost. che vincola la legislazione statale e regionale al rispetto degli obblighi internazionali e dell’ordinamento Ue.

Le procedure e gli istituti giuridici sottesi al principio internazionalista hanno reso, in questi anni, possibile l’ingresso nell’ordinamento italiano di norme e principi in materia ambientale maturati nel diritto internazionale e dell’Unione europea. Si pensi alle numerose convenzioni internazionali siglate dall’ONU (conferenze di Stoccolma del 1972, di Rio del 1992, di Johannesburg del 2002, Accordo di Parigi del 2015sottoscritto da195 Stati e che oggi si propone di adottare azioni congiunte per fronteggiare i mutamenti climatici e surriscaldamento)[12].

In Europa la questione ambientale ha fatto capolino anche all’interno della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sebbene la CEDU(1950) non menzioni espressamente questo diritto. La Corte europea ha originalmente ricavato il diritto dell’ambiente dall’art. 8 della Convenzione avente ad oggetto la tutela della vita privata e familiare (si vedano i casi Lopez Ostra c. Spagna - 09.12.1994; Cordella e altri c. Italia - 24 gennaio 2019).

Ben più incisive e puntuali sono invece le disposizioni in materia di tutela ambientale contenute nel Trattato sull’Unione europea, dalle cui disposizioni apprendiamo che l’Unione «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato … su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. 3,§. 3) e promuove lo «sviluppo sostenibile della Terra» (art. 3, §§. 3-4). 

Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono stati invece definiti gli ambiti di competenza dell’Unione in materia ambientale. A tale riguardo il Trattato rileva che le «esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile» (art. 11). Nel TFUE sono stati altresì definiti i profili funzionali della tutela ambientale fondata «sui principi di precauzione, dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”» (art. 191,§. 2, TFUE

In questo contesto ciò di cui abbiamo oggi bisogno è una coerente e dettagliata riforma legislativa diretta a «individuare le modalità con le quali inserire la valutazione degli interessi ambientali nella programmazione di tutte le altre attività pubbliche e di tutti i programmi economici e sociali che vengono proposti e approvati nel circuito decisionale Parlamento / Governo (il modello potrebbe essere quello della Loi Grenelle francese), individuando criteri e metodi del bilanciamento» [13]

 

d) La recente modifica costituzionale

Una riforma Costituzionale di inizio 2022 ha introdotto la tutela dell’ambiente nella prima parte della Costituzione, in particolare il testo recita:

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

Se è vero, come abbiamo scritto, che la giurisprudenza costituzionale aveva già individuato l’ambiente come un bene da tutelare, appare evidente che inserirlo anche espressamente tra i beni tutelati, aggiungere la biodiversità, gli ecosistemi, l’interesse delle future generazioni e la tutela degli animali non può altro che avere un effetto importante sulla futura giurisprudenza costituzionale ed anche sulla lettura costituzionalmente orientata delle norme.

Le perplessità relative alla prima volta che viene modificata la parte iniziale della Costituzione, quella dei principi generali, possono essere superate dal fatto che la norma è stata approvata quasi all’unanimità, dando l’idea che si tratta davvero di un principio generale condiviso da tutti, come deve essere un principio costituzionale.

Si vedrà quale sarà l’evoluzione della giurisprudenza ma non vi è motivo di dubitare che la tutela dell’ambiente potrà solo essere aumentata dall’inserimento di questi elementi nella nostra Carta Costituzionale.

Forse ancora più importante è la modifica dell’art.41, 2° co., Cost.

Per l’art.41 “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recar danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.”

In periodo di liberismo, una modifica costituzionale che pone limiti all’iniziativa economica privata sulla base dell’ambiente e della salute diventa una novità che non è possibile sottovalutare.

Se si pensa ai processi per disastro o inquinamento ambientale, ai processi per omicidi colposi sul lavoro, diventa evidente che la libera iniziativa economica diventerà ben debole argomento ogni qualvolta andrà a scontrarsi con l’ambiente o con la salute dei lavoratori o dei cittadini.

Anche in questo caso gli sviluppi si vedranno in futuro, certamente si tratta di un segnale dell’importanza che ha assunto la questione ambientale, di una presa d’atto che l’ambiente è valore costituzionale riconosciuto a livello internazionale e non vi fosse ragione perché non fosse anche in modo espresso nella Costituzione Italiana. Il riconoscimento di una prevalenza dell’ambiente (e della salute) come valore superiore alla libera iniziativa economica privata, in grado di limitarla, è un elemento in più, importante.

 

 

10.                     ASILO RESPINGIMENTI ED ONG

a) Premessa

Le destre xenofobe e razziste hanno spesso costruito il loro spazio politico e culturale, e le loro fortune elettorali intorno al primato dell’appartenenza nazionale e agli interessi da tutelare contro i “nemici stranieri”.

La formula “prima gli italiani”, del tutto sovrapponibile a quel America First dell’ultra conservatore Trump e, andando indietro negli anni bui del vecchio continente, al Deutschland Uber Alles del nazismo, riscuote successo in Italia come, declinata nei diversi Paesi, a quasi tutte le latitudini.

Si tratta solo dell’ultima tappa di una gara che vede forze oscurantiste, conservatrici e xenofobe, insieme a forze democratiche, impegnate da anni a contendersi uno spazio pubblico costruito intorno alla sottrazione di diritti alle persone di origine straniera.

Una corsa che va avanti da più di venti anni e che ha portato nel nostro Paese ad esempio, ma vale per gran parte dei Paesi europei, a rendere impraticabile l’ingresso regolare agli stranieri sia per motivi di lavoro sia per richiesta d’asilo.

La cultura proibizionista, che favorisce i trafficanti, rende ricattabili e socialmente fragili i lavoratori e le lavoratrici stranieri; caratterizza oramai l’agenda sull’immigrazione, sempre più concentrata sull’esternalizzazione delle frontiere e sui programmi di rimpatrio forzato.

Se le destre hanno così ben interpretato il loro ruolo, da riuscire a dettare l’agenda ai governi, che oramai parlano e programmano attività e politiche su tali temi in maniera quasi ossessiva, partendo dalla criminalizzazione dell’immigrazione, le forze democratiche e di sinistra non sono state, fino ad oggi, in grado di trovare una proposta credibile e una strategia alternativa.

La proposta che vede diretta destinataria l’Unione Europea, per invertire la direzione, è quella di:

  1. Introdurre, attraverso una direttiva, vie d’accesso per ricerca di lavoro, anche autonomo, nonché modalità permanenti, non straordinarie, di uscita dall’irregolarità che tengano conto della condizione di inclusione sociale e lavorativa delle persone;
  2. Riformare, secondo le linee individuate dal documento votato dal Parlamento Europeo in questa legislatura, il Regolamento Dublino, consentendo una ripartizione equa e ragionevole dei richiedenti asilo, a partire dalle esigenze delle persone coinvolte e avendo cura dei territori e dei legami precedenti tra le persone e quei territori;
  3. Chiudere la stagione del “diritto speciale per gli stranieri”, con l’abolizione di ogni forma di detenzione amministrativa legata allo status giuridico;
  4. Trasferire le competenze riguardanti il soggiorno degli stranieri agli enti locali, sottraendole alle forze dell’ordine e al sistema della Sicurezza
  5. Implementare un programma europeo di ricerca e salvataggio e in parallelo un programma di reinsediamento per un numero non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione europea ogni anno.
  6. Interrompere i programmi e gli accordi per il controllo delle frontiere esterne all’UE, soprattutto in paesi come la Libia, l’Egitto, la Turchia, il Niger, il cui effetto è l’aumento dei morti e delle violazioni dei diritti umani, che spesso si traducono in veri e propri crimini contro l’umanità.

 

b) Respingimenti

Norme e principi di carattere nazionale, costituzionale e sovranazionale non possono essere stracciati impunemente, neanche da un governo “forte”. Lo stesso testo unico sull’immigrazione (art. 10 ter) prevede che le persone salvate in mare devono essere condotte nei centri di prima accoglienza e devono essere informate del diritto di chiedere la protezione internazionale, essendo il diritto d’asilo un diritto fondamentale garantito dall’art. 10, comma 3 della Costituzione. Inoltre l’espulsione collettiva di stranieri è vietata dall’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Il Decreto del 4 novembre 2022 - dei Ministeri dell’interno, dei trasporti e della mobilità sostenibile e della difesa - vieta alla nave Humanity1, della ONG SOS Humanity, di “sostare nelle acque territoriali italiane …oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed il precarie condizioni di salute”; analogo decreto è stato adottato la sera del 6 novembre 2022 per la nave Geo Barents, della ONG Medici Senza Frontiere, secondo un metodo che potrebbe ripetersi anche nell’immediato futuro (altre navi con naufraghi a bordo sostano infatti al confine con le acque territoriali).

I decreti sono manifestamente illegittimi in quanto violano numerose norme del diritto internazionale ed interno.

Invocando un generico pericolo per la sicurezza dell’Italia, posto in relazione allo sbarco di naufraghi, impropriamente richiamando l’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione Onu sul diritto del mare, il Governo impedisce la conclusione delle operazioni di salvataggio di naufraghi. L'obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce, infatti, nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. "place of safety")[14].

Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall'Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004), allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Obbligo al quale le autorità preposte, italiane e maltesi, si sono sottratte.

Non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché  tali persone hanno, tra i numerosi altri diritti, quello di presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave.

A ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la Risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d'Europa secondo cui «la nozione di "luogo sicuro" non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.).

Al riguardo, risulta arbitraria quanto approssimativa la distinzione all’interno dei gruppi dei naufraghi che il Governo italiano sta proponendo, come risulta impossibile escludere la situazione emergenziale delle decine se non centinaia di persone a bordo la cui condizione va valutata singolarmente, in ossequio all’art. 19 della Carta del Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che vieta le espulsioni collettive e all’effettivo rispetto dell’art 3 della CEDU e dell’art 4 della CDFUE, nonché  al carattere assoluto del divieto di trattamenti inumani e degradanti (l'art. 15 della Convenzione EDU fa espresso divieto di deroga, persino in caso di guerra o di pericolo pubblico che interessi la nazione). La Commissione Europea che più volte ha richiamato l’Italia, invitandola a «minimizzare la permanenza delle persone a bordo delle navi» (da ultimo il 10 novembre con una nota ufficiale), come peraltro prescrivono il diritto internazionale del mare e il Regolamento europeo n.656 del 2014.

La terminologia scandalosa utilizzata dai rappresentanti del governo per definire i migranti lasciati a bordo (“carico residuale”, “sbarco selettivo”) è un insulto a chiunque possegga un minimo di umanità. Peraltro, l’attività di respingimento del “carico residuale si esporrebbe a una seconda sanzione della Corte Europea, dopo la condanna dell’Italia nella sentenza Hirsi Jamaa c/ Italia del 2012, emessa per la violazione dell’art. 4, protocollo 4 Cedu.

Deve poi essere assicurato alle persone a bordo della nave e in acque territoriali italiane il diritto a chiedere la protezione internazionale in attuazione dell’art. 6 della direttiva 2013/32/UE (direttiva procedure) che obbliga gli Stati membri a garantite un accesso effettivo alla procedura. Si tratta di diritto fondamentale sancito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione, norma declinata anche come diritto di accedere al territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura anche di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. sent. n. 25028/2005), in quanto, come affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 29460/2019), il diritto alla protezione internazionale “è pieno e perfetto” e “il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto” che “nelle forme del procedimento è solo accertato…il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità”.

Ai sensi dell’art 10 ter del D.lvo n. 286/98 le persone giunte sul territorio nazionale a seguito di salvataggio in mare devono essere condotte presso i punti di crisi o nei centri di prima accoglienza, dove sono identificati, è assicurata la prima assistenza e deve essere assicurata l’informazione anche sul diritto a chiedere la protezione internazionale. L’illegittimo tentativo di fare sbarcare esclusivamente alcuni dei naufraghi e respingere indistintamente tutti gli altri al di fuori delle acque territoriali nazionali si configura, oggettivamente, come una forma di respingimento collettivo, vietato dall’art. 4, Protocollo n. 4 della CEDU; attività, quest’ultima, per la quale l’Italia è già stata condannata in passato (sentenza Hirsi Jamaa c. Italia del 2012).

La condotta governativa si pone, altresì, in contrasto con i principi sanciti nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e, in primo luogo, del principio di non refoulement (art. 33). In questa condizione se i comandanti delle navi portassero fuori dai confini italiani i naufraghi potrebbe configurarsi a loro carico, e a carico degli armatori, una responsabilità per avere prodotto, in esecuzione di un ordine manifestamente illegittimo, una grave violazione dei diritti umani.

 

c) Decreto Piantedosi

 

Il Decreto, pubblicato il 21 settembre 2023 sulla Gazzetta Ufficiale, che interviene sul tema dei respingimenti prevede il versamento di una garanzia finanziaria di 5.000 euro da parte dei migranti privi di passaporto che vogliono evitare i centri di permanenza temporanea.

È quanto ogni singolo migrante dovrà versare allo Stato italiano in attesa dell’esito della procedura di richiesta d’asilo, se non vuole essere trattenuto in un centro di permanenza temporanea.

La notizia ha suscitato un’ondata di sdegno. È stato argomentato che la somma richiesta costituirebbe una sorta di “riscatto” per ottenere la libertà, un “pizzo” di Stato. Tuttavia, dovendosi addentrare in una selva legislativa particolarmente oscura, in cui si intersecano fonti legislative nazionali ed europee e atti amministrativi, per poter esprimere una valutazione congrua, occorre fare un po’ di chiarezza sull’origine, sui destinatari, sull’ambito di applicazione del provvedimento.

All’origine del provvedimento c’è una norma del decreto Cutro, l’art. 7 bis (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  procedure  accelerate  in frontiera) che introduce, sulla falsariga della Direttiva “Procedure” dell’Unione Europea, una procedura accelerata, da svolgersi direttamente in frontiera o nelle zone di transito per i richiedenti asilo provenienti da paesi ritenuti “sicuri” (Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia). Si tratta di una procedura finalizzata ad una rapida evasione della domanda di asilo e al rimpatrio immediato. Per evitare il pericolo di fuga è previsto che lo straniero possa essere trattenuto fino ad un massimo di 28 giorni: “qualora il richiedente non abbia consegnato il  passaporto o altro documento equipollente in  corso  di  validità,  ovvero  non  presti idonea garanzia finanziaria.”

Insomma il decreto Cutro, forzando le procedure europee, ha introdotto una forma speciale di detenzione amministrativa per alcune categorie di richiedenti asilo ai quali è riservato un esame sommario della domanda di protezione internazionale, posto che provengono da paesi “sicuri”. Si può sfuggire all’internamento solo in due ipotesi: se gli stranieri consegnano il passaporto, ovvero se prestano idonea garanzia finanziaria. Astrattamente la possibilità di prestare una garanzia finanziaria dovrebbe essere una misura a favore del richiedente asilo che non può o non vuole consegnare il passaporto. Il decreto del Ministro Piantedosi dovrebbe consentire l’esercizio di questa facoltà, ma in realtà la nega, rendendola impossibile.

Infatti l’art. 3 del decreto Piantedosi (Determinazione delle modalità di prestazione della garanzia finanziaria)  prevede:        

  1. Allo straniero di cui all’art. 1, comma 3, del presente decreto è dato immediato avviso della facoltà, alternativa al trattenimento, di prestazione della garanzia finanziaria.  2. La garanzia finanziaria è prestata in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi. 3. La garanzia finanziaria deve essere prestata entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico ai sensi degli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (..)

Secondo questo provvedimento, il tunisino o l’algerino che sbarca a Lampedusa entro tre giorni (il tempo previsto per le operazioni di fotosegnalamento) si deve rivolgere ad una Banca o ad una Assicurazione (mentre si trova rinchiuso nel centro di identificazione) e farsi rilasciare una fideiussione o una polizza fideiussoria: operazione assolutamente impossibile, anzi inimmaginabile. Per eliminare ogni residua possibilità di prestare una garanzia finanziaria, il decreto prevede che la polizza non può essere versata da terzi (come potrebbe fare, per es., un parente residente in Italia che sia titolare di un c/c bancario). Con il decreto Cutro, come applicato da Piantedosi, è stata inaugurata una nuova tecnica normativa: la burla legale. La legge non serve a dare delle disposizioni che devono essere attuate da qualcuno, per perseguire dei fini più o meno legali, ma per sbeffeggiare i soggetti interessati ed ingannare l’opinione pubblica. Tuttavia l’aspetto più scandaloso non sta nella burla sulla garanzia finanziaria, bensì nella procedura di somma urgenza che sacrifica pesantemente la possibilità per il richiedente asilo di far valere il suo diritto alla protezione internazionale, ove sussistente. È infatti previsto che la Commissione territoriale debba decidere entro sette giorni. Contro la decisione è ammesso ricorso nel termine di 14 giorni sul quale il giudice monocratico deve decidere entro cinque giorni con un decreto non impugnabile (cioè non appellabile, né ricorribile per cassazione). In questo modo è stato reso evanescente il diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, e la possibilità di ottenere la tutela giurisdizionale contro i provvedimenti della pubblica amministrazione assicurata dall’art. 113 della Costituzione. 

 

11.                     LA NORMATIVA ANTIFASCISTA

 

a) Premessa

I sistemi costituzionali danno luogo ad architetture complesse e fragili. Accade, dunque, che nel dibattito politico delle liberaldemocrazie possano attecchire ideologie illiberali e antidemocratiche, che alle elezioni repubblicane si presentino – ad esempio – partiti monarchici, e che gruppi organizzati chiedano e ottengano cittadinanza politica, pur tradendo la propria ostilità nei confronti dei presupposti fondativi dell’ordinamento.

È uno dei paradossi della democrazia, chiamata ogni giorno a fare i conti con sé stessa per mantenere fede alla propria identità: ciò, anche quando determinate forze tentino di metterne in luce i nervi scoperti, cercando di piegare le istituzioni e le procedure democratiche ai controvalori propugnati dalle prime.

In questo quadro la categoria politica del fascismo, è sempre attuale e, nel nostro tempo è più attuale che mai, anche se la vicenda storica del fascismo – naturalmente - è morta e sepolta e non può più essere riportata in vita. È ovvio che il fascismo ed il nazismo non torneranno mai più nella forma storica in cui noi li abbiamo conosciuti. I forni di Auschwitz non si metteranno a fumare un'altra volta e non ritornerà più un signore con la camicia nera e la mascella squadrata a prometterci di nuovo l’impero, fra il tripudio della folla. Quegli episodi storici sono nella loro specificità conclusi. Ma possiamo escludere che la mala pianta del razzismo e della discriminazione non tornerà di nuovo a fiorire nel nostro paese, che il flagello della guerra continuerà ad essere bandito dal nostro futuro, come pretende la Costituzione, che il pluralismo sarà rispettato, che il Parlamento non sarà marginalizzato e che non si concentreranno un’altra volta tutti i poteri nella mani di un capo politico, interprete e padrone della volontà popolare?

Il fascismo non è stato solo un evento storico. La parola fascismo è una metafora, essa rappresenta una condizione patologica dello spirito umano nella sua dimensione sociale. In questo senso il fascismo è un fenomeno transtemporale, non è appannaggio esclusivo di un’epoca storica, né di una determinata parte politica. Ci sono delle costanti storiche e psicologiche che si riaffacciano, specialmente nei periodi di crisi; ci sono politiche che costruiscono risposte violente ed autoritarie ai problemi della convivenza umana; ci sono condizioni psicologiche che attivano meccanismi di fuga dalla libertà e spingono gli uomini a liberarsi del fardello delle proprie responsabilità consegnandosi nelle mani di un uomo forte.          Il fascismo è una malattia dello spirito pubblico che, quando si attiva, corrompe la democrazia e corrode le istituzioni democratiche.

E’ vero che la Costituzione italiana costituisce un baluardo contro il ritorno dei disvalori e delle pratiche proprie del fascismo. La Costituzione, stabilendo un recinto inviolabile di libertà individuali e collettive ed organizzando la separazione, la diffusione e la distribuzione dei poteri, rende impossibile ogni forma di dittatura della maggioranza. Ma, proprio per questo la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica. Ridotta all’osso è questa la questione centrale che ha animato i tentativi di grande riforma della Costituzione che sono stati praticati nel tempo.       

Una politica che non riconosca i valori ed i principi fondamentali dell’ordinamento democratico come delineato dalla Costituzione repubblicana, può portare rapidamente all’obsolescenza ed al tramonto della Costituzione, anche a prescindere da modifiche o stravolgimenti formali dell’impianto costituzionale.

Rimane il problema di capire a che punto siamo della notte. Che cosa non ha funzionato nel modello di democrazia prefigurato nella Costituzione repubblicana. Quale sia l’origine del “male oscuro” che corrode la democrazia ed ha avviato una transizione dagli sbocchi indefinibili.

La crisi della democrazia politica in Italia viene da lontano e la degenerazione rappresentata dal Berlusconismo e dal Salvinismo non ne è la causa principale, ma – in un certo senso l’effetto, ovvero lo stadio finale, se non ci sarà una reazione adeguata a questo fenomeno ed alle cause che lo hanno generato.    

 

b) Attualità del pericolo di una involuzione autoritaria di tipo fascista nel nostro paese.

Vi sono sentimenti che, nelle società ricche, traggono origine dall’inconscio collettivo, dal senso delle perduta stabilità, dalla paura del futuro, dal timore di non conservare i diritti o i privilegi acquisiti, e che si esprimono in una ricerca di esclusività, in una esacerbata affermazione di identità, in un’ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in una difesa corporativa del proprio gruppo, o regione, o cortile, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della pelle degli altri.

In questa situazione cresce l’insicurezza, il senso delle precarietà della vita individuale e collettiva ed avanza una sottopolitica che costruisce le sue fortune sulla paura, che mette uomo contro uomo in uno spregiudicato gioco per il potere. Tutte le ultime elezioni politiche hanno dimostrato che organizzare la paura paga in termini di consenso elettorale, in quanto il c.d. “tema della sicurezza”, comprensivo della richiesta di oscure misure nei confronti di Rom e stranieri, è sempre l’atout su cui è fondata la campagna elettorale del centro-destra.

Di fronte alla drammaticità della crisi economica e sociale che il nostro continente sta vivendo e attraversa, e anche alle difficoltà delle istituzioni democratiche ad affrontarla, crescono nei Paesi europei i movimenti neofascisti e neonazisti. Si tratta di fenomeni politici che in taluni casi attraversano il confine della vera e propria eversione.  Alba Dorata, che raccoglie in Grecia un consenso elettorale significativo, si serve addirittura di squadre paramilitari che aggrediscono gli avversari politici e gli immigrati.

Questo fenomeno riguarda anche il nostro Paese.

Il nostro è uno dei Paesi nei quali la crisi economica ha influito maggiormente, aggravando il malcontento, la tensione sociale e le diseguaglianze fra i cittadini. A causa dell’instabilità politica e della profonda debolezza dei partiti non si è ancora giunti a quelle importanti riforme istituzionali ed economiche di cui il Paese ha un estremo bisogno. La crisi e la percezione diffusa di una difficile ripresa alimentano ulteriormente i focolai di rinascita del fenomeno di cui si discute.

Insomma, occorre una grande, collettiva, azione per contrastare un fenomeno che non può essere tollerato, in un Paese che ha subìto vent’anni di dittatura fascista, ha subìto l’autoritarismo e la discriminazione razziale nelle forme più odiose e violente. Una parte fondamentale della suddetta azione deve essere costituita, necessariamente, dall’esclusione dal confronto elettorale di tutti quei gruppi e movimenti politici che sono chiara espressione di un’ideologia in aperto contrasto con i principi testé richiamati.

In particolare si segnala che le norme italiane prevedono financo la sanzione penale per chi tenta la ricostituzione di movimenti fascisti o para-fascisti. Ebbene, è chiaro che si rischia di adottare una politica contraddittoria. Prima della sanzione penale viene la legittima resistenza politica (ed amministrativa) alla pretesa di tali movimenti di partecipare alla competizione elettorale.

Se, infatti, si ammettono liste neo-fasciste alle elezioni, si avvalora l’idea che sarebbe legittima una gestione della cosa pubblica improntata a tali idee. In tal modo, indirettamente, si legittima l’esistenza di un rinato movimento dai contorni fascisteggianti.

In sostanza, non è rilevante che poi tali liste siano o meno idonee a conquistare effettivamente il consenso elettorale. Ciò che più conta è ribadire che, pur in un sistema democratico, ci sono dei limiti, dettati dalla autoconservazione del sistema stesso e dei suoi valori fondamentali.

Se non si procede alla esclusione di tali liste, si ammette implicitamente che tali liste, in caso di vittoria schiacciante, potrebbero trasformare il sistema democratico in sistema autoritario, razzista, omofobo, etc (con lesione dei diritti fondamentali di tutti i cittadini che non hanno voluto quella trasformazione). Trasformazione che, poi, per esperienza storica, diviene irrevocabile. Dunque la lista deve essere esclusa a monte, perché la trasformazione che propugna non è ammissibile, non solo per effetto delle specifiche disposizioni costituzionali che impediscono la ricostituzione del disciolto partito fascista, ma anche in difesa di tutti gli altri diritti costituzionali.

 

c) La normativa in materia

Occorre partire dalla grundnorm, cioè dalla nostra Costituzione che, con la XII disposizione transitoria e finale, stabilisce, al primo comma, che è “vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

I nostri Costituenti hanno vietato non solo la ricostituzione dello storico partito fascista, inteso come un fenomeno storico politico culturale ben riconoscibile, cioè il Partito Nazionale Fascista (d'altra parte il partito fascista era già stato punito con lo scioglimento per mezzo del regio decreto 2 agosto 1943 numero 704), ma anche quella di partiti e movimenti che “sotto qualsiasi forma” professino l'ideologia fascista.

Ora, per comprendere l'importanza della XII disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione, è necessario chiedersi perché i nostri Costituenti l'abbiano inserita nel testo della Costituzione.

In fondo il regime era caduto, già da qualche anno, il Duce era morto e con lui almeno una parte dei suoi gerarchi e sodali; perchè, dunque, inserire questa norma?

Certamente possiamo ritenere che ciò derivi, almeno in parte, dal fatto che la nostra Costituzione è espressione della lotta antifascista; è il prodotto dell'azione e del pensiero di uomini che hanno lottato contro il fascismo  e il nazismo, che sono stati perseguitati, che magari sono stati in prigione per le loro idee, che sono stato partigiani, che hanno combattuto con le armi in pugno il regime fascista, magari che hanno vissuto sulla loro pelle o di quelle di persone a loro vicine le stragi commesse dai nazi-fascisti.

Sicuramente è così. Però non è solo questo.

E a maggior ragione bisogna chiederselo per il fatto che l'introduzione di questo articolo nella Costituzione non è un fatto banale, anche da un punto di vista giuridico; perchè la XII disposizione transitoria e finale è una norma problematica, e lo è perchè si pone, almeno astrattamente, in contrasto con quanto la nostra Costituzione dichiara, statuisce, o perfino celebra, con articoli fondamentali, posti per lo più nella sua prima parte. Ci si riferisce principalmente all'art. 21 la libertà di pensiero e a quel combinato di articoli  (artt.18,19, 39 e 49) che dettano la disciplina della libertà di associazione (in generale, religiosa, sindacale e politica).

La lettura di questi articoli ci chiarisce che in essi si esprime appieno il diritto di associazione e se ne esplicitano in modo esaustivo e non etero integrabile anche i limiti e le eccezioni.

Se consideriamo, ad esempio, l'articolo 18 vediamo che dopo aver espresso il principio generale (“i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione”), la norma indica espressamente i limiti e le eccezione di cui si parlava (“per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale....sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militari”).

Questa della XII disposizione non è un'eccezione alla regola generale; perchè essa stessa è, in fondo, una regola generale.

Ancora, l'importanza della XII disposizione si misura tutta se solo si considera come essa incide su quel particolare diritto di associazione che è la partecipazione al partito politico.

Va considerato, sul punto, che i partiti politici sono associazioni avente rilevanza costituzionale, mediante le quali i cittadini concorrono, con metodo democratico “a determinare la politica nazionale”, come recita l'art. 49 Cost. Dunque si può ben sostenere che se la determinazione della politica nazionale ha molto a che fare con la sovranità popolare che “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, secondo la dizione dell'art. 1, comma 2, Cost., la rilevanza costituzionale del partito politico assume un carattere concreto e fondamentale per il funzionamento della Stato di diritto e, conseguentemente, la regola generale introdotta dalla XII disposizione transitoria e finale, ne diventa una delle colonne portanti.

Inoltre, la ricaduta di questo possibile contrasto coinvolgerà, ovviamente, anche le leggi ordinarie di attuazione di questa regola generale che, a loro volta, si potranno porre in contrasto con le norme della Costituzione che abbiamo citato, e ancor più con la norma della Costituzione che vieta la discriminazione tra le persone, in ragione delle proprie convinzioni politiche cioè l'art. 3, comma 1, che disciplina il principio di uguaglianza formale.

E, ovviamente, laddove questo contrasto si verifichi, come è effettivamente avvenuto anche per la legge (“Scelba”) di attuazione della XII disposizione, si potrà sollevare davanti ad un'autorità giudiziaria la relativa eccezione di costituzionalità di quella norma.

Volendo andare ancora più in profondità, possiamo dire che la XII disposizione è sicuramente una norma volta a scongiurare l'ipotesi di una torsione totalitaria (evidentemente la Costituzione non può contemplare l'ipotesi che tale torsione non venga perseguita dall'interno del sistema quanto per via “rivoluzionaria” o “eversiva”), ma si pone con riferimento a questa funzione in termine di rapporto tra genus e species, nella rappresentazione di quella particolare forma di regime totalitario che è il regime fascista; in questa sua caratteristica essa non va considerata discriminatoria, perchè il suo grado di intolleranza (contro l'ideologia fascista) rappresenta l'unica intolleranza che è concessa alla democrazia, cioè quella contro i sistemi politici e sociali intolleranti (e il nazifascismo lo fu(rono) ampiamente).

Peraltro, si deve considerare che la nostra Costituzione, ha aliunde disciplinato l'ossatura di uno stato di diritto, con lo stabilire e regolare la divisione dei poteri dello Stato e nell'assicurare l'autonomia e indipendenza della Magistratura, oltrechè nel riconoscere (in primis con l'art. 2) i diritti inviolabili dell'uomo, i diritti di libertà, civili e politici, dei singoli cittadini; ossatura che risulta granitica (e che sembrerebbe, dunque, poter prescindere dalla XII disposizione transitoria finale) in ragione del fatto che è Costituzione rigida (art. 138) e ulteriormente garantita dalla norma di “chiusura” del sistema prevista dall'art. 139 (“la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”); norma, quest'ultima, che va interpretata in maniera estensiva, sì da ritenere non soggette a revisione tutte le disposizioni costituzionali relative alla sussistenza dello stato di diritto.

Tutto ciò detto, dobbiamo ancora rispondere alla domanda che ci siamo posti.

Ebbene, alla domanda si può cominciare a rispondere, leggendo il secondo comma della XII disposizione transitoria e finale dove si trova scritto che “in deroga all'articolo 48 (che indica i requisiti per l'elettorato attivo) sono stabilite con leggi, per non oltre un quinquiennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”.

Questa disposizione fa comprendere, senza ombra di dubbio alcuno. che i Costituenti si rendevano perfettamente conto che il fascismo non era morto con la fine di Mussolini.

Essi intesero bene che i vent'anni del regime e la presenza più che ventennale del movimento fascista, non erano, come pensava Benedetto Croce, una parentesi nello stato liberale, un'aberrazione che non avrebbe lasciato tracce dopo il suo crollo (quello della RSI) del1945.

I Costituenti avevano ben presente le piazze piene di cittadini in delirio per il Duce e avevano ben presente la lezione di Piero Gobetti quando aveva parlato del fascismo come autobiografia della nazione.

Con il senno di poi, non possiamo che concordare pienamente con la previsione e la previdenza dei Costituenti e lo possiamo fare in ragione di ciò che ci separa dal 1948, della storia che nel frattempo si è dipanata, senza dimenticare le radici socio culturali del fascismo.

Sul punto, basterà semplicemente confrontare la nostra attualità con quanto indicava Umberto Eco nell'elencare nel suo “il Fascismo eterno”: una lista di caratteristiche tipiche di quello che lui chiamava, appunto l’ “Ur-Fascismo“, o il “fascismo eterno“.

A distanza di quasi cent'anni, possiamo tranquillamente riconoscere che non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo con la storia e la storia ritorna a ricordarcelo.

Non l'abbiamo fatto come popolo, al di là della evidenza di quel consenso di cui si parlava che non può essere dimenticato e delle dinamiche interne alle società di massa e “liquide”, tanto più oggi che viviamo la  crisi delle liberal- democrazie.

La giustificazione che “tutti” dovevano essere iscritti al partito se volevano campare (PNF ossia “Per Necessità Familiari”) ha contribuito a liquefare l'epurazione a tutti i livelli mentre il mito tranquillizzante “italiani brava gente” ha cancellato, da quei “conti”, i massacri nell'Africa coloniale o le atrocità commesse nei Balcani dai nostri compatrioti.

Ma non l'abbiamo fatto, a maggior ragione e fino in fondo, a livello di istituzioni dello Stato.

La continuità dell'ordinamento repubblicano democratico con le strutture della dittatura fascista è stata questione di uomini, anche pesantemente compromessi con il regime, uomini che sono rimasti ai loro posti, che hanno continuato a “servire” la patria.

 

E questo vale anche e soprattutto per la magistratura: per un certo periodo l'organo apicale dell'ordinamento giudiziario è la Corte di Cassazione (almeno sino al 1956 anno in cui entra in funzione la Corte Costituzionale). E ancora nel 1968, tutti i 524 magistrati di Cassazione erano entrati in servizio prima del 1944, il che significa che l’alta magistratura, da cui venivano estratti la maggioranza dei componenti togati del Csm, i presidenti e i procuratori generali delle corti di appello, era ancora esclusivamente di nomina fascista.

Conseguenza certamente legata a questa dato di fatto e la giurisprudenza, aberrante, che si sviluppò in relazione alla normativa finalizzata a sanzionare le condotte criminali fasciste e cioè il decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio 1944 n. 159 e l'interpretazione degli altri strumenti legislativi in vigore nel secondo dopoguerra come l'amnistia “Togliatti”, del 22 giugno 1946, il decreto presidenziale n. 4.

Sul punto si ricordano le interpretazioni accomodanti che furono seguite per scagionare i criminali fascisti e le modalità con le quali le stesse norme venivano interpretate in modo restrittivo nei confronti dei partigiani.

Certamente, si deve considerare le nuove evenienze che si andavano sviluppando: la divisione del mondo in due blocchi e il fatto che il nuovo nemico si chiamava “comunismo”; sicchè, c'era proprio bisogno che l'epurazione non andasse in profondità e gli apparati di provata fede anticomunista rimanessero integri.

Quale esempio più eclatante è possibile ricordare degli “armadi della vergogna”: è fatto storico che nel 1994 il procuratore militare Antonino Intelisano (incaricato di  istruire il processo contro l'ex SS Erich Priebke) rinvenne nella sede della Procura Militare di Roma, un armadio, con le ante rivolte verso il muro, nel quale c'erano fascicoli di decenni prima, "archiviati provvisoriamente", che riguardavano le più importanti stragi nazifasciste del periodo bellico (come l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, delle Fosse Ardeatine, di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto), e tante altre.

Tra i fascicoli anche un documento secret redatto dal comando dei servizi segreti britannici, dal titolo Atrocities in Italy (Atrocità in Italia), con all'interno il frutto di accurate indagini (comprensive di testimonianze) su episodi di violenze commessi nazifascisti, che, al termine della guerra, era stato consegnato ai giudici italiani per essere, poi, come visto, “provvisoriamente” archiviato.

E per tornare alla continuità tra regime fascista e stato liberal democratico, basterà ricordare che, ancora oggi, il nostro codice penale è il Codice Rocco” del 1930 (r.d  n. 1398 del 19 ottobre 1930) e il nostro codice nuovo di procedura penale (istitutivo del modello “accusatorio”, seppur spurio, a scapito di quello “inquisitorio”) è datato 1988, introdotto quasi in concomitanza (tutt'altro che casuale) con la “caduta del muro di Berlino” e più in generale con il crollo del socialismo reale.

Del resto, nel nostro ordinamento, vige ancora il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del  R.D. n. 635 del 18 giugno 1931 n. 773 (e il suo regolamento del 6 maggio 1940 n. 635): vero strumento liberticida del regime fascista e che, non per nulla, fu oggetto della prima sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 1  del 14 giugno 1956) demolitiva dell'art. 113, sulla “stampa”.

Ma la Storia successiva all'entrata in vigore della Costituzione è costellata di riscontri alla previsione dei nostri Costituenti: ed ecco gli innumerevoli tentativi di colpo  di stato da parte di fascisti e neo-fascisti, la stagione della strategia della tensione, con le stragi fasciste e l'utilizzo in chiave anticomunista della manovalanza neofascista anche da parte di apparati dello Stato, con le successive coperture e depistaggi da parte di quegli stessi apparati finalizzati per assicurare poi l'impunità propria e quella dei neofascisti coinvolti.

Oggi, in Italia, dove accade anche che un giornalista vive sotto protezione per le minacce ricevute perchè autore di libri-inchiesta (Paolo Berizzi, autore dell'imprescindibile “Naziitalia. Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista”), i dati della “galassia nera”, i dati recensiti, che si possono reperire, ci parlano (dal 2014 al 2018) di centinaia di episodi riconducibili all'estreme destra (intimidazioni atti di violenza danneggiamenti, attentati, omicidi) e centinaia le persone denunciate[15]

Questi ed altri gruppi facenti parte della “galassia nera” operano da un lato nell'ambito della “politica ufficiale” e dall'altro nel tessuto sociale, soprattutto in favore degli gli strati più deboli della popolazione (italiana), per trovare una legittimazione da parte dell'opinione pubblica.

A titolo esemplicativo del contesto di questo proselitismo, si va dal mondo giovanile e studentesco (Blocco Studentesco); al lavoro, (Sindacato blu); all'ecologia, (“La foresta che avanza”); alla solidarietà (“La salamandra”); alla salute e sicurezza, (“Impavidi Destini”, “Braccia tese”).

Notevole, infine, anche la presenza massiccia sui social network e sul dark web oltre che nelle tifoserie calcistiche (es. “Brigate Gialloblu” del Hellas Verona fondato nel 1971 e si sviluppano tra il richiamo alle Brigate nere mussoliniane e la nascita del Veneto fronte skinhead).

Si mira, in definitiva, alla caduta della pregiudiziale sulle manifestazioni di quella ideologia, la sua normalizzazione e persino l'accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante; vi è, anche, nell'opinione pubblica un atteggiamento di noncuranza con riferimento alle manifestazioni connotate di illiceità in sé del neofascismo. E quando si levano le voci allarmate di chi paventa un ritorno del fascismo, l'atteggiamento sembra quello di chi considera il fenomeno “nero” come qualcosa di residuale, di scarsa importanza e/o inattuale.

Questo il quadro storico che ci divide temporalmente dalla previdente scelta dei nostri Costituenti, la cui avvedutezza è stata, peraltro, recentemente riconosciuta dalla Cassazione che ha considerato la XII disposizione norma sempre attuale dal momento che, “le esigenze di tutela delle istituzioni democratiche non risultano, infatti, erose dal decorso del tempo... frequenti risultano gli episodi ove sono riconoscibili rigurgiti di intolleranza ai valori dialettici della democrazia e al rispetto dei diritti delle minoranze etniche o religiose” (cfr,. Cass. n. 37577/2014).

Tutto ciò, in definitiva, ci dà il senso dell'importanza dell'inserimento nella Costituzione della XII disposizione transitoria e finale che deriva dalla sempre attuale necessità di vigilare sulla presenza in Italia del fascismo che non ha mai smesso di rappresentare un pericolo per le istituzioni democratiche (una forma di Stato totalitario, di polizia, alieno dal riconoscere i diritti di libertà, civili e politici e fondato sull'uso della violenza come strumento di lotta politica).

d) L’attuazione della XII disposizione

Ebbene, Ebbene, non ci rimane ora da considerare in che termini è stata data attuazione dal punto di vista normativo alla XII disposizione. 

Si deve subito dire che la scelta del Legislatore è stata quella di rispondere con una legislazione incentrata sulla sanzione penale.

Innanzi tutto, va richiamata la legge 20 giugno 1952, n. 645, recante “norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale, comma primo, della Costituzione” (c.d. legge Scelba).

Questa legge ha aperto la strada alle successive fattispecie incriminatrici di discriminazione razziale introdotte dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654 (c.d. legge Reale), di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, le cui disposizioni sono state successivamente modificate dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (c.d. legge Mancino), concernente “misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa”.

Con il decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 221, poi, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della l. n. 654/1975 ed all’art. 3 del d.l. n. 122/1993, poi modificato dalla legge Mancino, è stato integralmente trasfuso nelle nuove fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 604-bis e 604-ter nel codice penale, con contestuale abrogazione delle norme originarie.

Per risolvere i possibili casi di interferenza con le disposizioni della legge n. 645 del 1952, le ipotesi di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico o di istigazione a tale attività di discriminazione (art. 604-bis, comma 1, lett. a) o alla commissione di violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (lett. b), previste dalla legge Mancino, sono caratterizzate da una clausola di riserva generale – espressione del principio di sussidiarietà – che ne impone l’applicazione solo nel caso in cui le condotte non siano punite in modo più grave da altra disposizione.

Più di recente, infine, la legge 16 giugno 2016, n. 115 ha dato rilievo penale, attraverso alla previsione di una specifica ipotesi di aggravante, alle asserzioni negazioniste della Shoah e dei crimini contro l’umanità previsti dalla Statuto della Corte Penale Internazionale, prendendo atto delle esigenze e delle spinte della comunità internazionale verso la previsione di forme di tutela penale della “memoria”.

Più specificamente, la legge Scelba (legge 20 giugno 1952, n. 645) chiarisce il perimetro applicativo della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista[16].

Quanto alle ulteriori disposizioni[17], tra le altre vi sono quelle collegate alla “legge Mancino”, dl 26 aprile 1993, n. 122, con norme rilevanti in materia[18] .

Con il decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 221, in attuazione della delega di codificazione penale, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della l. n. 654/1975 ed all’art. 3 del d.l. n. 122/1993, poi modificato dalla legge Mancino, è stato integralmente trasfuso nelle nuove fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 604-bis e 604-ter nel codice penale, con contestuale abrogazione delle norme originarie.

e) Legge Scelba

Negli ultimi anni si è registrato un sensibile aumento dei casi in cui, in  occasione di eventi svoltisi in luogo pubblico o aperto al pubblico, singoli e gruppi hanno dato luogo a manifestazioni che si richiamano esplicitamente al fascismo.

Le relative condotte (saluto romano; chiamata del “presente!”; ostentazione di immagini, vessilli e simboli propri del regime fascista ecc.) non vengono quasi mai impedite dalle Forze dell’ordine e raramente i loro autori vengono identificati, con il risultato che il giudice penale è solo sporadicamente investito della valutazione circa la liceità di tali condotte; a ciò si aggiunga che i differenti tribunali – e talvolta, addirittura, i diversi giudici dello stesso tribunale -  pervengono a conclusioni diametralmente opposte, con ciò precludendo il formarsi di un orientamento giurisprudenziale chiaro e univoco.

Rispetto alle ipotesi di reato previste dalla legge Scelba (n. 645 del 20 giugno 1952), il differente approdo cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità e di merito si spiega con la loro ricostruzione quali reati di pericolo concreto, nel senso che gli stessi possono ritenersi consumati solo se si accerti che la condotta dell’agente ha creato il pericolo concreto di riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Le norme in questione, dunque, non forniscono un’elencazione delle condotte vietate perché le stesse non sono pericolose in quanto tali, ma solo in quanto rendano concreto il rischio paventato, che deve essere accertato sulla base di elementi indiziari o sintomatici la cui valutazione può avere come risultato risposte contradditorie. 

Per tali effetti, la medesima condotta può configurare o meno la “Riorganizzazione del partito fascista” vietata dall’art. XII delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione, e sanzionata dall’art. 1 della legge Scelba, sulla base delle specifiche circostanze di tempo e luogo nonché delle modalità con cui venga posta in essere; è evidente, tuttavia, che i parametri per ritenere sussistente il relativo pericolo siano estremamente labili.

Ad analoghe conclusioni il giudice di legittimità è pervenuto anche rispetto al reato di “Apologia del fascismo”, previsto dall’art. 4 della legge Scelba, e a quello di  “Manifestazioni fasciste”, di cui al successivo art. 5. Più in generale, è stato ribadito che, in ragione delle libertà garantite dall'art. 21 della Costituzione, le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista non sono sanzionabili in sé, e che le istanze repressive sottese alle fattispecie di istigazione e apologia devono armonizzarsi non solo con la libertà di manifestazione del pensiero, ma anche con il principio di offensività, come chiarito dalla Corte costituzionale.

Deve peraltro rilevarsi che le manifestazioni di cui si verte sono spesso promosse da organizzazioni confluiti in veri e propri partiti senza che le pubbliche autorità abbiano adottato alcun provvedimento per pervenire al loro scioglimento e alla confisca dei loro beni, come invece previsto dall’art. 3 della legge Scelba.

 

f) Il saluto fascista tra legge Scelba e legge Mancino

Appare poi urgente e necessario un intervento giurisprudenziale, in tema di saluti fascisti e simili.

Come noto, un nuovo modo di guardare l'applicazione della legge penale si è fatto strada a livello europeo (vedasi Corte di Giustizia europea Sez. I, del 11/06/20) con ricadute anche nel nostro sistema giudiziario (vedasi caso “Contrada”, CEDU Sez. IV , del 14/04/15),  affermando che la legittimità della sanzione penale è legata alla prevedibilità giurisprudenziale.

Se così è, occorre un orientamento chiaro in tema di punibilità della manifestazione pubblica di matrice fascista. In particolare occorre una chiara indicazione nell'esegesi logico-giuridica rispetto a saluti fascisti, labari della RSI, svastiche, fasci littori, “Duce Duce” e  altre amenità di tale segno.

Dopo diversi decenni di tortuosità ermeneutiche sul punto, restano in piedi due orientamenti contrastanti.  Di tale contrasto sono manifestazione due sentenze della I Sez. della Corte di Cassazione n. 3806/2022, udienza del 19/11/2021 e n. 7904/2022 udienza del 12/10/21.

Brevemente i fatti.

Nella sentenza numero 7904 del 2022 udienza 12 ottobre 2021, prima sezione penale della Corte di Cassazione, si trattava di una cerimonia commemorativa dei Caduti della Repubblica Sociale Italiana all'interno del Cimitero Maggiore di Milano del 25 Aprile 2016, in cui alcuni soggetti compivano manifestazione usuali del disciolto partito fascista quali la chiamata del presente e saluto romano.

Nel primo grado di giudizio il Tribunale di Milano, con sentenza del 30 aprile 2019, qualificava i fatti nell'articolo 5 della legge Scelba assolvendo gli imputati perché il fatto non sussiste, dal momento che nel fatto non si sarebbe ravvisata una concreta idoneità delle condotte a determinare il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista. La Corte d'Appello di Milano, il 22 novembre 2019, nel ripristinare l'originaria qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'articolo 2 del decreto legge n 122 del 1993, affermava la responsabilità degli imputati.

La  Suprema Corte, nella sentenza menzionata,  annulla senza rinvio la sentenza della Corte d'Appello perché il fatto non sussiste.

Al contrario la sentenza della Cassazione, sezione prima, numero 3806 del 2022 udienza 19 novembre 2021, confermava la sentenza di condanna della Corte d'Appello di Milano che, in totale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 13 giugno 2019, affermava la responsabilità penale degli imputati ai sensi dell'articolo 2 del decreto legge numero 122 del 1993; costoro, nell'ambito di una pubblica manifestazione commemorativa, manifestavano per i caduti della rivoluzione fascista  coincidente con anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, iniziativa promossa dall'associazione Dharma Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale e della Associazione Nazionale Arditi d'Italia. 

La divergenza emersa dal primo e secondo grado aveva ad oggetto la rilevanza penale della condotta e in particolare, ancora una volta, la questione di diritto se il rituale sopra descritto, lettura dei nomi dei Caduti cui seguiva la risposta del presente con conseguente saluto romano, fosse qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice di cui all'articolo 2 del  legge numero  205 del 1993 oppure se ricadesse piuttosto sotto la legge Scelba

Ebbene cominciando dalla prima sentenza n. 7904/22, la decisione della Corte di Cassazione affronta il problema della plurima riqualificazione giuridica dei fatti in base alla lettura della nozione di specialità di cui all'articolo 15 del cod. pen.

 

Sul punto scrive la Cassazione di ritenere del tutto impropria l'adozione, da parte del Giudice di merito, nel caso in esame, della categoria dogmatica della specialità di cui all'articolo 15 del codice penale[19].

Ma il Collegio della Suprema Corte va anche oltre nella sua analisi o “chiarimento” demolitivo perchè dapprima richiama, la sentenza della Cassazione, sempre prima  sezione, n. 21409 del 27/3/2019 così massimata: “il cosiddetto “saluto romano” o “saluto fascista” (nella specie accompagnato dalla espressione “presenti e ne siamo fieri”) è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni gruppi indicati nel d. l. n. 122 del 1993 ... ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale etnico”; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'articolo 2 del citato d.l”, aggiungendo che “nella motivazione di tale decisione si afferma ….che “il saluto fascista” ben può rientrare nella previsione incriminatrice di cui all'articolo 2 d. l. n. 122 del 1993 trattandosi di una <manifestazione gestuale che rimanda alla ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e intolleranza>,  il tutto in una dimensione di pericolo astratto.  Vengono citate a sostegno della assunto, Sez prima n. 25184 del 4.3.2009, ... e Sez. III n. 37390 del 10 luglio 2007....”

 In seguito, chiarendo la propria contraria valutazione, viene scritto in sentenza che “il Collegio esprime dissenso verso un simile inquadramento delle condotte punibili, atteso che nelle decisioni di cui sopra non viene esaminato il profilo - da ritenersi ineludibile - della inerenza delle manifestazioni o gestualità ad associazioni o gruppi attivi e presenti nella realtà fenomenica attuale, cui si riferisce la disposizione incriminatrice in modo espresso (... propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 3 legge n. 654 del 1975)  gruppi che vanno previamente identificati, allo scopo di comprendere se si tratti di aggregazioni umane che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali etnici nazionali o religiosi. Ciò in aderenza ai principio di tassatività delle norme incriminatrici e necessaria corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta”.

La conclusione di quanto argomentato, porta a concludere la Suprema Corte nel senso di sottolineare che “nel caso in esame, il profilo descrittivo dell'accusa e la stessa attività istruttoria svolta nei due gradi di giudizio di merito hanno inquadrato non già la ascrivibilità del gruppo “Lealtà e Azione” (pur indicato nella contestazione) al novero dei gruppi “vietati” ai sensi dell'articolo 3   l. n. 654 del 1975, quanto incentrato la ricostruzione sull' avvenuto utilizzo delle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, in un contesto innegabilmente commemorativo dei Caduti della RSI. Ne deriva la considerazione di un corretto inquadramento giuridico della fattispecie nei termini espressi dal Tribunale di Milano ai sensi dell' art. 5 l. il n. 654 del 1952, con presa d'atto dell'assenza di profili in fatto valorizzabili in chiave di punibilità, per assenza del pericolo concreto di ricostituzione del disciolto partito fascista, profili non apprezzati nemmeno dal giudice di secondo grado  in virtù della - illegittima, per quanto finora esposto - operazione di riqualificazione del fatto”

Ebbene, “in direzione ostinata e contraria” la sentenza, n. 3806 sempre della prima sezione; in essa dapprima si chiarisce che “la divergenza emersa dal primo e secondo grado ha per oggetto la rilevanza penale della condotta cioè la questione di diritto se il rituale … lettura dei nomi dei Caduti cui seguiva la risposta del presente con conseguente saluto romano,  sia qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice di cui all'articolo 2 del  l. n.  205 del 1993 oppure se ricada piuttosto sotto la legge Scelba”.

Sul punto nella sentenza vengono, poi, descritti i rapporti tra le condotte di cui all'art. 2  l. n. 205 del 1993 e articolo 5 l. n. 645 del 1952, specificando che sussiste un'ipotesi di specialità ex articolo 15 del cod. pen. della seconda fattispecie legge Scelba rispetto alla prima legge Mancino.

Il Collegio fornisce un'approfondita motivazione scrivendo che “va innanzitutto evidenziato che il legislatore quando è intervenuto nel 1993 ... ha chiaramente mostrato di voler introdurre nell'ordinamento l'articolo 2 della l. n. 205 del 1993 mantenendo espressamente in vigore le previsioni della legge Scelba, il cui testo normativo è stato contestualmente emendato e aggiornato alle nuove esigenze punitive, ferma restando la apparente omogeneità delle condotte sanzionate, incentrate sul compimento di atti esteriori simbolici propri dei gruppi che propugnano le idee vietate”.

Infatti l'articolo 4 l. n. 205 del 1993 ha espressamente sostituito il secondo comma dell'articolo 4 della l. n. 645 del 1952, mantenendo in vigore entrambi i testi normativi con la “consapevolezza che, alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la condotta vietata dalla legge Scelba richiede altresì uno specifico rischio che, invece, non è richiesto dalla fattispecie generale di cui all'art. 2 l. n. 205 del 1993.

L'art. 2 della l. n. 205 del 1993, continua il Collegio, è in effetti la fattispecie generale che sanziona le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, dei simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano idee discriminatorie: le medesime condotte sono sanzionate dalla art. 5 l. n. 645 del 1952,  ma soltanto allorquando  si ravvisa quel particolare pericolo concreto che attiene alla riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Del resto in disparte l'elemento specializzante previsto dalla legge Scelba le due fattispecie sono identiche dal punto di vista sanzionatorio come pure sono del tutto sovrapponibili le condotte incriminate”.

Partendo da questi presupposti, la Suprema Corte in questa sentenza afferma che “ciò che rileva per selezionare le fattispecie alla luce del principio di specialità di cui all'articolo 15 cod. pen. è la <intenzione del legislatore il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'articolo 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare....  La ratio  della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta da attuare la disposizione XII della Costituzione. Il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione> ( Corte Costituzionale sentenza n. 74 del 1958)”.

Evidente, a questo punto, che la differenza sostanziale che riguarda i due approdi giurisprudenziali concerne la circostanza che il richiesto pericolo di ricostituzione del partito fascista non sarebbe, secondo quanto argomentato nella sentenza n. 3806/22, un aspetto interpretativo della norma quanto un elemento precipuo e caratterizzante la fattispecie contenuta nella legge Scelba[20].

Per la Corte di Cassazione, in definitiva, fu corretta la qualificazione normativa dei fatti addebitati  agli imputati,  essendo ai medesimi contestato di aver compiuto delle manifestazioni esteriori simboliche ed evocative del regime fascista, da qualificarsi alla stregua dell'art. 2 legge n. 203 del 1993, non essendo stata contestata l'idoneità a costituire un pericolo per la ricostituzione del disciolto partito fascista che avrebbe piuttosto configurato la violazione dell' articolo 5 legge numero 645 del 1952.

 

Dopo la lettura di queste due sentenza della Suprema Corte, come si diceva prima, ci si deve aspettare che la querelle continui, con nuovi capitoli e canoni interpretativi che generino ulteriore disorientamento negli interpreti oltre a possibili sacche di impunità in relazione alla normativa di attuazione della XII disposizione, oppure che le questioni più dibattute siano affidate SSUU, o ancora che il Legislatore introduca norme chiare e semplici come quelle che sono state inserite nelle proposte di legge di iniziativa popolare e parlamentare, ma fino ad ora sempre disattese.

Da parte nostra auspicheremmo che la lettura della normativa che viene esplicitata dalla sentenza n.3806/22, venisse implementata da una considerazione in ordine alla fattispecie di cui all'art. 5 della legge Scelba, con riferimento alla necessità del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista di cui alla sentenza n. 74/1958 della Corte Costituzionale.

In particolare, noi riteniamo che la manifestazione fascista, di qualunque tipo essa sia, costituisce di per sé un pericolo per lo Stato democratico fondato sulla Costituzione repubblicana perchè intrinsecamente finalizzata alla ricostituzione del partito fascista, mentre la concretezza di tale pericolo deriva esclusivamente dalla valutazione del contesto pubblico, cioè al momento e ambiente, in cui essa si verifica.

In questi termini, anche la possibile obbiezione di violare il diritto di cui all'art. 21 Cost., sarebbe infondata, sulla scorta di quanto più volte statuito dalla giurisprudenza e cioè che il diritto alla libera manifestazione del pensiero non può giustificare atti o comportamenti che, pur se esternazione di proprie idee e convinzioni, siano lesivi di altri principi di rilevanza costituzionale e dei valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno e internazionale.

Sul punto, è stato scritto, ad esempio, che tutte le forme di discriminazione razziale costituiscono anche violazione dell'applicazione del fondamentale principio di uguaglianza indicato nell’art. 3 Cost., “sicché è ampiamente giustificato il sacrificio del diritto di libera manifestazione del pensiero”.

Si è altresì specificato che le idee assumono portata di discriminazione e odio razziale quando contengono “il germe della sopraffazione od enunciazioni filosofico-politico-sociali che conducano a discriminazioni aberranti col pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione. La diffusione di tali ideologie produce la lesione della dignità dell’uomo e delle condizioni di pacifica convivenza democratica, fondate sulla reciproca tolleranza fra popolazioni di differente cultura ed etnia” (Cass., Sez. 1, n. 3791 del 30/09/1993, Freda, in CED, Rv. 196583)

Concetti questi espressi anche a livello di Corte europea dei diritti dell'uomo che più volte ha sentenziato che non può essere invocato l'art. 10 della convenzione che statuisce il principio di libertà di pensiero, da chi compie un atto che mira alla distruzione dei diritti  e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione medesima, abusandone, in base all'art. 17 della Convenzione europea (ad esempio il caso della sentenza del 21 ottobre 2015 riguardava un ingiuria pubblica aggravata dalla componente razzista).

Tutto ciò, naturalmente, ci porta a concludere che la mancata introduzione di norme chiare nel sanzionare la manifestazione pubblica di matrice fascista derivi solo ed esclusivamente da motivi e volontà di natura politica.

g) Limiti alla propaganda politica

Una recente sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (n. 447/2019 del 18 aprile 2019.) ribadisce l’attitudine dei principi fondamentali a conformare direttamente la funzione pubblica, e rammenta l’intensa correlazione sussistente fra diritti e doveri nella trama costituzionale.

La rappresentante piemontese di una formazione della destra extraparlamentare chiedeva al comune di Rivoli l’assenso a collocare un gazebo – per ragioni di propaganda politica – nella via cittadina intitolata a due giovani partigiani, i fratelli Arduino e Agostino Piol (quest’ultimo insignito della medaglia d’oro al valor militare).

Alcuni mesi prima il locale consiglio comunale aveva vincolato la giunta a sollecitare – nei riguardi di tutti gli aspiranti concessionari di suolo pubblico – la formalizzazione di una dichiarazione, attestante il ripudio del «fascismo» e del «nazismo», nonché l’adesione «ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo».

L’interessata si impegnava per iscritto a «riconoscersi nei valori della Costituzione, [a] non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, [a] non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio», così come «a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico».

L’omissione di ogni riferimento alla Lotta di Liberazione, tuttavia, induceva l’amministrazione a ritenere incompleta – e, dunque, inadeguata – la produzione dell’istante, e comportava il rigetto della richiesta.

Ne scaturiva un contenzioso giudiziario, definito dalla seconda sezione del succitato Tribunale con la decisione n. 447 del 18 aprile 2019.

La pronuncia si distingue per la cristallina riaffermazione di alcuni capisaldi dell’intelaiatura costituzionale, confrontandosi con l’estensione dei diritti di libertà e il mosaico assiologico della Repubblica.

La premessa del percorso decisorio è data dall’affermazione – compiuta con provvidenziale franchezza – della limitatezza dei diritti fondamentali.

Soltanto a una narrazione malaccorta – ancorché disgraziatamente fortunata – le situazioni giuridiche enunciate in Costituzione possono apparire incondizionate. Ma, se così fosse, presto o tardi la loro incontenibilità ne snaturerebbe l’essenza, autorizzando la tirannia di alcune a discapito di altre.

L’intera evoluzione del discorso sui diritti fondamentali è permeata dalle esigenze del bilanciamento: non a caso, una feconda parte dell’elaborazione pretoria – riveniente sia dai giudici comuni sia dalla Consulta – affida al canone di ragionevolezza l’armonizzazione delle molteplici istanze emergenti dalla quotidianità.

La composizione reciproca dei diritti di matrice costituzionale ambisce, pertanto, a scongiurare il rischio della disgregazione delle fondamenta dell’ordinamento, verosimilmente scaturente dall’ipotesi d’indiscriminata prevalenza di un diritto su quelli rimanenti: nella consapevolezza di come gli assolutismi giuridici non possano trovare asilo all’interno del perimetro costituzionale.

Ciò vale vieppiù per la libertà di manifestazione del pensiero (politico), pure invocata dalla ricorrente a sostegno della denunziata antigiuridicità del provvedimento comunale da lei avversato.

Operando una sintetica ma esaustiva ricognizione dei principali snodi normativi individuabili in materia, il Tribunale amministrativo puntualizza la fallacia dell’argomento a mente del quale la libertà d’esternazione e propaganda di cui all’art. 21 della Costituzione legittimi ogni forma di proselitismo politico, e sottragga alla pubblica autorità il compito di saggiarne – sebbene estrinsecamente – la consonanza all’assetto valoriale scolpito in Costituzione.

«I valori dell’antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, […] perché sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo», precisa il Collegio.

È bene sottolineare come la motivazione della sentenza riposi non già su considerazioni moraleggianti bensì su specifici addentellati positivi – fra i quali la XII disposizione transitoria e finale della Carta, e l’art. 1, legge n. 645/1952 – la cui lettura circolare consente al Tribunale di esplorare i margini entro i quali si posiziona la libertà in discorso, incompatibile – come osservato dalla pronuncia – con la denigrazione dei «valori della resistenza».

Per questa via, la statuizione perviene al proprio passaggio baricentrico.

Il generico richiamo all’osservanza della Costituzione – quand’anche apertamente professato dalla richiedente – si dimostra apparente, insincero e stilistico, laddove deliberatamente mutilato della sua naturale conclusione: la condivisione sostanziale del significato ascrivibile alla Lotta di Liberazione, evidentemente invisa all’interessata e conseguentemente taciuta nella sua dichiarazione d’intenti.

Il giudice amministrativo rimarca, in proposito, come «Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica».

 

h) La Lista CasaPound

Il movimento CasaPound ha spiccate caratteristiche di tipo fascista.

In primo luogo, sono gli stessi esponenti di CasaPound a definirsi fascisti. Sono numerose le dichiarazioni e le interviste rilasciate dagli attivisti nelle quali i medesimi si qualificano come fascisti, dicono di essere ispirati da ideologia e personalità fasciste, ed elogiano le politiche attuate nel ventennio fascista[21].

In secondo luogo, si deve sottolineare come tanto a livello nazionale, quanto a livello locale (e nello specifico ad Ostia, dove si terrà la competizione elettorale che interessa in questa sede), gli esponenti di CasaPound si siano resi colpevoli di numerosissimi casi di violenza.

Si veda, ad esempio, il doc. 1, nel quale si rende noto che tra il 2011 e l’inizio del 2016 (l’articolo è del 4 febbraio 2016) sono stati arrestati ben 20 fra militanti e simpatizzanti di Casapound. Nello stesso periodo i denunciati sono stati 359. Nei 106 scontri avuti con gli "antagonisti" si sono rimasti feriti (in alcuni casi anche gravemente) ben 24 attivisti di entrambi i fronti.

In questa sede appare opportuno segnalare che moltissimi episodi di violenza hanno interessato proprio la zona di Ostia[22],

Quanto sopra è confermato dal programma ufficiale del movimento Casa Pound[23]

In primo luogo appare molto chiaro l’art.15 del programma:

Democrazia” è stato, fino ad oggi, il nome di una truffa. Se i politici sono camerieri dei banchieri – come accade oggi – significa che la “sovranità popolare” viene svuotata in favore dei poteri forti di tipo economico, criminale, confessionale o sovranazionale. I centri decisionali per eccellenza, del resto, oggi sono concentrati in istituzioni e potentati non elettivi e puramente castali. Noi riteniamo tuttavia che possa esistere un'altra forma di democrazia che sia organica e qualitativa. Democrazia come partecipazione di un popolo al proprio destino. Momento cruciale della politica, posto che per noi la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità”.

Quest’ultima frase (“la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità”) è una citazione mussoliniana.

La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino” è invece tratta dal saggio Il terzo Reich di Moeller Van Der Bruck.

Il medesimo articolo del programma propugna la “Sostituzione del Senato con una Camera del lavoro che garantisca la rappresentatività armonica di tutte le categorie produttive e lavorative” in assonanza con la Camera dei fasci e delle corporazioni.

Nel programma si ravvisano alcune inequivocabili affermazioni di stampo fascista:

Nella Introduzione si legge “Lo Stato che vogliamo è uno Stato etico, organico, inclusivo, guida e riferimento spirituale della comunità nazionale, uno Stato che torni a essere un fatto spirituale e morale”…. Noi vogliamo un'Italia libera, forte, fuori tutela, assolutamente padrona di tutte le sue energie e tesa verso il suo avvenire. Un'Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana.”.

Dall’art. 2 “La dittatura del libero mercato, le politiche miopi e servili dei vari governi sin qui succedutisi, lo smantellamento dello stato sociale creato durante il Fascismo, obbligano gli italiani a subire la disoccupazione, la precarietà, la proletarizzazione e l’immigrazione forzata e incontrollata”.Si propone dunque  “Politica autarchica integrata nell’area europea”.

Dall’art. 4 “Rifondazione culturale dell’Umanesimo del Lavoro, secondo l'ispirazione fondamentale di Giovanni Gentile” (ndr ministro dell’istruzione nei governi fascisti)

Dall’art.12 “In campo culturale proponiamo: – Creazione di un Ente nazionale di cultura che coordini l'intera produzione culturale nazionale in ogni ambito e settore”.

Dall’art.13 “Estirpazione del lobbismo e della politicizzazione interna alla magistratura”

Dall’art. 14 , “Contro la sottomissione nazionale, proponiamo: …Ripristino della geopolitica degli “anni Trenta” verso il Mediterraneo e l’Oceano Indiano” (ndr la geopolitica ‘anni trenta’ nel mediterraneo portò, tanto per dirne una, all’invasione dell’Albania nel 1939).

Dall’art. 14  “L’Italia non deve avere limitazioni su nessun sistema d’arma: dalle portaerei alle armi nucleari”.

Insomma, sebbene il programma eviti abilmente gli eccessivi richiami espliciti al fascismo, abbondano i riferimenti ed i rimandi alle parole d’ordine proprio del regime mussoliniano e la critica al sistema democratico.

In base alle norme vigenti, quindi, la lista di CasaPound non può essere ammessa alla competizione elettorale.

 

i) L’esclusione della lista

Il potere di ricusare la lista che viola i precetti costituzionali (e della normazione primaria applicativa del precetto costituzionale, sopra richiamata), spetta alla commissione elettorale.

Le istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature, elaborate dal Ministero dell’Interno nell’anno 2017, in relazione in particolare all’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale, prevedono:

3.4.4. Esame dei contrassegni di lista

La commissione elettorale circondariale dovrà procedere, poi, all’esame dei contrassegni di lista.

La commissione dovrà ricusare:

(…)

  • i contrassegni in cui siano contenute espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole «fascismo», «nazismo», «nazionalsocialismo» e simili), come tali vietate a norma della XII disposizione transitoria e finale, primo comma, della costituzione e dalla legge 20 giugno 1952, n. 645”.

Su questo specifico aspetto si è pronunciato in termini chiarissimi il Consiglio di Stato, con la sentenza della sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, nella quale ha sostenuto: “il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’articolo 49 della Costituzione, e quello di accesso alle cariche elettive, ex articolo 51 della costituzione, trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere e democratiche dinamiche. Va soggiunto che l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teleologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione di un’associazione vietata, ma deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista.

Tale essendo il quadro costituzionale entro il quale si iscrive la disciplina che regola il procedimento elettorale e che fissa i poteri delle commissioni elettorali, si deve ritenere che gli articoli 30 e 33 del D.P.R. n. 570/1960 fissino i casi di esclusione e di correzione dei contrassegni e delle liste elettorali presupponendo implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XII disposizione di attuazione e transitoria della costituzione. In altri termini la normativa in parola, nello stabilire i casi di ricusazione dei contrassegni e delle liste, si riferisce a situazioni in astratto assentibili sul piano della superiore normativa costituzionale senza fungere da garanzia per situazioni già vietate, in via preliminare e preventiva, dall’ordinamento costituzionale. L’impossibilità che il movimento o l’associazione a cui si riferisce il simbolo o la lista partecipi alla vita politica postula quindi, in via implicita ma necessaria, il potere della commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento giuridico.

Dalla sopramenzionata sentenza emerge quindi un dato fondamentale.

Non solo il simbolo può essere ricusato dalla commissione, ma la lista in sé, laddove faccia capo ad un movimento o associazione di stampo neofascista.

Infatti la norma , nel disciplinare l’ammissione della lista presuppone “implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XII disposizione di attuazione”.

Il potere di ricusazione della commissione si estende alla valutazione del presupposto di conformità alle norme costituzionali della lista. E’ attribuito quindi “in via implicita ma   necessaria, il potere della commissione di ricusare la lista”.

 

 

12.                     DEMOCRAZIA DIGITALE

 

a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale

“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. Ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo”: a distanza di quasi mezzo secondo da questa frase, pronunciata da Italo Calvino durante un’intervista per “Mondoperaio”, è lecito domandarsi cosa avrebbe pensato il suo autore della rete - e dei social in particolare- a cui ciascuno di noi dedica il massimo del tempo della propria vita moderna.

La lettura cartacea ha repentinamente lasciato il passo a quella digitale, allargando indubbiamente i nostri confini e le nostre conoscenze ed entrando sempre di più, sempre di più, nel nostro quotidiano. Il web 3.0 - ossia quello inclusivo dei walled garden dei social network – ci ha alleggerito (sic!) la vita fornendoci - brevi manu - le notizie direttamente all’interno dei social stessi senza doverle più andare trovare singolarmente, intenzionalmente e faticosamente altrove. Siamo sempre connessi e lo saremo sempre di più, specie grazie a buona parte del recovery plan dedicato al digitale. Il passaggio dalla scarsità all’abbondanza delle informazioni è stato repentino, ingrassando oltremodo la nostra mente affetta da una bulimia del sapere; non riusciamo più a comprendere, ad assorbire, a valutare e a decantare. Tale condizione ci ha drogati (in)consciamente rendendoci tuttologi del sapere: siamo diventati medici, avvocati, politici, chef, scienziati, giudici, comodamente dal divano di casa, elargendo tutto il nostro sapere sconfinato attraverso i polpastrelli di una mano.

Questo contributo intende esplorare “il mondo nuovo della rete” alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali e disposizioni normative, nel tentativo di predisporre una “cassetta degli attrezzi” che abbia una fusa valenza su due versanti: tutela degli utenti e responsabilità delle piattaforme.

b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa

La libertà dell’informazione- quale punto di contatto tra le libertà costituzionalmente contenute nell’articolo 15 e 21 della Costituzione- ha conosciuto nella prima età della rete la sua massima ed estesa espressione. In tale formula comunicativa le due libertà (manifestazione del pensiero e forma di comunicazione) si sono, per la prima volta, unite in maniera indistinta a differenza del passato, in cui a ciascun mezzo di comunicazione corrispondeva ad un servizio ben indentificato. Ciò è reso possibile grazie al processo di convergenza crossmediale, che ha abilitato ciascuno di noi a utilizzare un unico mezzo (la rete) per la realizzazione di infiniti servizi (posta elettronica, chiamate, messaggi, video, condivisione di contenuti).

Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno di svolta di tale processo, a causa del forzato isolamento domestico dettato dalla pandemia. I dati di utilizzo di internet in Italia rilevano che, nel mese di settembre 2020, ben 42 milioni di utenti medi giornalieri hanno navigato in rete per un totale di 59 ore mensili a persona (cfr. il documento “Le infrastrutture di comunicazione mobile e la banda ultralarga” realizzato dal Servizio Studi della Camera dei deputati in data 27 gennaio 2021[24]).

Qualcosa in questi ultimi anni è stato compito per consentire lo sviluppo della banda ultralarga: nuove previsioni per la semplificazione delle procedure relative al dispiegamento delle reti regole (ad opera del d.l. 135/18 che ha modificato il d. lgs. 33/16), maggiori poteri attribuiti ad Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) sulla separazione funzionale e volontaria relativamente alla fornitura all'ingrosso di determinati prodotti di accesso, con specifico riferimento alle infrastrutture di rete, specifiche misure di semplificazione per il dispiegamento delle reti (d.l. 76/20)- come ad esempio la previsione della SCIA per effettuare gli interventi di scavo, installazione e manutenzione di reti di comunicazione in fibra ottica– e della fibra in particolare presso gli istituti scolastici e ospedali (d.l. 183/20).

Al contempo, resta indubbiamente alto il tasso di divario digitale “infrastrutturale” del nostro paese rispetto agli obiettivi prefissati dall’Unione europea nella Strategia nazionale per la banda ultralarga. La percentuale italiana di connettività ad almeno 100Mbp/s per il 2020 è ben al di sotto dell’obiettivo prefissato dell’85% (siamo ancora al 25% contro una media UE del 60%); così come siamo ancora lontani dal garantire a tutti i cittadini, sempre nel 2020, una connessione a banda larga garantita a 30Mbp/s (al 60% contro il 77% della media europea).[25] Come ha ricordato il Commissario Antonello Giacomelli «per l’Italia e il governo è l’ora di un nuovo Piano Bul, perché siamo fermi a quello del 2015, risorse comprese, e nel frattempo molto è cambiato. C’è una risposta da dare sul modello per le aree grigie, ci sono novità straordinarie come il 5G, dove l’Italia è stata la prima sulla sperimentazione della rete legata al posizionamento dei servizi in collaborazione con università e imprese. Ora la strategia complessiva va tarata sul futuro. Il Recovery Plan è un’occasione come base di partenza, ma non è una strategia sulla banda ultralarga»[26]

Nell’annus horribilis la Commissione europea ha pubblicato Comunicazione "Bussola digitale 2030: la via europea per il decennio digitale", che ha definito, tra gli altri, anche gli obiettivi di connettività per l'anno 2030, prevedendo due importanti obiettivi: da un lato garantire una connettività di almeno 1 Gbps per tutte le famiglie europee e dall’altro realizzare una piena copertura 5G in tutte le aree popolate. A distanza di appena un anno, la Commissione ha adottato una nuova versione della comunicazione, per conseguire una trasformazione digitale dell’Europea entro il 2030 strutturata su quattro punti cardinali: (1) cittadini dotati di competenze digitali e professionisti altamente qualificati nel settore digitale[27], (2) infrastrutture digitali sostenibili, sicure e performanti[28], (3) trasformazione digitale delle imprese[29] e (4) digitalizzazione dei servizi pubblici[30].

Dall’analisi degli ultimi dati dell’Osservatorio sulle Comunicazioni dell’Agcom[31]emerge che, a fine settembre 2020, nella rete fissa, gli accessi complessivi si siano ridotti di circa 130 mila unità rispetto al trimestre precedente e di 390 mila unità a confronto del settembre 2019. Parallelamente, è stato riscontrato un cambiamento delle tecnologie utilizzate: gli accessi alla rete fissa in rame sono passati dall’85% del settembre 2016 al 39% del settembre 2020% (con una flessione di 9,6 milioni di linee); nello stesso periodo c’è stato un importante aumento degli accessi tramite tecnologie qualitativamente superiori: FTTC +7,06 milioni di unità, FTTH +1,16 milioni e FWA (+ 610 mila).

Per quanto concerne la comunicazione mobile. L’Autorità ha certificato la presenza di 104 milioni di sim attive a settembre 2020 (con una flessione su base annua di circa 220mila unità), con una crescita di 2,8 milioni di sim M2M e una riduzione di 3 milioni di sim “solo voce” e “voce+dati”.

Dunque, da un punto di vista strettamente tecnologico la connessione attualmente utilizzata degli italiani è in gran parte fibra misto rame, per la linea fissa, e 4G per quella mobile. Se l’Italia ha attraversato il lock-down con tali dotazioni infrastrutturali potrà continuare così fino al 2030 “anno obiettivo” della connessione unica ad 1 G/bit al sec per il fisso e del 5G per tutti?

c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale

Si ricordi, al riguardo, che tra un anno esatto (30 giugno 2022) il nostro paese, contestualmente al resto d’Europea, avrà il suo secondo switch off (il primo, come molti di voi ricorderanno avvenne tra il 2010 e il 2012 con il passaggio dalle trasmissioni televiste analogiche a quelle digitali), ossia il 50% delle attuali risorse frequenziali attualmente impiegate dagli operatori di rete televisivi passerà agli operatori di comunicazioni elettroniche per “allargare” lo spazio del 5G[32].

La ragione risiede dal cambiamento delle abitudini e dell’uso degli utenti dello smartphone: terzi del consumo di traffico su reti mobili è infatti rappresentato da video, quota destinata ad ampliarsi al 77% entro il 2026; se oggi il consumo medio di ogni utente è di 10 GB al mese, tra cinque anni dovrebbe più che triplicarsi, a 35 GB. A distanza di tre anni dal primo lancio sperimentale del 5G. le stime del report annuale della GSMA prevedono che raggiungerà il 20% delle connessioni globali nel 2025, a fronte del 4% di oggi. Il nuovo standard di comunicazione mobile è ormai presente in tutti i continenti del globo; in alcuni paesi più avanzati come Usa, Corea del Sud e Cina il 4G ha già raggiunto il suo picco di diffusione e comincia il suo declino a vantaggio del 5G, tuttavia un terzo dei consumatori mondiali preferisce ancora attendere i veri vantaggi del 5G prima di migrare, ma altro terzo per ora è deluso, sebbene, occorre ribadire, che il vero 5G stand alone sarà implementato solo nella seconda parte del 2023 (sia a seguito, dello switch off, che dalla massiva penetrazione di devices abilitati alla sua ricezione).

Ma, come noto, il 5G non è destinato solo alle comunicazioni interpersonali ma anche ad una moltitudine di altri utilizzi tipici dell’Internet of Things (IoT); in questo campo le previsioni sono che entro il 2030 più di 50 miliardi di dispositivi saranno connessi con tale tecnologia e nel 2023 la spesa mondiale crescerà fino a  superare 1.100 miliardi di dollari[33]. Interessante al riguardo la recente dichiarazione della commissaria europea Margrethe Vestager, Vicepresidente esecutiva, responsabile della politica di concorrenza illustrando i risultati preliminari della indagine settoriale sulla concorrenza nei mercati dei prodotti e servizi relativi all’Internet degli oggetti (IoT) di consumo nell’Unione europea: “un gran numero di intervistati ha sottolineato che il principale ostacolo allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi è la capacità di competere efficacemente con i principali attori del settore consumer IoT, ovvero Google, Amazon e Apple”.

Altro tema abilitante dal 5G e dalla crescita della rete consiste nell’intelligenza artificiale ossia la tecnologia informatica che sta rivoluzionando il modo con cui l'uomo interagisce con la macchina, e le macchine tra di loro (M2M). L’intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, e agire verso un obiettivo specifico; il computer riceve i dati, processandoli e rispondendo[34]. Certo siamo ancora lontani dal mondo immaginario di Steven Spielberg esattamente vent’anni fa quando realizzò un progetto di Stanley Kubrick “A.I. Artificial Intelligence” la cui locandina recitava: “David ha 11 anni. Pesa 27 chili. E' alto 137 centimetri. Ha i capelli castani. I suoi sentimenti sono veri. Ma lui non lo è.

Secondo previsioni di ABI Research[35] il numero di device di tracking IoT raggiungerà quota 68 milioni di unità fra 5 anni: si tratta di un gran numero di prodotti consumer per la casa e il controllo di elettrodomestici o altri sistemi indoor, ma anche apparecchi per il monitoraggio delle condizioni di salute e di controllo personale, soprattutto bambini, anziani e animali domestici che stanno diventando sempre più diffusi.

Grandi passi in avanti sono stati fatti, specie dopo la pandemia e l’esplosione dell’uso dei dati da parte di tutti noi. «L'intelligenza artificiale è un must per l'adozione e la gestione di successo del 5G»: ha affermati Peter Laurin, Senior Vice President e capo di una delle 4 aree globali (Managed Services) di Ericsson aggiungendo “grazie all'Intelligenza Artificiale, ci assicuriamo che le reti funzionino al meglio delle loro capacità, garantendo le migliori esperienze per gli utenti finali. L'Intelligenza Artificiale ci consente di prevedere un calo delle prestazioni di rete prima che questo si verifichi e di intraprendere le azioni necessarie prima che ciò generi un impatto sugli utenti finali.”, Ma bastano le sue rassicurazioni? Non per la Commissione europea che 21 aprile 2021 ha proposto un regolamento sull’Intelligenza Artificiale intitolato “il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce norme armonizzate in materia di intelligenza artificiale e che modifica alcuni atti legislativi dell'Unione" ma che di fatto istituisce un quadro di riferimento legale volto a normare il mercato dell’Unione Europea dell’IA. Ma non solo. Nel medesimo giorno, la Commissione ha anche proposto un "Piano coordinato di revisione dell'intelligenza artificiale 2021", che pone le basi affinché la Commissione e gli Stati membri collaborino nell'attuazione di azioni congiunte ed eliminino la frammentazione dei programmi di finanziamento, delle iniziative e delle azioni intraprese a livello dell'UE e dei singoli Stati membri nonché il "Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relative alle macchine", che dovrebbe sostituire la direttiva 2006/42/CE del 17 maggio 2006 relativa alle macchine, che garantisce la libera circolazione delle macchine all'interno del mercato UE ed assicura un alto livello di protezione per gli utenti e altre persone esposte. In particolare, la proposta di regolamento classifica i prodotti che utilizzano completamente o parzialmente il software AI in base al rischio di impatto negativo su diritti fondamentali quali la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, il diritto alla non discriminazione, la protezione dei dati ed, in particolare, la salute e la sicurezza. Più il prodotto è suscettibile di mettere in pericolo questi diritti, più severe sono le misure adottate per eliminare o mitigare l'impatto negativo sui diritti fondamentali, fino a vietare quei prodotti che sono completamente incompatibili con questi diritti.

Poiché  i dati sono alla base dell’intelligenza artificiale diversi sono i punti in comune con il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati – RGPD): da un lato, infatti, vi sono le restrizioni per gli operatori economici non-UE nella circolazione dei loro beni e servizi nell'UE dall’altro l’applicazione delle regole a prescindere dal fatto che gli operatori siano stabiliti nell'UE. Proprio quest’ultimo aspetto – di cui si parlerà più diffusamente nella seconda parte dell’articolo – è uno dei nuovi parametri verso cui la Commissione europea ma anche gli stati membri (si pensi alla normativa italiana in tema di secondary ticketing o divieto di giochi d’azzardo) stanno virando: dal country of origin al country of destination.

 

d) L’improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale

Il vero problema risiede nel digital divide sociale. Come ha puntualmente descritto Martin Angioni[36] nel suo “Amazon dietro le quinte”, il successo di piattaforme digitali come Amazon, decretato dalla continua crescita del numero di clienti, “è dovuto solo in parte residuale ai prezzi praticati. Molto di più è riconducibile al servizio, alla comodità e soprattutto all’assortimento senza pari”.

È da tale considerazione che occorre approcciarsi per ridurre il divario sempre più marcato tra nord e sud, tra over 50 e under 30, tra genitori e figli, tra pubblico e privato.

Le quattro categorie rappresentano il cuore del problema digitale sotto il primo versante di cui si discute, ossia quello del rapporto tra piattaforme e utenti.

Il tema centrale non è, dunque, solo garantire una rete (fissa e mobile) ultra veloce, bensì pure quello di prendere consapevolezza dell’aumento di disuguaglianze digitali sociali sempre più marcato specie dopo la pandemia.

Si pensi allo SPID. Nato nel marzo del 2013 da una proposta del deputato Stefano Quintarelli, presidente del comitato di indirizzo dell'AgID. Per ben 7 anni non è riuscito ad avere una vera diffusione presso la popolazione; si è dovuto attendere il cashback di Stato per vederlo decollare istantaneamente: da 6 milioni del marzo 2020 agli oltre 18 milioni del marzo 2021[37].

Eppure, l’idea di dotare il cittadino di un sistema di credenziali unico per “loggarsi” nei siti (o app) delle diverse amministrazioni pubbliche, invece di essere costretti ad attivare un account per ciascuna era straordinariamente rivoluzionaria e innovativa, era giusta. Tuttavia, mancava di appeal. Si badi bene, non che oggi i cittadini abbiano maturato improvvisa fiducia nello Spid, ma lo si possiede semplicemente per un uso (il cashback) ritenuto appetibile. Paradossalmente, la postura che lo Stato dovrebbe assumere nei confronti dell’utenza dovrebbe assomigliare – rovesciandone le finalità- a quello seguito dai GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), ovvero semplicità e funzionalità del servizio offerto[38].

Sempre per restare sul tema del pubblico, pensiamo all’app IMMUNI. Da giugno 2020 ad oggi è stato scaricato da circa 10.400.000 di utenti (circa il 19% della popolazione). I download dell’app, dopo una buona crescita in autunno, all’inizio della seconda ondata, si sono praticamente fermati - dalla fine di ottobre 2020 a metà marzo 2021 sono passati da 9,3 a 10,3 milioni – risultando praticamente inutile nella seconda e terza ondata della pandemia. Il problema vero è che, dei milioni di utenti che l’hanno scaricata, pochissimi l’hanno usata per caricare i loro dati, se positivi, e pochissimi hanno ricevuto notifiche di esposizione. Ecco che ritorna il divario digitale sociale. Se l’utente non è messo in condizioni di utilizzare una app o un servizio digitale non lo usa e basta.

Passando all’ambito didattico, si è tanto dibattuto e si continua a confrontarsi sulla didattica a distanza: la DAD. Da una recente indagine condotta da Ipsos per conto di Save the Children[39], associazione che più di tutte, dall’inizio della pandemia, segue da vicino la questione, circa il 30% degli studenti arriva a disertare le lezioni virtuali. Si tratta di un dato drammatico. Le cause della dispersione sono legate a una questione economica e classista, i giga e tablet forniti dal Ministro per i meno abbienti si sono dimostrati poco funzionali, perché non hanno retto la mole di lavoro. Dall’indagine emerge che la DAD ha peggiorato enormemente la didattica: circa un alunno su due ritiene di aver “sprecato” l’anno, oltre uno studente su tre (35%) si sente più impreparato di quando andava a scuola in presenza e il 35% quest’anno deve recuperare un maggior numero di materie rispetto all’anno scorso. Quasi quattro studenti su dieci sostengono di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare (37%). Gli adolescenti dicono di sentirsi stanchi (31%), incerti (17%), preoccupati (17%), irritabili (16%), ansiosi (15%), disorientati (14%), nervosi (14%), apatici (13%), scoraggiati (13%), in un caleidoscopio di sensazioni negative di cui parlano prevalentemente con la famiglia (59%) e gli amici (38%), ma che per più di 1 su 5 rimangono un pesante fardello da tenersi dentro, senza condividerlo con nessuno (22%). A distanza di un anno dal suo ingresso sono innegabilmente aumentate le disuguaglianze tra gli studenti, con un aumento dei NEET[40] e una diminuzione della qualità di coloro che riusciranno ad arrivare ugualmente all’università. Su tale questione le responsabilità sono molteplici. In primis legate alla mancanza di una preparazione da parte degli insegnanti nei confronti di una lezione a distanza che richiede un approccio diverso rispetto a quello in aula. Inoltre, vi è pure la responsabilità dei genitori, che si sono trovati impreparati a gestire i propri figli in casa come a scuola, trascurandoli da un lato o aiutandoli oltremodo dall’altro. Infine, c’è una responsabilità dei ragazzi, che sino all’inizio della pandemia associavano spesso il digitale solo allo svago (chat, visione di film, social) e non come strumento di studio.

Come ci ricorda Wolfgang Goethe  in Wilhelm Meister “non c’è nulla di più ragionevole al mondo che saper cavare un vantaggio dalla follia altrui. La domanda non deve essere solo quando riaprire,  bensì come e con quali nuovi strumenti atti a ridurre il divario tra gli studenti.

Un esempio potrebbe essere quello di predisporre un patentino digitale, nipote, ad esempio, del ECDL, European Computer Drive License, che certifichi l’abilitazione dell’uso al digitale da parte dell’utente (professore, genitore e studente). Ma soprattutto che renda obbligatorio il passaggio della formazione, della lettura delle istruzioni per l’uso della consapevolezza della macchina che stiamo “pericolosamente” guidando senza una meta.

 

e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti

Insieme all’accelerazione della comunicazione (e delle reti), stiamo assistendo alla sua contrazione racchiusa addirittura in un tweet di 120 (allargati, poi, a 240) caratteri. Anzi. Il crescente utilizzo dei nuovi social network (Instagram, Periscope e Tik-Tok) ha da un lato abbassato l’età media degli utenti social –allargando ai più giovani (spesso giovanissimi) l’accesso a tali mezzi di comunicazione - e dall’altro spostato l’asse della comunicazione dalla scrittura (seppur concisa) di un post o di un commento in favore di un video o di una foto. Chissà cosa avrebbe pensato il padre della lingua italiana di questo processo. Di certo torna quanto mai attuale l’incipit di “Le due città” di Charles Dickens “era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi”. L’umanità non ha mai vissuto una stagione della conoscenza così florida e parallelamente tanto piena di costante disinformazione. Il nodo centrale è avere la capacità di gestire tale immenso magazzino di informazioni; la repentina diffusione della rete e dei social non ha permesso una (necessaria) fase di decantazione da parte dello Stato e soprattutto da parte di ciascuno di noi. In questo contesto svolge un ruolo chiave l’alfabetizzazione digitale[41] (media literacy) che deve partire sin dalla giovane età all’interno della famiglia e trovare un costante processo formativo scolastico ed universitario.

Per usare ancora una volta le parole di Italo Calvino, che  aveva intuito tale processo già nel 1984, “alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”[42].

In tempi più moderni, Gabriella Paolucci, durante un convegno[43]svolto a Fiesole presso la European University Institute sull’attenzione alla contrazione spazio-temporale del mondo contemporaneo, aveva diagnosticato le cause e gli effetti di tale processo: “L’odierna compressione spazio-temporale ricade – a grande velocità!– sulle forme del pensiero e del linguaggio, sui modi della comunicazione, sugli aspetti essenziali della vita sociale e su tutto ciò che concorre alla riproduzione individuale”.

Se la sociologia e la letteratura avevano sapientemente anticipato i tempi, profetizzando le ricadute del processo di accelerazione e contrazione del tempo e dello spazio nella comunicazione massmediale, il diritto e la legge non sono stato altrettanto veloci.

Si pensi, per un attimo, ai giornali prima e alla radio e alla televisione in seguito: dietro ogni articolo, trasmissione o programma c’è sempre una “responsabilità editoriale”. E’ su simile grande responsabilità che si è, sino ad oggi, basato il successo o l’insuccesso di un giornale o di un canale televisivo. Ma soprattutto è in virtù di essa che si è concretizzata l’altra faccia della libertà di informazione dell’art. 21 della Costituzione: la libertà di ricevere l’informazione[44]. Come ci ricorda il Prof. Roberto Zaccaria nel suo manuale “Diretto dell’informazione e della comunica   zione «(i)l profilo passivo della libertà di informazione è da tempo evidenziato nei testi costituzionali ed anche in molte Carte internazionali […]. In tutti questi testi si mette in primis in risalto, accanto alla libertà di informazione, anche il diritto, strumentale ed essenziale rispetto alla prima, di ricercare le fonti e di accedere alle stesse». Siamo arrivati ad avere una mancanza comune dei pesi specifici delle fonti di informazioni. La ricerca delle fonti e soprattutto del fact-checking - sia da parte di chi fruisce delle notizie che, non di raro, da parte di chi le produce - è passato in subordine rispetto alla incessante produzione delle stesse. Anzi, spesso ci fidiamo più di uno dei primi risultati di una ricerca su Google (alzi la mano chi è riuscito ad andare oltre la seconda/terza pagina) di una qualche di un articolo del Corriere della Sera o di Repubblica. Abbiamo in gran parte perso il desidero di approfondire qualunque notizia, sopraffatti dall’irresistibile voglia di essere protagonisti della scena, con immediati commenti su tutti i temi, assettati da una costante voglia di arricchire il nostro palinsesto a portata di pollice.

Inizia tuttavia a vedersi gli effetti (spesso perversi) di questo divario digitale sociale presso gli utenti anche nei giovani. “Avevamo cominciato bene, eravamo felici. E poi. [...] Poi la gente ha cominciato ad aver paura”: questa citazione – di William Golding, Premio Nobel per la letteratura 1983 tratta dal suo romanzo d’esordio “Il signore delle Mosche” – è perfettamente calzante al momento di maturità che stiamo vivendo nei confronti della rete. Ne “Il signore delle Mosche” venivano narrate le vicende di un gruppo di ragazzi britannici bloccati su un'isola disabitata e il loro disastroso tentativo di autogovernarsi.

Mutatis mutandis, finita l’età dell’oro del far web è giunta l’improcrastinabile urgenza di una seria e concreta presa di coscienza della rete.  Usiamo spesso la frase navigare in rete; non c’è metafora più azzeccata per rendere questo concetto. Per navigare occorre saperlo fare. Occorre che qualcuno ci abiliti a farlo. Ci fornisca la bussola, le mappe, l’imbarcazione. e quale migliore posto dell’ambiente domestico e della scuola per poterlo fare. Si tratta di un binomio inscindibile dal quale è fondamentale partire. Il vero problema è che i primi ad essere vittime siamo spesso noi adulti che a differenza dei giovani abbiamo la responsabilità, la maturità e la postura per poter correggere ai nostri errori.

Ma se la predetta condizio ne sociale riguarda tutti noi, è altresì vero che la mancanza di una responsabilità ex ante delle piattaforme digitali è il tabù da sfatare.

La seconda parte del contributo è, quindi, incentrato sulle piattaforme digitali ed intende proprio approfondire il tema della loro responsabilità, partendo dalla normativa attuale (Direttiva e-commerce), la sua evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e di Cassazione sino ad arrivare alle recenti proposte della Commissione europea (DSA e DMA) nel nuovo approccio proposto.

 

f) L’irresponsabilità delle piattaforme digitali nell’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale.

Analizzato il versante dell’utente finale della rete passiamo ad esplorare le piattaforme digitali, partendo dal regime di responsabilità in ragione della diversa tipologia di attività svolta.

Un primo intervento normativo è rappresentato dalla Direttiva E-Commerce risalente al 2000 (recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 70/03), che ha introdotto una distinzione tra le categorie di soggetti operanti su reti di comunicazione elettronica che, a diverso titolo, prestano un servizio della società dell’informazione.

Grazie a tale Direttiva si è iniziato a prendere in considerazione la (ir)responsabilità delle piattaforme digitali. Si tratta in particolare dei c.d. “intermediari di rete distinti in tre tipologie in funzione delle diverse caratteristiche di attività: semplice trasporto (mere conduit), memorizzazione temporanea (caching), o memorizzazione (hosting) delle informazioni.

Per ognuno di essi è previsto un regime di irresponsabilità, a date condizioni giustificato dal fatto che si tratta di attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo: il che implicherebbe che il prestatore di servizi non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate (Considerando 42 della direttiva).

In un siffatto scenario è lecito, ed anzi doveroso, domandarsi se ha ancora senso parlare di rete libera.

Il limite sino ad oggi riscontrato risiede nella mancanza di una responsabilità editoriale (diversamente dai contenuti radiotelevisivi) da una parte e dalla infinita accessibilità alle risorse dall’altra (contrariamente alle risorse scarse delle frequenze, ad esempio).

Le attuali regole del gioco che conosciamo – tutte di matrice europee – sono frutto dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione della comunicazione tipici degli anni 80/90 del secolo scorso, che a cascata sono entrate nel nostro ordinamento (si pensi al Testo unico dei servizi di media e al codice delle comunicazioni elettroniche).

Lo stesso legislatore europeo in realtà si pose il problema delle piattaforme digitali agli albori del nuovo millennio, adottando proprio la Direttiva E-Commerce 200/31/CE recepita nel nostro ordinamento dal D.lgs n. 70/03. In tale disposizione aveva infatti previsto una generale esenzione di responsabilità ex ante da parte del prestatore intermediario (provider), ossia “il soggetto che esercita un’attività imprenditoriale di prestatore di servizi della società dell’informazione offrendo servizi di connessione, trasmissione ed immagazzinamento dei dati, ovvero ospitando un sito sulle proprie apparecchiature”. Tale figura è stata in tale contesto suddivisa a sua volta in (1) fornitore di accesso (access provider), ossia il soggetto che offre al pubblico l’accesso ad una rete (2), fornitore di servizi (service provider) quale soggetto che offre al pubblico servizi di comunicazione e/o di trattamento delle informazioni destinati al pubblico, oppure ad utenti e abbonati e fornitore di contenuti (content provider), ovvero il soggetto che offre al pubblico informazioni che transitano sulla rete telematica e destinate al pubblico, oppure ad utenti e abbonati.

Più in particolare, l’art. 17 della predetta Direttiva ha introdotto, in favore dei provider, l’assenza dell’obbligo generale di sorveglianza che si traduce in una esenzione di responsabilità per i fornitori di servizi, a condizione che non intervengano in alcun modo sui contenuti.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha dato, nel corso degli anni, una chiara attuazione a tali principi, come ad esempio nella nota sentenza Scarlet/Sabam del 2011[45] in cui è stato affermato che la direttiva E-commerce osta ad un’ingiunzione rivolta ad un fornitore di servizio di accesso alla rete Internet di predisporre un sistema di filtraggio di tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi ai sensi dell’art. 15, il quale vieta l’imposizione di obbligo di sorveglianza attiva generalizzata. Così come, in tema di motori di ricerca, la Corte di Giustizia si è pronunciata nel 2010, affermando l’irresponsabilità di Google nell’offrire un servizio di posizionamento connesso al proprio motore di ricerca, rilevando che il suo ruolo fosse meramente tecnico, automatico e passivo.

Un decisivo passo in avanti è stato compiuto dalla sentenza EBay L’Oréal[46]nel 2011, in cui la Corte ha precisato come non possa considerarsi meramente tecnica, automatica e passiva l’attività dell’intermediario di rete che abbia prestato un’assistenza consistente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e nel promuovere tali offerte.

In altri termini, la Corte, precisando che la verifica più stringente circa il suo attivo dell’ISP spetti in concreto al Giudice di rinvio, ha riscontrato comunque che poiché Ebay non fornisce ai suoi utenti un servizio “neutro” bensì una vera e propria assistenza nelle vendite, “consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte“, esso “non ha una posizione neutra tra il cliente venditore e i potenziali acquirenti, ma svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte“. Ma l’aspetto forse più rilevante di tale pronuncia consiste nell’invio della Corte agli Stati membri affinché i propri organi giurisdizionali competenti in materia di proprietà intellettuale possano ordinare agli ISP di adottare provvedimenti che contribuiscano sia a far cessare le violazioni di tali diritti ad opera degli utenti, sia a prevenire nuove violazioni.

Più di recente la Corte ha compiuto un altro importante cambio di passo con la sentenza del 3 ottobre 2019 Facebook c/ Eva Glawischnig-Piesczek[47]adottata nella causa C-18/18, affermando che il divieto per gli Stati, ai sensi della direttiva sul commercio elettronico, di imporre agli intermediari di rete un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, non riguarda obblighi di sorveglianza in casi specifici come quello di porre fine ad una violazione o di impedire una violazione, in particolare cancellando le informazioni illecite o disabilitando l’accesso alle medesime.

Su tale linea, la Corte di Cassazione[48], da ultimo, ha compiuto un’ulteriore, e fondamentale, passo in avanti, individuando specifici elementi che permettono di qualificare l’hosting provider “attivo” e dunque privo dell’esenzione da responsabilità riconosciutagli in principio dalla legge per i contenuti illeciti “ospitati” sui propri siti: le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione dei contenuti operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio e, in ogni caso, tutte le condotte volte a completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti. Ma soprattutto la Corte ha chiarito che il regime di esenzione di responsabilità ex ante previsto dall’art. 16 del D. Lgs. 70/2003 - che attua l’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE - soggiace al rispetto di due condizioni: (I) che non sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione veicolata e (II) che agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti. Se una o entrambe le condizioni non vengono rispettate l’hosting provider, a prescindere dalla specifica qualificazione tra attivo o passivo – non può invocare il regime di esenzione di responsabilità.

 

g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B)

Sulla scia della richiamata giurisprudenza europea e nazionale, in tema di responsabilità degli intermediari di Rete, e per far fronte ai crescenti illeciti amministrativi attraverso la rete Internet, il legislatore italiano ha dotato l’ordinamento nazionale di nuovi strumenti di contrasto del fenomeno del secondary ticketing e del gambling con vincite in danaro.

  1. A) Secondary ticketing: L’art. 1, comma 545 della legge 2016/232 “al fine di  contrastare  l'elusione  e  l'evasione  fiscale, nonche' di assicurare la tutela dei consumatori e garantire  l'ordine pubblico” ha introdotto una nuova fattispecie di illecito amministrativo, consistente nella “vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione”. 

L’obiettivo che si è prefissato il legislatore consiste nel contrastare il crescente fenomeno del bagarinaggio di biglietti per eventi di spettacolo, cresciuto a dismisura grazie ad Internet. L’unica eccezione consentita è la vendita di biglietti ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale, effettuata da una persona fisica ed in modo occasionale, purché senza finalità commerciali.

La disciplina del secondary ticketing è stata modificata con la l. 145/18, n. 145, che ha introdotto i commi da 545-bis a 545-quinquies alla legge n. 232/2016. Con tali modifiche è stato disposto da un lato che, a partire dal 1° luglio 2019, i titoli di accesso ad attività di spettacolo in impianti con capienza superiore a 5.000 spettatori debbano essere nominali e dall’altro è stata disciplinata la procedura di intermediazione, svolta solo dai soggetti autorizzati (e cioè siti Internet di rivendita primari, box office autorizzati e siti Internet ufficiali dell’evento), attraverso la quale gli acquirenti dei biglietti possono rivendere a terze persone fisiche i titoli acquistati.

Nei casi di violazione dei predetti divieti il legislatore ha previsto (I) l’inibizione della condotta, (II) una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché (III), ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, l’oscuramento del sito attraverso il quale la violazione è stata posta in essere.

La competenza a vigilare sul rispetto dei predetti divieti è stata attributi all’Agcom, che nel 2020 ha adottato diverse sanzioni pecuniarie[49] (per un importo di oltre 5.000.000 di euro) ed inibendo la prosecuzione della condotta lesiva.

Il Tar del Lazio ha recentemente confermato l’operato dell’Autorità con le sentenze nn. 3955/2021 e 4335/2021 rispingendo i ricorsi promossi da Viagogo e da StubHub, i più grossi operatori digitali del secondary ticketing. Il Tar, accogliendo integralmente le difese dell'Autorità esposte dall'Avvocatura generale dello Stato, ha rigettato tutti gli argomenti difensivi affermando “la gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite l'articolata gestione imprenditoriale evidenziata nella motivazione del provvedimento, servizi finalizzati – per stessa ammissione della ricorrente – a favorire la conclusione di negozi giuridici che la legge qualifica in linea generale illeciti, escluse le limitate ipotesi sopra indicate, non possa essere considerata neutrale rispetto al disposto normativo, non potendo essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata, come infondatamente argomentato da parte ricorrente” (enfasi aggiunta).

Si tratta di due pronunce di rilevante importanza in quanto, da un lato confermano la costante impostazione giurisprudenziale in tema di hosting provider sancita più di recente dalla Corte di cassazione (Cass. Civ. Sez. I, 19 marzo 2019, n. 770) sulla scia di quella europea (Corte Ue, C-324/09, L'Orèal c. eBay e C-236/08, Google c. Louis Vuitton) e, dall'altro, supera l'arresto del Consiglio di Stato (sentenze nn. 4359/19 e 1217/20) sull'identificazione del ruolo delle piattaforme di intermediazione - tra i quali Viagogo e StubHub – quali hosting provider passivi, in considerazione dell'attività effettivamente svolta dalla piattaforma non «consistente nella mera “memorizzazione di informazioni”».

  1. B) Divieto di pubblicità del gioco con vincite in danaro. L’articolo 9, comma 1, del decreto-legge 87/18 convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 ha introdotto un divieto generalizzato di pubblicità concernente il gioco a pagamento effettuata su qualsiasi mezzo di comunicazione. Inoltre, a partire dal 1° gennaio 2019 detto divieto è stato esteso anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti la cui pubblicità. Restano lecite, invece, le pubblicità afferenti le lotterie nazionali a estrazione differita, le manifestazioni locali e i loghi sul gioco sicuro e responsabile dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

In caso di inosservanza a tali divieti è stato previsto a carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari al 20% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a euro 50.000. Anche in questo caso, la competenza a monitorare sul rispetto di tale norma è stata attribuita all’Agcom, che nel 2020 ha avviato la propria attività irrogando svariate sanzioni ai diversi soggetti sopra individuati, tra cui Google[50] .

Anche il gioco con vincitore in danaro ha subito dei cambiamenti importanti durante il lockdown: «La chiusura delle sale fisiche per il gioco d'azzardo legale durante il lockdown ha dato luogo ad un parziale spostamento dei consumi verso altri canali non soggetti alle restrizioni, in particolare verso l'offerta a distanza e l'online vero e proprio". E "non può escludersi che una parte del maggior consumo online possa essere intercettata - attraverso siti clandestini - dall'offerta illegale che in questo settore era già presente e in ascesa». Si tratta di un piccolo estratto della relazione presentata il 15 giugno 2021 dal comitato della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle mafie[51] che ha monitorato le attività delle organizzazioni criminali nel periodo dell'emergenza sanitaria[52].

Sul tema, il Senato ha di recente deciso di costituire una specifica Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico composta da venti senatori, nominati dal Presidente del Senato su proposta dei Gruppi parlamentari. Tra i diversi compiti della Commissione si segnala, in questa sede: (1) l’analisi delle condizioni complessive del settore del gioco pubblico; (2) l’efficacia della disciplina pubblica in relazione alla tutela dei soggetti più deboli, al contrasto della diffusione del disturbo da gioco d’azzardo (DGA), alla gestione delle concessioni nonché alla tutela della correttezza dell’offerta di gioco e del rispetto della concorrenza tra gli operatori; (3) l’individuazione delle dimensioni del gettito erariale e le dimensioni complessive del comparto, con particolare attenzione ai settori produttivi impegnati nella produzione, nella commercializzazione e nella gestione degli apparecchi da intrattenimento, nonché nella produzione e gestione del settore delle scommesse e delle lotterie istantanee; (4) l’efficacia del sistema di regolazione e di controllo con particolare riferimento al contrasto del gioco illecito e illegale.

  1. C) La responsabilità ex ante degli hosting provider. Le due nuove discipline di illeciti amministrativi sopra descritti rivestono un rilevante impatto proprio nei confronti dei soggetti intermediari della rete. Per la prima volta, infatti, viene prevista una responsabilità ex ante piena da parte degli hosting provider a prescindere dalla propria qualificazione quelle attivo o passivo. Come abbiamo visto, infatti, una delle (due) condizioni per poter invocare l’esenzione di responsabilità da parte delle piattaforme consiste nel fatto che l’hosting provider non venga effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione fornite da un destinatario del servizio. La conoscenza di tale illiceità implica che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di responsabilità del prestatore del servizio per fatto proprio colpevole mediante omissione, ovvero per non aver impedito la protrazione dell’illecito (rimuovendo le informazioni o disabilitando l’accesso). Infine, è interessante notare che sia le sanzioni irrogate in materia di secondary ticketing (Viagogo e StubHub) che quella irrogata a Google su pubblicità online del gioco con vincite in danaro hanno riguardato soggetti non italiani ma stranieri.
  2. D) Le nuove regole per i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online. Il Regolamento Platform to business[53] ha introdotto delle nuove ed importanti misure di garanzia a favore degli utenti commerciali[54] nella fruizione dei servizi di intermediazione online e dei motori di ricerca online. Si tratta del primo passo verso una nuova frontiera della regolamentazione dell’attività delle piattaforme contenuta nella strategia legislativa europea.

In concreto, il Regolamento ha previsto una serie di nuove regole nei confronti (I) per i fornitori di servizi di intermediazione online[55] (categoria molto ampia, in cui rientrano i mercati di commercio elettronico per conto di terzi, come Amazon, eBay o Zalando, gli app store come Google Play, Apple App Store, Microsoft Store, i social media usati a scopi professionali quali ad esempio account Facebook o Instagram utilizzati con finalità professionali da artigiani, e gli strumenti di comparazione dei prezzi come Skyscanner, Trivago o Google Shopping) e per (II) i motori di ricerca online[56] (categoria che ricomprende sia quelli generalisti come Google sia tematici come TripAdvisor).

A tali soggetti il regolamento vieta specifiche pratiche nocive per lo sviluppo dell’economia digitale come la sospensione degli account, impone l’adozione di termini e condizioni semplici e chiare, l’indicazione dei parametri utilizzati per il ranking, la predisposizione di facili sistemi di reclamo e l’introduzione di una procedura di risoluzione delle controversie.

Dunque, il rapporto che il regolamento P2B disciplina riguarda da un lato i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online e dall’altro gli utenti commerciali. Da notare che in tale definizione il legislatore ha inteso includere non solo le persone giuridiche, bensì anche quelle fisiche che agiscono nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali (si pensi ad esempio agli influencer). Restano fuori pertanto i consumatori[57] , ossia gli utenti finali tutelati, invece, dal codice del consumo (la cui competenza è attribuita all’Agcm).

Il legislatore italiano per garantire l’adeguata ed efficace applicazione del Regolamento ha attribuito, con la legge 178/20 (commi 515-517), all’Agcom le nuove competenze attribuendole il potere di regolazione, vigilanza, composizione delle controversie e sanzionatorio nell’ambito della cornice edittale più grave già prevista per le violazioni in materia di posizioni dominanti all’art. 1, comma 31 della l. 249/97 (sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore al 2% e non superiore  al  5% del fatturato).

Anche in questo caso è estremamente interessante notare che il legislatore ha inteso confermare il principio del country of destination: la responsabilità delle piattaforme prescinde dalla sua ubicazione fisica, in quanto si guarda alla residenza o allo stabilimento dell’utente commerciale.

Ciò che conta non è pertanto il luogo entro cui si conclude la transazione, ma il momento nel quale avviene l’incontro: qualora la piattaforma svolga ruolo di effettivo intermediario, allora le sue responsabilità ricadranno nel perimetro della nuova regolamentazione.

 

h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA)

Merita, infine, un breve ma importante richiamo al recente pacchetto di riforme presentato dalla Commissione europea a fine 2020, a valle di una lunga consultazione pubblica con tutti gli stati membri, volto a introdurre una serie di nuove proposte legislative tali da proteggere in modo più efficace i consumatori e i loro diritti fondamentali online e rendere più equilibrato il mercato digitale rispetto a quello reale.

Si tratta di due proposte di regolamento, che si rivolgono tanto ai servizi quanto ai mercati digitali diversificando gli obblighi e le tutele in ragione delle diversioni di tali soggetti. L’obiettivo che si pone il legislatore europeo è, infatti, quello di garantire un accesso sicuro alla rete per tutti gli attori e un reale affidamento alle notizie che leggiamo al fine di eliminare l’attuale squilibrio tra la doppia realtà online e offline.

Gli strumenti previsti sono particolarmente innovativi rispetto a quelli attuali poiché introducono un processo di armonizzazione massima e puntali obblighi ex ante, sorveglianza più attenta e delle sanzioni espresse e rilevanti.

DSA e DMA costituiscono, pertanto, la risposta europea ai radicali cambiamenti globali derivati delle piattaforme digitali: motori di ricerca, piattaforme di intermediazione digitali, social network e così via. L’’obiettivo sarebbe quello di arrivare ad una adozione dei due Regolamenti nella primavera del 2023. Tutto dipenderà dal ruolo che il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea svolgeranno durante le fasi del cosiddetto trilogo.

A distanza di un ventennio dall’emanazione della direttiva e-commerce, la Commissione europea ha finalmente adottato una proposta di Regolamento relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la predetta direttiva 2000/31/CE (Digital Services Act DSA)[58] .

Come ha recentemente affermato il Presidente dell’AGCOM, Giacomo Lasorella[59]Il Digital Service Act dell’Ue punto di partenza del nostro operato” con il chiaro obiettivo di realizzare quella convergenza per la quale l’Autorità è stata istituita ossia la regolazione del digitale che può attuarsi solo in un quadro europeo.

La proposta mira a migliorare la sicurezza degli utenti online e la protezione dei loro diritti fondamentali in tutta l’Unione. In altre parole, il nuovo approccio proposto dalla Commissione non guarda, come in passato, soltanto al mercato unico e alla circolazione dei servizi digitali, ma anche alle nuove sfide per la tutela dei diritti fondamentali e della democrazia nella società dell’informazione.

Le piattaforme online nel corso degli ultimi vent’anni hanno, infatti, definitivamente rivoluzionato il mondo delle comunicazioni e degli scambi commerciali, aprendo nuove prospettive ad una sterminata platea di soggetti; tuttavia, esse sono state e continuano ad essere parallelamente pericolosi canali di diffusione di contenuti illeciti (tra tutti i siti pirata) e di vendita di beni o servizi illegali.

L’obiettivo che la Commissione si è prefissata di raggiungere nel corso del trilogo consiste in un riequilibrio delle parti (piattaforme e utenti), introducendo una serie di nuovi obblighi armonizzati (ragione per cui si è scelto di procedere con un Regolamento e non con una Direttiva) per i servizi digitali a livello dell’UE tra cui segnaliamo: norme per la rimozione di beni, servizi o contenuti illegali online, strumenti di tutela per gli utenti che si vedono cancellati i propri contenuti,  specifiche previsioni per consentire il tracciamento degli utenti commerciali nei mercati online, rilevanti e puntuali poteri di verifica sul funzionamento delle piattaforme digitali, una più efficace procedura di cooperazione tra autorità di settore all’interno dell’Unione, una maggiore trasparenza specie per la pubblicità online e i relativi strumenti di posizionamento, nonché obblighi calibrati in funzione delle dimensioni delle piattaforme.

Insieme al DSA la Commissione ha, altresì, adottato un’altra proposta di regolamento relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali nota anche Digital Markets Act o DMA)[60] .

Tale proposta mira più specificatamente ad introdurre una serie di criteri oggettivi per definire le piattaforme online di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell'accesso. Si tratta di quei soggetti che, grazie alla loro attività di intermediazione, detengono una posizione economica rilevante nel mercato nazionale e in quello paneuropeo. 

In questo caso l’obiettivo dell’Unione è quello di introdurre nei vari ordinamenti una armonizzazione massima, fornendo chiare definizioni e vietando le pratiche sleali ivi presenti. Dunque, non si rivolge a tutti i soggetti della rete, ma solo a quei soggetti i quali  in ragione del proprio bacino di utenti sono più soventi a ospitare, non di rado, illeciti (basti pensare ai motori di ricerca come Google, social network come Facebook o Instagram, fornitori di servizi di intermediazione online come Amazon o EBay). Altro aspetto non meno rilevante consiste nell’importante presidio sanzionatorio pecuniario previsto, che potrebbe portare ad irrogare multe sino al 10% del fatturato mondiale o, nei casi di recidiva, all’obbligo di adottare misure strutturali, fino all’eventuale cessione di determinate attività nei casi in cui non siano disponibili altre misure alternative altrettanto efficaci per garantire il rispetto delle norme.

Diverso è l’approccio seguito sino ad ora dalla Commissione relativo ai soggetti dominati della rete che in virtù delle loro dimensioni e della loro potenza economica. Come sappiamo, gli attuali strumenti sono solo di natura pecuniaria pur rilevante e tuttavia di certo non così forti da scarnire davvero i poteri dei GAFAM. Ecco, allora, il nuovo approccio seguito: evitare che si arrivi ad una sanzione, smontando le varie posizioni dominati da parte dei big della rete.

In questo scenario un ruolo centrale sarà svolto dalla cd co-regolamentazione che, come ci ricorda il Commissario Laura Aria[61] «fornisce un collegamento giuridico tra l’autoregolamentazione e il legislatore nazionale, in conformità delle tradizioni giuridiche degli Stati membri. Nella co-regolamentazione le parti interessate e il governo o le autorità o gli organismi nazionali di regolamentazione condividono il ruolo di regolamentazione. Il ruolo delle autorità pubbliche competenti comprende il riconoscimento del regime di co-regolamentazione, l’audit dei suoi processi e il suo finanziamento. Ciò dovrebbe consentire l’intervento statale qualora i suoi obiettivi non siano conseguiti».

 

i) Conclusioni

Per ipotizzare qualche sommaria conclusione è necessario fare un prequel.

Prima che l’era digitale prendesse il sopravvento, molti interventi normativi tentarono di dare ordine al sistema comunicativo analogico. Con sorti assai alterne.

Mentre nel comparto della carta stampata la legge n. 416 del 1981(variamente novellata, ma rimasta intatta nelle sue fondamenta) mise dei contorni piuttosto significativi al settore, sia in termini di trasparenza proprietaria sia nei confini imposti alle concentrazioni, il campo radiotelevisivo non ha mai assunto una vera fisionomia democratica.

Purtroppo, la non breve stagione del Far West dell’etere (divenuta oggi Far Web) iniziata dopo la sentenza n. 202 della Corte Costituzionale segnò per sempre la fisiologia del sistema. Quella sentenza, peraltro giusta e storicamente matura, fu emanata nel luglio del 1976. Solo un anno prima la legge n.103 aveva riformato la Rai, spostandone l’indirizzo e la vigilanza dal potere esecutivo al Parlamento (la legge n.220 “Renzi” del 2015 ribalterà la situazione).. La Corte accolse la spinta verso la parziale rottura del monopolio statale, letti mando l’accesso dei soggetti privati solo nell’ambito locale. La stessa Corte, come ribadì anche nel 1988 e nel 1994, evocava l’urgenza di una disciplina organica, che condizionasse la cosiddetta libertà di antenna al varo di un adeguato corpo di regole.

L’assenza di un quadro di certezze fondato su rigorosi diritti e doveri, limiti antitrust e tutele adeguate del pluralismo portò all’anomalia italiana. A quello che taluni commentatori chiamarono il principale disastro latino nel campo. Da simile situazione nacque il fenomeno berlusconiano. Da una televisione via cavo – Telemilano – partì la conquista da parte del tycoon di Arcore dell’universo della televisione generalista, Provarono a fermarne la (ir)resistibile ascesa tre pretori nel 1984, i quali rilevarono l’illiceità della interconnessione nazionale tra le diverse stazioni locali che componevano il mosaico di Fininvest, arrivando a chiudere le trasmissioni. Si sollevò una reazione durissima, al grido “I Puffi, i Puffi”, che portò il governo allora presieduto da Bettino Craxi a provvedere rapidamente con decreti legge reiterati, diventati la legge n.10 del 1985. Caso unico (salvo il Messico e la Turchia) l’Italia rese possibile ad un unico soggetto di possedere ben tre reti nazionali. La legge n.223 del 1990 (l.Mammì) fotografò infine la situazione, rendendola permanente.

Provò senza successo il centrosinistra dell’epoca dell’Ulivo a limitare il numero delle reti. Fu la legge n.249 del 1997 a metterci mano, subendo – però- una controffensiva ancora una volta demagogica e segnata dal populismo mediatico. Finì con la scialba scelta di immaginare che, a certe condizioni, una rete potesse essere trasmessa via satellite, liberando così risorse terrestri. Persino quell’esile filo fu spezzato dalla grande “controriforma” varata dall’allora ministro Gasparri con la legge n.112 del 2004, recepita poi nel Testo Unico delle Radiodiffusioni del 2005 (decreto legislativo n.177).

Insomma, si determinò una situazione di oligopolio assoluto, declinata nel rapporto tra pubblico e privato come “duopolio” di Rai e Mediaset.

Neppure fu regolato adeguatamente il conflitto di interessi, pervasivo e diffuso. Il testo approvato nel 2004 (l. Frattini, n.215) non risolveva pressoché nulla.

Le novità interessanti da ricordare sono, forse, almeno tre: la costituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la legge n. 249 del 1997; la legge n.122 del 1998 sull’obbligo di investimento da parte delle emittenti in opere audiovisive italiane ed europee; la legge n.28 del 2000 sulla “par condicio”. Quest’ultima è stata pressoché l’unica medicina rispetto alla frequente lesione delle pari opportunità tra le parti politiche nel mondo radiotelevisivo. Insomma, in assenza di una moderna ed adeguata struttura antitrust, per lo meno si sono limitati i danni. Purtroppo, l’Agcom si è via via indebolita, anche per ragioni ultronee rispetto ai suoi stessi limiti.  Che ne è degli anni analogici nel discorso mediatico? Vi è stata la vittoria sul campo del vecchio schermo generalista, onnivoro e arretrato. La comunicazione si fece direttamente politica.

La nascita del cavo fu impedita dall’antico accordo di potere sui rispettivi comparti di egemonia tra Rai e Sip e il progetto del 1994 messo in campo dalla Stet di portare la fibra ottica nell’intero territorio italiano fu spenta dall’enfasi data alle culture della concorrenza. Fu il frutto di un momento di riassetto del quadro degli indirizzi dell’Europa. Ora verosimilmente, di fronte alla conclamata crisi del liberismo, non accadrebbe.

Tutto ciò per segnalare come i problemi della modernità digitale abbiano tristi prolegomeni.

C’è tanto da fare e la stagione che si sta affacciando porta con sé tutte le possibilità per cambiare rotta. La Legge di delegazione europea 2019/2020 finalmente varata un primo ed importante e punto di partenza. Al suo interno vengono recepite ben 38 direttive europee e inserito l'adeguamento della normativa nazionale a 17 regolamenti europei. Tra le più rilevanti normative europee vi è la nuova Direttiva sui servizi digitali (Direttiva 2018/1808), le due Direttive sul diritto d’autore (Direttive nn. 789/19 e 790/19) nonché la Direttiva che istituisce il codice delle comunicazioni elettroniche (Direttiva 2018/1972). Una vera e propria rivoluzione digitale sta per arrivare.

E’ presumibile pensare che entro la fine dell’estate i testi fondamentali (SMAV, CCE e COPYRIGHT) saranno emendati, consentendo dunque all’AGCOM di avviare le relative consultazioni pubbliche prodromiche all’adozione dei singoli interventi normativi previsti. In questo scenario cruciale sarà il ruolo dell’Autorità italiana per le comunicazioni che - come ci ha ricordato la Commissari Prof.ssa Elisa Giomi[62] – dovrà creare “le condizioni per la messa a punto di un sistema regolatorio per i nuovi modelli di business digitale che garantisca – lato consumatori e utenti – maggiore controllo sui propri dati e – lato imprese – un trattamento equo e non discriminatorio nei rapporti contrattuali con le piattaforme online”.

Certo molto dipenderà da quanto riuscì il Governo ad innovare attraverso i decreti legislativi: ossia se si limiterà ad un intervento chirurgico che recepisca pedissequamente le principali novità contenuti nelle direttive di settore oppure se coglierà l’occasione per introdurre nuovi strumenti regolatori tanto per i players tradizionali quanto per i big della rete.

Con specifico riferimento al settore dei media cruciale importanza riveste la media literacy/education ovvero l’alfabetizzazione digitale, vero e proprio fulcro centrale del divario digitale sociale.

Solo attraverso una competenza diffusa e condivisa tra i vari attori pubblici (istituti scolastici, università MISE. MIC, AGCOM, Garante Privacy solo per citarne alcuni). Fa sperare, al riguardo che l’articolo 4 della legge di delegazione europea (che attribuisce il mandato al Governo per il recepimento della Direttiva SMAV) contenga al suo interno un comma dedicato e che impone “la promozione dell'alfabetizzazione digitale da parte dei fornitori di servizi di media e dei fornitori di piattaforme di video-sharing”. Ecco, tuttavia, a parere di chi scrive, l’alfabetizzazione digitale non è solo un compito da attribuire ai fornitori di media (lineari e non) ma soprattutto dei GAFAM; è con loro che bisognerebbe avviare un percorso, di formazione costante dei propri utenti. Necessario in questo percorso è la parallela formazione da parte della stessa PA, a partire dagli insegnanti - che, come detto, non sono stati preparati, a causa dell’assenza della formazione, a gestire la DAD - dagli impiegati degli enti pubblici locali (dipendenti comunali, delle ASP, della regione etc.) e nazionali. Infatti, se dal recovery plan arriveranno importanti fondi per il digitale è davvero fondamentale che essi siano spesi nella formazione dei soggetti (partendo da pubblici per arrivare ai privati) prima ancora che accrescere la connessione e i servizi digitali. Come ci ricordò il Presidente Pertini nel suo messaggio di fine anno del 1982[63]Il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere.” Si badi bene, è qui che si gioca la vera partita, specie della questione meridionale; è dal mezzogiorno che bisogna puntare la lente di ingrandimento ma non solo nelle modalità di spesa dei danari pubblici quanto, lo si ripete, nella formazione all’utilizzo del digitale.

Occorre, quindi, prendere le mosse dalla “burrasca di distruzione creativa” ipotizzata dall’economista Joseph Schumpeter che sviluppo nel suo volume “Capitalismo, socialismo e democrazia” per regolare con lenti nuove e diverse il fenomeno delle piattaforme digitali che non guardi quindi agi strumenti tradizionali sin qui seguiti ma anzi li distrugga in maniera creativa fornendone dei nuovi: «Il punto essenziale da afferrare è che chi studia il capitalismo studia un processo essenzialmente evolutivo. Gli economisti stanno uscendo dallo stadio in cui non vedevano che una forma di concorrenza: quella nei prezzi è […] ma la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo, condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità e incide non sui margini del profitto e sulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro spesse fondamenta, sulla loro vita» (tratto da pag. 78 de “Capitalismo, socialismo e democrazia”).

Per regolare le piattaforme occorre pertanto non pensare solo ai principi tipi della concorrenza, basati essenzialmente, sui prezzi praticati dei big player, ma sulla nuova valuta di scambio divenuta pregiatissima i dati, i nostri dati. In concreto, per fare ciò è indispensabile partire da una visione per così dire glocal: guardare ai fenomeni della globalizzazione per regolare il locale. La recente sentenza del Consiglio di Stato (sentenza n. 2631/2021) ha sancito la “non gratuità di Facebook”, chiarendo, per la prima volta, che i servizi offerti dalle piattaforme (le ricerche che facciamo, le mail che inviamo, i video che guardiamo etc.) fruibili senza richiedere alcun denaro non sono affatto gratuiti. Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che «le informazioni rese all’utente al primo contatto, lungi dal contenere gli elementi essenziali per comprendere le condizioni e i limiti delle conseguenze che, a fronte della gratuità dei servizi offerti, deriveranno dalla profilazione in termini di indefinibilità dei soggetti che utilizzeranno i dati personali messi a disposizione e del tipo di utilizzo commerciale connesso, lasciano supporre che sia possibile ottenere immediatamente e facilmente, ma soprattutto “gratuitamente” (e per tutto il periodo in cui l’utente manterrà l’iscrizione in piattaforma), il vantaggio collegato dal ricevimento dei servizi tipici di un social network senza oneri economici, omettendo di comunicare che, invece, ciò avverrà (e si manterrà) solo se (e fino a quando) i dati saranno resi disponibili a soggetti commerciali non definibili anticipatamente ed operanti in settori anch’essi non pre-indicati per finalità di uso commerciale e di diffusione pubblicitaria».

 

Scoperto il vaso di pandora per cui è ormai sempre più noto che “If You Are Not Paying for the Product, You Are the Product![64], diventa impellente rispondere alle seguenti domande: Quando vale un mio dato? Quanto riesce a cubare un’azienda dai miei movimenti? Quali nuove regole imporre alle piattaforme digitali?

In realtà, come ci ha ricordato Jaron Lanier, informatico, compositore e saggista statunitense, noto per aver reso popolare la locuzione virtual reality (realtà virtuale, di cui è peraltro considerato un pioniere): “il prodotto non siamo noi. E’ la possibilità che le piattaforme hanno di cambiare il nostro comportamento”. Occorre pertanto prevedere, ed in questo i nuovi testi (DSA e DMA) stanno imboccando la corretta direzione, misure diversificate in funzione delle tipologie e delle dimensioni delle aziende OTT.

Dal punto di vista dell’informazione non è più sostenibile per un giornale seguire il nodello di Facebook o Google ma semmai quello di Le Monde. Il quotidiano francese anziché puntare ad una strategia commerciale di contenimento dei costi, anche tramite una riduzione dei giornalisti, ha puntato sulla qualità; il suo direttore, Luc Bronner, ha scritto al riguardo, attraverso Twitter, che fra il 2018 e il 2019 Le Monde ha ridotto del 14% il numero degli articoli (addirittura del 25 per cento nei due anni) e che nel frattempo i giornalisti sono aumentati - oggi sono più di 500 - e hanno più tempo per fare inchieste. Il risultato che è il numero di utenti sul web e sulla carta è aumentato, dell'11% in ciascun settore.

Più giornalisti meno articoli uguale più lettori. Sebbene sembri uno spot da prima Repubblica, sulla scia di "lavorare meno lavorare tutti", in realtà si tratta di una formula controintuitiva perché c'è una variabile nascosta che la rende comprensibile: la qualità del giornalismo. Più giornalisti, meno articoli uguale più qualità e quindi più lettori. Tale approccio, a ben pensare, è quello che ha seguito con successo,  dai grandi media player che specie negli ultimi anni hanno avuto un’enorme fortuna economica puntando proprio sulla qualità (contenuti originali, alta definizione, pluralità di lingue e sottotitoli).

Se errare è umano, perseverare sarebbe diabolico. Davvero. E un’altra stecca comprometterebbe definitivamente l’opera: L’informazione è la democrazia.

 

 

13.                     LO STATO SOCIALE DIGITALE

 

a) Premessa

Nel mese di ottobre del 2019 è stato presentato all’ONU il rapporto[65] del relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani, Philip Alston. Il rapporto è dedicato all’allarme per i diritti umani derivante dall’abuso della digitalizzazione nel campo della protezione sociale.

Lo stato sociale digitale è un complesso ed eterogeneo insieme di interventi totalmente o quasi interamente governati dal software e da sistemi automatizzati. Come riferisce il rapporto <<i sistemi di protezione sociale e di assistenza sono sempre più dipendenti dai dati digitali e dalle tecnologie che vengono utilizzate per automatizzare, prevedere, individuare, sorvegliare, rilevare il bersaglio e punire. I commentatori hanno predetto un futuro in cui le agenzie governative potrebbero effettivamente legiferare con i robot, ed è evidente che stanno emergendo nuove forme di governance che si basano in modo significativo sull’elaborazione di grandi quantità di dati digitali da tutte le fonti disponibili, utilizzano l’analisi predittiva per prevedere il rischio, automatizzare il processo decisionale e rimuovere la discrezionalità dalle decisioni umane. In un mondo del genere, i cittadini diventano sempre più visibili al loro governo, ma non il contrario>>.

Il rapporto osserva che nei paesi dove questi sistemi sono stati implementati, lo stato sociale digitale viene presentato come una creatura benigna, foriera di efficienza, riduzione dei costi e di un livello più alto dei servizi. In realtà la digitalizzazione dei sistemi di welfare è stata spesso <<accompagnata da profonde riduzioni di budget complessivo, un restringimento della platea di beneficiari, l’eliminazione di alcuni servizi, l’introduzione di forme esigenti e intrusive di valutazione dei requisiti di accesso ai benefici, il perseguimento di obiettivi di modifica dei modelli di comportamento, l’imposizione di regimi sanzionatori più forti e una completa inversione della nozione tradizionale secondo cui lo stato dovrebbe essere responsabile nei confronti dell’individuo>>.

Insomma, siamo in presenza di una sorta di neoliberismo strisciante mascherato da buon samaritano digitale con effetti fortemente regressivi che riflette valori e ipotesi che sono molto lontani dai principi dei diritti umani e che possono risultarvi addirittura antitetici.

La minaccia di un futuro distopico è particolarmente significativa rispetto al tema dello stato digitale. Il rapporto presenta un resoconto sistematico dei modi in cui le tecnologie digitali vengono utilizzate nello stato sociale e delle loro implicazioni per i diritti umani. Il documento si conclude chiedendo la regolamentazione delle tecnologie digitali, compresa l’intelligenza artificiale, per garantire il rispetto dei diritti umani e un ripensamento dei modi positivi in cui lo stato sociale digitale possa divenire uno strumento potente per il raggiungimento di un effettivo miglioramento dei sistemi di protezione sociale.

b) La verifica dell’identità

Quello della verifica dell’identità della popolazione è stato considerato uno dei fattori strategici e di sviluppo. In effetti in moltissime aree del mondo gran parte della popolazione non possiede un documento di identità e non sono stati adottati sistemi efficienti di registrazione delle nascite. La Banca Mondiale ha attivato dei programmi di finanziamento finalizzate alla promozione ed all’implementazione di tecnologie digitali per la registrazione anagrafica e l’identificazione. Pur essendo innegabili i benefici di tali interventi, esistono dei pericoli intrinseci al funzionamento di questi sistemi informatici, talvolta basati su tecnologie di riconoscimento biometrico, che possono mettere a repentaglio la sicurezza dei dati personali della popolazione oppure essere utilizzati come tecnologie di controllo di massa o, più semplicemente, possono funzionare male mettendo a repentaglio anche la vita di esseri umani. In India ad esempio è stato introdotto dal 2009 un gigantesco sistema di riconoscimento biometrico che ad oggi coinvolge oltre 1,2 miliardi di persone.

Raccolte di massa di dati biometrici e DNA si riscontrano in Kenia, Sudafrica, Argentina,  Bangladesh, Cile, Irlanda, Giamaica, Malesia, Filippine e Stati Uniti.

Nel nostro ordinamento l’art. 9 del GDPR riguarda proprio il trattamento dei dati biometrici, che è generalmente vietato ma risulta ammesso se si verificano i casi previsto al paragrafo 2 (vedi in particolare le lettere b), g), h), i)[66]).

c) La valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali

I sistemi automatici di valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali sono sempre più utilizzati. Nello stato canadese dell’Ontario l’accesso al sistema di assistenza sociale si basava su un software IBM denominato Curam. Il software è stato usato anche negli Stati Uniti, in Germania, Australia e Nuova Zelanda ed è personalizzabile. Ebbene, questo software, a causa di un errore di programmazione, ha letteralmente tagliato le prestazioni per una somma pari a 140 milioni di dollari a fronte di un totale di budget pari a 290 milioni. Prestazioni quindi dimezzate per un errore di programmazione con conseguente panico per i beneficiari e per i pochi operatori umani destinati a risolvere la faccenda.

Nello stato dell’Illinois, riporta il Guardian, il governo ha richiesto il rimborso di sussidi asseritamente pagati in eccesso, relativi in alcuni casi a 30 anni fa. Questi “rimborsi zombie”, decisi sinteticamente dai programmi per elaboratore, stanno mettendo nel panico gli strati più deboli della società. Nel Regno Unito si investono milioni di sterline in un progetto di “robot assistenziali” per sostituire gli umani nella cura delle persone bisognose. In Australia, si usa l’automazione per sospendere, senza preavviso, i sussidi sociali. In India  è stato introdotto un sistema di riconoscimento biometrico per l’erogazione delle razioni di sussistenza alimentare.

Questi sono solo alcuni esempi delle distorsioni derivanti da un uso sconsiderato delle tecnologie e dell’automazione governata da algoritmi e senza la supervisione dell’uomo.

d) Il primato del diritto sul codice informatico: code is not law

A tal riguardo è di particolare interesse la sentenza N. 10964/2019 del TAR Lazio. Secondo il TAR, sul solco già tracciato precedentemente dal Consiglio di Stato, in materia di procedimento amministrativo l’intervento umano è necessario e non potrà mai essere completamente sostituito dal sistema automatizzato.

Il meccanismo informatico o matematico è infatti del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa.

Alle procedure informatiche va riservato quindi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo, alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale.

Le decisioni della giustizia amministrativa italiana sono di fondamentale importanza perché riaffermano il primato dell’uomo e di una delle sue più sofisticate ed evolute creazioni, il diritto. Se ne sentiva il bisogno ma bisogna restare vigili.

e) Proposta

Occorre una regolamentazione dell’uso delle tecnologie digitali, compresi i sistemi esperti digitali - impropriamente definiti come intelligenza artificiale – da intendersi esclusivamente come ausilio all’intervento dell’uomo, per garantire il rispetto dei diritti fondamentali e un ripensamento dei modi positivi in cui lo stato sociale digitale possa divenire uno strumento potente per il raggiungimento di un effettivo miglioramento dei sistemi di protezione.

 

f) Azioni concrete per una evoluzione digitale

La stragrande maggioranza delle connessioni in rete avviene tra macchine. In Internet l’umanità è ormai minoranza. Con l’introduzione delle tecnologie 5g questo fenomeno si manifesterà in maniera ancor più evidente. Oggi le macchine acquisiscono dati sulle nostre abitudini, sui nostri gusti, sulle nostre attività e suggeriscono ciò che secondo i propri algoritmi informatici dovrebbe piacerci. Se acquisti un libro in una piattaforma online poi la macchina te ne suggerirà altri che potrebbero interessarti; lo stesso accade se guardi un film su un sito di streaming, subito dopo, senza soluzione di continuità te ne verrà proposto un altro che potrebbe piacerti. Questi sistemi, sebbene apparentemente utili, possono limitare l’autonomia e la libertà di scelta da parte dell’uomo. Quella su come dovrà l’essere umano rapportarsi a questi cambiamenti rappresenta una sfida evolutiva. Come vivere nell’infosfera senza subire limitazioni al proprio agire ed al proprio pensare ? Potrà l’essere umano ancora governare la macchina o ne diventerà dipendente e schiavo ?

La risposta a questi quesiti passa attraverso il nodo della centralizzazione delle piattaforme informatiche.

Il fenomeno al quale assistiamo oggi è la presenza di grandi piattaforme informatiche monopolistiche o semi monopolistiche con enormi poteri di influenza su cosa vediamo, con chi interagiamo, quali sono i nostri gusti, qual è il nostro orientamento politico e religioso. Questo potere di influenza può trasformarsi in un perverso e pericolosissimo sistema di manipolazione di massa del quale - chi più, chi meno – siamo tutti vittime.

Siamo soggetti a processi decisionali automatizzati, erroneamente definiti dai comunicatori come “intelligenza artificiale”, che funzionano come una scatola nera senza alcuna trasparenza nei meccanismi di funzionamento.

Il controllo delle grandi piattaforme è in mano a pochi soggetti privati che acquisiscono e conservano tutti i dati che passano attraverso le proprie reti, producendo profitti immensi e con una bassa responsabilità sociale. Quello che è stato creato negli ultimi trent’anni è un ecosistema orientato al profitto, al monopolio ed all’omologazione, dove passano ormai tutte le interazioni tra gli esseri umani.

Una via progressista per cambiare questo stato di fatto e per consentire a tutti di usufruire degli indubbi e grandissimi vantaggi delle tecnologie avanzate digitali è quella della trasparenza dei protocolli informatici, della conoscibilità del codice informatico e degli algoritmi, della decentralizzazione delle piattaforme utilizzando sistemi federati che siano orizzontali e non verticali.

E’ necessario promuovere le innovazioni per il bene comune in un ecosistema possibilmente autogestito o gestito da piccole collettività che si trovino in rapporto paritario e mai verticistico tra loro. Un sistema in cui anche l’iniziativa imprenditoriale sia distribuita e socialmente responsabile attraverso l’uso di tecnologie ed energia il più possibile pulite.

E’ di strategica importanza una governance positiva e forte del settore pubblico nella creazione e condivisione di conoscenza, creatività, ricerca, sviluppo e innovazione, a beneficio di tutta la società. Le tecnologie digitali avanzate possono creare grandi opportunità se orientate alla promozione di iniziative che abbiano un approccio comunitario e cooperativo.

Il cittadino da utente, consumatore o prodotto, deve diventare agente consapevole. Le persone devono riacquistare il potere ed affermare il proprio imprescindibile ruolo di soggetti attivi e mai passivi nella progettazione, nella costruzione e nella fruizione della tecnologia. Solo in questa maniera l’essere umano potrà evitare di soccombere nella grande lotta con la macchina dalla quale risulterebbe sopraffatto ed infine inesorabilmente schiavo, come nei peggiori scenari della fantascienza distopica.

Il ruolo dell’Unione Europea in questo processo è fondamentale.

In primo luogo occorre rafforzare la tutela dei dati personali correttamente elevati dal GDPR ben al di sopra del mero concetto di riservatezza. Il dato personale attiene all’essere umano. Nell’infosfera il dato è paragonabile ad una porzione del corpo umano e la sua tutela ed inviolabilità appartiene al rango più elevato del complesso dei diritti fondamentali.

Occorre limitare l’impatto negativo dei monopoli delle piattaforme e dell’automazione, utilizzando anche la lotta all’evasione ed all’elusione fiscale dei grandi operatori internazionali.

Le piattaforme informatiche e i formati elettronici devono essere interoperabili; i dati devono poter essere esportati da una piattaforma all’altra senza limitazioni.

I processi decisionali automatizzati attraverso l’uso di algoritmi informatici devono essere democratizzati, intellegibili ed a codice aperto.

Occorre potenziare e rendere più facilmente fruibili le basi comuni di dati acquisiti e trattati dalla pubblica amministrazione, che devono diventare vero e proprio bene comune di tutti i cittadini.

Devono essere incentivate e sviluppate le piattaforme cooperative decentralizzate che abbiano sin dalla progettazione una distribuzione orizzontale e non verticistica, attraverso protocolli che consentano l’interconnessione federata.

L’uso della crittografia nello scambio di informazioni sulle reti telematiche deve essere incentivato e non ostacolato sulla base di presunte esigenze securitarie.

Lo Stato deve utilizzare e contribuire fattivamente con i propri mezzi e ed il proprio personale allo sviluppo di software a codice aperto, restituendo in questo modo alla collettività programmi per elaboratore più sicuri e trasparenti, liberandosi dai vincoli delle multinazionali con ovvi ritorni positivi anche in termini di sicurezza nazionale.

La tecnologia deve essere utilizzata per consentire la più ampia partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli, anche quelli delle decisioni economiche, affiancando e coadiuvando ma senza sostituire la rappresentanza parlamentare nelle assemblee legislative.

 

g) L’uso degli algoritmi nel procedimento amministrativo ed open source nella PA

Il Consiglio di Stato sez. VI, con sentenza n.2270 dell’8 aprile 2019 ha affermato il principio secondo il quale in primo luogo, come già messo in luce dalla dottrina più autorevole, il meccanismo attraverso cui si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. In secondo luogo, la regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo.

L’utilizzo di procedure “robotizzate” non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa.

Difatti, la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva.

Questa regola algoritmica, quindi:

  • possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale, come si è detto, deve soggiacere ai principi generali dell’attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza (art. 1 l. 241/90), di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.;
  • non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l’elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili (e ciò la rende in parte diversa da molte regole amministrative generali); la discrezionalità amministrativa, se senz’altro non può essere demandata al software, è quindi da rintracciarsi al momento dell’elaborazione dello strumento digitale;
  • vede sempre la necessità che sia l’amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell’algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning);
  • deve contemplare la possibilità che – come è stato autorevolmente affermato – sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano’, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”.

In definitiva, dunque, l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico“.

Successivamente, la Sezione Terza bis del TAR Lazio con sentenza in forma breve N. 10964/2019, ha fissato un ulteriore importante principio di diritto in materia di uso dell’algoritmo informatico all’interno del procedimento amministrativo, affermando che non si può demandare allo strumento informatico lo svolgimento dell’intero procedimento amministrativo. In mancanza dell’intervento dell’uomo nel procedimento amministrativo, viene a mancare secondo il TAR una vera e propria attività amministrativa. Il meccanismo informatico o matematico è infatti del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa. Un algoritmo, motiva la il TAR, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6,7,8,9,10 della legge 7.8.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario. Ed ancora, gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost.

E’ pertanto necessario ed insostituibile l’intervento umano che non potrà mai essere completamente sostituito dal sistema automatizzato. Alle procedure informatiche va riservato un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

Demandare ad un impersonale algoritmo lo svolgimento dell’intero procedimento amministrativo (esempio tipico è quello delle procedure di assegnazione dei docenti alle sedi disponibili nell’organico dell’autonomia della scuola) rappresenta una fattispecie in cui manca una vera e propria attività amministrativa.

<<Un algoritmo, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6,7,8,9,10 della legge 7.8.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario>>.

Secondo il TAR <<gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale>>.

Le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento, deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

Con sentenza recentissima il TAR Lazio ha ribadito il concetto riconoscendo il diritto di accesso al codice sorgente del software relativo allo svolgimento della prova scritta del concorso per il reclutamento dei dirigenti scolastici bandito nel 2017 (sentenza n. 7372 del 30 giugno 2020). Il Ministero dell’Istruzione (che ha bandito la procedura) e il Cineca (che ha realizzato il software) devono ora consentire l’accesso all’algoritmo, attraverso la lettura del codice sorgente del software, in modo che alcuni dei soggetti che hanno partecipato alla procedura possano verificarlo.

L’affermazione di questi principi sacrosanti da parte della giustizia amministrativa richiederà alla pubblica amministrazione un miglioramento delle competenze informatiche da parte dei funzionari della pubblica amministrazione in un paese che purtroppo si trova in coda tra i paesi dell’Unione Europea nella classifica delle competenze digitali. Non sarà infatti più sufficiente attingere semplicemente ed acriticamente i dati elaborati dal programma informatico ma il funzionario pubblico  responsabile del procedimento, dovrà partecipare attivamente alla sua stesura e quindi alla definizione dell’algoritmo, inteso procedimento informatico che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui.

h) Proposta

In un contesto in cui è sempre più diffuso l’uso di software che gestiscono il procedimento amministrativo o alcune delle sue fasi in maniera automatizzata, è necessario vigilare affinché risultino rispettati i principi delineati dalla più avveduta giurisprudenza amministrativa (trasparenza dell’algoritmo e partecipazione umana al procedimento che non deve essere quindi totalmente automatizzato); di pari passo è necessario migliorare il livello di competenza informatica dei dipendenti della pubblica amministrazione - attraverso il ricorso a risorse interne ed organiche all’amministrazione stessa - nonché incentivare ed estendere l’uso di applicativi informatici a codice aperto.  

A tal riguardo si evidenzia che la pubblica amministrazione italiana è tenuta per legge a preferire software libero e/o a codice sorgente aperto, valutando i possibili benefici derivanti dall'azione di formati aperti. La direttiva Stanca del 2003, affermò esplicitamente l'adozione di soluzioni informatiche in grado di gestire almeno un formato aperto. Ai sensi dell’art. art. 68 della del Codice dell’Amministrazione Digitale esiste l'obbligo di effettuare "analisi comparativa di soluzioni" ad es. tra programmi a codice aperto ed a codice chiuso. Le Pubbliche amministrazioni hanno inoltre l’obbligo di pubblicare in open source tutto il proprio codice e di valutare software già esistente prima di realizzarne di nuovo (art. 69 CAD). In tale contesto normativo appare di difficile comprensione la recente decisione del Ministero dell’Istruzione di adottare la suite proprietaria ed a codice chiuso Office 365 della Microsoft come piattaforma di lavoro; allo stesso modo non si comprende il motivo per cui i programmi prescelti per le udienze da remoto nel processo civile e penale siano sempre a codice chiuso di proprietà della Microsoft. È necessario quindi richiedere l’accesso agli atti del procedimento amministrativo di adozione degli applicativi informatici della pubblica amministrazione al fine di verificare l’effettivo espletamento delle analisi comparative. Tali procedure comparative, ad esempio nel caso specifico della scuola e della giustizia, non possono fare a meno di considerare costi e benefici nonché i rischi potenziali in termini di trattamento dei dati personali.

 

14.                     DIRITTO PENALE

a) Premessa

L'esordio del nuovo governo Meloni non poteva essere più preoccupante.

A fronte delle vere e varie urgenze sociali, i primi provvedimenti del governo sono dedicati al diritto e alla procedura penale. Per di più si tratta di interventi dedicati a introdurre un nuovo reato, punito con pene sconsiderate; a ritardare l’entrata in vigore di una riforma, con il malcelato intento di rivederne le parti più garantiste; e a tentare di mantenere in vita, sotto sembianze dissimulate, l'ergastolo ostativo che da tempo la Corte Costituzionale ha chiesto al legislatore di abrogare. A dispetto delle prime dichiarazioni del Ministro della Giustizia il governo percorre, come sempre la destra ha fatto, la strada della criminalizzazione e della repressione come risposta ad ogni problema.

Certamente l’introduzione del reato di invasione arbitraria di edifici e terreni finalizzata a "raduni pericolosi" (dizione giuridicamente inedita, contemplando il nostro codice, fin qui, unicamente il reato contravvenzionale di "radunata sediziosa") è la previsione più pericolosa. Il diritto a riunirsi —in più di cinquanta persone, diritto fondamentale, individuale e sociale sancito dall'articolo 17 della Costituzione viene violentato, con la scusa dei rave party, e si prevedono fino a sei anni di carcere per chi lo promuove con diminuzione di pena, non quantificata, per chi vi partecipa.

Si stabilisce un minimo della pena così alto (tre anni) al solo fine di evitare che siano applicabili, non solo ai promotori del raduno, ma anche ai partecipanti, misure come la dichiarazione di tenuità del fatto. Si prevede addirittura la misura della sorveglianza speciale anche per il semplice partecipante al raduno. Non solo: la misura non necessita di una previa condanna definitiva, ma può essere proposta anche solamente sulla base di denunce e segnalazioni di PS, dal momento che la nuova fattispecie va ad ampliare il numero di quelle per cui è possibile l'applicazione delle misure di prevenzione personale, il cui abuso abbiamo più volte denunciato. E lo si fa quando il raduno «può» mettere in pericolo l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica, demandando prima alle forze di polizia e poi alla magistratura una inammissibile discrezionalità, che può agevolmente sfociare nell'arbitrio.

La norma, peraltro, consente la configurazione del reato e la relativa irrogazione della pena anche in caso di occupazione di scuole, università o fabbriche.

Anche il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia desta preoccupazione. Se il problema era quello di permettere una più ordinata transizione fra la vecchia e la nuova normativa, tutto si poteva risolvere con l’introduzione di qualche norma transitoria ad hoc. La riforma Cartabia contiene luci e ombre, ma il rinvio sembra preordinato a spegnere le luci e a mantenere in vita e aumentare le ombre.

Infine il governo, con vivo accanimento, cerca di prolungare l'esistenza dell’ergastolo ostativo con una normativa che nominalmente lo abroga, ma lo rende di fatto inevitabile, vista la quantità di ostacoli che vengono posti al suo superamento nel concreto. Il giusto e auspicabile contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa non può tradursi nell’inumanità della pena.

Se questo è l'inizio, cosa ci riserverà il prosieguo?

Come Giuristi Democratici non possiamo che confermare la nostra netta contrarietà all'introduzione di nuove norme penal-repressive, palesemente incostituzionali, e il nostro impegno a demistificarle e contrastarle in ogni sede, insieme a tutte le associazioni progressiste e democratiche, alle attiviste ed attivisti, alla società civile.

 

15.                     CRIMINI DI SISTEMA

Sono le violazioni dei diritti umani degli immigrati e i morti per fame causati dai poteri politici, economici e finanziari e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Leggi e pratiche sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti. Ottocento milioni non hanno né cibo né acqua, due miliardi non possono curarsi

Si propone di adottare una nozione di crimine assai più estesa di quella di crimini penali, qualificabili come tali solo se consistenti in offese e in eventi dannosi esattamente determinati e imputabili alla responsabilità di persone altrettanto determinate. Si tratta di colmare una lacuna presente nel nostro lessico teorico-giuridico, cioè di dare un nome a quell’altra classe di violazioni massicce di diritti e beni fondamentali stabiliti da carte costituzionali o internazionali e tuttavia non consistenti in atti individuali.

La proposta consiste nell’includere, nella nozione di «crimine», questa classe di violazioni giuridiche, non meno e anzi, di solito, assai più gravi: quelli che possiamo chiamare crimini di sistema, consistenti in aggressioni e violazioni dei diritti umani messe in atto, come si è detto, dall’esercizio incontrollato dei poteri globali – politici, economici e finanziari – e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Non si tratta, si badi, dei crimini dei potenti, che sono pur sempre crimini penali e la cui gravità e la cui frequente impunità sono state fatte oggetto d’indagine da un’ormai ampia letteratura di criminologia critica. E neppure si tratta dei crimini di Stato o dei crimini contro l’umanità, parimenti trattati dal diritto penale internazionale a seguito di quella grande conquista che è stata l’istituzione della Corte penale internazionale.

I crimini di sistema, consistendo in violazioni massicce dei diritti umani costituzionalmente stabiliti, sono sicuramente riconducibili alla fenomenologia dell’illecito giuridico. Non sono tuttavia illeciti penali, difettando di tutti gli elementi costitutivi del reato. I loro tratti distintivi, quelli che, volendo usare il linguaggio penalistico, possiamo chiamare i loro elementi costitutivi, sono due: il carattere indeterminato e indeterminabile sia dell’azione che dell’evento, di solito catastrofico, e il carattere pluri-soggettivo sia dei loro autori che delle loro vittime, consistenti di solito in popoli interi o, peggio, nell’intera umanità.

Prendiamo le leggi e le pratiche adottate in Italia, come in molti altri paesi, contro l’immigrazione clandestina. Ovviamente il diritto penale non potrà mai configurarle come delitti. Eppure leggi e pratiche di questo tipo sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti alle frontiere degli immigrati clandestini. Si tratta di molte migliaia di vittime, interamente rimosse dalla nostra coscienza: più di 30 mila persone negli ultimi 15 anni. È chiaro che questi eccidi non possono essere considerati come disastri naturali, bensì come crimini di sistema, benché non siano punibili come reati le politiche e le leggi che li hanno provocati. Solo così può svilupparsi la consapevolezza della loro contraddizione con tutti i nostri conclamati valori di civiltà e può maturare, nel senso comune e nel dibattito pubblico, la necessità di impedirne come illecita la commissione.
Lo stesso discorso può farsi per i milioni di morti ogni anno per fame, sete e malattie non curate e per le devastazioni ambientali. Oggi più di 800 milioni di persone soffrono la fame e la sete e circa 2 miliardi si ammalano senza la possibilità di curarsi. La conseguenza è che ogni anno muoiono circa 8 milioni di persone – 24 mila al giorno – in gran parte bambini, per la mancanza dell’acqua potabile e dell’alimentazione di base provocata da inquinamenti e carestie. Ancor più drammatica è la situazione della salute.

Alla base di questi crimini di sistema c’è un vuoto di diritto, ben più che di diritto penale, dovuto a molteplici fattori, tutti legati all’odierna globalizzazione della sola economia e al carattere ancora locale della politica e del diritto: l’assenza di una sfera pubblica all’altezza dei poteri economici e finanziari in grado di limitarne e controllarne l’esercizio; il conseguente ribaltamento del rapporto tra economia e politica, in forza del quale non è più la politica che governa l’economia, ma è l’economia che governa la politica, ovviamente a vantaggio dei soggetti economicamente più forti; il nesso infine tra l’impotenza della politica nei confronti dei poteri economici globali e la sua rinnovata onnipotenza, da questi imposta, nei confronti delle persone e in danno dei loro diritti costituzionalmente stabiliti.

Si è così prodotta un’abdicazione della politica al suo ruolo di governo dell’economia e di garanzia dei diritti sociali, che peraltro è stata favorita anche da talune aporie della democrazia, emerse anch’esse con l’odierna globalizzazione. Le democrazie rappresentative dei nostri paesi sono nate e restano tuttora ancorate agli Stati nazionali. Sono perciò vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali politiche all’altezza delle sfide e dei problemi globali.

C’è poi un’altra aporia che investe le nostre democrazie. Simultaneamente alla perdita di sovranità degli Stati, sostituita dalla sovranità di quei nuovi sovrani assoluti, invisibili e irresponsabili che sono i mercati, stanno prendendo il sopravvento, nei nostri paesi, movimenti populisti – euroscettici, xenofobi, sovranisti e nazionalisti – che mentre contestano demagogicamente quei nuovi sovrani globali, ne risultano di fatto i principali alleati dato che si oppongono alla sola politica che sarebbe in grado di fronteggiarli: la costruzione di una sfera pubblica alla loro altezza, quanto meno europea e in prospettiva globale, in grado di imporre loro regole, limiti e controlli. È invece precisamente questa la sola risposta razionale che la politica e il diritto possono offrire ai crimini di sistema e alla conseguente crisi delle nostre democrazie: lo sviluppo di una dimensione nuova e ormai inderogabile della sfera pubblica, del costituzionalismo e del garantismo, al di là dell’angusto localismo della politica delle democrazie nazionali: in primo luogo un costituzionalismo di diritto privato, cioè un sistema costituzionale di limiti, vincoli e controlli sopraordinato ai poteri privati, oltre che a quelli pubblici; in secondo luogo un costituzionalismo di diritto internazionale, all’altezza delle aggressioni planetarie all’ambiente – il riscaldamento climatico, l’inquinamento dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità – che richiedono l’introduzione di norme, controlli, funzioni e istituzioni di garanzia anch’esse di livello planetario.

È difficile prevedere se una simile espansione del costituzionalismo e della democrazia riuscirà a svilupparsi o se continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono però certe. La prima riguarda l’alternativa di fronte alla quale è posta l’umanità. Oggi o si va avanti nel processo costituente, dapprima europeo e poi globale, basato sulla garanzia della pace e dei diritti vitali di tutti, oppure si va indietro, ma indietro in maniera brutale e radicale. O si perviene all’integrazione costituzionale e all’unificazione politica dell’Europa, magari ad opera di un’Assemblea costituente europea, oppure si produce una disgregazione dell’Unione e un crollo delle nostre economie e delle nostre democrazie, a vantaggio dei tanti populismi che stanno crescendo in tutti i paesi europei.

La seconda cosa certa riguarda il carattere niente affatto utopistico, ma al contrario razionale e realistico del progetto costituzionale disegnato dalle tante carte dei diritti prodotte dal costituzionalismo novecentesco. C’è infatti una grande, positiva novità che è stata generata dalla necessità di proteggere i diritti e i beni fondamentali dai crimini di sistema e che consente una nota di ottimismo: l’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra, idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica come politica interna del mondo, basata sull’esistenza, per la prima volta nella storia, di un interesse pubblico e generale ben più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato.

 

16.                     CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

a)     Premessa

Anche in materia di violenza maschile contro le donne la legislazione italiana ha assunto da tempo il paradigma securitario quale orizzonte di intervento privilegiato non fosse altro che per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza e la retorica emergenzialista che oramai accompagna sistematicamente non solo le novelle che il legislatore sempre più frequentemente introduce in questo ambito, ma anche più ampiamente il corredo di politiche che fa da cornice al sistema degli interventi in materia di contrasto e prevenzione della violenza nonché protezione delle vittime.

È indubbio che in questi anni la “issue” della violenza contro le donne sia entrato a pieno titolo nell’agenda politica. Tale circostanza in buona misura attribuibile alla domanda politica che le donne a livello globale avanzano da decenni, è però in realtà anche l’esito di indefettibili obblighi internazionali che ci derivano dalla sottoscrizione di norme di più ampio respiro che riguardano specificamente la lotta alle discriminazioni nei confronti delle donne[67], ma anche più estesamente il codice internazionale dei diritti umani, e in particolare il diritto alla vita, il diritto a non subire tortura e/o trattamenti inumani, crudeli e degradanti, il diritto alla libertà personale e al rispetto della propria vita privata e familiare, cosi come a quello non essere ridotte in schiavitù e ovviamente ad un giusto processo[68]. Proprio all'inquadramento offerto dal diritto internazionale dei diritti umani già nel 1993 con l’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne si deve il riconoscimento della violenza come “manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Tale riconoscimento, nel tempo ripreso estesamente in una pluralità di atti, ha imposto al nostro decisore politico di non limitare l’intervento legislativo in materia di contrasto alla violenza degli uomini contro le donne alla previsione di fatti di reati più o meno severamente sanzionati bensì di operare per rimuovere le condizioni che sono sottese alla violenza ovvero le discriminazioni contro le donne basate sul genere. Ciò ha implicato la messa a punto di un corredo di dispositivi e di policies che sono culminate nella previsione all’art. 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» il quale prevede l'adozione di un «Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», al comma 2, lett. d) stabilisce di «potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza» e all'art. 5-bis tratta delle azioni per i centri antiviolenza e le case rifugio. 

Tale decreto inaugura perciò una stagione che avrebbe dovuto essere segnata da un impegno in materia di lotta alla violenza certamente caratterizzata da un’attenzione in chiave criminalizzante verso i reati di cui sono vittime le donne accompagnata però dalla previsione di misure e risorse atte da un lato a “liberarle” autenticamente dal flagello della violenza, dall’altro a sostanziare sul piano della retributività le stesse norme penali, poiché è chiaro che un fenomeno sociale di questa portata non lo si può sconfiggere lavorando su quella porzione di situazioni che emerge rispetto ad un sommerso che continua ad alimentarsi proprio sulla maggior esposizione alla vulnerabilità situazionale che molte donne vivono nel nostro contesto sociale segnato dalla persistenza di evidente situazioni discriminatorie.

Di fatto sulla scorta di quanto previsto dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 oggi il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023” presentato in Consiglio dei ministri nel novembre 2021, previo parere espresso dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni che, in continuità con il precedente 2017-2020 costituisce la cornice di riferimento per il sistema degli interventi in materia di violenza e si articola in 4 assi (Prevenzione, Protezione e sostegno, Perseguire e punire, assistenza e Promozione) in analogia alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica adottata a Istanbul l'11 maggio 2011di Istanbul e ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77. Il Piano è a sua volta integrato dall’Intesa Stato-Regioni, che modifica la precedente n. 146/CU del 27 novembre 2014, relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio determinando criteri stringenti in merito al livello di specializzazione di tutti i soggetti (siano essi associazioni o enti pubblici e locali) che concretamente erogano i servizi, uniformando a livello nazionale i requisiti minimi per accedere alle risorse finanziarie e valorizzando il “lavoro in rete” svolto dai Centri antiviolenza all’interno di un sistema di risposta alla violenza coordinato a livello territoriale.

In realtà i vari interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni, a partire dalla normativa sul “femminicidio” introdotta-significativamente- nel decreto sicurezza omnibus del 2013 (Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119), che, ricordiamolo, conteneva anche norme penali in materia di cantieri (Tav), protezione civile ed altro, ci si è prioritariamente (se non esclusivamente) preoccupati di agire in termini di inasprimento delle pene.

Siamo giunti, nel 2019, al cosiddetto “Codice Rosso” (Legge 19 luglio 2019, n. 69), dispositivo sostanzialmente caratterizzato dalla previsione di criteri di priorità di intervento e trattazione dei procedimenti in materia di violenza sulle donne, di nuove fattispecie di reato, aggravanti e aggravamenti di pena, integrate da una serie di modifiche in materia di misure cautelari, di prevenzione ed esecuzione pena .

Il tutto stando a quanto previsto nelle norme apparentemente a costo zero: l’art. 21 (clausola di invarianza finanziaria) dispone espressamente che l’attuazione delle norme non deve comportare alcun onere aggiuntivo per la finanza pubblica, e che “Le amministrazioni interessate provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”. In sostanza, pene più severe, ed è noto a tutti il fatto che il sistema sanzionatorio comporti dei costi rilevanti in realtà, senza che a queste corrispondano servizi di sostegno per le donne più adeguatamente supportati sul piano economico, anche in considerazione del fatto che, proteggere le donne significa tra le tante cose prevenire reiterazioni delle condotte violente e perciò comunque oneri ulteriori a carico del sistema della giustizia e che in questi anni il numero di vittime che a diverso titolo chiede aiuto ai Centri antiviolenza e alle istituzioni è notevolmente aumentato.

I risultati sono assolutamente evidenti. I dati statistici sui reati violenti in Italia attestano “l’invarianza” numerica di quelli commessi contro le donne in ambito domestico-affettivo, a fronte di un calo complessivo dei restanti. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero dell’Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza- gli omicidi volontari, anche nel 2022, confermano la tendenza già rilevata gli anni immediatamente precedenti (309 complessivi, numero che attesta una netta e costante discesa- dagli oltre 600 del 2007, 536 del 2012 e tenendo conto che nel 1990 se ne contavano 3012); il numero degli assassinii con vittime di sesso femminile resta tuttavia invariato (122), anzi leggermente superiore a quello degli anni precedenti, con prevalente collocazione in ambito familiare-affettivo (100 su 122). In altre parole, più di 1/3 degli omicidi volontari commessi in Italia avviene al di fuori di “contesti criminali”, nei confronti di donne, prevalentemente in famiglia o comunque ad opera di mariti, fidanzati ed ex partner.

Nell’analisi annuale del Ministero dell’Interno viene registrata una diminuzione percentuale di due dei cd. reati spia sulla violenza contro le donne, ovvero lo stalking (- 10,3%) ed i maltrattamenti in famiglia (-3,9%), dato che certamente risente del confronto con le percentuali vertiginose di aumento del 2021 (in periodo “lockdown”, che aveva visto aumenti dell’11,8% per il reato di atti persecutori e del 9,3% per quello di maltrattamenti). E’ invece aumentato, rispetto al 2021, il numero dei reati di violenza sessuale denunciati.

C’è un ulteriore elemento che attesta, se necessario, la particolarità, in negativo, della sottoposizione alla violenza in base al genere: anche i reati commessi in danno dei minori vedono ragazze e bambine come vittime in percentuale maggioritaria per quasi tutte le tipologie considerate.

Non solo: le relazioni in materia di applicazione giudiziale delle normative introdotte su “violenza di genere e domestica”[69] danno atto di un grave deficit di preparazione, in termini sia iniziativa che di concreto supporto in sede giudiziaria nella maggior parte delle Procure e dei Tribunali.

Nel rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta leggiamo, quanto ai magistrati inquirenti: “Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare nel 2018 la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22 per cento del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati”.

Quanto ai CTU (sempre in sede penale): “Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori e, in primis, il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica. Il 25 per cento delle procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso”.

Ancor peggio il rapporto descrive la situazione in essere nel settore civile: “Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.”

Nel 95 per cento dei tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il giudice dispone una CTU nella materia”. “Il 95 per cento (124 su 130) dei tribunali non è in condizione di indicare in quante cause il giudice abbia disposto una CTU. Solo nel 29 per cento (38 su 130) dei tribunali i giudici civili fanno ricorso a un quesito standard nella nomina del CTU e solo un terzo dei pochi che ne fanno uso lo ha elaborato con il contributo di figure professionali competenti in materia[70]

Ci soffermiamo sul tema CTU, perché, come notorio, le decisioni giudiziali in materia di famiglia, ed in particolare di affidamento dei minori, si fondano spesso sui pareri espressi dalle relazioni dei consulenti o dei Servizi incaricati di investigare sulle “capacità genitoriali” dei coniugi separandi/divorziandi.

Questi mezzi di prova, che notoriamente quasi sempre sono decisivi sull’esito del procedimento (se non direttamente trascritti in sentenza), scontano un’impostazione “familistica” che troppo spesso prescinde ed allontana il tema della violenza riducendolo frequentemente a normale conflittualità di coppia e cosi occultando la dimensione di potere che invece connota la violenza degli uomini sulle donne. L’assunto di partenza, quello della bigenitorialità, continua ad avere assoluta prevalenza su ogni tipo di diversa esigenza e rappresentazione, violenza domestica inclusa. Così non è raro trovare casi in cui placidamente il CTU (o i Servizi Sociali) affermano la necessità che il padre violento-maltrattante mantenga (o addirittura stabilisca-ristabilisca, ove interrotto da misure cautelari di allontanamento dalla casa familiare e/o divieto di avvicinamento) il rapporto con i figli minori, persino in casi di cd. “violenza assistita”.  È evidente che tale orientamento sottende la non volontà di assumere il disvalore che connota queste condotte come scriminante rispetto alla relazione con i figli. Peraltro sul piano pratico si traduce nella non interruzione dei rapporti tra la donna maltrattata e l’autore di reato. Si tratta di una condizione, che anche nelle circostanze in cui non si traduca in pericolo per la madre dei figli, è comunque dolorosa e pesante da affrontare e spesso viene vissuta come l’assenza di riconoscimento del torto subito.

Non si tratta di casi isolati e sporadici, ma di una prassi purtroppo abbastanza consolidata nei Tribunali civili e minorili  di tutto il paese, come attestano recenti studi sul tema. Per tutti, citiamo la recente pubblicazione del testo “Senza madre- storie di figli sottratti dallo Stato”, autrici varie, che affronta il tema del distacco forzato dalla figura materna “colpevole” spesso solo di non essere in grado di imporre al figlio o alla figlia la frequentazione di un padre da loro rifiutato.  Per un certo periodo, è invalsa persino la teoria della cd. “Sindrome da alienazione genitoriale” (Pas), e della “madre malevola” (MMS) fortunatamente non accolte nel novero delle “patologie scientificamente riconosciute”; ne hanno fatto le spese però moltissime donne (anche vittime di violenza) a cui i figli/le figlie sono stati sottratti, a volte con veri e propri interventi militari, ed affidati per lo più a case-famiglia (ma in alcuni casi persino all’altro genitore o a suoi familiari). 

Sul punto, la Cassazione è intervenuta negli ultimi anni con provvedimenti significativi, placando il ricorso straripante a dette teorie che ha però purtroppo dilagato e convinto buona parte dei magistrati e delle magistrate per svariati anni (e tuttora residua manifestamente nel retropensiero di molte decisioni in materia di famiglia), quasi come contraltare alla politica di risposta penalistica alla violenza domestica. Non sono mancati casi incredibili, in cui al padre condannato per maltrattamenti in famiglia è stato addirittura affidato il figlio minore, preferendolo alla collocazione presso la madre. Ma, al di là delle decisioni veramente fuori norma, il punto è che il criterio della perfetta bigenitorialità comunque viene generalmente adottato e considerato prevalente nella maggior parte delle CTU, delle relazioni dei Servizi Sociali e conseguentemente nelle sentenze civili in materia di affidamento dei minori, indipendentemente e nonostante la violenza imperante nel nucleo familiare. Il padre è il padre “a prescindere” è il principio con cui si devono purtroppo confrontare le donne in sede giudiziale. Ma è un principio che è necessario superare e ribaltare, laddove non corrisponda ad alcuna esigenza del minore, o peggio, vi contrasti. E su questo punto si gioca un pezzo importante della relazione tra le donne vittime di violenza e l’accesso concreto ai percorsi di giustiziabilità dei diritti umani posti gravemente a pregiudizio in queste circostanze.

In questo senso, l’ordinanza 9691/22 della Corte di Cassazione (che ha annullato la revoca della postestà genitoriale a Laura Massaro, ritenuta da CTU e magistrati madre abusante-alienante) ha affermato che “…che il diritto alla bigenitorialità disciplinato dalle norme codicistiche è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore: il diritto  del singolo  genitore  a realizzare  e consolidare  relazioni e rapporti continuativi e significativi con il figlio minore presuppone il suo perseguimento nel miglior interesse di quest'ultimo, e assume carattere recessivo se ciò non sia garantito nella fattispecie concreta”. Non si tratta, nel caso, di una vicenda caratterizzata da violenza domestica, ed ovviamente la decisione riafferma e ripercorre la giurisprudenza interna ed europea in materia di diritto del minore ad un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, condividendola in toto.

Laddove il principio sopra richiamato venga correttamente applicato in procedimenti contenziosi in sede civile in cui la violenza in famiglia è elemento serio e abituale le conseguenze potrebbero e dovrebbero essere ben diverse da quelle a cui le Sezioni Famiglia dei Tribunali ci hanno abituato.

In altre parole, il principio della bigenitorialità, in sé corretto ed auspicabile, non può diventare una spada di Damocle tesa sulla testa donne vittime di violenza, costrette ad affrontare percorsi di mediazione o ancor peggio a frequentare in ragione della presenza di figli minori padri-mariti-compagni violenti.

Soprattutto, è necessario ragionare e proporre un sistema articolato e non giudicante che riesca a garantire alle donne, nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, di non essere condannate a relazionarsi con il marito/compagno violento, in ragione della presenza di figli minori.

Un primo passaggio potrebbe essere garantito da un’integrazione alla normativa sulle misure cautelari (allontanamento dalla casa familiare e divieto di avvicinamento, ed, a maggior ragione, in caso di adozione di misure più gravi e restrittive della libertà personale) che autorizzi la donna persona offesa ad esercitare la responsabilità genitoriale sui figli minori indipendentemente dal consenso dell’altro genitore, senza dover ricorrere al procedimento civile per farsi autorizzare all’iscrizione/trasferimento scolastico (problema molto frequente nei casi di donne accolte in protezione che ovviamente hanno necessità di non far conoscere al maltrattante la loro posizione e quella dei figli).

 

Tornando alla risposta penalistica sul tema, come si diceva sopra, il problema più rilevante e sostanziale rimane quello dello squilibrio di potere, che permane, tra donne e uomini e che non sembra essere contrastato in alcun modo in questo momento se si osservano alcune tendenze che la società esprime sia sul piano degli interventi in direzione di un’affermazione più concreta del paradigma dell’eguaglianza, sia sul versante del riconoscimento del disvalore di tutta una serie di condotte abusanti non di rado intrise di razzismo e xenofobia oltre che di marcato sessismo.

È infatti sotto questo profilo che il sistema di tutela delle donne dalla violenza resta indubbiamente ed estremamente carente, garantendo (nei limiti dei bilanci assai contenuti di cui possono disporre i centri antiviolenza) al massimo (e non sempre) la risposta emergenziale.

Le difficoltà in cui opera chiunque si occupi di violenza nelle relazioni intime sono soprattutto legate alla mancanza di risorse, soprattutto nella parte di intervento che spetta ai Servizi Sociali, che è poi fondamentalmente quella che attiene alla possibilità per le donne di avviare un percorso di autonomia, a partire dalla possibilità alloggiativa indipendente (e, nei casi più importanti, possibilmente distante dal partner violento) per proseguire con la tematica più generale del lavoro e del reddito.

E queste difficoltà diventano sempre più significative ed irrisolvibili in conseguenza delle “restrizioni” imposte ai bilanci degli enti locali, le cui risorse diventano sempre più scarse proprio in relazione agli interventi sociali in generale. Non vogliamo neanche pensare a cosa comporterà l’applicazione della cd. “autonomia differenziata”.

Aggiungiamo che alla ristrettezza degli stanziamenti economici ai Centri Anti Violenza vanno aggiunti gli oneri ulteriori posti a carico delle strutture nel recente “protocollo Stato Regioni”

b)    Incentivare l’autonomia

Quanto sin qui esposto ha un’incidenza ben più rilevante nei casi in cui la donna che chiede supporto giudiziale e non nel percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica sia straniera, e tanto più se proveniente da nucleo familiare composto da stranieri (extra Ue).

In ambito giudiziale, ed in particolare sull’azionabilità dei diritti, rinviamo integralmente a un testo recentemente elaborato in collaborazione tra l’Università di Padova- Centro per i Diritti Umani Antonio Papisca e l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione, “Donne straniere diritti umani e questioni di genere”, liberamente scaricabile e reperibile al link https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2022/10/Volume-Completo-Donne-straniere -e, in particolare, per quanto attiene all’azionabilità dei diritti, alla seconda parte del volume.

 Le difficoltà che si manifestano quotidianamente nell’attività di supporto alle donne vittime di violenza (con maggiore difficoltà se straniere) riguardano ovviamente il tema abitativo e reddituale. Le poche misure di sostegno che sono state sin qui adottate (il cd. “reddito di libertà” di cui al DPCM del 17 dicembre 2020, consistente nell’erogazione di € 400 mensili per un massimo di 12 mensilità) ha ricevuto per il periodo 2020-2022 un finanziamento complessivo di 12 milioni di euro, con il risultato che, nel primo anno di applicazione, ne hanno potuto fruire 600 donne (su un totale di oltre 3200 domande presentate). Per il 2023 lo stanziamento statale contenuto nella legge di bilancio è di 1.850.000 euro (sic!)

In ambito lavorativo- di supporto alla ricerca di occupazione- dal 2015 al 2022 l’importo complessivamente erogato da Stato e Regioni è stimato in 157 milioni di euro, di cui 20 milioni per sostegno al reddito (“reddito di libertà” -inclusi i finanziamenti aggiuntivi stanziati dalle Regioni Sardegna, Puglia e Lazio), 124 milioni per il supporto occupazionale (congedi indennizzati, orientamento e tutoraggio, misure inserimento-tirocini, borse lavoro, formazione, incentivi all’assunzione, crediti per autoimprenditorialità), 12 milioni di euro (tra Stato e Regioni) per autonomia abitativa (sussidi per caparre, fitti, utenze). Il che corrisponde, sostanzialmente, ad un sostegno economico calcolato in € 54 al mese per ogni donna assistita dai centri antiviolenza in condizione di non autonomia economica.

È un dato estremamente crudo e significativo, che fa comprendere la necessità ineludibile di un cambio di passo. Vien da dire: meno norme penali e più soldi per uscire dalla violenza.

c)     Misure cautelari: proposte

In attesa del prossimo “inasprimento pene” anticipato nel discorso pubblico come necessario a seguito degli ultimi femminicidi avvenuti prima dell’estate 2023 e più ampiamente degli adattamenti che a breve il legislatore interno dovrà apportare per dare spazio al recepimento dell’attuale dratf di Direttiva[71] in materia rispetto alla quale il Consiglio ha recentemente avviato i negoziati con il Parlamento europeo, dopo che quest’ultimo ha approvato la relazione senza votazione, in linea con il suo regolamento interno[72], ci permettiamo qualche appunto sulla normativa esistente e qualche suggerimento-proposta.

Le disposizioni in materia di allontanamento dalla casa familiare (art 282 bis c.p.p.) consentono al PM, nel caso che l’esecuzione della misura venga a privare le persone conviventi (NB, la disposizione parla di conviventi, indipendentemente dallo stato di coniugio o meno, e non solo in caso di presenza di figli) dei mezzi di sostentamento, di richiedere l’imposizione di un assegno di mantenimento a carico del maltrattante. È una disposizione importante, come immediatamente comprensibile, per garantire alle vittime di violenza in famiglia l’indispensabile alla sopravvivenza propria e dei figli; statisticamente parlando, però, è una disposizione sottoutilizzata, e che ovviamente importa un carico aggiuntivo di indagini e valutazioni (sulla situazione economica delle parti) che le Procure spesso omettono se non esplicitamente sollecitate. Il suggerimento, sul punto, è quello di fornire, ove possibile, in sede di querela o con istanza ad hoc anche successiva, i dati reddituali che consentano la comparazione. La proposta è quella di lavorare ad una modifica dell’art. 282 bis c.p.p. che renda obbligatoria-e non eventuale - l’indagine patrimoniale e la valutazione sulla necessità di stabilire un contributo al mantenimento del nucleo familiare a carico del maltrattante sottoposto alla misura dell’allontanamento dalla casa familiare, anche non contestualmente all’esecuzione della misura (che ovviamente ha carattere di urgenza ed indifferibilità a tutela della vita e della salute delle donne) e che estenda esplicitamente la disposizione in esame alle diverse misure eventualmente adottabili (essendo purtroppo diffusa l’opinione che tale possibilità non sia data, ad esempio, in caso di divieto di avvicinamento ex art 283 ter cpp).

Sempre in tema di misure cautelari, va ancora registrata una carenza che può comportare, in relazione alla particolarità delle situazioni delle violenze in famiglia, gravi rischi per le donne: la normativa non prevede espressamente che la p.o. venga notiziata (e conseguentemente che possa intervenire) dell’eventuale richiesta di riesame avverso l’ordinanza cautelare. Spesso, quindi, le donne p.o. non ne vengono affatto notiziate. Ebbene, se al limite si può discutere sulla possibilità dell’intervento della persona offesa (ex art 299 cpp) in sede di riesame, certamente la non conoscibilità della richiesta di riesame e dei provvedimenti e modifiche che eventualmente ne derivino è intuitivamente un rischio a cui una donna vittima di violenza nelle relazioni intime e familiari non può e non deve essere sottoposta. In questo senso è quindi indubbiamente necessaria un’integrazione normativa che imponga espressamente quanto meno la notifica alla p.o. dell’istanza di riesame e della decisione che ne deriva, analogamente a quanto disposto dai commi 3 e 4 bis dell’art. 299 cpp. La previsione di una misura in tal senso appare si essere urgente, in ragione di esigenze autentiche di tutela delle persone offese di reato, ovvero delle donne!!!

Aggiungiamo qui, rinviando alla lettura dell’elaborato “sull’azionabilità dei diritti umani delle donne straniere vittime di violenza. Criticità in ambito penale” (pubblicato nel testo “Donne straniere diritti umani questioni di genere” già sopra citato e liberamente scaricabile online), che il tema della traduzione dei provvedimenti- quanto meno per estratto- anche nei casi di persone offese straniere diventa sempre più importante, a fronte dell’incremento della popolazione straniera, e soprattutto in ragione della povertà culturale a cui moltissime donne sono condannate da usanze familiari segreganti/isolanti, che non consentono conoscenza delle procedure, dei propri diritti e spesso anche della lingua italiana. E’ anche una questione di democrazia!!!

Ed ancora, va ricordato che nel novero delle ipotesi di reato previste dall’art 76 comma 4 ter del DPR 115/02, che consente l’ammissione al patrocinio a spese dello stato indipendentemente dai limiti di reddito per tutta una serie di reati tipicamente commessi in danno delle donne  (maltrattamenti, stalking, violenza sessuale, mutilazione sessuale) non è ricompreso, per assurdo, il reato più grave, ovvero il femminicidio, se non in favore degli orfani. In altre parole, la donna che riesca a scampare al tentativo di ucciderla, non rientra tra i soggetti destinatari della disposizione di cui si è detto. Pare evidente la necessità di includere tra i reati previsti dall’art 76 comma 4 ter DPR 115/02 quanto meno il tentato omicidio, ove aggravato ai sensi dell’art 577 n. 1 c.p. (in realtà, in presenza di tale aggravante, il beneficio sarebbe logicamente estensibile anche alle ipotesi di reato meno gravi)

d)    I disegni di legge oggi in discussione

Concludiamo con brevissimi cenni sui disegni di legge oggi in discussione: il disegno di legge governativo (C.1294), quello dei deputati del PD (C. 1245), quello del Mov. 5 Stelle (Ascari e altri C.603), quello targato Italia Viva (Bonetti e altri C. 439).

Al di là dei proclami e inasprimenti delle misure “preventive” (in buona sostanza, l’incremento-forse- dell’utilizzo dei braccialetti elettronici e delle sanzioni conseguenti alla loro manomissione e distruzione, e l’introduzione di misure di prevenzione-sorveglianza speciale), e ferma restando la caratteristica di “invarianza finanziaria”= mancato investimento di risorse, l’aspetto che lascia più interdetti della disciplina “innovativa” (tra l’altro comune anche alla proposta dei deputati PD) è l’estensione del procedimento per ammonimento introdotto in relazione allo stalking al campo largo dei cd. “reati spia” della violenza. Davvero questa previsione è di difficile comprensione, per chi si occupa di violenza e ne conosce la ricorrenza delle dinamiche che la connotano sul piano fattuale.

Senza entrare specificamente nel merito delle singole disposizioni ancora in discussione, ci pare doveroso sottolineare che l’estensione del procedimento “monitorio” presenta (almeno) due evidenti problematicità: l’una, rappresentata dalla procedibilità indipendentemente dalla volontà/segnalazione/querela della donna (e ciò che questo può comportare in una situazione di convivenza o comunque di relazione in corso, in termini di sicurezza e protezione); l’altra, la realistica possibilità che tale procedura venga utilizzata “in sostituzione” dell’azione giudiziale, stante la natura delle condotte indicate (lesioni, violenza privata, minaccia, stalking, revenge porn, violazione di domicilio, danneggiamento), che sono poi quelle abitualmente presenti nella fenomenologia della violenza contro le donne.

 

e)     I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia

 

I procedimenti che riguardano   la famiglia e le persone , il modo in cui vengono gestiti  dai Tribunale  ma anche dai Difensori  delle parti , il contenuto degli atti processuali , il linguaggio usato ed infine  le decisioni prese consentono di comprendere  non solo quali siano gli orientamenti  giurisprudenziali ma anche quale sia lo “stato” del nostro Paese , come vengano intese le relazioni personali e soprattutto  se vi sia una autentica sensibilità ed una efficace attenzione e rispetto alle differenza di genere ed a quelle situazioni  in cui vi debba  essere  tutela per  donne vittime di violenza .

In tal senso appare utile esaminare i “cd Protocolli” di cui molti Tribunali si sono dotati nel tempo. Va premesso che si deve criticare l’uso dei singoli magistrati di uniformarsi in un automatico a tali protocolli, semplificando ed appiattando le diverse situazioni, tanto da far ritenere che i protocolli stessi rappresentino ben più che una generale linea di indirizzo, e si trasformino nel pretesto per semplificare situazioni  molto  complesse,  imponendo    un modello regolamentativo  eccessivamente  schematico per definire relazioni intime,  rapporti personali e condizioni  economiche  e patrimoniali  che richiederebbero   maggior  tempo e una attenzione  più puntale  rispetto a quanto viene  loro purtroppo dedicato ordinariamente,

Tanto premesso il primo dato che emerge  è  che non tutti i Tribunali italiani  hanno deciso di dotarsi di un Protocollo  o di linee guida (come hanno  deciso  di qualificarla  taluni) , e che alcuni si limitano a trattare solo alcuni argomenti specifici  .

Si consideri ad esempio, in via del tutto esemplificativa,  che Frosinone , Rieti , Roma , Napoli, Benevento e Chieti si sono dotati di un Protocollo unicamente  in relazione alla determinazione del contributo nel mantenimento dei figli e analogamente  hanno fatto Pescara e Teramo. Matera ha invece linee guida che riguardano la classificazione   delle  spese  ordinarie e straordinarie e così pure Torino.

In Sardegna e nella intera Regione  non troviamo riferimento alla adozione  di Protocolli , Genova dispone di un suo protocollo che attiene però unicamente  alla individuazione delle spese extra. Questa prima disamina , di certo parziale seppure significativa, consente di affermare  che l’attenzione primaria viene dedicata alla complessa matassa delle questioni economiche   nei rapporti tra le parti .

Solo in via di osservazione generale va rilevato come non vi sia differenza nella loro regolamentazione  tra procedimenti di separazione e  giudizi di scioglimento del vincolo , tra giudizi già definiti ed altri invece da decidere.

Se un tempo si poteva forse ritenere che la conflittualità e ancor peggio che una relazione connotata da violenza, riguardassero  solo la prima fase, le prime iniziative  avanti la autorità  Giudiziaria (quindi correlata prevalentemente alla separazione), sappiamo oggi che purtroppo non è più così e che in  corso del procedimento non si assiste più ad un acquietamento nelle relazioni ma che al contrario  ad una distorsione dei rapporti continuano ad essere, non bilanciati o ancor  peggio molesti, violenti o maltrattanti, non definiti neppure dalla conclusione  del giudizio, di certo non bonificati.

Possiamo allora ipotizzare che a mantenere questa condizione di costante patologia   concorra in modo più o meno determinante la procedura ed il modo in cui viene applicata, prima ancora del suo esito?

Un procedimento  semplice nelle sue scansioni, ma approfondito nelle sue indagini, rapido nelle decisioni e comprensibile per i suoi destinatari, non difficoltoso da illustrare a chi non è tenuto ( come lo sono i difensori ) ad avere competenze  specifiche,  può certo concorrere a dare sicurezza e serenità personale a chi decide di porre fine alla propria relazione , a rassicurarla anche sotto un profilo personale ed economico e a far comprendere all’autore del comportamento contra jus le possibili conseguenze, con un auspicabile effetto  deflattivo. 

Senza dimenticare che anche sotto un profilo puramente economico patrimoniale, quello per intenderci che interessa tanto i Protocolli,  scontiamo la impossibilità  di definire in via anticipata  i rapporti economici.

Viene da pensare che talvolta l’apporre alcuni correttivi , in forma  pattizia o anticipatoria alla separazione prima ed al divorzio  poi, potrebbe costituire elemento di attenuazione  delle dispute economiche[73]  .

Ritornando alla lettura dei Protocolli  si può  di certo affermare, valutando come vi sia una differente declinazione  di molti temi e come appaiono diversi  gli orientamenti   a seconda del contesto sociale , territoriale ed economico che si possa giungere a concrete applicazioni ed indicazioni non solo divergenti  ma spesso anche contrastanti tra i differenti Tribunali costituente  elemento  che  supporta il cd forum shopping[74].

In via esemplificativa di queste diversità si possono citare in via esemplificativa  alcuni tra i molti, collocandoli anche  temporalmente e valutando prioritariamente quali siano i soggetti che li hanno sottoscritti : oggetto di esame specifico quindi il protocollo del Tribunale  di  Perugia , Bari, Pordenone , Verona , Ancona , Forli,  Firenze , Milano.

Emerge immediatamente  leggendone i firmatari come non si esca nella maggior parte  dei casi da una   diade di soggetti (salvo  alcune eccezioni ).

** Anno 2011 Firenze : il Protocollo viene sottoscritto dal Tribunale , dalla Procura della Repubblica , dal Consiglio  dell’ordine degli avvocati , Aiaf Toscana , Camera Minorile , IDIMI, Osservatorio  del diritto di famiglia. 

** Anno 2013 Ancona :  il Protocollo viene sottoscritto  dal Presidente  dell’Ordine degli avvocati e dal Presidente del Tribunale .

** Anno 2013 Pordenone : il Protocollo viene sottoscritto dal Presidente del Tribunale , dal Presidente del Laboratorio Forense , dal Presidente del Consiglio dell’Ordine , dal Direttore generale ASS 6 , dal Direttore Generale dall Auls,  dal Presidente dei Consultori  famigliari di Pordenone - Portogruaro .

** Anno  2016 Alessandria : sottoscrive il Presidente del Tribunale  e  del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati .

** Anno 2017 Forli: sottoscrivono il Presidente del Tribunale   , il Presidente del’Ordine degli avvocati ed in Presidente  del Comitato pari opportunità

**Anno 2018 Bari:  sottoscrivono  il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati ,il Presidente del Tribunale,  il Presidente  della Prima sezione civile ( sezione che si occupa evidentemente  di qustioni di diritto di famiglia ) , il Presidente della Commissione famiglia , ed il presidente della sezione di Bari dell’ Osservatorio del diritto di famiglia

** Anno 2018 Verona sottoscrive il Presidente del Tribunale e quello  dell’Ordine degli avvocati con l’adesione di AIAF , ONDIF , Camera Minorile ,Cammino , Unione giuristi  cattolici e Valore prassi.

**  Anno 2019 Milano vengano qualificate solo come linee guida e sono sottoscritte dalla Corte di Appello ( Presidente e Presidente della sezione famiglia ), dal Tribunal di Milano , dal Consiglio dell’Ordine e dall’Osservatoio  sulla giustizia civile)

** anno 2019 Perugia il Protocollo è stato sottoscritto dal Presidente del Tribunale ,dall’Ordine degli avvocati ,dalla associazione italiana avvocati famiglia e minori , dal Forum delle Associazioni famiglia dell’Umbria , dall’Osservatorio  nazionale sul diritto di famiglia, dalla camera Civile , dall’ass.avvocati matrimonialisti  italiani.

** anno 2019 Venezia  il Protocollo è sottoscritto dal Presidente dell’ordine degli Avvocati  e dal Presidente del Tribunale.

Scorrendo rapidamente questo gruppo esemplificativo di Protocolli, ma anche dopo aver esaminato gli altri, si può facilmente evincere che, eccezion fatta che per Pordenone, nessun altro ha ritenuto di coinvolgere le Aziende sanitarie locali, i consultori, l’Ordine degli Psicologi e degli assistenti sociali.

Solo Forlì ha inserito tra i sottoscrittori il comitato pari opportunità, molto pochi (Firenze , Milano , Verona  e Perugia ) altre associazioni , nessuno il Tribunale dei Minorenni , pochi la Procura  della  Repubbica e nessuno i Centri Antiviolenza.

Si differenziano  tra tutti Aosta  e Verona che hanno adottato dei Protocolli di intesa  per la prevenzione ed il contrasto della violenza nei confronti della persona e della comunità famigliare, ma solo Aosta ha collaborato con il Centro Antiviolenza mentre Verona si è limitata ad redigere linee  guida per il Tribunale .

La mancata  presenza dei Centri Antiviolenza  ai tavoli di discussione ed elaborazione di linee guida e/o protocolli è significativa. Nei fatti ne limita l’efficacia ma si pone anche in contrasto  con specifiche norme da tempo in vigore .

Si consideri ad esempio il recente art.473 bis-15 c.p.c. e l’art. 342 ter c.c (sebbene norma risalente nel tempo) che si riferisce agli ordini di protezione contro la violenza al suo secondo comma stabilisce che il Tribunale “possa disporre  l’intervento  dei Servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione famigliare anche delle associazioni che abbiano come fine statutario  il sostegno e l’accoglienza di donne  e minori o di altri soggetti vittime di abusi  o maltrattamenti”. Ora, se è vero che tale ultima norma  non è attuale ed andrà sicuramente adeguata  ai cambiamenti  intervenuti, (si consideri  tra tutti la contradditorietà  tra il riferimento  all’invito alla  mediazione  famigliare e l’art. 48 della Convenzione di Istanbul che  prevede il divieto  di metodi alternativi di risoluzione  del conflitto o di misure alternative alle pene obbligatorie), va invece sottolineato che di questo interlocutori (i centri Antiviolenza) operativi , attivi sul territorio, riconosciuti   normativamente, non si  si rinviene traccia nella  elaborazione  dei cd Protocolli.

Eppure il ruolo che i Centri Antiviolenza hanno avuto e ricoprono tutt’ora è sempre più riconosciuto e valorizzato,  non solo per il lavoro che da anni li lega al territorio ( se e quando  riescano a sopravvivere con gli inesistenti contributi che vengono dati loro) ma anche  alle leggi nazionali e regionali  che riconoscono  competenza , attribuendo loro anche un ruolo preciso[75].

Non va dimenticato inoltre  che le sedi giudiziarie rappresentano spesso il  faticoso punto di arrivo per le donne in situazioni in cui i rapporti con il partner era stato caratterizzato da prevaricazione, da maltrattamenti, da  violenza talvolta anche nella forma della  violenza assistita  e che proprio per questo le donne  si sono  rivolte ai Tribunali , dopo un percorso al Cav (centro antiviolenza) che può iniziare anche in pendenza di giudizio.

E quindi va considerato che la presenza dei centri antiviolenza al tavolo di discussione e di concertazione di un protocollo in materia di diritto di famiglia apparirebbe non solo opportuno  ma  indispensabile .

Ciò non solo per la sicura esperienza maturata sul campo da chi con le donne vittime di violenza lavora quotidianamente  , ma anche perchè l’ottica di lettura, di interpretazione  e di azione dei Centri antiviolenza costituisce un utile correttivo ad un approccio che non può essere neutro quando  si incorra in una situazione di violenze contro  le donne.

Peraltro è da sottolineare che detti Protocolli  non vengono neppure inviati per conoscenza  ai Centri antiviolenza  del territorio   con la richiesta di eventuali integrazioni e/O osservazioni  o anche di mera presa di atto .

E ciò rappresenta l’ennesimo esempio di quella mancanza di coordinamento e di comunicazione   tra i diversi interlocutori in ambito istituzionale ed giudiziario.

E consente di introdurre un altro rilievo critico che riguarda la frammentarietà  degli interventi istituzionali ,  il loro mancato collegamento  , anzi per essere più chiari l’evidente scollamento che esiste tra le varie istituzioni , gli Organi giudiziari  stessi e ancor prima tra i vari interlocutori  che sono interessati e dovrebbero essere coinvolti nel contrasto alla violenza in senso più generale e in senso più specifico nella elaborazione di linee guida/protocolli

Questa frammentarietà diventa, a sua volta,  causa di poca tempestività, incisività ed efficacia degli interventi  e rappresenta un dato di macroscopica evidenza, malamente  vissuta dalle parti coinvolte  in un procedimento  di famiglia , dai loro difensori e anche dallo stesso  Giudicante.

Si dovrebbe in realtà avere uno strettissimo   legame tra i vari organi giudiziari tra il Tribunale civile quello dei minorenni, la Procura  ed il Tribunale  penale .

E non si ritiene che il comma 8 dell’art. 473 bis – 12 di nuova formulazione vi ovvi laddove prevede che il ricorso introduttivo (onerando la parte quindi) debba indicare la esistenza di altri procedimenti, aventi ad oggetto in tutto o in parte le medesime domande o domande ad esse connesse, laddove sarebbe stato  più semplice prevedere un meccanismo di circolazione  delle informazioni onerando gli organi giudiziari  . 

Per far comprendere  in via esemplificativa ciò che questo di fatto ha comportato e potrebbe comunque  ancora comportare , “calato” nei protocolli che si stanno esaminando basta valutare  che  in gran parte di essi si fa riferimento “all’obbligo” del legale che assiste una parte in un procedimento di famiglia di dare comunicazione della pendenza di altro procedimenti avanti il Tribunale dei Minorenni.

E tale esigenza di circolarità non viene neppure recepita da tutti i Tribunali.

Oltre a ciò manca qualsivoglia raccordo tra procedimento penale e procedimento  civile, limitata la comunicazione  penale alla procura minorile  ex art. 609  decies c.p.p .

Eppure, da tempo, il  Consiglio superiore della Magistratura ( già con propria risoluzione del 2018) segnalava la necessità di cooperazione delle magistrature ordinarie , civili , penali e minorili   quando sia pendente un procedimento di separazione  personale o di divorzio o comunque  relative alla separazione delle parti ,per evitare la possibilità di vittimizzazione secondaria del coniuge e dei minori vittime e loro volta di violenza diretta  o assistita .

Questo in quanto donne e minori sarebbero  costretti in difetto di una doverosa  acquisizione di ufficio degli elementi di prova che fondano l’apertura  di un procedimento  penale o avanti il Tribunale   minorile a ripercorrere e ripetere più  e più volte le loro vicende personali, con possibilita’- non così remota-  che vengano pronunciati provvedimenti  tra loro contradditori o del tutto inconciliabili .

Proprio a tal riguardo il Consiglio superiore della Magistratura aveva  sottolineato la necessità di un intervento legislativo al riguardo, sollecitando gli Uffici delle Procure e dei Tribunali a formalizzare accordi al riguardo.

Inviti che non risultano essere  stati colti in modo organico , coerente e conforme neppure in una sede  che potrebbe aprire la strada  alle “cd buone pratiche” e cioè nella formulazione  dei Protocolli che non dovrebbero  considerare la acquisizione  degli atti e provvedimenti emessi da diverse  autorità  solo come un obbligo in capo ai Difensori .

Che la mancanza di comunicazione  e trasmissione tra le varie Autorità costituisca un grave elemento di debolezza è dimostrato  dalla necessità avvertita dal legislatore  di inserire nel testo normativo penale l’art.64 bis disp.att.c.p. introdotto dal cd Codice rosso (legge 69/2019) .

Norma che prevede che ai fini della decisione nei procedimenti   di separazione  personale dei coniugi e dei procedimenti relativi a figli minori di età ed all’esercizio della  responsabilità genitoriale , copia dell’ordinanza  di applicazione delle misure cautelari personali o che ne dispongano la sostituzione  o la revoca, l’avviso  di conclusione  delle indagini preliminari, del procedimento  di archiviazione per i reati di cui agli art. 572, 609 bis , 612 bis e ter , 582, 583 quinquies  nella ipotesi aggravata  ai sensi  dell’ art.576 , primo comma numero 2 e 5 e 577 primo comma n.1 secondo  comma  siano trasmessi  al Giudice competente.

 

La trasmissione è d’obbligo anche nella diversità delle posizioni  processuali e di certo  il dato fattuale può agevolare la valutazione  del Giudicante.

 Solo con l’introduzione dell’art. 64 bis disp.att quindi ci si troverebbe di fronte ad una regolamentazione che introduce  un rapporto di comunicazione  tra due differenti autorità Giudiziarie   e che si pone come tassativo .

Va verificato poi nella  pratica quanto questo avvenga effettivamente.

Andrebbe  probabilmente alla luce  di questo riconsiderato  con attenzione  il rapporto tra procedimento  penale e procedimento  civile chiedendosi anche  se sia opportuno (ma non confligga con l’art. 27,  2 comma della Costituzione)  anche l’acquisizione  della semplice  notizia  di reato  al fascicolo del procedimento  civilistico .

Sotto tale profilo prevedere proprio nei Protocolli una forma di trasmissione automatica  e quindi di conoscenza  tra le differenti autorità giudiziarie  appare non solo utile ma doverosa.

 

f)      La formulazione  degli atti 

Merita un riferimento anche il contenuto dei cd protocolli laddove prevede dei criteri per la stesura degli atti processuali, proprio perché esso può andare ad orientare, permeare e condizionare   lo stesso andamento del giudizio .

Va evidenziato come alcuni giungano addirittura, in loro parti specifiche  a dare indicazioni  su come debbano essere formulati e redatti gli atti .

Si possono distinguere   due diversa tipologie: 

a=) Un primo gruppo di Protocolli richiede addirittura una sorta di astensione  nel riferire aspetti più strettamente  personali , eventualmente riferibili  alle ragioni della separazione, riservando la narrazione degli stessi al deposito della Cd Memoria Integrativa ( art.709 c.p.c)[76].

Bari invece, sul presupposto della natura bifasica del procedimento ritiene che la udienza  presidenziale richieda unicamente   la deduzione di fatti e la allegazione  di documenti funzionali all’emissione dei provvedimenti  presidenziali   essendo l’udienza stessa di fatto mirata ad una funzione principalmente  conciliativa, volta quindi alla consensualizzione  .

Tanto da richiedere che le vicende personali (come se vi possa esser altro !) non vengano portate all’attenzione del Presidente  come  le vicende separatizie , e l’atto sia inoltre limitato nella sua lunghezza.

 

Verona invece chiede che siano indicate sinteticamente le cause .

 

  1. b) Un secondo gruppo di Tribunali (e di protocolli) ritiene utile al contrario ed opportuno che siano indicate le cause della separazione e nei procedimenti divorzili anche gli eventuali inadempimenti alle statuizioni giudiziarie  .

Tutti indistintamente i Tribunali  sono molto rigidi nel richiedere che in allegato agli atti sia acquisita la documentazione che consenta  di individuare  le disponibilità  economiche  delle parti  e quindi i redditi, siano essi annuali o mensili, e le eventuali  rendite di cui le parti siano titolari .

Alcuni addirittura (come Perugia) chiede il deposito degli atti di acquisto dei beni, la precisazione se vi siano titoli di godimento su altri immobili ,ma anche se la famiglia si doti di collaboratori  famigliari, se vi siano componenti iscritti a circoli ricreativi o associativi (sempre Perugia).

Forlì invece  si limita a richiedere  che venga fornito ogni  elemento utile per stabilire il tenore di vita .

Appare di sicuro singolare questa diversità di metodo di costruzione della udienza presidenziale e degli atti che in essa vengono  depositati  e scambiati , anche in ragione del fatto che oramai la prima udienza rappresenta una sorta di anticipazione della decisione finale, seppure mirata alla pronuncia dei provvedimenti temporanei  ed urgenti che  comunque consolidano, spesso  per lungo tempo  se non sino alla  sentenza,  la regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali .

 Ma ciò che pare piuttosto singolare è che l’aspetto personale , quello delle relazioni tra le parti e  spesso tra loro quali genitori, cosi pregnanti nei procedimenti   di famiglia,  venga posto in secondo piano  rispetto alla disclosure  economica.

Volendo trarre delle conclusioni  dalla disamina di questi protocollo non si può che andare a rilevare  l’applicazione   delle norme di diritto in  una ottica riduttiva, mirata  alla  risoluzione del conflitto,  limitata alla sola  definizione   degli aspetti economici.

Altre prescrizioni riguardano invece la richiesta  di utilizzare  nella stesura degli atti i principi di sinteticità  e chiarezza.

 Se è pur vero che state introdotte modifiche legislative volte alla semplificazione del momento decisorio: si pensi alla  sostituzione   della ordinanza alla sentenza , alla decisione  immediata  ex art.281 sexies c.p.c , alla motivazione  concisa e che  successivamente  l’interesse del legislatore  si è esteso  introducendo e richiedendo principi di sinteticità e chiarezza negli atti processuali siano essi utilizzati da parte del Giudice  che dalle parti.

Tali principi già in vigore  nel processo amministrativo e contabile  in realtà appaiono molto vaghi : è chiaro  che la sinteticità va rapportata  al contenuto  dell’atto  prevedendo   l’esclusione  di ripetizioni  e ridondanze ,e  si riferisce anche alla dimensione dell’atto e quindi alla sua proporzione al numero delle questioni trattate  e  alla loro complessità .

Mentre  la chiarezza fa riferimento alla impostazione ordinata dello scritto  ed alla sua comprensibilità .

Ora se questi criteri sono di certo elementi apprezzabili nella lettura dell’atto , va però tenuto conto che gli atti in un processo in cui sono coinvolte le relazioni personali , in cui anche la materia giuridica è spesso intrisa di dolore e sofferenza, in cui le aspettative delle donne di essere credute ed ascoltate ed avere giustizia  non devono essere ridotti solo a meri modelli da compilare o nei quali  riportare unicamente  i dati da cui  poter evincere quale fosse il bilancio famigliare  tra entrate ed uscite .

Ben sappiamo che di frequente  non tutto quello che  le donne ritengono importante debba per ciò stesso essere portato a conoscenza  del Giudice o abbia un rilievo fondante per una eventuale decisione ma comunque offre la cornice entro la quale si è svolta la vita delle parti.

Limitare anche la possibilità di parlare attraverso gli atti ma anche in sede di loro audizione, togliere voce a chi faticosamente  l’ha ritrovata  appare un ulteriore atto di prevaricazione e di violenza . 

Piuttosto che limitare gli atti si dovrebbe   invece prevedere di inserire all’interno di protocolli degli obblighi di rispetto nei riguardi delle donne quali ad esempio quello di non incorrere nella narrazione degli atti nell’uso di stereotipi di genere .

 

g)      Le fonti internazionali 

Nessuno dei Protocolli contiene riferimenti diretti ma neppure richiami generici a principi enucleati in fonti internazionali che nel tempo si sono più direttamente occupati delle tematiche della violenza  contro le donne, fonti che ai sensi  dell’art.117 della Costituzione  hanno pari dignità  di quelle nazionali e dovrebbero trovare altrettanta esecuzione  ed applicazione  delle norme interne.

Manca, ad esempio, ogni riferimento al contenuto della CEDAW  (definita   Carta internazionale dei diritti delle donne che impegna gli stati firmatari ad avviare misure  che siano utili a porre fine alle discriminazione  contre le donne e che è stata ratificata dalla Italia il 10 giugno 1985 ed entrata in vigore un mese dopo).

Ma ciò che è peggio è che risulta del tutto ignorata la Convenzione di Istanbul del 2011.

 

Eppure la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 29 gennaio 2016 al n. 10959 si è chiaramente  espressa affermando:  “ Come  è stato osservato la direttiva 2012/29/UE , con il suo pendant  di provvedimenti-satelliti  ( le direttive sulla tratta di esseri umani , sulla  violenza sessuale , sull’ordine di protezione penale, tra le altre)  e di  accordi internazionali ( la Convenzione di Lanzarote e Istanbul  in particolare) rappresenta un vero e proprio snodo per le politiche criminali , di matrice sostanziale  e processuale  ,dei legislatori europei .Non tanto per le singole indicazioni da attuare a livello  nazionale ( diritti di informazione , assistenza  linguistica , accesso alla giustizia,  garanzie di protezione e via discorrendo ) quanto per la necessità , imposta dal testo europeo di definire  una chiara posizione sistemica dell’offeso .

In tale contesto si è inserita l’attività del legislatore interno che , a fronte dell’ emersione del fenomeno della violenza in ambito famigliare e domestico  e in presenza di una pluralità di atti internazionali  di cui tener conto  ha provveduto a modificare in larga parte la normativa sostanziale  e specialmente  processuale  con interventi  settoriali , spesso attuati con lo strumento del decreto legge , anche reintervenendo  con successivi  adattamenti degli stessi istituti :  un vero e proprio “arcipelago”  normativo  nel quale  non sempre è facile orientarsi. Di tale quadro di riferimento complesso e frammentario si deve tener  conto al fine di risolvere la questione di cui trattasi , che richiede di essere inquadrata nell’ambito  delle fonti normative interne ed internazionali .”

Ciò nonostante di tali fonti sovranazionali non troviamo traccia nei Protocolli e tantomeno  nella motivazione dei provvedimenti  temporanei  ed urgenti ,non certo nelle  sentenza , non nelle motivazioni di ordinanze ,  non nella emissione di eventuali provvedimenti  cautelari o di modifica di sentenze o provvedimenti  provvisori.

E sarebbe  di certo molto interessante verificare in quante sentenze di primo o secondo grado siano  contenuti riferimenti alle fonti internazionali.

Eppure se alla Convenzione di Istanbul  bisogna guardare come ad una fonte di legge ,allora di essa dovrà tenersi conto in tutti  i gradi  ed in tutti gli ambiti  in cui essa potrebbe o dovrebbe trovare applicazione .

Quale miglior ambito allora di quello  attuativo -pratico  proprio dei giudizi  e delle procedure  in cui si debba procedere ad attuare forme di tutela  per donne vittime  di violenza ?

Non va dimenticati che l’art.5 della  Convenzione di Istanbul (intitolata obblighi degli Stati e dovuta diligenza) al punto 2 prevede espressamente che : “Le parti adottino le misure legislative e di altro tipo per esercitare la debita diligenza nel prevenire , indagare , punire i responsabili ( e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali)”.

Ma anche al capitolo IV intitolato “protezione e sostegno “all’art. 18 II comma prevede che le parti adottino misure legislative e di altro tipo necessarie con riferimento al loro diritto interno per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficaci tra tutti gli organismi statali competenti , comprese  le autorità giurisdizionali , pubblici ministeri , le autorità incaricate delle applicazioni della legge , autorità locali e regionali ed organizzazioni non governative e le altre organizzazioni o entità competenti  per proteggere e sostenere le vittime”.

Ma si consideri anche il capitolo V “Diritto sostanziale”  , all’art.29  procedimenti e vie di ricorso in materia civile  o l’art. 48 divieto di metodi  alternativi di risoluzione dei conflitti , anche nel corpo di detto articolo troviamo la medesima formula che prevede sia l’adozione di misure legislative ma anche l’assunzione di  iniziative di “altro tipo”.

 

Se lo Stato Italiano che ha ratificato la Convenzione  e ad essa deve attenersi , allora gli si richiede coraggio , trasparenza , coerenza e iniziativa.

Viene da chiedersi se non si possa trovare un  buon ambito di applicazione od almeno un buon banco di prova della Convenzione di Istanbul proprio nella predisposizione di Protocolli (così amati dai nostri Tribunali !)o di linee guida relative  alla trattazione dei giudizi di separazione, divorzio, regolamentazione di questioni relative a figli minorenni o maggiorenni  non economicamente autonomi  misure cautelari , che recepiscano   questi principi ed agli stessi diano applicazione.

Indispensabile e condizione indeffettibile però è prendere consapevolezza da parte di magistrati  , CTU, servizi sociali , servizi sanitari che non tutte le relazioni intime sono  conflittuali, il che presuppone  un piano di parità  e di confronto anche se spinto e  di dialettica seppure estrema, ma che alcune trascendono diventando relazioni violente e maltrattanti in cui una delle parti è vittima dell’altra .

E che come tali vanno nominate e che questo tipo di violenza deve essere riconosciuta   come avente natura strutturale, connaturata alla manifestazione di potere di un soggetto su di un altro.

Questo approccio costituisce l’asse portante del metodo e del pensiero di chi lavora con le donne vittime di violenza e che delle stesse cerca di far sentire  la voce .

Ma purtroppo queste competenze  non vengono adeguatamente  valorizzate e considerato come patrimonio comune il loro lavoro, come dovrebbe essere per tutti i soggetti  istituzionali che di tali situazioni hanno modo o dovere di occuparsi.

Ed allora vi è necessità che le competenze si intreccino non solo per favorire un utile imprescindibile scambio di differenti punti di attenzione ma anche per formulare criteri di  indagine e di verifica mirati ad esempio in sede di Ctu  alla valutazione del rischio ed in generale alla assunzione di elementi probatori  utili che con un differente approccio non verrebbero colti .

Se ad esempio si facilitasse la richiesta di misure cautelari ancora poco utilizzate in sede civile prevedendo anche nei Protocolli l’inserimento di alcuni elementi o prerequisiti  in modo da supportare la richiesta finalizzandola  al  suo accoglimento.

Ciò potrebbe avvenire,  ad esempio, acquisendo specifiche  relazioni dei  centri antiviolenza  che hanno avuto modo di incontrato la donna a protezione della quale si richiede un particolare provvedimento   ( misure cautelari , ma anche visite protette per i figli)    cosi da poter offrire al meglio ed in tempi veloci ,  evitando gli usuali ritardi conseguenti alla  richiesta di acquisizione che sconta i tempi biblici dei Servizi così da raccogliere tutti gli elementi probatori  necessari.

Ma andrebbe anche potenziata la figura del Pubblico Ministero al quale comunque competono  i compiti di cui allo art.70 c.p.c che dispone di  una facoltà ( ed un obbligo ) ma al tempo stesso di poteri di indagine e di intervento di certo superiori a quelli  che spettano alla parte.

Cosicchè i provvedimenti sia se emessi “inaudita altera parte” ma anche se venisse disposta la comparizione delle parti,  sarebbero completi pur nelle loro sommarietà di indagine costituendo  il frutto della acquisizione  del maggior numero di elementi  .

Non si ritiene che l’utilizzo di un potere di disclosure da parte del Giudicante ecceda quelli che gli sono propri, travalicando l’onere probatorio che grava sulla parte, sia perché potrebbe sempre essere  indicato come prerequisito da inserire  nel Ricorso  ma anche in ragione  di effettuabili  plurimi richiami   a norme costituzionali  art. 31 e 32  ma anche 29 e 39  sotto il profilo della eliminazione  di condizioni  di discriminazione. 

Ed a maggior ragione laddove  vi fosse necessità di protezione di donne vittime di violenza o di minori,  questi ultimi  soggetti privi di propria capacità di agire e quindi di essere loro stessi  soggetti autonomi nel processo con autonoma difesa .

Vanno analizzate le modifiche che a tale impostazione potrebbero derivare dalla recente  riforma e dalla introduzione  della nuova figura del curatore dei minori  .

A ciò si potrebbe  ovviare potenziando la presenza obbligatoria del PM ex art.70 c.p.c ed il suo conseguente intervento  obbligatoria  a pena di nullità nei procedimenti  indicati nel predetto articolo , ma anche l’art.72 c.p.c  che regolamenta  i poteri del Pubblico Ministero e lo riconosce alla stessa stregua  di quelli  che competono  alle parti , richiamando l’art. 267 c.p.c , norma che fa riferimento  allo intervento del terzo nel processo ,con possibilità conseguente di produrre documenti e dedurre prove.

Quindi non un ruolo di mero supporto ed integrazione che gli viene riconosciuto al punto 3) del medesimo articolo 70 in tutti i procedimenti  in cui si ravvisa  un pubblico interesse .

Sussiste conseguentemente la possibilità teorica che sia il pubblico Ministero   con i propri poteri di impulso   non appena notiziato della pendenza di un procedimento ad avere modo  di assumere  ed ottenere informazioni utili e necessarie e di farle acquisire al Giudicante.

 Sempre con riferimento alle norme  di cui all’art.342 ter c.c va segnalato che andrebbe soppresso , o almeno si dovrebbe  dar atto che  vi è contrasto con l’art.48 della Convenzione  di Istanbul nella parte in cui si prevede la possibilità di disporre l’intervento di un centro di mediazione famigliare .

Comunque  considerando che vi possano essere situazioni   gravi ma non non tali  da far sussistere le condizioni  per  la richiesta di misure  cautelari,  le soluzioni per creare una condizione  di protezione potrebbero  essere altre e tutte facilmente praticabili: prevedere ad esempio  una corsia preferenziale  per la trattazione dei procedimenti   di famiglia che si presentini caratterizzate  da comprovate condizioni  di violenza .

Lo farà il nuovo 473 bis .15 c.p.c ?

Pur non riconoscendo   alla funzione dei protocolli  alcun effetto salvifico e tantomeno diretto all’ottimizzazione della procedura , pur tuttavia considerando l’evidente  tendenza dei Tribunali ad adottarli si chiede almeno che essi diano applicazione alle norme  ed ai principi enunciati  nelle Convenzioni internazionali ed in quella di Istanbul   che per completezza ed esaustività si pone come una vera e propria guida e sicuro criterio di orientamento .

E’ necessario,  pertanto,  che i Tribunali abbiano il coraggio di distinguere  tra situazioni  di conflitto e situazioni  di violenza e la affrontino in modi e con strumenti diversi .

E’ solo nel primo caso infatti che si potrà pensare ad un invito ad una consensualizzazione del procedimento come risultato  di una riflessione di entrambe le parti, non certo  come  modo per negare o ancor peggio mistificare una situazione relazionale violenta .

La mancanza  di coordinamento tra le istituzioni  i in principalità ma anche tra tutti i soggetti che si occupano  del contrasto alla violenza di genere è un elemento che è stato ripetutamente  sottolineata già nel 2012 ( esattamente  11 anni)  fa da Radshida Manjoo che in qualità di   Special Rapporteur ONU  aveva visitata l’Italia e nella sua relazione  conclusiva aveva dichiarato  che : “Il Governo italiano ha fatto molti sforzi per affrontare  la questione della violenza contro le donne anche attraverso l’adozione di leggi e politiche rivolte alla promozione e alla tutela dei diritti delle donne. Tuttavia queste iniziative non hanno portato alla riduzione  del fenomeno del femminicidio o al miglioramento delle condizioni di vita di molte donne soprattutto straniere o disabili

Tra le varie raccomandazioni   valide ancor oggi anche nella successiva e richiamate  nel più recente rapporto del Grevio l’invito , tra i molti , alla creazione di una struttura governativa dedicata alla parità di genere ed alla lotta contro la violenza con funzioni di coordinamento tra tutte le varie istituzioni coinvolte , a promulgare una legge specifica che consenta di superare la frammentazione ed i ritardi  spesso conseguenti proprio  a questa manca di unitarietà e difetto di collegamento tramite un costante scambio di informazioni  .

Ritornando al tema ed ai Protocolli quello che verrebbe richiesto è uno sforzo minimo non solo per una efficace ed ritengo obbligatoria   applicazione delle norme ma anche per  dare realizzazione a quegli interventi che le norme  stesse richiedono siano esse nazionali che sovranazionali ed ai principi che esse contengono .

Questo non tanto e non solo al fine di creare un comune sentire o semplicemente e riduttivamente una maggiore sensibilità ma una comune cultura giuridica ed uno stile professionale per magistrati e avvocati attento, sensibile e rispettoso del genere.

 

h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71

 

la Legge per gli Orfani di crimini domestici  deve essere letta anche quale assunzione  di responsabilità  da parte dello Stato per la sua incapacità di essere riuscito a evitare  l’evento luttuoso   che ha reso poi questi figli “Orfani” .

Sempre di più i femminicidi  infatti  vengono  assimilati  a reati di tipo mafioso in cui  erano emersi segnali di pericolo, registrate  minacce , comportamenti violenti e/o aggressivi : si erano cioè evidenziati anche in tempi ristretti  tutti quegli  elmenti dai quali poter desumere   che “potesse succedere qualcosa d’altro “ e che l’epilogo  “avrebbe  potuto essere tragico ed irrimediabile”.

Non si può disconoscere che molto è stato fatto e che vi sia una maggiore attenzione ,  ma la sensibilità personale e la stessa formazione  specifica  viene vanificata se non  vi sono risorse economiche adeguate e  se la formazione  stessa non viene estesa  ,ma anche  costantemente rinnovata  e ridiscussa ,  a tutti coloro che hanno modo per lavoro o per  impegno  politico e di militanza di entrare in contatto con situazioni   di violenza  contro le donne.

Non possiamo avere delle eccellenze e poi nella quotidianeità e cosa ben più grave  nelle aule di giustizia,  scontrarci   con la costante  mancata “valutazione del rischio”  anche nelle Ctu o ancor peggio nelle Relazioni dei Servizi sociali , con il continuo invito alla mediazione tra le parti,  con la  evidente difficoltà di molte istituzioni  di riconoscere e poi nominare la violenza come tale .

E ovviamente cercare di porvi rimedio. 

Lo Stato ha quindi cercato di ovviare ad un sua inefficienza e talvolta inerzia , andando a tutelare coloro che sono a tutti gli effetti esse stesse vittime dirette di  quanto accaduto.  

Ma c’è un altro aspetto che va tenuto  presente per le conseguenze  che  viene ad avere  nella stessa applicazione  della legge e del suo regolamento  attuativo ( di due anni successivo peraltro ) e riguarda invece più specificatamente  l’attenzione da porre agli autori dei fatti.

Essa attiene alla circostanza che i femminicidi  non possono essere riportati ad atti compiuti da uomini disturbati mentalmente  o affetti da malattia.

Talvolta, ma in casi rari, è accaduto che si presentasse un profilo depressivo, dei  disturbi paranoidi o di ansia , ma raramente ci si è trovati in presenza  di un vera forma di schizofrenia  o di psicosi  tali da inibire il contatto dell’autore di reato  con la realtà o di un disturbo talmente grave da incidere  sulle capacità di discernimento  così da far ritenere che il soggetto non avesse capacità  di intendere e volere.

Ricordiamo che la Cassazione a Sezioni unite con sua sentenza n.9163/2005 ha affermato espressamente che non hanno rilievo ai fini della imputabilità anomalie caratteriali, disarmonie  della personalità , alterazioni di tipo caratteriale, deviazioni  del carattere  che non abbiano rilievo  sulla capacità di autodeterminazione   dell’ agente.

Né tantomeno hanno rilievo gli stati emotivi e passionali per la espressa disposizione  di cui all’art.90 c.p.

Abbiamo quindi l’autore di un femminicido che è stato il compagno , il fidanzato, il  marito  ed è un padre sano di mente .

E questo se da un lato rende più difficoltoso per coloro che hanno perso un genitore per mano di un altro , comprendere perchè proprio quello violento  sia il sopravissuto costringe a confrontarsi , anche sul  piano giuridico  con colui  che può farsi portatore di proprie autonome richieste  nei riguardi  di quei figli che abbia reso orfani. 

La Legge n. 4/2018 rappresenta una conquista recente  di civiltà  giuridica  nel nostro panorama  e nel nostro Paese che deve comunque prendere atto delle normative internazionali e della loro pari efficacia ex art.117 della Costituzione  alle norme  interne.

Tra tutte la Convenzione di Istanbul. 

Ma lo fa subendo anche quello che è stato un passato recente  ma non certo giuridicamente  accettabile in una Società democratica   di cui non possiamo non tenere  conto ,anche con riferimento  alla Legge 4/2018.

E’ sufficiente  riflettere ad esempio  che nel caso di delitto  d’onore - abrogato solo nel 1981 - gli orfani di madre , che potrebbero  ancora essere viventi data la distanza  temporale modesta e di cui il padre   si era reso colpevole  del fatto-reato erano stati costretti a prendere atto  che il loro congiunto  godeva , per legge dello Stato , di un trattamento privilegiato   riconosciutogli proprio  dalla attenuante specifica dell’ art.587 c.p che comportava   una consistente diminuzione  di pena .

Anche la legge 4/2018 presenta comunque ancora imprecisioni e carenze.   

Già confrontando   il titolo delle due disposizioni si nota tra loro  una difformità :la legge  4/2018 é intitolato “Modifiche al codice penale e di procedura penale ad altre disposizioni”  individuando quali destinatari  gli orfani di crimini domestici , norma poi estesa dall’art.8 della Legge 19 luglio 2019 n.69 che reca modifiche al codice penale e di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela  di vittime di violenza domestica e/o di genere  .

La intestazione  del Regolamento  usa invece  invece parole differenti, identificando in “orfani  di crimini  domestici e di reati di genere” ( oltrechè di famiglia affidataria )  coloro in favore dei quali vengono erogate le misure di sostegno .

Rimane quindi un vuoto nella intestazione  letterale delle della legge e  del decreto ma  al tempo stesso una notevole indeterminatezza (che genera confusione)   nell’utilizzo delle parole,  oscillando il legislatore  indistintamente tra violenza domestica e violenza di genere,  che non possono esser usate come sinonimi .

Non è inutile ricordare  differenze che tendono poi a sparire nei testi normativi,  che la violenza di genere  è un termine usato prevalentemente  in letteratura  sociologica per  individuare  la  violenza manifestata ed agita, quando essa è  legata ad stereotipi e a ruoli che la società attribuisce e assegna a uomini e donne.

E’ d’uso invece in queste materie usare il termine di “Gender based violence “ corrispondendo   tale espressione a quella   che presente  in normative  internazionali , tra tutte la Convenzione di Istanbul,  che sottolinea come la violenza e la vittimizzazione avvengano appunto  sulla “base” ed “a causa” del genere .

E’ anche vero però che questa espressione può aprire la strada ad una diversa interpretazione e cioè a far considerare vittime di violenza non soltanto  le donne , ma anche  gli uomini e per entrambi i generi , i minori,   e potrebbe  essere adeguata  per  riferirsi anche alla violenza omo e transofobica  .

Non si dovrebbe quindi  usare indistintamente il termine di violenza di genere e violenza domestica :  solo nel decreto 71/2020 troviamo all’art. 2 comma 1 lett.a) la distinzione tra i soggetti beneficiari individuati come  orfani di crimini domestici e sempre al  comma 1 lett a n.2) orfani figli minorenni  e maggiorenni  ( non autonomi) di madre vittima  di omicidio  ( art.576 comma 1 n.5.1  c.p.  ) e comma 1 lett. a.n 3) orfani, figli minorenni  e maggiorenni economicamente  non autonomi di madre vittima di omicidio a seguito dei reati di cui agli art. 609 bis e octies c.p.

Quindi con un passaggio ed una specificazione ulteriore data dalla circostanza che è in  queste norme che per la prima volta si  parla di “orfano di madre”.

Ed è questa precisazione  che a mio avviso ci offre la possibilità di orientare la ricerca esclusivamente verso “coloro che abbiano  perso la madre perchè uccisa ”. 

L’assetto normativo in generale però  presenta purtroppo alcune altre discrasie : ad esempio l’art. 1 lett. a n.1) non ricomprende tra le vittime le persone  che fossero legate solo da relazione  affettiva , poichè richiede anche la stabile convivenza, individuata la stessa  secondo alcuni specifici  criteri e venendo  ad escludere quindi dalla applicazione della normativa  quelle coppie che non avevano al momento dell’evento morte, la medesima e comune residenza .

Una mancata comune residenza  che potrebbe esser ascrivibile  a molteplici ragioni , anche del tutto indipendenti  dalla loro volontà   oppure discendere  da loro precise scelte di vita, a mio parere comunque insindacabili .

Il riferimento tra l’altro ai criteri di identificazione delle residenza comune   è  di tipo squisitamente  formale , e prescinde da fondate e spesso condivisibili   ragioni siano esse  di lavoro , di ordine  fiscale o  personale  per le quali la coppia non abbia inteso  avere  la medesima residenza ma invece mantenerne  due distinte .

A ciò aggiungasi  che la stabile convivenza viene  individuata solo dimostrando la sussistenza di  requisiti richiesti per la costituzione  di una nuova famiglia.

 

Si possono  portare comunque più esempi per chiarire anche la confusione  delle norme e nell’uso dei termini .

Consideriamo l’art.10 legge  4/2018 ove il riferimento  è sempre a persona unicamente  legata in passato da relazione affettiva, senza alcuna previsione  della stabile convivenza : quindi parrebbe che  tale problematica si possa   trovare solo nell’art.1  ove  si parla sempre di relazione affettiva e stabile convivenza, nello    l’art. 3 in tema di sequestro conservativo, nell’art.4 in tema di provvisionale e cosi ogni qualvolta si proceda all’individuazione   di quale   sia stato   il rapporto tra vittima ed autore del reato .

Altre note : il sequestro conservativo può avvenire sui beni che siano effettivamente solo dell’autore  del reato e l’art. 316 c.p.p parla di beni mobili ed immobili in proprietà , somme o cose a Lui ( all’imputato ) dovute.

Quindi è da ritenere siano comprese    anche   la  quota di partecipazione ad una società da  considerarsi   bene immateriale equiparabile a bene mobile non iscritto in pubblici  registri poichè essa va a  costituire la frazione  del patrimonio che rappresenta.

E comunque poichè si parla solo di beni  pare  evidente che siano esclusi i diritti.

Quindi in che modo andrebbe ad esempio considerato   l’usufrutto , diritto reale che pure ha un valore economico e di cui l’autore del reato sia titolare ?

Andrebbero verificati  e forse potenziati al riguardo i poteri di indagine  e di investigazione del Pubblico MInistero con attenzione anche ad eventuali intestazioni fittizie e/ o apertamente simulate  .

Va segnalata  poi anche l’ anomalia dell’ art. 12 relativa alla decadenza  della assegnazione  di alloggio  residenziale  solo per autori  di violenza domestica che abbiano  condanna anche non definitiva o definizione  del giudizio ex e art. 444 cpp.

Quindi paradossalmente abbiamo una decadenza dalla assegnazione  precedente  al giudicato : e viene da chiedere con che ricadute .

 Va anche valutata la esistenza  di una sorta  di norma di chiusura  costituita dallo art. 28 del decreto  71/2020 laddove  si stabilisce al suo secondo comma che laddove con sentenza non definitiva venga dichiarato la non ricorrenza  del crimini domestici o del  reato di genere “l’aiuto economico” non è soggetto a ripetizione  .

È singolare  però nel testo di legge ( e del decreto ) si  usino termini differenti   quali “aiuti economici” , “benefici” o ancora  “incentivi”.

Infatti al capo II  sostegno al diritto  allo studio  all’art. 4 si parla di benefici e sempre di benefici all’art. 5 e 6 , 7 al capo II invece si modifica la parola  facendo riferimento   invece ad “incentivi”, probabilmente  termine più adatto alla materia lavoristica . 

Va segnalato anche la contraddittorietà con l’art. 13 legge 15 luglio 1966 n.604  i cui si parla di licenziamento per giustificati  motivo oggettivo prevendendo   però che il datore di lavoro, in questo caso incolpevole , perda i benefici già fruiti .

Proprio l’uso indistinto dei termini crea confusione: andrebbe forse precisato quindi se per aiuto economico si debba  intendere  solo quello che viene erogato direttamente   agli orfani o  anche gli incentivi ed i benefici .

Altre problematiche che ho rilevato  riguardano  l’art.5 delle Legge n.4/2018 ove il termine  usato è di “sospensione dalla successione”  e non di capacità a succedere.

Il successivo riferimento poi all’art. 463 c.c ( casi di indegnità ) fa  interrogare   se vi sia automatismo tra la condanna o la richiesta di applicazione  ex art. 444 c.p.p e la prevista indegnità  o se non si debba invece applicare  la procedura  ordinaria,  che richiede  una sentenza  costitutiva da emettere su domanda dello interessato.

Non è di poco conto ricordare che la giurisprudenza ha comunque esteso anche ai legati la indegnità a succedere .

Altri problemi  che potrebbero insorgere riguardano invece l’art.9 intitolato “disposizioni  in tema di assistenza medico psicologica” .

E’intuibile infatti che la condizione degli orfani  ed ancora più di quelli il cui padre si sia reso autore del fatto  ( i cd Orfani speciali  secondo la definizione  di Maria Costanza  Baldry ) possono solo in parte essere paragonabili a  coloro che hanno perso un genitore in seguito ad eventi luttuosi ( catastrofi  naturali , incidenti stradali tra gli altri ) .

Senza dimenticare che ,  come si era anticipato  molto spesso l’evento luttuoso costituisce l’esito di altri comportamenti  violenti e criminali di cui l’autore  si è reso responsabile in passato e ai quali anche i figli hanno assistito , casi in cui quindi il lutto recente si aggiunge   ai ricordi.

Nè va trascurata la ipotesi non così infrequente,  che l’autore del femminicidio si suicidi o comunque sia ristretto in carcere .

Si tratta quindi  di situazioni complesse per le quali si fa fatica a comprendere cosi si intenda  per “ il tempo occorrente  a garantire il pieno recupero dello equilibrio psicologico “ come limite per garantire il sostegno psicologico e gli altri benefici sanitari.  

 Un ultimo rilievo infine riguarda la mancanza di automatismo nella  decadenza dalla  responsabilità genitoriale  .

L’art. 34 c.p.infatti prevede che la stessa sia però subordinata alla condanna ed in alcune specifiche ipotesi di reato .

Ma non  ritroviamo nella Legge n.4/2018 una norma specifica al riguardo : il che non significa ovviamente  che il genitore autore del reato possa esercitare detta responsabilità  ma che comunque  vi sia necessità di un intervento di sollecitazione  da parte dei famigliari o del Pubblico Ministero.

 

In via di conclusione  va purtroppo evidenziato come detta Legge sia poco conosciuta  e per nulla   applicata.

Per renderla attiva ed operativa si potrebbero adottare alcuni correttivi e iniziative

1)Contattare i Tribunali ordinari in illustrando il progetto e chiedendo loro quanti procedimenti di separazione  , divorzi, regolamentazione di figli non nati in costanza di matrimonio   nel quadriennio  2018/2021 si siano conclusi  con la formula di “non luogo a provvedere “a seguito del decesso di una parte, 

2)contattare gli uffici di volontaria giurisdizione per avere  indicazioni sulla nomina di tutori per minori orfani di vittime di femminicidio ,

3)sempre in volontaria giuridizione e verificare se ci siano accettazioni beneficiate in favore di minori figli di vittime di femminicidio, 

4) verificare presso il Tribunale dei minorenni se vi si siano procedimenti  “de poteste” aperti nei riguardi dell’altro  genitore colpevole di  femminicidio ,

5)  richiedere   di verificare presso il Miur  o presso Atenei se vi siano richiesta di borse di studio per le ragioni di cui all’art.4 e previsione di benefici per struttura pubbliche o anche per istituti pubblici , o se siano state stipulate  apposite convenzioni.

6) Contattare l’Inps per la verifica  di quanto abbiano ricorso / richiesto gli incentivi per le assunzioni.

7) Contattare i CAAF di zona ugualmente per ricevere  tali informazioni.

8) Contattare l’associazione   industriali  ed artigiani per sensibilizzare  ma anche per informare.

9) Contattare     anche l’Inail per accertare se vi siano state richieste ,ed eventuali concessioni di indennità , per ” morte in itinere “ della vittima di femminicidio .      

A latere andrebbe poi  valutata la necessità di una formazione obbligatoria e congiunta ,  per avvocati e magistrati , la creazione  di una banca dati a fini statistici nei vari Tribunali civili e penali e dei minorenni, i cui dati di rilievo e criterio di classificazione siano unici per tutta Italia così da avere una lettura  integrata,   coerente e conforme degli stessi.

 

 

 

17.                     L’USO DI NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI NELLE INDAGINI PENALI

 

a) Introduzione.

Il panorama tecnologico odierno fornisce nuove importanti possibilità investigative per le autorità requirenti. In particolare, i dati contenuti nei dispositivi elettronici appartenenti a una persona sottoposta ad indagini possono rivelarsi elementi probatori essenziali per l’accertamento di un reato.

Al contempo, nuove tecnologie sviluppatesi in particolar modo nello scorso decennio possono rappresentare un limite all’azione di indagine. Tra esse, in particolare, la crittografia. Tale tecnica nasconde il contenuto del dato, non permettendo la sua comprensione laddove esso sia captato posteriormente alla sua criptazione attraverso metodi tradizionali di ricerca della prova.

Nell’evidente interesse ad accedere a tali dati, le autorità requirenti utilizzano da tempo metodi d’indagine tecnologicamente innovativi, volti alla captazione diretta dei dati all’interno dei dispositivi attraverso un accesso surrettizio al sistema informatico.

Questi nuovi strumenti di indagine vengono chiamati in gergo “captatori informatici” o “trojan”.[77] Una volta inoculati nel dispositivo bersaglio, questi software permettono di operare un’ampia gamma di operazioni intrusive. Le operazioni possibili comprendono: l’accesso ai dati memorizzati nel dispositivo (con facoltà di copia), la registrazione del traffico dati in arrivo o in partenza (incluso quanto digitato sulla tastiera), la registrazione delle telefonate e delle videochiamate, e l’attivazione delle funzioni microfono e/o telecamera da remoto (con registrazione) indipendentemente dalla volontà dell’utente.

b) Le Sezioni Unite nel 2016.

Per vero, l’utilizzo dei captatori informatici come mezzo di ricerca della prova è in uso da parecchi anni (in alcuni sistemi giuridici, quali gli Stati Uniti, sin dai primi anni 2000), pur nell’assenza di una normativa in merito. L’uso dei captatori assurge a più generale attenzione nel nostro ordinamento solo nel 2016, quando le Sezioni Unite della Cassazione vengono chiamate a pronunciarsi sul tema. Nello specifico, l’oggetto del pronunciamento del Supremo Consesso verteva sull’utilizzo dei captatori per l’attivazione da remoto del microfono (o della videocamera) del sistema bersaglio. Tale utilizzo mira pertanto ad apprendere “ambientalmente” i colloqui che si svolgono nello spazio circostante, ovunque si trovi il soggetto che ha il possesso del dispositivo.

E’ noto che il comma 2 dell’art. 266 cpp esclude la possibilità di effettuare intercettazioni di conversazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora, a meno che vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, o quantomeno, ex art.13 della l.12 luglio 1991 n.203, che le indagini siano svolte in relazione a delitti di criminalità organizzata.

Secondo le Sezioni Unite del 2016 non può derivarsi a priori l’illegittimità̀ delle intercettazioni svolte con dispositivi di captazione in grado di seguire il soggetto ovunque esso si trovi, e tecnicamente impossibilitati ad interrompere la registrazione in base al luogo in cui sono posti. L’utilizzo di un dispositivo informatico con captazione “itinerante” – sulla base di un provvedimento di autorizzazione adeguatamente motivato e nel rispetto delle disposizioni generali in materia di intercettazione – costituisce, secondo la Corte, “una delle naturali modalità̀ di attuazione delle intercettazioni al pari della collocazione di microspie”. Ancora, la Corte rileva come la necessità di indicare con precisione il luogo di svolgimento delle intercettazioni tra presenti non è richiesta né dalla legge, né dalla giurisprudenza nazionale o sovranazionale, salvo quando esse debbano avvenire in un domicilio privato; nel caso in cui si proceda per i delitti di cui all’art. 13 d.l. 152/1991, tale presupposto non è mai necessario.

Tuttavia, la possibilità di porre in essere tale tipo di intercettazioni «al di fuori della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 della legge n. 203 del 1991» viene radicalmente esclusa, poiché in questo caso non si riuscirebbe a dare attuazione alla clausola prevista dall’art. 266 comma 2 c.p.p. a tutela del domicilio.

 

c) La richiesta di intervento del legislatore.

A seguito della sentenza delle Sezioni Unite, si rilevava da più parti, compresa autorevolissima dottrina[78], come tale metodo d’indagine incida fortemente sulla vita privata degli individui (intimità del domicilio, libertà e segretezza delle comunicazioni, diritto alla c.d. “privacy”), e come l’uso di tali strumenti non trovasse autorizzazione positiva in alcuna legge – come richiesto per converso dagli artt. 14 e 15 della Costituzione e dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (che contengono una riserva di legge per ogni intromissione nella vita privata, nell'intimità domiciliare e nelle comunicazioni del cittadino)[79] – basandosi esclusivamente su interpretazioni estensive operate in sede giurisprudenziale in una materia governata da un rigido principio di tassatività.

Si chiedeva pertanto di chiarire con una specifica regolamentazione legislativa come e quando potesse essere utilizzato il captatore informatico.

Venivano presentati alcuni disegni di legge, tra cui quello dell’allora deputato Stefano Quintarelli e intitolato «Disciplina dell’uso dei Captatori legali nel rispetto delle garanzie individuali», considerato anche da commentatori internazionali una delle normative più all’avanguardia d’Europa, anche dal punto di vista tecnico.[80] 

d) L’attuale regolamentazione normativa.

Sarà tuttavia solo la legge delega prevista dalla c.d. Riforma Orlando a fornire una prima regolamentazione dell’uso dei captatori (Legge n. 216 del 2017), affinata poi dal Decreto Legge n. 161/2019 e dalla Legge n. 3 del 2020 (c.d. “spazzacorrotti”), ad oggi in vigore.

La normativa delineata da tali interventi legislativi regolamenta l’utilizzo del captatore come “comando” di attivazione da remoto di microfono e videocamera del dispositivo, al fine di intercettare le conversazioni tra presenti: fuori dal domicilio; o interne al domicilio se vi è fondato motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l'attività criminosa (comma 2 dell’art. 266 c.p.p.), se si procede per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater (sostanzialmente, reati di criminalità organizzata), o se si procede per un delitto dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la p.a. con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni (ma solo “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l'utilizzo anche nei luoghi indicati dall'articolo 614 del codice penale”).

e) La situazione odierna e le correlate problematiche.

L’intervento legislativo riprende sostanzialmente i principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle Sezioni Unite del 2016 e sopra richiamati. La riforma, pertanto, appare incentrata sull’inviolabilità del domicilio fisico dei soggetti intercettati.

Non è dato rilevare considerazioni più generali sulla straordinaria potenza lesiva espressa dai captatori nei confronti della riservatezza nella vita privata e nelle conversazioni, posta la costanza dell’ascolto effettuato attraverso un microfono “itinerante”, ossia che si muove con il soggetto, e capace di intercettare sia lui sia persone terze “in scia” (ossia entranti nel raggio di ascolto del dispositivo). Altresì, mancano considerazioni relative alla proporzionalità tra tali lesioni e l’interesse di prevenzione e repressione dei reati (elemento necessario a livello sia interno sia internazionale), che dovrebbero quantomeno portare ad una limitazione qualitativa della possibilità di utilizzo dello strumento ai soli reati di particolare gravità, come d’altra parte previsto in altri Stati europei.[81]

Inoltre, continua a non essere regolamentato l’utilizzo dei captatori per perquisizioni e sequestri “digitali”, che ad oggi viene attuato attraverso un’interpretazione estensiva della normativa sui mezzi di ricerca della prova tradizionali operata per via giurisprudenziale. E’ pertanto permesso un ampio utilizzo di tali strumenti per accedere ai dati contenuti nella memoria di un dispositivo, o per intercettazione telematica – seguendo i limitati requisiti in materia (es. Cass., sez. V, 16556/09 “È legittimo il decreto del pubblico ministero di acquisizione in copia, attraverso l'installazione di un captatore informatico, della documentazione informatica memorizzata nel "personal computer" in uso all'imputato e installato presso un ufficio pubblico, qualora il provvedimento abbia riguardato l'estrapolazione di dati, non aventi ad oggetto un flusso di comunicazioni, già formati e contenuti nella memoria del "personal computer" o che in futuro sarebbero stati memorizzati”,  o ancora la Sentenza 48370/17 della quinta Sezione della Cassazione, nel famoso caso Occhionero, in cui si precisa che la pronuncia delle Sezioni Unite “Scurato” si riferiva solo a una funzione specifica del captatore, ovverosia l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti, e che per converso non riguardava affatto, limitandola, l’intercettazione telematica).

Si pensi alla quantità e alla qualità dei dati ad oggi rinvenibili all’interno di uno smartphone – es. di tipo sanitario o finanziario – apprensibili con un accesso informatico al sistema attraverso malware, senza limitazioni altre di quelle previste dalla normativa ordinaria su perquisizione e sequestro. Peraltro, si consideri come, a differenza della loro controparte “fisica”, tali attività siano occulte, permanenti, e funzionali all’acquisizione indiscriminata di beni (dati).

Ulteriore problematica attiene alle caratteristiche tecniche dei software utilizzati. Anche per una necessità di controllo di integrità e ammissibilità della prova, il codice del software utilizzato deve essere controllabile ex ante o quantomeno ex post (dal difensore), così come il metodo di inoculazione del software, le concrete operazioni effettuate nel dispositivo colpito, e la “catena di custodia” dei dati, al fine di garantirne l’aderenza ai dati originali.  Il mezzo di ricerca della prova deve poi evitare eccessive compressioni del diritto alla privacy sia del soggetto indagato, sia di soggetti terzi coinvolti nelle operazioni, i cui dati devono essere debitamente cancellati se non di interesse per le indagini. Infine, si consideri come l’uso di captatori possa portare ad una compromissione del sistema target che può essere indebitamente sfruttata da soggetti terzi per la commissione di reati informatici. L’indagato attinto da captatore deve pertanto poter conoscere – con una tempistica parametrata all’interesse d’indagine – della misura, al fine di proteggere il proprio sistema e ripristinarne la piena efficacia.

Sul punto, come previsto dalla normativa sui captatori informatici, il Ministero della Giustizia ha emanato un (piuttosto scarno) provvedimento,[82] principalmente incentrato sulle misure atte ad assicurare la permanenza e l’efficacia del captatore sul dispositivo ed impedire la rilevazione del software da parte del soggetto bersaglio. Le problematiche poc’anzi menzionate, correlate alla tutela dell’integrità del dato e dei diritti fondamentali della persona sottoposta ad indagine, sono insufficientemente condensate nell’espressione “i programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile sono elaborati in modo da assicurare integrità, sicurezza e autenticità dei dati captati su tutti i canali di trasmissione riferibili al captatore.”

f) Le proposte.

L’uso dei captatori informatici è contestabile sotto vari aspetti (proporzionalità della misura alla gravità del reato, violazione della riserva di legge ex artt. 14 e 15 cost. e art. 8 CEDU, in particolare riguardo alle funzioni non specificate dalla normativa in vigore e rimesse ad un’indebita sussunzione nei mezzi di ricerca tradizionali). A latere di questo, e delle considerazioni sopra svolte, anche a riguardo delle caratteristiche tecniche del captatore, le principali proposte di carattere “evolutivo” possono essere così condensate:

a livello di normativa ordinaria – aggredire l’articolo 189 del codice di procedura penale sulle prove atipiche, nella parte in cui non esclude prove in violazione di diritti fondamentali (nello specifico, ottenute attraverso interferenze illecite nella sfera personale del soggetto)[83];

a livello di evoluzione dei diritti fondamentali – stimolare lo sviluppo del concetto di domicilio informatico[84], già utilizzato dalla giurisprudenza per ipostatizzare il bene giuridico tutelato dall’art. 615 ter cp, riconducendolo sotto l’ombrello dell’art. 14 della Costituzione (si noti: la giurisprudenza e la normativa sul tema rimangono per contra incardinate su un principio di tutela del domicilio fisico – limitando l’uso dei captatori nel caso essi vengano utilizzati come spie ambientali all’interno della privata dimora); sviluppare un nuovo diritto fondamentale alla riservatezza informatica, e all’integrità dei dispositivi digitali, sulla scorta di quanto già operato in alcuni sistemi giuridici esteri (in particolare, si veda l’esempio tedesco)[85].

f) Considerazioni finali.

A molti anni dal primo uso dei captatori informatici, tali mezzi di indagini non appaiono ancora compiutamente normati. In alcuni casi, l’ordinamento permette agli organi requirenti di dotarsi di mezzi altamente lesivi della privacy dell’individuo sulla base di mere interpretazioni giurisprudenziali. La scarna legislazione in merito appare fortemente lacunosa: lentamente, si prendono in considerazione limitati aspetti di tale utilizzo, ignorando (volutamente?) un dovuto approccio olistico al tema.

Intanto, nuovi strumenti digitali di indagine prendono piede. Anche in Italia, vengono implementati sistemi di riconoscimento facciale che permettono, dopo una “schedatura” d’immagine (sia con fotografie dirette del viso operate in sede di identificazione, sia con l’utilizzo dei dati pubblici raccolti sul web, e in particolar modo sui social media), di identificare gli individui attraverso telecamere installate nei luoghi pubblici. Anche in questo caso, manca qualsiasi normazione del fenomeno, a latere dei timidi tentativi del diritto unionale di porre limiti alla volontà statale di controllo tecnologico.[86]

Il ritorno entro dei confini positivi, determinati dal legislatore con un’attenta disamina della questione, anche attraverso le lenti dei diritti fondamentali dell’individuo, appare oggi una necessità impellente, come argine alla creazione di un sistema di controllo orwelliano. A noi rimane il compito della sensibilizzazione pubblica, della pressione politica, e della sollevazione della questione nelle aule giudiziarie, come singoli cittadini, come professionisti, come associazioni che si battono per il rispetto dei diritti fondamentali all’interno di uno Stato di Diritto che limiti l’arbitrarietà dell’azione statale.

 

18.                     LA PARTE OFFESA

La figura della parte offesa del reato è delineata nel libro I, parte I del C.p.p., titolo VI persona offesa dal reato, all’art.90, dove vengono indicati i diritti e le facoltà della stessa nel procedimento penale: può indicare elementi di prova, presentare memorie, se minore può essere assistita dalle figure di cui agli artt.120e 121 del C.P. e, se deceduta a seguito della commissione del reato, i diritti e le facoltà sono esercitabili dai congiunti.

All’art.90 bis sono destinati l’indicazione delle informazioni sui diritti che deve disporre l’Autorità giudiziaria.

Nei codici penali e di procedura penale vigenti prima del 1989, data di pubblicazione del Nuovo Codice , la figura della parte offesa godeva di una serie di prerogative, ormai dimenticate e scomparse con la redazione del Nuovo codice di p.p.:

La p.o. dal reato, poteva partecipare a tutta la fase delle indagini condotte dal Giudice Istruttore, fin dall’inizio del procedimento, partecipava all’interrogatorio successivo all’arresto dell’ indiziato, si poteva costituire parte civile in quella fase e seguiva, in pratica, tutte le fasi del procedimento.

Oggi, nonostante le numerose innovazioni introdotte nella nuova procedura, la posizione processuale della parte offesa ha visto restringersi il campo delle facoltà e dei diritti in capo alla stessa e alla sua difesa.

Durante tutto il corso delle indagini, dalla denuncia alla richiesta di rinvio a giudizio, non ha alcuna informazione in ordine alle stesse, salvo avvisi per atti irripetibili;

nell’incidente probatorio il suo avvocato non può porre domande, ma solo memorie o precisazioni;

In caso di vittima di violenza di genere, è esposta a quella che può essere esercitata dall’imputato o indagato, che viene avvisato, anche in sede di colloquio con la PG, della denuncia subita, con contestuale diffida spesso richiesta dalle vittime. Non sono pochi i casi di ritorsione pericolose per le denuncianti.

Il progetto di riforma della Ministra della giustizia non presenta novità rilevanti, né adiuvanti alla piena partecipazione attiva della parte offesa, soprattutto nella fase cautelare, disciplinata dall’art.293 e commi collegati, che dispongono il diritto ad avere informazione delle modalità di denuncia o querela, diritto a conoscere la data e il luogo del rinvio a giudizio e di avere copia o estratto dell’eventuale sentenza di condanna , nonché il diritto ad avere la richiesta di archiviazione del PM, di poter usufruire del patrocinio a spese dello Stato, la traduzione degli atti, anche se all’estero, e di avere notizia delle eventuali misure di protezione se richieste dal PM (Art.90 bis lett.a)b)c)d)e)f) g) ). Quest’ultima comunicazione, importante per le vittime di violenza di genere, non sufficiente alla piena partecipazione della vittima al processo, per le successive osservazioni.

L’ art. 90 ter dispone l’obbligo di comunicare, alla p.o. o al suo difensore, le variazioni delle condizioni delle misure che si dispongono nei confronti dell’indagato e/o dell’imputato, per rendere edotta la parte delle circostanze che potrebbero incidere sulle vicende della parte offesa, ad esempio, in caso di pericolo alla persona, se l’indagato è a conoscenza della persona del denunciante, a lui indicato nell’esecuzione di una misura cautelare.

Ma ciò non è sufficiente alla completa cognizione degli eventi che avvengono durante le indagini, come l’avere avviso dell’esecuzione delle misure coercitive, dell’interrogatorio e dell’esito della convalida, così come il deposito degli atti che spetta al difensore e all’indagato, ma non alla parte offesa o al suo difensore.

Nè la parte offesa, fino alla possibilità di costituzione di parte civile, al Giudice dell’udienza preliminare, quando è previsto, o al dibattimento, prima dell’esplicarsi di tutte le formalità di apertura dello stesso, è messa in condizione di partecipare, dopo averne avuto avviso, all’udienza del tribunale della Libertà , se adito dall’arrestato, o all’appello contro il diniego della libertà espresso dal Gip, o al ricorso in Cassazione sulla revoca o modifica dello status proposta dall’indagato/imputato.

Pertanto, al fine di conciliare tutti i diritti e le prerogative delle parti partecipanti al processo penale, è importante modificare gli articoli che disciplinano le prerogative della parte offesa, adeguandone la partecipazione egualitaria con quella dell’indagato/imputato e si propone:

1) All’art.293 ter si aggiunga l’obbligo di comunicazione alla parte offesa dell’esecuzione delle misure cautelari, del diritto a consultare e estrarre copia della richiesta di misura del PM, del diritto ad avere copia del verbale di arresto e della comunicazione, contemporaneamente al Gip e al PM.

2) Che la parte offesa sia avvisata, o il suo avvocato, dell’interrogatorio dell’indagato, per assistervi e, come nel passato, permettere di evitare, con il confronto immediato, la negazione della partecipazione al reato, a causa del deterrente della presenza della parte offesa.

3) Così come all’art.293 c.2, disporre che le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare siano notificate all’imputato e alla parte offesa.

4) Anche in caso di trasgressione agli obblighi di PG, qualora sia fermato l’imputato, obbligo di avviso anche alla parte offesa e obbligo di comunicazione dell’esito della convalida. (art.307 C.p.p.)

 

19.                     ARTICOLI 613 E 97 CPP

 

a) Premessa

Come noto, l'originaria formulazione dell'art. 613, comma 1, cod. proc. pen. prevedeva che il ricorso per cassazione potesse essere presentato dalla parte personalmente ovvero da un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione.

La riforma Orlando (L.103/17) ha espunto dal 613 cpp le parole “salvo che la parte non vi provveda personalmente…”.

La novella legislativa ha, quindi, eliminato la possibilità per la parte di presentare il ricorso personalmente stabilendo che «l'atto di ricorso, le memorie e i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell'albo speciale della Corte di cassazione»; ha invece lasciato immutata per le impugnazioni diverse dal ricorso per cassazione, la legittimazione personale dell'imputato a proporle, non modificando  l'originaria previsione dell'art. 571 cod. proc. pen.

La norma ha chiaramente finalità deflattive, è vero che il numero dei ricorsi in cassazione era alto- a volte erano strumentali per prolungare il periodo di misura cautelare successivamente da scontare alla pena definitiva- ma va anche detto che è stata formata una sezione ad hoc – settima- che in camera di consiglio senza la presenza delle parti dichiara l’inammissibilità dei ricorsi, censurandone un 70/80 percento senza quindi un grande dispendio di energie.

La riforma è stata analizzata più volte dalla Corte di cassazione, un orientamento restrittivo applicava il 613 novellato solo ai ricorsi in Cassazione “ordinari”, un diverso orientamento a tutti ricorsi in cassazione, la questione è andata alle Sezioni Unite, le quali con sentenza n. 8914 del 23 febbraio 2018 [87] hanno aderito all’ultimo orientamento.   

Secondo il supremo collegio la riforma non inciderebbe sulla legittimazione a proporre ricorso da parte dell’imputato, cioè sulla titolarità del diritto ad impugnare, ma atterrebbe esclusivamente al profilo dinamico del suo esercizio concreto che l’art. 613 c.1 riserva esclusivamente al difensore iscritto nell’albo speciale. La riforma non avrebbe determinato l’abrogazione delle norme che contemplano il ricorso per cassazione dell’imputato, ma avrebbe solo ricondotto tali fonti di attribuzione della mera legittimazione soggettiva nell’alveo del principio di rappresentanza tecnica nel giudizio di cassazione. Non vi sarebbe alcun profilo di incompatibilità con i principi sanciti dagli artt. 13,24 e 111 c.7 Cost, e con le previsioni dell’art.6 par.3 lett.b e c), della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, poiché l'esercizio del fondamentale diritto di difesa deve essere differenziato in relazione alle varie fasi e tipologie di processo in modo tale da assicurare un livello di professionalità, adeguato all'importanza e alle difficoltà del giudizio. Il 613 sarebbe una norma di esclusione, espressa e generalizzata, della possibilità di sottoscrizione personale del ricorso per cassazione da parte dell’imputato e dei soggetti a lui equiparati, così eliminando qualsiasi deroga alla regola generale che richiede la rappresentanza tecnica da parte di un difensore abilitato.

Le SSUU, consapevoli che di fatto ad un’amplia fetta di condannati viene automaticamente precluso il sindacato di legittimità, arrivano a sostenere che il difensore d’ufficio, non iscritto all’albo speciale può nominare -ai sensi dell’art.102 cpp- un sostituto cassazionista.

Chi conosce gli importi, i tempi di liquidazione delle difese d’ufficio, il numero di ricorsi che in cassazione vengono dichiarati inammissibili e quindi ai quali è precluso il p.s.s., il fatto che la liquidazione verrebbe corrisposta al titolare e non al sostituto, si rende perfettamente conto che l’ipotesi ventilata è puramente teorica: il sostituto dovrebbe accollarsi un corposo lavoro, con la speranza che se il ricorso fosse dichiarato ammissibile, il titolare liquidato, a distanza di anni, a volte di lustri, forse potrebbe essere  retribuito dal titolare della difesa.

Mi permetto di citare due nostri referenti: Domenico Gallo che ha parlato di “sistema penale  a ferro di cavallo, nemico- amico”, Livio Pepino  “teoria penale per tipo di autore”.

Ebbene la riforma Orlando sulla ricorribilità in Cassazione consente il sindacato di legittimità solo per determinati autori o amici, i benestanti che si pagano il difensore di fiducia o perlomeno i ben integrati che hanno collegamenti con difensori fuori dal carcere. Gli emarginati, tra cui molti stranieri che spesso non conoscono bene la nostra lingua, sono sostanzialmente esclusi dalla dal terzo grado di giudizio se non hanno avuto la fortuna di trovare un difensore d’ufficio cassazionista.

Si è creato nel nostro ordinamento una sorta di terra di nessuno, una zona d’ombra, un limbo, l’imputato indigente è sostanzialmente escluso dalla possibilità di ricorrere in cassazione.

b) de iure condendo

La via maestra: una ulteriore riforma del 613 cpp sarebbe sicuramente la più semplice, ma anche la più improbabile: vedrebbe la netta ostilità di una parte dell’opinione pubblica e della Magistratura, assillata dal numero dei ricorsi in Cassazione che fino al 2018 hanno provocato una quasi paralisi dell’Ufficio e dal costo degli stessi. 

L’orientamento assunto dalle SSUU, anche alla luce della Carta Costituzionale e della CEDU, sembra difficilmente demolibile, fosse solo per l’autorevolezza dell’autore, però si rinviene uno spiraglio nell’art.97 cpp ove dispone:” l’imputato che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore d’ufficio”.

c) proposta

Il difensore d’ufficio inabilitato al ricorso in Cassazione non è un difensore con i poteri necessari a svolgere il suo ufficio, non può nulla contro l’atto, anche se lo ritiene illegittimo. Di fronte ad una sentenza della corte di appello di condanna, o ad un provvedimento ricorribile in Cassazione, ove vi sia l’assistenza di un difensore d’ufficio non cassazionista, la magistratura dovrebbe nominare un difensore d’ufficio iscritto nell’albo speciale, legittimato al ricorso, per consentire che effettivamente il diritto di difesa sia esercitato in ogni grado del giudizio anche per gli imputati più deboli.

Senza tendere ad una riforma legislativa, che appare oggi improbabile, una lettura estensiva e garantista dell’art.97 cpp eliminerebbe gli ostacoli suddetti alla difesa, garantirebbe anche in cassazione ai soggetti deboli la possibilità di ricorrere avverso un provvedimento ritenuto illegittimo.

La ricostituita integrità del diritto di difesa contemporaneamente darebbe lavoro agli avvocati- categoria particolarmente sofferente in questo periodo- e non comporterebbe alcun ingolfamento alla Cassazione, che vedrebbe un modesto incremento dei ricorsi, questa volta formulati da soggetti qualificati, solo nei casi di altamente probabile illegittimità.

La possibilità di aumentare il lavoro potrebbe incontrare il favore di molti colleghi e delle istituzioni rappresentative.

Potremmo redigere un elaborato difensivo che proponga l’applicazione “estensiva” dell’art. 97 cpp, nei termini suddetti, da utilizzare in tutti i casi in cui le corti d’appello non nominino un difensore d’ufficio abilitato in cassazione, quale memoria, nella quale proporre la nuova interpretazione del codice o in subordine sollevare la questione di legittimità costituzionale. Lo strumento potrebbe essere l’art.175 cpp restituzione nel termine. 

Pubblicizzare l’iniziativa presso i colleghi, i magistrati e i consigli dell’Ordine darebbe lustro alla nostra associazione e ci consentirebbe di individuare rapidamente un di ricorso nel quale proporre la nostra lettura dell’art. 97 cpp.

 

20.                     CARCERE

a)     Premessa

L’analisi delle condizioni di vita nelle carceri italiane e del rapporto intercorrente tra custodia cautelare e pena rappresenta la cartina di tornasole di un sistema penale sempre più inosservante il principio di uguaglianza e quello della funzione rieducativa della pena, che appare, negli ultimi anni, sempre più connotarsi per essere inutilmente afflittiva. È ormai noto che l’attuale condizione degli istituti di pena nazionali contraddice radicalmente l’intento delineato dalla Costituzione. Si è, infatti, in presenza di un sistema che ha decisamente spostato l’asse dalla prevenzione alla penalizzazione, tanto è che, da più parti, si parla di funzione pan-carceraria della pena.

Il carcere si configura sempre di più come contenitore del conflitto, come discarica sociale e strumento atto a confinare donne e uomini delle classi sociali meno abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa l’80 per cento della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate.

Le cause principali di tale situazione discendono, in sintesi, da due fattori che si snodano lungo due differenti direttrici.

Il primo è quello normativo, laddove alcune novelle legislative adottate in ambito penale hanno cominciato a dare frutti a pieno regime, in particolare, la c.d. Bossi–Fini, in materia di immigrazione (particolarmente dopo le modifiche introdotte dalla L. n. 94/2009), la Fini–Giovanardi (L. n. 49/2006) in materia di contrasto al traffico di stupefacenti e la c.d. ex Cirielli (L. n. 251/2005) che inasprisce sensibilmente le sanzioni penali e rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi, che costituiscono la grande maggioranza dei detenuti nelle carceri, detenzioni, queste ultime, molto spesso legate alla piccola e piccolissima criminalità, di cui la recidiva è fattore caratterizzante.

Il secondo fattore è quello culturale, che vede competere alcune forze politiche nel chi grida più forte alla sicurezza pubblica ed alla tolleranza zero. Si è, in definitiva, smarrito il senso del risolvere i problemi dei cittadini con strumenti diversi da quello carcerario. Se questo è il messaggio che viene dalla politica è evidente la ricaduta che ciò può avere sull’operato delle forze di polizia e della magistratura. Con ciò si spiega anche il dato relativo al numero di soggetti sottoposti alla misura cautelare massima.

D’altronde è evidente che il tema della sicurezza rappresenta un leitmotiv utilizzato da una parte della politica nazionale e locale quotidianamente ed ossessivamente, attraverso la costruzione dell’ideologia della paura dell’altro e del diverso, che si traduce in scelte politiche che, ispirate da pure ragioni demagogiche e di consenso, prendono a pretesto un supposto bisogno di sicurezza dei cittadini, artificialmente creato ed amplificato dagli organi di stampa, per introdurre nel nostro ordinamento norme palesemente antidemocratiche – così determinandone un arretramento intollerabile del livello di civiltà – rivelatrici di un atteggiamento discriminatorio, selettivamente orientato a colpire soprattutto i migranti e le persone che versano in situazioni sociali ed economiche disagiate.

In questo contesto, si segnala negativamente l’abbandono definitivo dei principali progetti di riforma del codice penale, per inseguire rimaneggiamenti legislativi settoriali tutti orientati all’inasprimento delle pene ed alla creazione di nuove fattispecie di reato, così mandando in soffitta ogni tendenza, da un trentennio, in più occasioni, caldeggiata da magistratura ed avvocatura, volta alla creazione di un diritto penale «minimo», volto ad individuare proposte tese alla decarcerizzazione, alla introduzione di sanzioni sostitutive, alla elaborazione di progetti di mediazione penale, alla instaurazione di prassi avanzate all’interno delle carceri.

Gli istituti di pena nazionali sono così pervenuti ad una situazione non più sostenibile.

I Giuristi democratici intendono mantenere l’orizzonte di una riforma sostanziale del codice penale che promuova una drastica riduzione dei reati e delle pene e la riconduzione del carcere ad extrema ratio attraverso la tutela del principio della riserva di codice, la concessione più equilibrata e diffusa del beneficio della pena sospesa. La previsione di misure extrapenali e la riduzione dei minimi e dei massimi edittali possono rappresentare soluzioni ben migliori se affiancate alla disponibilità a rivedere normative altamente criminogene.

Una politica criminale lungimirante dovrebbe guardare alle cause del sovraffollamento ed intervenire sulle disposizioni che creano un incremento dei detenuti, senza, peraltro, far accrescere la sicurezza pubblica. La riforma del codice penale rappresenta, in questo quadro, la strada maestra per eliminare la centralità della pena detentiva, per introdurre pene alternative e sostitutive alla detenzione e valorizzare l’utilizzo delle misure alternative, in una prospettiva di lungo periodo in cui si pervenga alla definitiva abolizione dell’istituto carcerario.

È, in definitiva, indispensabile cambiare approccio, abrogare le leggi che hanno, di fatto, creato criminalizzazione e carcerazione crescenti, per delineare il ritorno ad una nuova stagione del «diritto penale minimo», capace di comprendere e incidere sulle effettive ragioni sociali della devianza e del crimine.

 

b)    Proposte

In disparte dalle più articolate proposte di riforma della intera materia, a titolo di urgenza, i Giuristi Democratici hanno sottoscritto alcune proposte minime di riduzione del danno da sovraffollamento carcerario, sia per i detenuti che per le loro famiglie, indirizzate ai Provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria, ai direttori delle carceri, ai magistrati di Sorveglianza.

In via preliminare, in termini generali, ove non sia rispettato lo spazio che per legge deve essere garantito ad ogni detenuto ridotto dietro le sbarre, devono essere concesse le misure alternative al carcere. Non è infatti consentito che, a quella restrittiva della libertà personale, sia illecitamente aggiunta la pena delle sofferenze provocate dal vivere in un ambiente molto ristretto, con spazio insufficiente.

A ciò si aggiungono le proposte elaborate dalla redazione di Ristretti Orizzonti e dall’associazione Antigone Padova, molto semplici (attuabili da subito e a costo zero) già in parte presenti nella lettera circolare del 24/04/2010 (Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire i fenomeni auto aggressivi) e in quella del 7/7/2010 (Ulteriori iniziative per fronteggiare il sovraffollamento), che non dovrebbero però costituire un “invito alle Direzioni” a metterle in pratica, ma essere recepite come misure fondamentali per riportare un minimo di legalità nelle carceri.

Chiediamo quindi che le indicazioni presenti nelle circolari diventino disposizioni vincolanti per le Direzioni e non suggerimenti da attuare a discrezione. · Apertura 24 ore su 24 dei blindi per favorire la ventilazione e il ricambio di aria nelle celle sovraffollate; · apertura delle celle nel corso di tutta la giornata con libero accesso alle docce; · utilizzo più ampio possibile dell’area verde per i colloqui; · concessione dell’aria estiva: un’ora aggiuntiva di passeggi dalle 17:00 alle 18:00; · aumento delle ore di attività sportive (campo e palestra) e predisposizione di attrezzi nelle aree dei passeggi per permettere alle persone, compresse per ore nelle celle in spazi ridottissimi, di fare almeno un minimo di esercizio fisico; · utilizzo di tutti gli spazi comuni nelle sezioni per attività che coinvolgano i detenuti, che non lavorano e non sono impegnati in nessuna attività; · accesso del volontariato nelle carceri almeno fino alle 18; · autorizzazione all’acquisto di frigoriferi per conservare i generi alimentari acquistati o portati dalle famiglie, da installare all’interno delle celle (come già avviene nella Casa di reclusione di Padova e nella Casa circondariale di Trieste); Piccole proposte per non distruggere anche le famiglie, oltre che le persone detenute: · in considerazione del sovraffollamento in strutture, pensate e attrezzate per ospitare meno della metà dei detenuti presenti, per cercare di “salvare” almeno le famiglie sarebbe opportuno portare a otto le ore mensili previste per i colloqui; · dovrebbero essere migliorati i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani o i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici); · sarebbe importante predisporre nelle sale colloqui ventilatori o condizionatori in numero sufficiente per rendere sopportabile alle famiglie, e soprattutto ai bambini, la permanenza in tali aree; · dovrebbero essere concessi con maggior rapidità i colloqui con le terze persone; · dovrebbero essere concesse a tutti i detenuti due telefonate supplementari, in considerazione delle condizioni disumane in cui stanno vivendo: E forse telefonare più liberamente ai propri cari, mantenere contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, ma anche quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire una forma di prevenzione dei suicidi; · dovrebbero essere rese più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile.

 

21.                     ERGASTOLO OSTATIVO

I Giuristi Democratici propongono una riforma dell’istituto dell’ergastolo ostativo, in una prospettiva di un «adattamento costituzionale» della disciplina dell’art. 4 bis o.p.. Il regime ostativo applicato all’ergastolo ha come fine (inteso come scopo) quello di indurre il reo alla collaborazione con la giustizia.

L’ergastolo ostativo, a differenza del comune ergastolo, non consente benefici penitenziari. Negati quindi benefici come: i permessi premio, la liberazione condizionale, il lavoro esterno, la semilibertà e qualsiasi misura alternativa alla detenzione. Non è un assoluto, in quanto i detenuti potrebbero beneficiarne a condizione che, ai sensi dell’art. 58-ter o.p., collaborino con la giustizia.  La Corte costituzionale con un comunicato emesso il 15 aprile 2021, dichiara che l’ergastolo ostativo è anticostituzionale e rimanda la questione alle delibere in merito del Parlamento.

Si né quindi ulteriormente sviluppato il dibattito sulla possibile riforma dell’istituto. Fermi restando, ovviamente, i normali requisiti legislativi (sia di ordine temporale, sia legati alla progressione trattamentale del condannato) per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative, tutte le proposte mirano a rimuovere le attuali preclusioni, seguendo però strategie normative differenti e alternative: [1] eliminare l’obbligo della condotta collaborante, condizionando l’accesso ai benefici penitenziari esclusivamente all’accertata mancanza di legami con la criminalità organizzata; [2] mantenere l’attuale funzione premiale della condotta collaborante, prevedendo nell’ipotesi di mancata collaborazione quote aggiuntive dei periodi di pena da scontare prima di poter chiedere l’ammissione alle misure alternative; [3] trasformare le attuali presunzioni legali da assolute a relative, consentendo la concessione dei benefici nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere degli altri presupposti di legge, diversi dalla collaborazione medesima; [4] escludere dalle preclusioni penitenziarie l’istituto della liberazione condizionale, quale misura estintiva dell’ergastolo.

Quanto alla dimostrazione dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, si invoca un mutamento di paradigma: dall’attuale prova negativa (spesso diabolica), alla prova in positivo a seguito di attività istruttoria svolta dalla magistratura di sorveglianza.

Occorre, in sostanza ammettere ai benefici il soggetto che, avendo portato avanti un proficuo percorso trattamentale e di autentica critica verso il proprio passato, pur senza poter fornire elementi investigativi utili (magari, a distanza di 15-20 anni dai fatti), attualmente non può accedere a misure alternative alla reclusione e vede come unico destino quello di una pena perpetua.

Simili modifiche, ridefinendo nel complesso il regime ostativo di cui all’art. 4-bis, avrebbero conseguenze dirette anche sotto il profilo della «neutralizzazione» dell’ergastolo ostativo, che non sarebbe più senza scampo per il condannato: se oggi la pena dell’ergastolo ostativo «non finisce mai, salvo che…», domani si vorrebbe che quella pena «finisse sempre, salvo che…».

 

22.                     IL REGIME DETENTIVO SPECIALE EX ART. 41-BIS O.P.

All’inizio di febbraio 2019, il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha pubblicato un “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario”, contenente le risultanze delle quattordici visite effettuate da tale organo collegiale, tra il 2016 e il 2018, presso le dodici Sezioni per detenuti in regime speciale previste dal predetto art. 41-bis.

In tali Sezioni risultavano detenuti 738 uomini e 10 donne; al 19 gennaio del 2019, solo 363 su 748 di essi – di cui quattro donne - avevano una posizione giuridica definitiva (erano cioè stati condannati con una sentenza penale passata in giudicato); 51 di esse risultavano detenute in “Aree riservate”.

Il Rapporto reca diciotto Raccomandazioni in ordine ad altrettanti profili di criticità riscontrati; esse tengono conto, fra l’altro, delle pronunce della Corte costituzionale che hanno riguardato l’art. 41-bis e delle prescrizioni impartite in materia dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), della quale lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, Mauro Palma, ha fatto parte fino al 2011.

È bene ricordare che la Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, ha ritenuto il regime detentivo speciale ex art. 41-bis non incompatibile con i principi costituzionali in materia di diritti fondamentali della persona (art. 2), di inviolabilità della libertà personale (art. 13) e di finalità rieducativa della pena (art. 27) a due precise condizioni

  1. che nessuna misura sospensiva dell’ordinario trattamento penitenziario (quale l’art. 41-bis) comporti restrizioni della libertà ulteriori rispetto a quelle derivanti dalla detenzione;
  2. che, in ogni caso, la relativa applicazione non determini mai la violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti, ovvero vanifichi la finalità rieducativa della pena.

 È importante tener presenti tali presupposti perché è proprio l’eventuale conflitto con gli stessi, empiricamente verificato, a chiarire se ed in quali casi una misura cui è assegnata una funzione asseritamente cautelare assolva, in realtà, ad una finalità ulteriormente —ed illegittimamente— afflittiva nei confronti del detenuto.

 

Il regime detentivo speciale noto come “41-bis” nasce nel 1995 come misura emergenziale e provvisoria, al fine dichiarato di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, ancorché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione rispetto ad attività criminali poste in essere da altri criminali in libertà.

Nella formulazione originaria, pertanto, era prevista la sospensione temporanea del trattamento detentivo ordinario “quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza”; tuttavia, dopo una serie di proroghe, nel 2002 il 41-bis è entrato a regime nell’Ordinamento penitenziario, trasformandosi pertanto da misura straordinaria in istituto ordinario.

Tale normalizzazione ha trovato uno straordinario —e probabilmente calcolato— supporto nella valenza simbolica assunta presso l’opinione pubblica dal c.d. “carcere duro”, quasi che dichiararsi a favore o contro di esso implicasse, per ciò solo, lo schierarsi contro la criminalità organizzata ovvero il non prenderne sufficientemente le distanze. Plausibilmente, è proprio la difficoltà di ricondurre la trattazione del tema su un piano razionale a rendere arduo e impopolare ogni tentativo di affrontarne le ricadute sul versante della legittimità: ne ha fatto le spese lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, il quale, a seguito della pubblicazione sulla pagina Facebook “Polizia penitenziaria – Società, Giustizia e Sicurezza” di un articolo che richiamava alcune criticità da lui evidenziate nel Rapporto sul regime detentivo speciale del 41-bis, è divenuto bersaglio di minacce e intimidazioni.

Tra le prassi carcerarie rispetto alle quali l’Autorità Garante ha formulato specifiche Raccomandazioni troviamo, a titolo esemplificativo: la presenza di sezioni o raggruppamenti costituiti da meno di tre persone detenute (n. 3); la ritardata esecuzione dei provvedimenti della Magistratura di sorveglianza (n. 7); l’apposizione di schermature stratificate alle finestre, sì da ridurre al minimo il passaggio di luce e aria fresca (n. 8); l’irrogazione di misure disciplinari ai detenuti che salutino un’altra persona ristretta chiamandola per nome (n. 12); il ricorso eccessivo alla misura dell’isolamento (n. 13); la concorrenza fra il tempo destinato alla lettura per mezzo del computer fisso e quello riservato ad attività esterne, sì da renderli alternativi fra loro (n. 15); l’imposizione di preclusioni eccessivamente rigorose alla fruizione dei canali televisivi (n. 6) e all’acquisto e alla disponibilità di organi di stampa e pubblicazioni (n. 16).

Nessuna, fra le predette prassi, risulta funzionale all’esigenza cautelare che costituisce presupposto e limite all’applicazione del regime detentivo speciale del 41-bis; molte di esse, al contrario, interferiscono con il percorso di recupero cui la Riforma del 1975 finalizza la detenzione, di fatto precludendo la rieducazione del condannato.

Il contrasto stridente tra la finalità dichiarata e quella effettivamente perseguita dal c.d. “carcere duro” (di fatto, indurre il detenuto alla collaborazione, fungendo altresì da deterrente nei confronti di coloro che operano nell’ambito della stessa o di altre associazioni criminali) impone pertanto, se non la totale espunzione dall’ordinamento del regime detentivo speciale ex art. 41-bis, quantomeno una significativa rivisitazione delle sue concrete modalità applicative, affinché le stesse non si traducano in una afflizione aggiuntiva e lesiva della dignità umana, oltre che confliggente con i principi costituzionali in materia di responsabilità penale e finalità rieducativa della pena.

Non sfugge, difatti, che una simile modalità di espiazione della pena (estesa, ricordiamolo, anche a soggetti la cui posizione giuridica non è ancora definitiva) prescinde da ogni valutazione in concreto circa il percorso di recupero più idoneo alla rieducazione del detenuto: giungendo addirittura a vanificarla quando, come spesso avviene, la cessazione del 41-bis e quella della pena detentiva avvengono contestualmente o a breve distanza l’una dall’altra. In tale ottica, ogni automatismo che correli la pena al reato anziché al reo, impedendo la sua individualizzazione, la priva, per ciò stesso, della sua finalità rieducativa, finendo per assolvere a una funzione meramente retributiva.

Ammesso, poi, che possa stilarsi una graduatoria delle pratiche degradanti, è la prassi richiamata dalla Raccomandazione n. 1 a suscitare la maggiore esecrazione: la previsione di apposite sezioni di “Area riservata” all’interno degli Istituti che ospitano Sezioni di regime detentivo speciale.

Tali Aree sono separate dalle altre che accolgono detenuti sottoposti al 41-bis, e sono destinate alle persone ritenute “apicali” dell’organizzazione criminale di appartenenza; vi si applica un regime detentivo ancora più rigoroso e al limite della tollerabilità, con limitazioni che talora comportano il quasi sostanziale isolamento della persona detenuta.

Proprio per evitare di incorrere nella violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’Area riservata anche un altro detenuto che non avrebbe titolo a starvi, ma che —nel crudo e spietato gergo carcerario— assolve alla funzione di “Dama di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi.

La legittimazione formale di tale segregazione risiederebbe, secondo il Governo italiano (interpellato al riguardo dal CPT), nell’art. 32 del dPR 230/2000, che tuttavia concerne “la collocazione più idonea di quei detenuti e internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni”. Tale esigenza cautelare, tuttavia, non risulta allegata né comprovata rispetto ai detenuti collocati nelle Aree riservate; e, men che meno, nei confronti dei detenuti loro assegnati per compagnia, i quali si trovano pertanto assoggettati a un regime detentivo di estremo rigore in modo del tutto ingiustificato (oltre che lesivo del principio di personalità della responsabilità penale).

Come ricordato dall’insigne giurista Andrea Pugiotto, Cesare Beccaria ebbe ad affermare che “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Se ciò è vero, un sistema detentivo incentrato solo sul contenimento delle persone in uno spazio e nella loro sottoposizione a limiti e obblighi (aggiuntivi alla pena detentiva e non giustificati da esigenze concrete) riduce le persone a cose, ed è offensivo della dignità umana tanto nella sua accezione statica quanto nella sua proiezione dinamica, come meta da riconquistare. È un sistema, dunque, di per sé destinato a inverare quel “trattamento disumano e degradante” che l’art. 27 della Costituzione e l’art. 3 della CEDU espressamente vietano. 

 

23.                     RIPORTARE LA COSTITUZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO

 

 

L’obiettivo che si propone questo lavoro è quello di suggerire soluzioni migliorative nel campo del diritto del lavoro e del suo sviluppo processuale.

Per fare ciò appare necessario, peraltro, partire dalle leggi fondamentali che hanno interessato il settore negli anni ’70 e che hanno costituito il fiore all’occhiello del welfare italiano, realizzando, quanto meno in parte, il dettame della nostra Costituzione secondo cui il diritto al lavoro è il diritto fondante della nostra Repubblica.

Le norme-cardine di quella costruzione sono state, e lo sono in parte anche oggi, lo Statuto dei Lavoratori e la legge 533/73 sul processo del lavoro.

Con queste due norme, una di diritto in buona parte sostanziale ed una di diritto processuale, si era realizzata una situazione di favore per i lavoratori, considerati l’anello debole e dunque da tutelare, del rapporto di lavoro.

Creazione di specifici diritti, loro tutela, rapidità nel loro accertamento, favor lavoratoris nel processo, pubblicità dello stesso, oralità del processo erano tutti elementi che miravano a garantire il lavoratore circa il rispetto dei suoi diritti che sarebbe stato accertato in maniera pubblica, rapidamente e tenendo conto, appunto, della sua posizione di tendenziale inferiorità rispetto al datore di lavoro.

 Il 20 maggio sono decorsi cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, non a caso, si intitolava “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. L’oggetto principale della legge riguardava proprio la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà dell’attività sindacale. Con esso, la Costituzione riuscì a superare lo steccato dei poteri privati e a penetrare in territori dai quali era stata lungamente e tenacemente esclusa.

Lo Statuto si rivolgeva al settore principale dell’universo del lavoro, quello del lavoro subordinato, però poneva dei principi che superavano tale ambito, costituiva un punto di orientamento nei rapporti economico sociali mirante al riconoscimento della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art.35Cost), quale espressione della centralità della persona umana. Insomma il valore insuperabile dell’elemento umano che rende il lavoro un fattore di produzione non assimilabile ad una merce.

Non si trattò di una riforma indolore: essa incise con il bisturi sul bubbone di pratiche discriminatrici dure a morire e segnò l’avvento di una stagione di maggiori diritti, maggiori protezioni, migliori condizioni di vita per l’homofaber.

Da molto tempo questa stagione si è rovesciata per vicende relative alle modalità di sviluppo della globalizzazione, incentrata su un insensato modello di competizione al ribasso fra gli ordinamenti. La libertà di circolazione dei capitali, la delocalizzazione delle attività produttive alla ricerca delle condizioni ambientali di miglior favore per gli investitori, l’utilizzo esasperato della tecnologia per sostituire il lavoro umano, l’eliminazione progressiva dei vincoli che la politica utilizzava per mediare il conflitto economico-sociale, le privatizzazioni e l’affermazione della incontestabile egemonia del mercato sulla società, hanno portato ad una progressiva mortificazione dell’elemento umano.

 

Analoga controriforma si è, nei fatti, verificata sotto il profilo processuale, e per assurdo in un momento in cui si è riconosciuto ormai universalmente al processo del lavoro una validità che ha imposto l’applicazione di quel rito anche ad altre fattispecie: peccato, però, che nel frattempo siano  andati perduti i caratteri principali di quel processo, costituiti non solo dalla sua celerità, ma anche dall’oralità, dalla pubblicità e dal favor lavoratoris, come già sopra affermato.

La responsabilità di ciò è da addebitarsi, da un lato, alla magistratura che non è stata in grado in molti distretti, di garantire la corretta applicazione del rito, dall’altra, alle forze  imprenditoriali che hanno abilmente svolto una funzione di progressivo sgretolamento del sistema di garanzie fondato sulle due leggi fondamentali sopra richiamate, sgretolamento cui le forze sindacali e del centro-sinistra non sono state in grado di opporsi, alcune volte, addirittura, appoggiando quasi inconsciamente le iniziative padronali (ma altre volte facendolo consciamente!).

Si è giunti, così, all’entrata in vigore di norme che hanno indebolito la posizione dei lavoratori, che oggi si trovano privati tendenzialmente di molti dei loro diritti; ciò è avvenuto principalmente con l’approvazione  del Collegato Lavoro, della Legge Fornero e del Jobs Act e di molte altre innovazioni normative.

La sostanziale modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, invocata da anni dal centro-destra e dal mondo dell’imprenditoria e respinta in passato dalla dura opposizione dell’opinione pubblica, si è infine realizzata proprio grazie all’azione di un governo di centro-sinistra.

A poco a poco la tutela del lavoro umano incentrato sul modello del lavoro subordinato è stata ridimensionata svuotando il contenitore del lavoro a tempo indeterminato attraverso l’invenzione di una miriade di forme contrattuali a titolo precario, fino alla quasi totale liberalizzazione del lavoro a tempo determinato. Alla fine, grazie al Job’sAct di Renzi, è stata rimossa anche la garanzia che teneva in piedi tutto l’impianto dei diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori attraverso la sostanziale cancellazione dell’art. 18, la norma che reprimeva il licenziamento illegittimo, assicurando un regime di cosiddetta stabilità reale.

A questo progressivo degrado della tutela dei diritti dei lavoratori hanno, a volte, posto un argine la Magistratura del Lavoro e la Corte Costituzionale che hanno impedito il totale crollo dell’impianto delle garanzie per i lavoratori.

Ma la situazione resta gravissima, al punto di portare molti studiosi della materia ad affermare che il diritto e processo del lavoro sono morti!

Non possiamo e non dobbiamo arrenderci di fronte a questa situazione.

Occorre recuperare un’iniziativa che, da un lato, ribadisca la centralità del rapporto di lavoro e della sua tutela nella realizzazione di uno Stato di diritto e del suo welfare; dall’altro, proponga iniziative sul piano legislativo e giurisprudenziale che consentano di rimettere in piedi e di migliorare quella tutela che il legislatore degli anni ’70 aveva introdotto.

Per fare ciò, è indispensabile un’operazione culturale e politica, volta a ricostruire  una alleanza di quella parte della cultura giuridica che crede nel  ruolo di demercificazione del diritto ed in particolare dei valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore, con quella parte organizzata dei lavoratori che crede nel ruolo della democrazia sindacale e del conflitto così come disegnato nella Carta costituzionale.

Le «controriforme» del lavoro degli ultimi anni hanno abrogato le normative a tutela dei lavoratori faticosamente conquistate negli anni 60 e 70 e che davano attuazione ai principi e diritti di cui agli artt. 1, 2, 3, 4 e 41, 2º comma della Costituzione.

Con la legge più importante di quegli anni, lo Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300/70), finalmente «la Costituzione varcava i cancelli delle fabbriche», come significativamente affermò l’allora Ministro socialista del lavoro On. Brodolini.

Con la eliminazione delle norme fondamentali dello Statuto (art.18, reintegrazione nel posto di lavoro; art. 13, divieto di demansionamento; art. 4, divieto di controllo a distanza della attività lavorativa) operata con gli otto decreti legislativi attuativi del c.d. «Jobs Act», la Costituzione è stata di nuovo estromessa dai luoghi di lavoro.

E noi vogliamo lì riportarla.

* * * * * *

Facciamo precedere le considerazioni sull’opera dei nostri tardi epigoni del neoliberismo con il lucido giudizio dello storico inglese David Kynaston sulla più duratura, drastica (e fallimentare) applicazione governativa del neoliberismo:

«…se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’uguaglianza…».

 

a) Tutela reale contro ogni licenziamento illegittimo

Considerazioni preliminari circa “la civiltà giuridica di questo paese”

La stabilità del rapporto di lavoro come principio fondamentale del nostro ordinamento è così descritta da uno dei più grandi giuristi  del dopoguerra,  Massimo D’Antona.

 Nel libro di insuperata lucidità, rigore scientifico e afflato etico-sociale, «La reintegrazione nel posto di lavoro» (Padova – Cedam 1979) a pagina 13 così argomenta:

“… E’ lecito affermare che la tutela reintegratoria costituisce l’unica risposta possibile  ai bisogni di tutela che l’abuso del potere di licenziamento mette in evidenza; l’unica coerente sia con l’ampia ridefinizione del potere organizzativo dell’imprenditore che l’evoluzione della legislazione e della contrattazione collettiva ha portato con sé, …sia con la più generale esigenza di una rigorosa effettività degli interventi legislativi sul mercato del lavoro. Retrocedere, anche surrettiziamente, verso un sistema di garanzia risarcitoria, restituendo all’imprenditore l’ultima parola nella vicenda del licenziamento…costituirebbe un sintomo grave. Ripercorrendo il lungo cammino che ha portato l’ordinamento italiano a realizzare – con più di ventanni di ritardo sulla costituzione – un dignitoso livello di tutela giuridica contro i licenziamenti arbitrari, non si può fare a meno di aggiungere …che ogni passo indietro sarebbe certo una sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor più, una sconfitta per la civiltà giuridica di questo paese”.

In queste parole si esprime la esemplare sintesi del significato e del valore della tutela reale del posto di lavoro introdotta con l’art. 18 l. 300/70: quello che ci occuperà di seguito è la ricognizione sul livello di barbarie giuridica in cui è stata precipitata l’Italia con le controriforme della legislazione del lavoro.

* * * * * * *

b) I principi di diritto comune

Il nostro ordinamento giuridico si fonda sulla tendenziale stabilità del contratto: l’art. 1372 del codice civile stabilisce infatti che “il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.

Per quanto attiene, in particolare, i contratti a prestazioni corrispettive è la legge a regolare le ipotesi scioglimento dei vincoli contrattuali: per “rescissione”, collegata ad anomalie all’atto della loro formazione (artt. 1447 – 1452 c.c.), per “risoluzione per inadempimento” (artt. 1453 – 1462 c.c.), per impossibilità sopravvenuta” (artt. 1463 – 1466 c.c.) e, infine, per “eccessiva onerosità”, con ciò confermandosi sia il principio generale di stabilità del contratto che di tassatività delle  ipotesi del suo scioglimento.

Una sola vistosa eccezione era rappresentata nel vigente codice civile emanato nel 1942: il c.d. “recesso ad nutum” dell’art. 2118 c.c. secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato poteva essere liberamente risolto in ogni momento.

Tale norma riproduceva il contenuto dell’art. 1628 del codice civile del 1865 che vietava la perpetuità della locazione di “operae”. A metà del novecento dunque si attua la tendenziale stabilità dei vincoli contrattuali ma si mantiene la sola sua deroga rappresentata dalla libera recedibilità del contatto di lavoro di origine ottocentesca.

L’ulteriore, significativo corollario della stabilità dei contratti a prestazioni corrispettive deriva sia dall’art. 1453 c.c., secondo il quale la parte  adempiente “può a sua scelta chiedere l’adempimento …salvo in ogni caso, il risarcimento del danno”, sia dall’art. 2058 c.c. che consente al danneggiato di richiedere «la reintegrazione in forma specifica, qualora  sia in tutto in parte possibile». Insomma la illegittima risoluzione del contratto non consentiva la estinzione del rapporto.

Decisivo risulta essere il passaggio che il codice civile propone dall’art. 1218 all’art. 1453 c.c. E’ opportuno notare come il legislatore   ha volontariamente ampliato lo spettro rimediale nel passaggio dall’“inadempimento dell’obbligazione” all’“inadempimento del contratto”, riconoscendo l’adempimento in forma specifica quale strumento rimediale alternativo soltanto nell’ultima fattispecie. Tale rilievo conferito alla struttura contrattuale, la quale viene elevata rispetto alla semplice obbligazione, conferisce carattere vincolante alla stessa in maniera superiore rispetto alla semplice obbligazione.  Negare tale distinzione, attraverso la comparazione tra contratto e obbligazione, significa ridurre ad una metonimia quelle che dogmaticamente rappresentano autonome e differenziate fattispecie. 

Ecco quindi che il “ripristino” del rapporto e la “reintegrazione” sono considerati come normale conseguenza nel diritto comune, per la illegittima privazione di un bene, di una servizio o di una utilità previste nel contratto. Lo stesso codice civile, prevede la azione di “reintegrazione” di chi sia stato privato del possesso di una cosa contro la sua volontà o che sia impedito nella pacifica attività di godimento del bene (artt. 1168 e 1169 c.c.).

In ambito comparativo, è attuale l’introduzione di istituti a carattere compulsorio, tanto di natura indennitaria come l’astreinte di derivazione francese, tanto di matrice penalistica come il Contempt of Court in ambito anglosassone, ovvero la Geldstrafe di matrice austro-tedesca.

Tale approccio consente di concepire l’obbligazione succedanea di ripristino come un ordinario vincolo obbligatorio, la cui precettività deve essere affidata al mezzo di tutela in forma specifica, prima ancora del rimedio risarcitorio. Nell’ambito del credito, che per relationem può essere facilmente esteso a tutta la materia contrattualistica, l’esclusione della tutela reintegratoria condurrebbe alla mancata vincolatività per il contraente inadempiente dell’obbligazione primaria come dedotta all’interno del contratto, con la remissione in favore dello stesso inadempiente circa l’esatta esecuzione di ripristino.

La natura coercitiva del ripristino e della reintegrazione assumono caratteri dogmatici imprescindibili nell’applicazione pratica dell’apparato sanzionatorio dell’inadempimento: difatti, contravvenendo a tale principi, il rischio sarebbe quello di delegittimare il grado di effettività dei rimedi a disposizione nell’ambito della disciplina contrattualistica.

In definitiva, il diritto al ripristino del rapporto contrattuale rientra in maniera ineludibile tra i rimedi contro l’inadempimento, rappresentando un caso di adempimento successivo che si atteggia quale naturale sviluppo, in forma rimediale, dell’originaria pretesa alla corretta esecuzione del contratto.

* * * * * *

E’ ancora il caso di rilevare che da millenni la “restitutio in integrum” (da cui deriva la “reintegrazione”) è la principale e generale conseguenza della privazione illegittima di un qualunque bene.

Nel diritto romano la “in integrum restitutio” era il provvedimento del magistrato mediante il quale si poneva nel nulla un effetto giuridico pregiudizievole, reintegrando il preesistente stato di diritto.

Con essa, insomma, si attua la giustizia come riconoscimento e attuazione dei principi millenari su cui si fonda la nostra civiltà.

  1. KANT affermava che: “……se la giustizia scompare non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra……”.

E così si evoca la scoperta fondamentale di PLATONE: nessuna vita umana ha più valore se “normale” diventa la ingiustizia, nel senso che il torto fatto a qualcuno non appare come torto fatto a ciascuno, un’offesa a quei basilari rapporti di valore su cui si fonda l’esercizio di una vita degna del nome di umana.

E il concetto di giustizia si sostanzia, nella affermazione di Platone, nel rispetto del “dovuto” a ciascuno. Il “dovuto” come sinonimo del giusto compare continuamente nel 1° libro della “Repubblica”: si potrebbe ricostruire da questa nozione così pervasiva della nostra storia intellettuale e civile, il concetto di norma o di obbligazione, a partire dalle sue umili origini.

Compare, sempre nel 1° libro della “Repubblica”, nelle parole del vecchio Cefalo, in relazione ai depositi ricevuti o ai debiti: giusto è restituire il “dovuto”.

Ecco dunque la formula più fortunata della meditazione occidentale sulla giustizia, che Platone attribuisce ad un poeta, Simonide: giusto è “……dare a ciascuno ciò che gli è dovuto……” (Platone, Repubblica, I, 331).

SOCRATE  parte  da   qui per   attuare   il passaggio   dalle   relazioni debitorie   a  tutti   gli ambiti   della vita. Così la riflessione  greca   si  trasmette al mondo romano: CICERONE nel 3° libro del “De re pubblica” affronta il tema della giustizia nella città e con diretto richiamo a Platone ed Aristotele, al loro elogio della giustizia, arriva alla sintesi: giustizia come virtù che “……dà a ciascuno il suo perché conserva l’eguaglianza fra tutti……” e che è l’unica virtù a non starsene “isolata di per sé né nascosta” perché “tutta emerge all’esterno”, si manifesta cioè pubblicamente, socialmente fra gli altri: è virtù sociale (De re pubblica, II, 43, 69).

Osserva al riguardo R. De Monticelli nel saggio “La questione civile”: “……Questa virtù risulta costitutiva dell’associazione che dà luogo a una res publica: il popolo di cui uno Stato è la “res” non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi”. Così la sintesi della lezione ciceroniana compare nei tre principi che sono secondo Ulpiano (III secolo d.C.) alla base dell’intero diritto romano, dove i tre principi sembrano seguire le specificazioni della giustizia da virtù sovrana a virtù “completa” a equità: “Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere”. E che sono poi ripresi nel Corpus iuris civilis o nel Digesto giustinianeo, in particolare il terzo, per la definizione della giustizia: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi……”.

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c) La equiparazione del contratto di lavoro a tutti gli altri

Con la Costituzione Repubblicana il «lavoro» viene posto tra i principi fondamentali (artt. 1 – 12) e all’art. 4 è espressamente riconosciuto per tutti il “diritto al lavoro” e stabilito il compito della Repubblica: “promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”.

Anche laddove si pongono i principi regolatori dei “rapporti economici” (artt. 35 – 47) si prevede che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost.) e che l’iniziativa economica privata è si libera ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana” (art. 41 Cost.).

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È apparso subito evidente a tutti i giuristi il contrasto frontale con la Costituzione della libera ed incondizionata recedibilità del contratto di lavoro e la insostenibilità, in uno stato di diritto, della sopravvivenza della unica eccezione alla generale stabilità dei contratti.

Già autorevoli giuristi (Cessari, Mancini, Natoli) avevano sostenuto la tesi della necessaria “causalità” anche del licenziamento argomentando che la ampia autonomia è riconosciuta alle parti nella conclusione dei contratti (e le norme sui contratti si applicano anche ai negozi unilaterali - tra i quali la risoluzione del rapporto di lavoro) «…purchè siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (art. 1322 c.c.).

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Ecco dunque la legge 604 del 1966  che, puramente e semplicemente, estende la previsione dell’art. 1372 c.c. anche al contratto di lavoro, con la previsione che può essere sciolto solo per colpa grave costituente giusta causa ovvero per giustificato  motivo oggettivo e soggettivo.

Con il successivo art. 18 della l. 300/70 si completa la fine della eccezione e si attua l’uguaglianza: il licenziamento illegittimo non estingue il rapporto di lavoro e ad esso consegue la “restitutio ad integrum”.

Viene dunque, con più di 20 anni di ritardo sulla Costituzione, stabilito “un dignitoso livello di tutela giuridica contro i licenziamenti arbitrarti”.

E’ appena di aggiungere che l’ordinamento di diritto comune consente solo alle parti la possibilità di scioglimento del vincolo contrattuale (ex art. 1372 c.c.”per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”)  e solo le parti sono in via generale legittimate ex art. 1321 c.c. a “costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”: ai Giudici spetta solo il controllo di legalità sull’operato negoziale delle parti.

Tale aspetto è suffragato dal fatto che il mutuo dissenso di cui tratta l’art. 1372 c.c., nei fatti, conferma il valore del vincolo contrattuale intercorso tra le parti, accentuando l’esclusività vincolante per i contraenti. Difatti, lo stesso mutuo consenso deve essere qualificato alla stregua di un contratto autonomo mediante il quale le stesse parti ne estinguono uno precedente, mutando il vincolo contrattuale originario attraverso una traslazione obbligatoria e affermando, al pari, la liberazione dal relativo vincolo negoziale. D’altronde l’esistenza stessa del sinallagma a fondamento del rapporto negoziale e la necessità che lo stesso debba essere attuale e privo di vizi in tutta la fase esecutiva del contratto, rende ancora più forte quanto sostenuto all’interno del citato art. 1372 c.c.: sinallagma significa mutualità, anche nella fase risolutoria del contratto nella quale la volontà delle parti modifica in maniera bilaterale il negozio, dando vita ad un nuovo contratto di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale, ma contrario, a quello del contratto originario. L’argomentazione è tanto più forte se si prende a mente che, dopo lo scioglimento, le parti (e solo le parti) potranno invocare la risoluzione per inadempimento relativamente al contratto solutorio e non per quello estinto. Da tali argomentazioni risulta evidente che solo le parti hanno la facoltà (rectius diritto) di gestire il negozio nelle diverse fasi, financo quella patologica o estintiva.

Il potere del  Giudice  rimane   esclusivamente di accertamento della condotta   delle  parti e  dichiarativo sotto il profilo sostanziale. Basti pensare che gli effetti   della   risoluzione,   una   volta intervenuta la sentenza di accoglimento della domanda giudiziale, decorrono sin dal momento della proposizione della   domanda  stessa   e   non   dalla   data   della   pubblicazione    della sentenza (art. 1458 c.c.).
Questo in quanto la sentenza di risoluzione per inadempimento di un contratto di durata, ove l'azione di risoluzione sia esercitata ai sensi dell'art. 1453, vede verificarsi i suoi effetti in punto di accertamento della cessazione degli effetti negoziali fin dal momento della proposizione della domanda giudiziale, una volta che sia accolta la domanda di risoluzione non essendo l'azione stessa, pur costitutiva, espressione di una giurisdizione costitutiva necessaria.

Ciò per evidenziare, da subito, la vera e propria aberrazione giuridica, in frontale contrasto con i principi dello stato di diritto liberale, introdotta con la c.d. riforma Fornero e riprodotta nel c.d. contratto a tutele crescenti secondo cui “il Giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro” (art. 3 e 4 D.Lgs.). e ciò nel solo caso in cui lo stesso Giudice abbia accertato e dichiarato illegittimo il licenziamento intimato

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E’ bene ancora aggiungere che mentre ogni inadempimento contrattuale e la illegittima risoluzione comporta anche l’integrale risarcimento del danno, sia patrimoniale – che comprende il lucro cessante ed il danno emergente, ai sensi dell’art. 1223 c.c. e nei casi di cui agli artt. 1479, 1480, 1489, 1492, 1497 c.c. – che non patrimoniale ex art. 2059 c.c.; di contro al lavoratore che  subisce un licenziamento illegittimo spetta il solo risibile “indennizzo” stabilito in qualche mensilità di retribuzione.

Anche qui una odiosa disparità ed un trattamento discriminatorio (che si può definire classista) per il contratto di lavoro.

Tale limitazione del diritto al pieno risarcimento nell’ambito giuslavoristico, come conosciuto in termini civilistici dall’art. 1223 c.c., concretizza nei fatti un’inversione della logica di sistema della disciplina generale in tema di contratti che non ha precedenti nel diritto civile.

Difatti, la logica sistematica del Codice Civile, così come quella della normativa ad esso complementare, è da sempre stata quella di riallineare gli squilibri sinallagmatici congeniti alla formazione del contratto, la maggior parte delle volte dovuti alla posizione di maggiore o minore capacità economico/cognitiva delle parti negoziali. Soltanto sotto il profilo esemplificativo occorre ricordare la tutela introdotta con il Codice del Consumo che si pregia di rinvenire un ambito applicativo speciale, superando il principio dell'unitarietà dei rapporti e pariteticità degli stessi, dettando una normativa specificamente applicabile ai contratti tra figure squilibrate sotto il profilo dell’accesso alla contrattazione, ossia il consumatore (parte debole) a fronte del professionista (parte privilegiata). Nella stessa direzione volgono gli artt. 1341 e 1342 del c.c., l’introduzione della Class Action a tutela di interessi collettivi, il T.U. in materia bancaria e creditizia (D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), la legge antitrust italiana n. 287 del 1990, il Codice degli Appalti, il quale predispone una serrata tutela dell’imprenditore a scapito della libertà negoziale della Pubblica Amministrazione, nonché lo stesso istituto della rescissione contrattuale.

Il Codice Civile norma il rilievo dello status contrattuale dei contraenti, nonché la loro qualifica soggettiva, attraverso la stesura del secondo comma dell’art. 1176 c.c., il quale, nel disciplinare il livello di diligenza esigibile nell’adempimento dell’obbligazione, fa implicito riferimento alla figura del professionista, con se veicolando il pregio assunto dalla natura del contraente, prima ancora del negozio stesso.

Un intervento illuminato nella determinazione dell’importanza che riveste il diritto nella ortopedia contrattuale dei disequilibri socio-economici viene offerta da Lorenzo Delli Priscoli, il quale afferma che la libertà contrattuale “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41, secondo e terzo comma): e tali vincoli sono fatalmente scavalcati o elusi in un ordinamento che consente l'acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo. L'utilità ed i fini sociali sono in tal modo pretermessi, giacché non solo può essere vanificata o distorta la libertà di concorrenza - che pure è valore basilare della libertà di iniziativa economica, ed è funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori (sentenza Corte Costituzionale n. 223 del 1982) - ma rischiano di essere pregiudicate le esigenze di costoro e dei contraenti più deboli, che di quei fini sono parte essenziale. Ciò ostacola, inoltre, il programma di eliminazione delle diseguaglianze di fatto additato dall'art. 3, secondo comma, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l'altro controlli sull'autonomia privata finalizzati ad evitare discriminazioni arbitrarie”.

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La traslazione dal risarcimento al mero indennizzo, in caso di licenziamento illegittimo, comporta un’eccezione riduttiva che non può trovare accoglimento nel sistema normativo dei contratti, in tema di principi regolatori e di applicazione pratica. Tale impostazione porta all’assurdo secondo il quale la tutela risarcitoria, in termini di danno emergente e lucro cessante, viene accordata tanto in tema di inadempimento contrattuale (artt. 1218, 1223, 1453 c.c.), quanto, soprattutto, in tema di responsabilità extracontrattuale (art. 2056 c.c.), senza essere estesa ad una particolare categoria di contratti, quali quelli di lavoro subordinato. Tralasciando l’impossibilità di escludere l’applicazione di un principio direttivo dei contratti, quale è il risarcimento nel campo dell’inadempimento, ad uno specifico negozio (rectius lavoro), accettando tale impostazione si arriverebbe all’aberrazione giuridica di accordare una tutela risarcitoria maggiore alla responsabilità extracontrattuale rispetto a quella contrattuale in materia di lavoro. L’assurdità di tale discriminazione è evidente comparando il maggiore valore che il legislatore in realtà conferisce al vincolo contrattuale rispetto a quello extracontrattuale: in tal senso basti pensare ai più favorevoli termini prescrizionali per far valere un diritto in ambito contrattuale ovvero l’onere probatorio semplificato della parte in bonis del contratto rispetto al soggetto leso da un fatto illecito.

In definitiva, accettare la limitazione del risarcimento nella completezza delle sue voci (danno emergente e lucro cessante) nelle ipotesi di licenziamento illegittimo, quale fattispecie pratica dell’inadempimento contrattuale, significa negare la stessa natura contrattuale del contratto di lavoro (di per sé impossibile per evidenti ragioni tautologiche), ma soprattutto di confinare tale tipologia negoziale in un alveo di tutele rimediali minori rispetto a qualsiasi altro istituto civilistico. Viene pertanto ribaltata l’eccezione rappresentata dalla disciplina, sostenuta negli anni passati da leggi speciali, del contratto di lavoro subordinato di cui agli artt. 2096 ss. c.c., in virtù della quale al lavoratore (e solo a lui), in virtù della sua particolare condizione soggettiva ritenuta particolarmente meritevole di tutela, venivano riconosciute particolari garanzie.

La parte tutelata diviene quella “forte” (il datore), alla quale viene riconosciuta la facoltà ad libitum di interrompere un rapporto contrattuale attraverso la semplice corresponsione di un irrisorio “indennizzo” predeterminato: si ribaltano i principi costituzionali e di diritto comune.

E’ evidente che, di fronte a situazioni di squilibrio di potere contrattuale, lasciare alle parti la completa libertà di determinare autonomamente il contenuto del contratto significa non tanto consentire alle parti di raggiungere il miglior assetto di interessi possibile, quanto, soprattutto, agevolare il contraente forte: tanto più nel caso di licenziamento illegittimo, in cui l’assetto rimediale invece di essere rafforzato in favore della parte debole, viene svilito a mero indennizzo, derubricando il rapporto (non potendosi chiamare contratto) di lavoro in un terzo genus di responsabilità, più debole rispetto a quella contrattuale ed extracontrattuale.

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In definitiva, la reintegrazione del lavoratore deve essere inquadrata alla stregua di un’ordinaria tutela rimediale da riconoscersi al contratto di lavoro, esattamente nei stessi termini in cui si permette la manutenzione del contratto, ossia l’esecuzione in forma specifica, nelle ipotesi di inadempimento (art. 1453 c.c.). Non si è alla ricerca di una maggiore tutela, seppure da ritenersi dovuta alla luce dei  principi costituzionali e della normativa vigente in settori similari viziati ontologicamente da uno squilibrio contrattuale, bensì semplicemente alla applicazione della normativa generale in tema di contratti.

In questo ordine di idee si è giunti a sperare che venga concesso ciò che invece spetterebbe di diritto quale tutela minima, in una società in cui (ormai) ci si rassegna a non avventarsi in richieste dovute, ma ad accontentarsi di quanto (non) ci viene concesso, dimenticandosi che è la parte debole che deve essere sostenuta nella fase patologica (contrattuale e non) e non certo il contraente forte.   

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Massimo D’Antona conclude, nel libro citato, il capitolo “Limiti dell’attività  economica e diritto al lavoro. Interpretazioni dell’art. 41 Cost.: il nesso tra diritto al lavoro e legislazione limitativa del licenziamento” (pag. 82 – 92), con una originalità di concetti che ben descrivono il livello di civiltà giuridica raggiunto con la normativa statutaria del 1970.

“L’ordine di reintegrazione tende visibilmente a riportare il lavoratore nelle specifiche condizioni materiali e giuridiche dalle quali l’atto illegittimo di estromissione l’aveva escluso. Tuttavia questa particolare tutela non rispecchia né un diritto di tipo reale al posto di lavoro né un diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa. Di più. Essa non rispecchia neppure un interesse propriamente contrattuale del lavoratore, nel senso che il bene protetto non fa parte dello scambio che sta alla base del rapporto di lavoro. Il bene tutelato dalla reintegrazione non è oggetto di scambio perché esso è già nel patrimonio di ciascun lavoratore; e il datore di lavoro deve solo astenersi da atti che, configurando esercizio illecito dei suoi poteri, ne producono la lesione.

L’estromissione dal posto di lavoro, quando ne sia stata accertata la illegittimità, configura una violazione dell’obbligo di comportamento che l’art. 41 Cost. impone all’imprenditore, ed è perciò un illecito che ha tutte le caratteristiche del «danno»  di cui parla l’art. 41 cpv.: per questo esso non va soltanto risarcito, prima di tutto deve cessare… .

La tutela dell’art. 18 include dunque un’articolazione di obblighi. Il ripristino integrale della situazione preesistente dipende dalla rimozione degli effetti materiali della estromissione, attraverso un conveniente, adeguamento della struttura organizzativa dell’impresa, ma dipende poi a maggior ragione dalla ripresa della corretta amministrazione del rapporto dal parte dell’imprenditore, dal «divenire in quiete» del rapporto stesso, e quindi dall’attuazione dell’obbligo negativo che l’art. 41 Cost. connette agli svolgimenti dell’attività d’impresa in funzione di una garanzia personalistica”.

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Per circa un trentennio, tra il 1970 e 1990 vi è stato nel paese notevole un sviluppo economico, benessere diffuso, attenuazione delle diseguaglianze, retribuzioni dignitose che hanno sostenuto  la domanda e quindi molta produzione e buona occupazione, uno stato sociale all’avanguardia nel mondo occidentale, un  complessivo progresso civile.

Tutto questo con una legislazione del lavoro che correggeva le asimmetrie del  rapporto sociale e le diseguaglianze di potere  nel contratto lavoro con norme dettate  dal senso civile e morale di una epoca democratica.

Si può senza enfasi sostenere che il diritto del lavoro ha salvato in Europa le  esangui democrazie liberali uscite da due guerre mondiali: gli ha dato nuovo impulso, con un ampio consenso e legittimazione  popolare.

E questo perché anche per la classe lavoratrice la democrazia ha previsto tutele e diritti, inserendoli nelle Costituzioni.

Insomma  per la uguaglianza e l’emancipazione sociale c’era una alternativa alla rivoluzione bolscevica: la democrazia costituzionale.

Lo Statuto dei lavoratori rappresenta il punto più alto della parabola garantista: secondo l’efficace affermazione di Brodolini, allora ministro del lavoro, con la Statuto la “Costituzione entra nei luoghi di lavoro”.

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d) L’opera di demolizione della civiltà giuridica

Dalla fine degli anni novanta inizia il lento ma progressivo smantellamento del diritto del lavoro, anche con la tecnica che nel bel  libro di due magistrate del lavoro, Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo “E lo chiamano lavoro…”, viene descritta come  «FRANCKING: frantumazione sotterranea delle regole poste in  attuazione della Costituzione, con la generale svalorizzazione del lavoro in tutte le sue forme: ennesima manifestazione delle tendenza radicata  nel paese a «lasciar soccombere il giusto sotto l’ambizione  di perseguire l’utile».

Inizia con il c.d. «pacchetto Treu», e l’introduzione del lavoro interinale (governo di centrosinistra), il primo attacco   ad uno dei pilastri del nostro ordinamento secondo cui è “datore di lavoro chi utilizza le prestazioni del lavoratore”.

«Si spezza il rapporto, diretto tra datore di lavoro e lavoratore l’oggetto del contratto è di fatto reso merce»: come tale può essere oggetto di compravendita e persino di scambio  (distacco, esternalizzazioni ecc.).

Gli esponenti delle stesse forze politiche, dopo aver legalizzato la “interposizione parassitaria nelle prestazioni di lavoro”(secondo l’efficace – e corretta - definizione della Corte di Cassazione) piangono oggi lacrime di coccodrillo di fronte al dilagare dello sfruttamento nel lavoro agricolo ed al ritorno, oggi, del lavoro servile che arriva persino ad uccidere di fatica nei campi lavoratori italiani ed extracomunitari.

Era scritto nella logica della “controriforma” tale esito: il profitto non pone limiti né al numero degli intermediari né al livello di sfruttamento della manodopera che con l’interposizione parassitaria può essere attuata.

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Il   successivo governo di centro destra con il D.Lgs. 276/2003 spalanca l’uscio socchiuso con il lavoro interinale: viene abrogata la l. 1369/60 (divieto di interposizione  nelle prestazioni di lavoro), istituita la somministrazione anche a tempo indeterminato,  previste nuove tipologie contrattuali tutte precarie, agevolate le esternalizzazioni    e internalizzazioni con la normativa sugli  appalti; viene attuato anche un insidioso tentativo di manomettere  l’art.  2112 c.c. trasformandolo da norma  «garantista» nel suo contrario: minaccia al posto  di lavoro  (con le cessioni di ramo di azienda “identificata come tale al  momento del trasferimento”)  invece che garanzia della sua prosecuzione! Ed infatti la maggior parte delle controversie promosse dai lavoratori in questi anni riguardano la insussistenza del fenomeno successorio regolato dall’art. 2112 c.c. con conseguente legittima negazione del consenso alla cessione del contratto ex art. 1406 c.c.. 

Si diffondono negli anni successivi i processi  di esternalizzazione e terziarizzazione con i quali si concretizza la scelta imprenditoriale di frammentare la organizzazione produttiva e di realizzare finalmente il sogno di una impresa senza dipendenti (propri) e quindi senza  la seccatura di dover rispettare i loro diritti.

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Inizia poi nel 2001 il progressivo scardinamento della normativa sui contratti a termine (la buona legge 230 del 62) con il pretesto di attuare la famosa direttiva CEE del 99.

Al riguardo è utile ricordare l’intervento molto rilevante della Corte Costituzionale (sent. 41/2000), i cui principi torneranno attuali quando  inevitabilmente il D.Lgs. 34/14 (c.d.Poletti) ci tornerà.  La Corte ammettendo per la prima volta la partecipazione al giudizio di associazioni e privati che contrastavano la richiesta referendaria, ha dichiarato “inammissibile” il referendum abrogativo della l. 230/62, essendo essa “conformazione anticipata” alla Direttiva comunitaria  sul contrasto agli abusi del contratto a termine: non si può abrogare  una normativa che il legislatore deve adottare per come obbligo comunitario.

Sentenza di portata enorme: se infatti alla sovranità popolare è sottratto il potere di abrogare una legge tantomeno ciò può essere consentito al legislatore, per di più con il pretesto di attuare la direttiva comunitaria contro gli abusi che la legislazione già vigente impediva e sanzionava; e ciò addirittura in contrasto con la clausola “di non regresso” posta dalla direttiva stessa.

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Con quel “supermarket della precarietà” rappresentato dal D.Lgs. 276/2003 si realizza anche “la fuga dalla subordinazione” come elusione delle tutele, soprattutto dalla tutela reale dal licenziamento vero e proprio “perno”, “diritto stipite”, che garantisce l’esercizio di tutti gli altri diritti (Giorgio Ghezzi affermava: «senza la tutela reale tutti i diritti del lavoro  sono scritti sulla sabbia»).

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L’opera di demolizione continua con il collegato lavoro (l. 183/2010), dove si attua (con l’art. 32) la generalizzazione delle “decadenze” per ostacolare l’esercizio dei diritti. Mentre nel diritto comune la decadenza è eccezione per ipotesi tassativamente previste alla prescrizione, nel diritto del lavoro  le decadenze diventano la regola; e poi sono poste norme “retroattive” e si penalizza il lavoratore vittima degli abusi del contratto a termine nel risarcimento assai limitato, con  sostanziale premio all’illecito datoriale.

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e) La norma dichiaratamente classista di cui all’art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare)

La legislazione discriminatoria a danno del lavoratore attinge a vertici inauditi anche in sede processuale, nel silenzio, quasi totale, della dottrina giuridica e delle parti sociali.

Con la legge 69/2009 viene introdotto l’art. 614-bis c.p.c., che prevede la possibilità per il giudice di fissare, con il provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Si tratta di una misura coercitiva indiretta che attinge all’istituto francese delle «astreintes» (dal latino “adstringere”, ossia costringere), e il cui scopo è quello di garantire l’attuazione degli obblighi di fare infungibili e degli obblighi di non fare da parte del debitore.

Il legislatore però sancisce espressamente l’inapplicabilità  della norma “alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”.

Tale limitazione, che toglie effettività alle sentenze di reintegrazione per i licenziamenti ma anche per l’ordine di adibizione alle mansioni nella dequalificazione, si presta a una duplice censura di incostituzionalità: innanzitutto, perché riservare un trattamento differenziato ad alcune controversie sulla base della qualifica soggettiva del destinatario del provvedimento di condanna appare contrario ai principi di ragionevolezza, nonché a quello di pienezza ed effettività della tutela; in secondo luogo, perché la esclusione comporta un indebito privilegio in favore del datore di lavoro, pubblico o privato, tanto da essere stata definita “una scelta tipicamente classista” (A. Proto Pisani, "La riforma del processo civile: ancora una riforma a costo zero (note a prima lettura)", in Foro Italiano V, 2009, pag. 221).

Ulteriori rilievi in ordine alla natura irragionevole e discriminatoria di tale esclusione erano stati altresì formulati dal C.S.M., in sede di redazione del Parere sulle disposizioni contenute nel corrispondente disegno di legge (delibera del 30 settembre 2008).

Inspiegabilmente, tuttavia,  la limitazione contenuta nell’art. 614-bis c.p.c. non ha mai costituito oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale, nonostante abbia introdotto un anomalo squilibrio nel sistema delle tutele, con  la conseguenza che la funzione deterrente cui la norma dovrebbe assolvere risulta sostanzialmente vanificata nei confronti del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro o nelle mansioni.

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Arriva quindi la legge 92/2012 (c.d. riforma Fornero) che riduce  la generale applicazione dell’art. 18 l. 300/70 ad ogni  ipotesi di licenziamento inefficace ed illegittimo limitandolo ai solo casi di «manifesta insussistenza» del giustificato motivo, alla inesistenza della mancanza disciplinare nel licenziamento per giusta causa ovvero alla sua non proporzionalità secondo le previsioni della contrattazione collettiva.

Sono dunque intaccati alcuni principi fondamentali di democrazia economica cui è ispirata la Costituzione.

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f) Il Jobs Act, ossia il trionfo del neoliberismo: dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti.

Con il governo Renzi sostenuto dal voto di fiducia di tutto il suo partito, l’estremismo neoliberista porta a compimento la distruzione del diritto del lavoro, minandone i suoi fondamenti.

Scompare per i nuovi assunti la tutela reale per licenziamenti illegittimi sostituita da un irrisorio indennizzo, viene consentita per tutti (nuovi e vecchi assunti) la dequalificazione professionale; viene abolito il divieto del controllo a distanza sullo svolgimento della prestazione lavorativa ed eliminata per 36 mesi la causale nei contratti a termine e nelle proroghe.

Un’opera dettagliata e feroce che non risparmia nemmeno gli invalidi: viene generalizzata la chiamata nominativa nel collocamento “obbligatorio” con eliminazione della modesta quota numerica nelle assunzioni per le aziende medio-grandi.

E’ bene anche qui evidenziare la totale alterazione delle regole dello stato costituzionale di diritto.

I decreti legislativi del c.d. Jobs Act non sono attuazione della legge delega del Parlamento; dov’è prevista l’abrogazione dell’art. 18 per i nuovi assunti e la possibilità di dequalificazione e di controllo a distanza per fini disciplinari?

È puramente e semplicemente l’attuazione del programma della Confindustria riportato nel documento “Proposte per il mercato del lavoro” del maggio 2014; alla pag. 7 sono precisate le tre richieste: abolizione della reintegrazione come conseguenza del licenziamento illegittimo, eliminazione del divieto di dequalificazione e del controllo a distanza.

Dunque: il governo legislatore delegato ex artt. 76 e 77 della Costituzione (con legge delega sostanzialmente «in bianco» e votata con la fiducia!) ignora il Parlamento e approva le norme dettate dalla Confindustria. Di più e di peggio: non degna di alcuna considerazione le osservazioni delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato che hanno mosso obiezioni sulla eliminazione dell’art. 18 per i licenziamenti collettivi illegittimi per i nuovi assunti e sulla sostanziale abrogazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori per tutti! Una tale umiliazione del Parlamento non si era mai vista nell’era repubblicana.

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g) “Sorvegliare e punire”: il panottico come modello e figura del potere  nella società contemporanea.

 

Il tratto emblematico delle riforme renziane si può cogliere dalla eliminazione del divieto di controllo a distanza anche ai fini disciplinari.

Nel 1791 il filosofo, giurista e imprenditore Jeremy Bentham progettò il «panottico» come carcere ideale: permettere ad un sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere loro di capire se in un determinato momento fossero  o no controllati.

L’idea del panottico ha avuto una grande risonanza successiva come metafora di un potere invisibile e permanente, ispirando pensatori e filosofi come Michel Foucault, Noan Chomky, Zygmund Bauman e  lo scrittore britannico George Orwell nell’opera “1984”.

Nell’anno 1794 Bentham decise di applicarlo alla sua fabbrica in cui lavoravano i carcerati poi sostituiti dagli operai (Gilbert’s Act).

I lavoratori, sapendo di poter essere tutti controllati e osservati in ogni momento da un preposto, avrebbero assunto comportamenti disciplinati ed eseguito con diligenza ogni direttiva datoriale.

Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il retto comportamento imposto sarebbe entrato nella mente degli operai come unico possibile modo di comportarsi, modificando così il loro carattere in modo definitivo. Lo stesso filosofo descrisse il panottico come “un nuovo modo per ottenere potere sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima”  (Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Focault e M. Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983).

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Ammettiamolo onestamente: nessun avrebbe mai immaginato una tale devastazione nella tutela dei lavoratori e dello stesso Stato di diritto costituzionale, con il maggior partito di sinistra in posizione dominante nel governo!

Ed infatti il fallimentare esito sul contrasto alla disoccupazione delle numerose contro-riforme del mercato del lavoro realizzate prevalentemente dai governi di centro - destra negli ultimi 15 anni, tutte improntate alla riduzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori, non faceva in alcun modo presagire ulteriori interventi di tale portata.

Il livello di disoccupazione è drammatica, la precarietà è dilagata divenendo ormai regola di gran lunga prevalente nei rapporti di lavoro.

Il fallimento è certificato da tutti gli economisti, (anche quelli “mainstream”) e che imputano alla austerità, alla precarietà nel lavoro e alla drastica riduzione del potere di acquisto delle retribuzioni non la soluzione alla crisi economica, bensì la sua causa principale, originata dal crollo della domanda e da una conseguente recessione ormai duratura.

Eppure i perdenti, e falliti, colgono ora il loro più grande e “storico” risultato: la eliminazione della reintegrazione nel posto di lavoro nel licenziamento illegittimo individuale e collettivo oltre alla abrogazione dei divieti di dequalificazione e di controllo a distanza a fini disciplinari della attività lavorativa: insomma i pilastri della legislazione del lavoro.

«Nel regime giuridico duale, cioè con la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali  di ricatto sul lavoro, diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’Ufficio legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al costituzionalismo della Repubblica…E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro è sconfitto ma non vinto»  (Michele Prospero, “Jobs Act: si spengono  i diritti. Un premier che marcia spedito verso l’800”,  Il  Manifesto 10.03.2015).

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h) La istituzionalizzazione della precarietà

La vicenda dei contratti a termine è anch’essa emblematica. Si parte da un assunto non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione generale che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la fase di inserimento nel mondo del lavoro. Non c'è più bisogno di fidelizzare, formare e inserire nella propria compagine aziendale proprio nessuno. Il “precario massa” entra ed esce dal mercato del lavoro con un bagaglio di competenze sempre più qualificato, aggiornato e competitivo. Altro non serve. Si passa continuamente da una situazione lavorativa a un'altra: questo comporta per le imprese la condizione ottimale per sfruttare il turn over continuo. Ed ecco dunque che la fonte del profitto passa per la possibilità di poter assumere liberamente e sbarazzarsi, altrettanto liberamente, dei prestatori di lavoro.

Il legislatore del 2001 (D.Lgs. 368/01) ha provato ad ampliare la possibilità di assunzione a termine, ritenendo la disciplina normativa previgente (L.n. 230/62) troppo rigida. Per una rara eterogenesi dei fini l'operazione non è andata in porto, in quanto la Direttiva 1999/70/CE, in strumentale applicazione della quale si è introdotta la norma, ha imposto delle interpretazioni giurisprudenziali restrittive tali da vanificare il tentativo di liberalizzazione. Il secondo assalto viene mosso con la Legge Fornero (L.n. 92/12) con la quale è per la prima volta introdotta la possibilità di stipulare il primo contratto di durata (per un massimo di un anno) come "acausale": vale a dire che non viene più richiesta alcuna occasione temporanea di lavoro in grado di giustificare la durata del termine, viene cioè scardinato il perno del vaglio di legittimità del contratto di durata, offrendo così l'occasione alle aziende di esercitare un profittevole turn over su base annua. L’acausalità implica la possibilità di stipulare un contratto di durata ed anche il più stabile dei lavori può dunque essere oggetto di un contratto a termine sottoponendo al ricatto della scadenza chi vi è inquadrato. Tutto ciò – ripetesi - andando in frontale conflitto con la Direttiva europea sopra richiamata, la quale ha espressamente previsto l’eccezionalità del contratto a termine (rispetto a quello a tempo indeterminato) e la necessità di disporre misure legislative contro l’abuso. La direzione intrapresa ha quindi l’evidente effetto di erodere segmenti di lavoro potenzialmente stabile e di incentivare dinamiche sostitutive dei lavoratori a tempo indeterminato.

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i) La disciplina dei licenziamenti

Nel decreto legislativo che introduce il contratto a tutele crescenti si attua il completo rovesciamento dei principi costituzionali: non si tutela più il diritto al lavoro ma quello al licenziamento «…trasformato da potere da limitare in privilegio da garantire anche con le risorse della collettività» (U. Romagnoli). Infatti, è previsto nell’art. 6 del Decreto Legislativo che instituisce il c.d.  contratto a tutele crescenti (è l’articolo più lungo e circostanziato con ben tre corposi commi) che venga eliminato l’onere fiscale nell’indennizzo offerto dal datore di lavoro ai fini conciliativi nella ipotesi di impugnativa del licenziamento.

A ciò vengono destinate imponenti e progressive risorse collettive (oltre 216 milioni di euro!) attinte dall’art. 1, comma 107 della legge 23 dicembre 2014 n. 190 che istituisce un fondo per le “politiche attive del lavoro… nonché per fare fronte agli oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti…”.

Non solo l’indennizzo per i licenziamenti illegittimi è irrisorio, ma incentivato con soldi pubblici.

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l) Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico.

 

In questi anni c’è stata la guerra all’art. 18 ed ecco la sua rappresentazione come un “tabù” che annulla la  libertà di licenziare i fannulloni, impone rigidità, sconsiglia gli investimenti in Italia e quindi genera disoccupazione, soprattutto giovanile, crisi economica e miseria.

I professionisti della disinformazione hanno fatto tesoro della lezione impartita dal ministro nazista.

Ed infatti (quasi tutti) coloro che discutono dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori non richiamano mai il tenore letterale della norma, esattamente come (quasi tutti) i giornalisti  e conduttori televisivi non ne illustrano mai il suo reale contenuto, esattamente come mai attuano un contraddittorio effettivo con i giuslavoristi che conoscono la materia.

Insomma l’estremismo neoliberista cancella i diritti costituzionali del lavoro accompagnandosi con il fascismo mediatico. Tutti i telegiornali, che oggi propagandano l’operato del governo sono uguali ai cinegiornali dell’Istituto Luce degli anni trenta.

Una gigantesca ipocrisia ha accompagnato l’assalto finale all’art. 18, indicandolo come ostacolo alla maggiore occupazione, soprattutto per i giovani: l’assioma secondo cui con più licenziamenti arbitrari (senza art. 18) – per quelli legittimi, ripetesi, il datore non ha niente da temere – si avrà più occupazione e meno precarietà, è chiaramente falso: anche la legge c.d. “Biagi” è stata approvata con questi fini e gli esiti disastrosi sono ora sotto gli occhi di tutti.

Gli slogan ossessivamente ripetuti in questi mesi: l’art. 18 non è “tabù intoccabile”; ovvero bisogna “riformare” contro il “conservatorismo”, appaiono privi di senso.

La vita, la salute, la libertà, la sicurezza, la dignità, il diritto al lavoro e ad una esistenza libera e dignitosa sono “tabù intoccabili”?.

No, semplicemente diritti costituzionali; volerli ora ripristinare non é bloccare le riforme o lo sviluppo economico: semplicemente realizzare un accettabile livello di civiltà, di coesione sociale,  di garanzie e di tutele anche per i lavoratori, attuando la Costituzione.

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Con il c.d. decreto Poletti (che elimina la causale oggettiva nel contratto a termine) e con il nuovo contratto a tutele crescenti (che elimina la tutela reale e che comporta sempre  la perdita del posto di lavoro anche a fronte del licenziamento illegittimo) si è puramente e semplicemente generalizzata e resa strutturale  la precarietà permanente lo stato di soggezione del dipendente.

L’imbroglio è addirittura semantico: quali sono le “tutele crescenti” nel nuovo contratto a tempo indeterminato?

La proposta originaria  (Boeri)  che aveva avuto il sostanziale consenso delle parti sociali e di quasi tutte le forze politiche,  prevedeva per un certo periodo  un salario  d’ingresso e un inquadramento inferiore rispetto al CCNL, la tutela solo   obbligatoria nei  licenziamenti illegittimi con un risarcimento che aumentava nel tempo, con l’approdo finale alle  tutele piene, al pari degli altri dipendenti già occupati: alla fine  tutti uguali nelle tutele.

E’ tutto sparito nel “contratto a tutele crescenti” che cristallizza, contrariamente alle premesse,  il “dualismo” delle tutele tra vecchi e nuovi assunti.

 

m) Ripristinare lo stato costituzionale di diritto

I grandi avanzamenti della tutela del lavoro sono avvenuti in un periodo di sovrarappresentanza del lavoro, così come i più disastrosi arretramenti si sono verificati nel punto più basso di connessione tra il lavoro e le organizzazioni tradizionalmente chiamate a rappresentarlo.

In altri termini, occorre coinvolgere forze sindacali e politiche in un lavoro di rivisitazione della legislazione del lavoro per riportarla  a quelle caratteristiche tali da consentirle di far prevalere il suo valore fondante, ai sensi dell’art. 1 della Costituzione, rispetto ad altri diritti eventualmente contrapposti.

Si potrà, così, puntare ad una pars destruens che elimini quelle norme che hanno portato all’attuale situazione di crisi e successivamente ad una pars construens che consenta di realizzare anche quelle parti della Costituzione rimaste inattuate.

Occorre, poi, ribaltare i ruoli tra parte costituzionale e parte promozionale. E’ necessario, infatti, ricostituzionalizzare la legislazione sulla rappresentanza sindacale e sullo sciopero quale diritto di ogni singolo lavoratore di aggregarsi, contrarre e confliggere collettivamente. Occorre cioè rovesciare l’impostazione: passare dalla cancellazione degli art. 39 e 40 Cost operata con lo Statuto, alla cancellazione dell’art. 19 e ricostituzionalizzazione del diritto sindacale basato, come ha detto sin dal 1974 la Consulta, sul «riscontro di  un’effettiva capacità di rappresentanza degli interessi sindacali “ e su  “una reale effettività rappresentativa”.  Ed occorre infine passare ad una legislazione “promozionale” nel rapporto di lavoro a partire  dal dramma del lavoro povero con l’applicazione coatta di un salario minimo, con regole stringenti sulla continuità del rapporto in caso di cambio appalto e di contrasto al ricorso al part time involontario.

Le modifiche sviluppatesi negli ultimi anni, con il prevalere del lavoro precario  e interinale sul rapporto di lavoro subordinato deve indurre, poi, a sviluppare un’azione che consenta l’estensione a quei lavoratori precari (il caso dei rider rappresenta il caso più eclatante) delle garanzie previste per i lavoratori subordinati, seguendo in ciò quanto meno ciò  la Suprema Corte ha recentemente statuito sul caso Uber: non è tanto importante qualificare quel rapporto come autonomo o subordinato, l’importante è che a quei lavoratori sia riservato lo stesso trattamento del rapporto di lavoro subordinato.

In questo senso, forse, può avere senso parlare di Statuto del Lavoro allargato a tutti i lavoratori, a condizione, però, che questa modifica non si trasformi in occasione per indebolire le garanzie già presenti.

 

Ecco dunque la proposta per la stabilità del contratto a tempo indeterminato, e, dunque, la tutela per licenziamenti ingiustificati.

Abbiamo preferito seguire la impostazione della Costituzione Europea (la Carta fondamentale dei diritti di Nizza oramai inserita nei trattati) che all’art. 30 prevede la tutela del lavoratore a fronte di ogni licenziamento ingiustificato.

Questa l’ipotesi normativa:

Art. 18: tutela contro il licenziamento invalido

1. A fronte di ogni licenziamento individuale o collettivo invalido (per nullità, illegittimità o inefficacia) il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento della retribuzione, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, dal recesso alla sentenza del Giudice del lavoro.

  1. Nel caso di inottemperanza all’ordine di reintegrazione nel  posto di lavoro, o del ritardo nella sua attuazione superiore a giorni dieci dalla sentenza, il datore di lavoro è tenuto a versare al fondo di cui all’art. 1, comma 107 legge 23 dicembre 2014 n. 190, o ad analoghi fondi per le politiche attive del lavoro e di sostegno alla disoccupazione istituiti presso l’INPS, la somma di euro cinquecento al  giorno.
  2. Il lavoratore e, nel solo caso di licenziamento annullabile, il datore di lavoro che occupi sino 8 dipendenti, hanno facoltà di optare, in sostituzione della reintegrazione, per il pagamento di una indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto; solo l’effettivo pagamento determina la risoluzione del rapporto di lavoro”.

(Ovviamente anche il ripristino dell’art. 18 del 1970, abbassando il limite della sua applicazione a 5 dipendenti, è proposta positiva).

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n) Proposte

 

  • Artt. 1, 3, 4 e 41, 2º comma Cost.: tutela reale per ogni licenziamento illegittimo.
  • Artt. 2, 3, 4  e 41, 2º comma Cost.: dignità, libertà  e stabilità per chi lavora.
  • tutela della professionalità e divieto di dequalificazione;
  • diritto alla riservatezza e divieto di controlli a distanza della attività lavorativa a fini disciplinari;
  • contrasto della precarietà con ipotesi tassative per le assunzioni a termine e somministrazione di manodopera.
  • Art. 24 Cost.: tutela giurisdizionale dei diritti.
  • eliminazione delle decadenze generalizzate per l’esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro.

Quanto, infine, al processo del lavoro, esso deve tornare, come detto, ad essere quello strumento agile ed incisivo, valido per tutti i lavoratori, caratterizzato da:

1)        Rapidità nello svolgimento del processo;

2)        Concentrazione nell’assunzione della prova;

3)        Ricerca della verità sostanziale, con recupero dei poteri istruttori d’ufficio del Giudice;

4)        Pubblicità del processo che deve svolgersi in pubblica udienza, come il processo penale, onde consentire la presenza di osservatori e parti interessate;

5)        Recupero del sostanziale favor lavoratoris, nella conduzione del processo;

6)        Oralità;

7)        Gratuità totale del processo per il lavoratore;

8)        Eliminazione del principio generalizzato di soccombenza nell’ipotesi di sconfitta del lavoratore.

 

24.                     TRASFERIMENTO E CESSIONE D’AZIENDA

 

Nel 1942, con la promulgazione del codice civile, all’art. 2112 c.c. si prevedeva che in caso di vendita di un’azienda ai lavoratori si poteva dare la “disdetta”.

Questa norma, in realtà, incarnava ed incarna tutt’ora il desiderio profondo dell’imprenditoria nazionale nonché il punto di equilibrio delle forze politiche che la sostengono.

 La Comunità Europea il giorno di San Valentino del 1977 promulgava la Direttiva 187 con cui affermava che in caso di cessione d’azienda o di suo ramo, il rapporto di lavoro deve passare dal venditore all’acquirente, sempre salva —si intende— la libertà dell’acquirente di licenziare se ne ricorrono i motivi.

 Insomma una previsione di puro buon senso ma talmente perturbante per la sindrome italiana che l’inconscio politico giuridico del paese la rimuoveva nella speranza che, ignorandola, scomparisse da sola. Ma ecco che 9 anni dopo, il 10 luglio 1986, la Corte di Giustizia condannava l’Italia per mancata attuazione della Direttiva. Beh e a questo punto cosa ha fatto l’Italia? Nulla per ben altri quattro anni, e cioè sino al 29 dicembre 1990 quando, schiacciata dal rischio della procedura di infrazione, capitolava riformulando con la Legge 428 l’art. 2112 c.c. ed affermando finalmente che in caso di cessione d’azienda il rapporto dei lavoratori prosegue con l’acquirente. Ma attenzione, si trattava solo di una ritirata strategica. E infatti i nostalgici della “disdetta” si acquartieravano sul fronte dell’azienda in crisi (che non hanno più mollato) aggiungendo all’art. 47 il co. 4-bis, con la previsione per cui in caso di vendita di un’azienda in stato di crisi (senza distinguere tra la più lieve e cioè quella accertata in sede ministeriale per la concessione della cassa integrazione sino alla più definitiva quale il fallimento) se è “stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'articolo 2112 del codice civile”.

La questione ovviamente tornava subito alla Corte di Giustizia che si pronunciava con svariate sentenze, tutte dello stesso tenore. La prima era la sentenza D’Urso (del 25 luglio 1991, Causa C-362/89), e si occupava proprio di un’azienda ceduta da una società in amministrazione straordinaria che continuava l’attività, esattamente come l’Alitalia oggi. E cosa dice la Corte in tale sentenza del 1991? Dice che la procedura di amministrazione straordinaria non implica necessariamente variazioni sul piano dell’occupazione e quindi permane il diritto del lavoratore a passare automaticamente alle dipendenze dell’acquirente fin quando (leggo testualmente) c’è “il proseguimento dell'attività dell'impresa[88]

L’Italia non si adegua. Tanto che la Commissione decideva che, se alcuni paesi membri proprio non volevano capire ciò che dice la giurisprudenza della Corte di Giustizia, era opportuno un suo intervento. Ed emanava la Direttiva n. 23 del 2001 affermando al punto 7 della premessa che "detta direttiva è stata …. modificata alla luce … della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee", in quanto “la sicurezza e la trasparenza giuridiche hanno richiesto un chiarimento”. Insomma hanno preso le sentenze e le hanno riportate al nuovo articolo 5 della Direttiva, che ribadisce come:

- o la società che vende l’azienda è in una “bankruptcy proceeding” è cioè in una procedura riservata alle società fallite, chiuse, morte, in bancarotta, allora chi compra può non assumere gli ex dipendenti di chi vende;

- oppure, se invece è un’attività che si trova in una “insolvency proceeding” ovverosia in una procedura aperta per una crisi più lieve che consente —pur sotto il controllo dell’autorità amministrativa o giudiziaria— di proseguire l’attività, allora si può, con l’accordo sindacale, modificare in peggio le condizioni di lavoro ma permane comunque il diritto dei lavoratori di proseguire l’attività alle dipendenze di chi acquista.

L’Italia si sarà adeguata, si sarà portati a pensare. E invece no. L’Italia continua a non fare nulla, tanto che la Commissione nuovamente, con lettera del 23 marzo 2007, invitava la Repubblica italiana ad ottemperare alla direttiva 2001/23 e ad adeguare il proprio diritto interno nel senso che nei casi di mera “insolvency”, come certamente è l’amministrazione straordinaria in continuità, fosse riconosciuto il diritto di tutti i lavoratori all’applicazione dell’art. 2112 c.c. con prosecuzione del rapporto. Ebbene, questa volta l’Italia decide di attivarsi con decreto legge e farlo a un mese dalla prima cessione di Alitalia. E cosa dice questo decreto, forse che si applica l’art. 2112 c.c.? No: il Governo (allora presieduto dall’On. Silvio Berlusconi), con il decreto legge 185 del 29 novembre 2008 prevedeva che per le aziende in amministrazione straordinaria (cito testualmente) le operazioni di “cessione dei complessi aziendali … non costituiscono comunque trasferimento di azienda ... agli effetti previsti dall’art. 2112 c.c.”. E oplà, la Cai si sceglieva chi assumere lasciando gli altri nella bad company da cui 4 anni dopo venivano licenziati in blocco. Intanto la Commissione perdeva ovviamente la pazienza rivolgendosi nuovamente alla Corte di Giustizia che con la sentenza, n. 561/07 dell’11 giugno 2009 condannava l’Italia proprio perché non applicava l’art. 2112 c.c. ai casi di crisi più lieve. Ma questa volta la sentenza era direttamente contro il nostro paese e la inottemperanza avrebbe portato a sanzioni pesanti e quindi finalmente con la legge 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare attuazione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee”, si introduceva un comma 4-bis al predetto articolo 47 della L. 428/90: la distinzione tra i casi di bankruptcy, e cioè di morte dell’azienda, in cui non si applica l’art. 2112 c.c., (quali il fallimento, l’omologazione di concordato preventivo con cessione dei beni, o anche l’amministrazione straordinaria senza continuazione dell’attività). E precisando come invece per tutte le altre crisi più lievi, anche e soprattutto per “l’amministrazione straordinaria …. in caso di continuazione … dell’attività … l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione”, aggiungendosi però poi: “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo sindacale”. Frasetta apparentemente innocua dato che —come detto— l’art. 5 della Direttiva 23 del 2001 prevedeva proprio che era possibile con accordo sindacale operare (testualmente) “modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali”. E però c’era un aspetto della sindrome italiana che avevamo sottovalutato, e cioè il gusto (oltre che per i decreti legge ad Alitaliam emessi a un mese dalla cessione) anche per lo sfottò, per il gioco di parole irridente insomma. Ed allora in occasione della seconda cessione da Cai ad Etihad, succedeva che compratore ed alienante facevano finta che con rinvio fatto dalla legge all'”accordo sindacale” con cui si dovevano applicare l’art.2112 e la Direttiva Europea, si poteva in realtà fare tutto, anche disapplicare l’art. 2112 e la Direttiva europea. E con accordo sindacale redigevano una lista di coloro che proseguivano e scartavano gli altri che venivano licenziati, come nella prima cessione. Ma questa volta non occorreva neanche andare a Bruxelles, era sufficiente andare a piazza Cavour, incaricandosi la Cassazione di precisare con molte sentenze del 2020 che “in caso di trasferimento che riguardi aziende … per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività … l'accordo sindacale … può prevedere deroghe all'art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”.

Finalmente dopo 43 anni si allineavano tutti i pianeti: legislazione comunitaria, giurisprudenza comunitaria, legislazione nazionale, giurisprudenza nazionale! Tutti d’accordo a dire che quando c’è una società in amministrazione straordinaria con continuazione si applica l’art. 2112 per quanto attiene al diritto di tutto il personale di proseguire il rapporto. E quindi, ingenuamente, pensavamo che nella terza cessione Alitalia almeno questo problema, dopo due direttive, due sentenze di condanna della Corte di Giustizia (e svariate altre interpretative), una novella di adeguamento alla legislazione comunitaria e alcune decine di pronunce della Cassazione, era smarcato. Ma avevamo nuovamente sottovalutato la sindrome italiana e i nostalgici della disdetta del 1942. E infatti, nel verbale di accordo non firmato da tutte le organizzazioni sindacali, alla lettera B si “esclude l’applicazione dell’art. 2112 c.c.”. Ancora? Sì, ancora. E come è possibile? Lo è grazie al gusto tutto italiano per Decreti legge ad Alitaliam ad un mese dalla cessione e per i giochi di parole irridenti. Ed ecco infatti che nel corso della trattativa con i sindacati, ad un mese dall’avvio dell’attività di Ita, giungeva puntuale il Decreto legge, in particolare il cd. Decreto infrastrutture del 2 settembre 2021, che all’art. 7 procede con il solito gioco di parole e cioè dice che quello che Ita comprerà e Alitalia venderà non si chiama più “azienda” ma si chiama da ora in poi “singoli beni” ancorché organizzati tra loro e acquisiti dallo stesso venditore nello stesso momento. E così è possibile il miracolo: fino al Decreto ciò che veniva venduto era un’azienda e si doveva applicare l’art.2112 c.c., dopo il 2 settembre ciò che viene venduto (che è ovviamente sempre lo stesso compendio) si chiama pluralità di “singoli beni” e così si può disapplicare ancora una volta il diritto alla prosecuzione del rapporto. C’è anche una sola possibilità che questo sia conforme al diritto nazionale e comunitario? La risposta viene da sola, la Corte di Giustizia ha già chiarito la distinzione tra singoli beni e azienda proprio nel trasporto aereo con la Sentenza Ferreira da Silva del 9 settembre 2015 (in Causa C-160/14). In quel caso c’era  “un’impresa attiva nel mercato dei voli charter” che è stata “liquidata” e un’altra compagnia aerea (e cioè la portoghese Tap) che ha provveduto a “riassume(re) i contratti di locazione di aerei e i contratti di voli charter in vigore, svolge(re) l’attività precedentemente svolta dalla società liquidata, riassume(re) alcuni dipendenti fino a quel momento operanti per tale società e riprende(re) piccole apparecchiature di detta società”.

Ebbene la CGE ha detto che non sono singoli beni ma è un’azienda, in quanto ciò che conta non è “il mantenimento … della struttura organizzativa specifica imposta (precedentemente) … ai diversi fattori di produzione trasferiti, bensì del nesso funzionale di interdipendenza e complementarità fra tali fattori a costituire l’elemento rilevante per determinare la conservazione dell’identità dell’entità trasferita”. Insomma in quel caso non è stato direttamente acquistato neppure un aereo (ma solo i contratti di leasing), non sono passati gli slot, non è passato il brand, ed il tutto è stato integrato in una compagnia già esistete ed assai più grande senza la quale il servizio non sarebbe stato reso; cionnondimeno, la Corte di Giustizia Europea ha rinvenuto la “continuità”.

In questo contesto la prima vera discontinuità che si chiedeva al Governo ed ai vertici di Ita, e che ad oggi è stata drammaticamente fallita, era di farla finita con la propensione italiana al trucchetto, all’elusione, alle leggi ad personam, alle scorciatoie, alla cultura dell’oggi facciamo così poi si vedrà tanto sarà qualcun altro a gestire il fallimento, e con lo scaricamento sulla magistratura di tutto il peso del rispetto delle normative nazionali e comunitarie. Anche se non si vuole dire (per motivi cabalistici) il numero 2112 è possibile attuare nei fatti l’art. 5 della direttiva europea 2001/23 con un buon accordo sindacale che preveda una ragionevole tempistica di assorbimento scaglionato del personale che nell’attesa del passaggio dovrà godere di adeguati ammortizzatori, e che preveda condizioni economiche e normative che consentano ad Ita un avvio più lieve per poi tornare progressivamente a regime in un tempo ragionevole. Questo consentirebbe una rinnovata alleanza tra lavoratori, cittadini e la loro ritrovata compagnia aerea nazionale, garantirebbe un avvio efficiente e con basso costo del lavoro, consentirebbe di evitare il disastro sociale e la disperazione di massa, blinderebbe giuridicamente l’avvio evitando migliaia di cause, e segnerebbe un possibile nuovo inizio di cui questo paese ha disperatamente bisogno.

 

25.                     DELOCALIZZAZIONI

 

Delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione. Ciò è tanto meno accettabile se avviene da parte di un’impresa che abbia fruito di interventi pubblici finalizzati alla ristrutturazione o riorganizzazione dell’impresa o al mantenimento dei livelli occupazionali Lo Stato, in adempimento al suo obbligo di garantire l’uguaglianza sostanziale dei lavoratori e delle lavoratrici e proteggerne la dignità, ha il mandato costituzionale di intervenire per arginare tentativi di abuso della libertà economica privata (art. 41, Cost.).

Alla luce di questo, i Giuristi Democratici hanno contestato i licenziamenti annunciati da GKN, i quali si pongono già oggi fuori dall’ordinamento e in contrasto con l’ordine costituzionale e con la nozione di lavoro e di iniziativa economica delineati dalla Costituzione.Tale palese violazione dei principi dell’ordinamento, impone che vengano approntati appositi strumenti normativi per rendere effettiva la tutela dei diritti in gioco. Per questo motivo è necessaria una normativa che contrasti lo smantellamento del tessuto produttivo, assicuri la continuità occupazionale e sanzioni compiutamente i comportamenti illeciti delle imprese, in particolare di quelle che hanno fruito di agevolazioni economiche pubbliche. Tale normativa deve essere efficace e non limitarsi ad una mera dichiarazione di intenti. Per questo motivo riteniamo insufficienti e non condivisibili le bozze di decreto governativo che sono state rese pubbliche: esse non contrastano con efficacia i fenomeni di delocalizzazione, sono prive di apparato sanzionatorio, non garantiscono i posti di lavoro e la continuità produttiva di aziende sane, non coinvolgono i lavoratori e le lavoratrici e le loro rappresentanze sindacali. Riteniamo che una norma che sia finalizzata a contrastare lo smantellamento del tessuto produttivo e a garantire il mantenimento dei livelli occupazionali non possa prescindere dai seguenti, irrinunciabili, principi.

  1. A fronte di condizioni oggettive e controllabili l’autorità pubblica deve essere legittimata a non autorizzare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.
  2. L’impresa che intenda chiudere un sito produttivo deve informare preventivamente l’autorità pubblica e le rappresentanze dei lavoratori presenti in azienda e nelle eventuali aziende dell’indotto, nonché le rispettive organizzazioni sindacali e quelle più rappresentative di settore.
  3. L’informazione deve permettere un controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, al fine di valutare la possibilità di una soluzione alternativa alla chiusura.
  4. La soluzione alternativa viene definita in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate.
  5. Il Piano viene approvato dall’autorità pubblica, con il parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori coinvolti, espressa attraverso le proprie rappresentanze. L’autorità pubblica garantisce e controlla il rispetto del Piano da parte dell’impresa.
  6. Nessuna procedura di licenziamento può essere avviata prima dell’attuazione del Piano.
  7. L’eventuale cessione dell’azienda deve prevedere un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali. In tutte le ipotesi di cessione deve essere garantita la continuità produttiva dell’azienda, la piena occupazione di lavoratrici e lavoratori e il mantenimento dei trattamenti economico-normativi. Nelle ipotesi in cui le cessioni non siano a favore dello Stato o della cooperativa deve essere previsto un controllo pubblico sulla solvibilità dei cessionari.
  8. Il mancato rispetto da parte dell’azienda delle procedure sopra descritte comporta l’illegittimità dei licenziamenti ed integra un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970

 

Riteniamo che una normativa fondata su questi otto punti e sull’individuazione di procedure oggettive costituisca l’unico modo per dare attuazione ai principi costituzionali e non contrasti con l’ordinamento europeo. Come espressamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia (C-201/2015 del 21.12.2016) infatti la “circostanza che uno Stato membro preveda, nella sua legislazione nazionale, che i piani di licenziamento collettivo debbano, prima di qualsiasi attuazione, essere notificati ad un’autorità nazionale, la quale è dotata di poteri di controllo che le consentono, in determinate circostanze, di opporsi ad un piano siffatto per motivi attinenti alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’articolo 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE

Riteniamo altresì che essa costituisca un primo passo per la ricostruzione di un sistema di garanzie e di diritti che restituisca centralità al lavoro e dignità alle lavoratrici e ai lavoratori.

 

26.                     PROCESSO DEL LAVORO SPESE DI GIUSTIZIA

 

Un tema che vale senz’altro la pena di affrontare è quello delle spese di giustizia nel processo del lavoro, per stimolare una riflessione della magistratura sull’argomento.

Sin dal 2009 è stato reintrodotto l’obbligo della condanna alle spese per il soccombente senza eccezioni, con l’obiettivo manifesto di deflazionare il contenzioso. Il legislatore del 2014 ha condizionato la compensazione delle spese alla sussistenza di due dati netti: la assoluta novità della questione trattata; la novità giurisprudenziale su una questione dirimente .

La sentenza della Consulta n. 77/2018 che ha reintrodotto la possibilità di compensare le spese per gravi ed eccezionali motivi non ha comportato alcun mutamento di rotta tra i giudici del lavoro che continuano, a condannare puntualmente i lavoratori soccombenti a rimborsare le spese ai datori di lavoro.

L’effetto empirico indiscutibile di tutto ciò è che dal 2014 non c’è una causa (tranne rarissime eccezioni) in cui il lavoratore soccombente non  viene condannato alle spese.

In questo contesto, è però evidente il differente impatto delle spese di soccombenza per il datore di lavoro, che può scaricarne il costo, e che 99% è assicurato per le vertenze legali, rispetto ad un lavoratore per il quale le spese di giustizia sono una perdita secca di un budget necessario alla sopravvivenza.

Un cambio di rotta non può che passare, in assenza di modifiche legislative, da una profonda riflessione ed una presa di coscienza dei magistrati in ordine alla effettività dell’accesso alla tutela giurisdizionale, ed alle conseguenze dei loro dispositivi, sempre più frequentemente sfavorevoli ai lavoratori, salvo cause temerarie, ritorsive, vendicative.

Il rischio di lite è peraltro gestibile dal datore ricorrendo ad una assicurazione legale, che rientra nella gestione del rischio di impresa, mentre sono insostenibili per un lavoratore che venga condannato a pagare l’equivalente di 10 mesi di retribuzione che gli serve per sopravvivere, tanto più se si tratta di causa di licenziamento.

I Giuristi Democratici sono quindi contrari ad abolire la possibilità di compensare completamente o parzialmente le spese del giudizio.

La proposta è di inserire un ulteriore comma all’art 152 delle disposizioni di attuazione al cpc del seguente tenore:

Nei giudizi promossi dal lavoratore ai sensi degli articoli 409 e ss del cpc,, ove questi goda delle condizioni di esenzione dal pagamento del contributo unificato, nel caso di sua soccombenza le spese sono di norma compensate fatti salvi i casi di cui all’art 96 comma 1 cpc.

Nel caso in cui il Giudice per motivate ragioni ritenga di non potersi discostare dal principio di soccombenza, sarà tenuto ad attenersi ai valori minimi di cui al dm 55/2014 e successive modificazioni

 

27.                     PRECARIATO NEL PUBBLICO IMPIEGO

a) Premessa

Il precariato nelle pubbliche amministrazioni è frutto di molteplici forme di lavoro flessibile i cui limiti e regole sono quasi sempre superati e sanati da successive procedure di stabilizzazione, in presenza di determinati requisiti.

  Le procedure di reclutamento del personale precario e le aspettative di stabilizzazione costituiscono rilevanti bacini clientelari e blocco di concorsi pubblici per l’accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato ex art. 97 Cost..

Sarebbero, pertanto, auspicabili riforme legislative volte ad espungere dall’ordinamento ogni tipologia contrattuale che non garantisca parità di accesso al pubblico impiego, in ossequio al principio di imparzialità della P.A. e diritto alla stabilità del posto di lavoro.

 Nel tempo si sono resi necessari interventi legislativi, anche su impulso della Magistratura contabile, per rendere quantomeno trasparenti e imparziali i criteri di selezione del personale precario nelle pubbliche amministrazioni (come l’obbligo di procedere a selezioni pubbliche anche per l’assunzione delle società partecipate e in house).

 

b)I contratti ex art 110 tuel

Permane nel Testo Unico Enti Locali (D. Lgs. 267/2000) una forma di contratto ex art. 110 con il quale gli enti locali possono conferire incarichi di responsabili dei servizi e uffici, qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione.

Secondo l’art. 110 D. Lgs. 267/2000 e succ. mod. e int. “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato. Per i posti di qualifica dirigenziale, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi definisce la quota degli stessi attribuibile mediante contratti a tempo determinato, (…). Fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire, gli incarichi a contratto di cui al presente comma sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico.

  1. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. (…). Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. (…)
  2. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. (…).
  3. (…). 5. (…).
  4. Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità.

L’incaricato di funzioni di alta specializzazione è stato configurato come una sorta di figura intermedia tra le posizioni organizzative e i dirigenti, ossia come una sorta di super posizione o sub dirigente. Molte amministrazioni locali hanno applicato ed applicano l’articolo 110 del Tuel non come norma assolutamente eccezionale, posta a rimediare in modo transeunte a mancanze di professionalità da acquisire, poi, stabilmente nel rispetto dell’articolo 97 della Costituzione, ma, al contrario per aggirare l’obbligo di concorso, ed assumere per chiamata diretta, intuitu personae, dirigenti a loro graditi.

In particolare, il ricorso al contratto ex art. 110 TUEL è spesso utilizzato, anche nei piccoli enti, laddove si manifesti un contrasto tra l’Amministrazione ed il dipendente, titolare di posizione organizzativa (quasi sempre dell’Area Tecnica), per cui, come una sorta di spoil system il dipendente viene sostituito da un dirigente esterno di esclusiva fiducia del Sindaco.

Detta sostituzione costituisce spesso l’inizio di percorsi mobbizzanti nei confronti di dipendenti, ai quali viene prima revocato l’incarico di posizione organizzativa e poi gradualmente le mansioni della propria qualifica ecc.  

La previsione, introdotta nel 2014, di un limite del 30% non ha certamente scalfito il modo di guardare all’articolo 110, mentre la previsione, sempre inserita nel 2014, di far precedere gli incarichi da una “selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico”, non trattandosi di vera e propria procedura concorsuale, si è sostanzialmente tradotta in acquisizione di curriculum in seguito a pubblicazione di avvisi per pochi giorni, con scelta della persona gradita dal Sindaco- (Le SS.UU. della Corte di Cassazione sent. 04/09/2018, n. 21600  hanno confermato che La controversia in materia di selezione per il conferimento di incarichi di natura direttiva ai sensi dell'art. 110 Tuel è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, difettando tale procedura dei requisiti del concorso e connotandosi, per contro, per il carattere fiduciario della scelta da parte del sindaco, nell'ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei sulla base dei requisiti di professionalità.)

Peraltro, in considerazione della natura prevalentemente “fiduciaria” degli incarichi che possono avere anche la durata del mandato sindacale, il legislatore ha escluso tali contratti dai percorsi di stabilizzazione, determinandosi un ulteriore genere di precariato.

E’ necessario, pertanto, nell’ambito di progetti di riforme contro ogni lavoro precario, ivi compreso quello maturato nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, il cui abuso non è assistito dalla garanzia della conversione del rapporto a tempo indeterminato, intervenire a livello normativo abrogando l’art. 110 TUEL, riportandolo nell’alveo della normativa dei contratti a tempo determinato preceduto da concorso pubblico.

 

c) Problemi di coordinamento del quadro normativo dopo il Decreto Dignità

Il testo del decreto-legge recante disposizioni urgenti <<per la dignità dei lavoratori e delle imprese>> prevede all’art. 1, comma 3, che la disciplina normativa di cui agli articoli 1, 2 e 3 non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali <<continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore>> del decreto “Dignità”. La disposizione introdotta con lo scopo di chiarire l’estensione del campo di applicazione della riforma non ha risolto i numerosi dubbi interpretativi determinati dalla stratificazione degli interventi legislativi con riguardo alla regolazione del rapporto di lavoro atipico/precario alle dipendenze della P.A..

 

d) Sulla causalità dei rapporti/contratti

Vi è un problema di coordinamento ed armonizzazione tra le disposizioni del Jobs Act, il Decreto Dignità e l’art. 36 TUPI.

Il Decreto Dignità ha inteso porre limitazioni, anche se molto parziali, nel settore privato al ricorso al contratto a termine (che resta atipico rispetto alla forma comune del contratto di lavoro di cui alla disposizione – preambolo dell’art. 1 D. Lgs. 368/2001) reintroducendo l’obbligo di specificazione della causale per i contratti di durata superiore ai dodici mesi e nelle ipotesi di rinnovo e proroghe che superino detta durata.  Intervento modificativo della precedente disciplina che, illogicamente, è escluso per gli stessi contratti atipici con le pubbliche amministrazioni.

 Non si comprende la ragione di tale scelta del Legislatore che, da un lato, pare intenda ridurre l’abusivo utilizzo di prestatori precari e, dall’altro, consente alle P.A. di farvi ancora incontrollato ricorso.  Opportuno, quindi, un intervento legislativo abrogativo del citato comma 3 art. 1 D.L. 87/2018 e introduttivo di una disposizione modificativa della disciplina dei contratti atipici / precari con le pubbliche amministrazioni, introducendo la causalità/ragioni giustificative del ricorso agli stessi contratti così da armonizzare il nuovo impianto normativo con i limiti e le condizioni/modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35 TUPI.

 

e) Sulla decadenza

Problema di coordinamento/armonizzazione vi è anche con riferimento alla disciplina della decadenza per le impugnazioni/contestazione dei contratti atipici nella pubblica amministrazione. Infatti, sempre il citato comma 3 dell’art. 1 D.L. 87/2018 nell’escludere l’applicazione delle disposizioni modificate ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni include anche quella apportata all’art. 28, comma 1 D. Lgs. 81/2015 (termine decadenziale da 120 giorni a 180 giorni) così ingenerando nell’interprete la possibile convinzione che anche i contratti con le PP.AA. soggiacciono a termine decadenziale nonostante la preclusione legislativa alla “conversione2 dei contratti di cui all’art. 97 Costituzione e all’art. 36 TUPI.

L’introduzione del termine decadenziale da parte del legislatore del 2010 rispondeva all’esigenza (più dal lato del datore/imprenditore) di ottenere in tempi ragionevoli la definizione di un contenzioso incidente (con l’eventuale conversione del rapporto/contratto a tempo indeterminato) sul proprio organico aziendale.

Alla luce di quanto sopra, una lettura finalistica delle norme in esame porterebbe ad escludere l’assoggettabilità al termine decadenziale dell’impugnazione del contratto atipico/precario stipulato con le PP. AA.. Di contro, una interpretazione letterale della succitata disposizione (comma 3 art. 1 D.L. “Dignità”) potrebbe condurre all’applicazione dei termini decadenziali anche ai contratti atipici nel settore pubblico.

Difficoltà interpretative evidenti, dunque, tra l’altro manifestatesi in giurisprudenza con divergenti orientamenti. Solo da ultimo, la Suprema Corte (con sent. n. 5740/2020) ha precisato che il risarcimento del danno in tema di pubblico impiego ha natura contrattuale ed in quanto tale non è assoggettabile a termini di decadenza soggiacendo all’ordinario termine prescrizionale. Anche sul punto sarebbe auspicabile un intervento normativo con la chiara esclusione di termini decadenziali in tema di impugnazione di contratti atipici / precari stipulati con le PP.AA.

 

28.                     IL RAPPORTO DI LAVORO NELLE COOPERATIVE

 

Ci sono alcuni datori di lavoro che hanno una veste formale “particolare” adottata con l’interesse primario di accedere a facilitazioni di tipo fiscale e tributario. Nascono da tradizioni sociali, storiche e geografiche del nostro Paese e hanno conservato nel tempo regimi peculiari e privilegiati.

Pensiamo alle Associazioni Sportive Dilettantistiche, da ultimo alle Società Sportive Dilettantistiche, a forme svariate di Associazioni anche di volontariato, al mondo delle Cooperative, dei loro Consorzi e in particolare le Cooperative di produzione lavoro.

Tutte forme astrattamente virtuose, fortemente volute e tutelate in Costituzione (non sempre realizzate),  tradite dalla voracità imprenditoriale.

Esimendoci da una analisi – di fatto e giuridica - sull’acritico favore legislativo ed economico a loro riservato, in questa sede preme evidenziare come, all’interno di queste forme di organizzazione economica, anche il rapporto di lavoro che si istaura con chiunque a qualunque titolo “si obbliga mediante retribuzione” e in diverse forme presta “il proprio lavoro intellettuale o manuale”, perde le originali e ormai residue forme di tutela, garantite al classico rapporto di lavoro di natura subordinata. Cooperative come forme, neanche tanto mascherate ma sicuramente impunite, di caporalato o come forme di intermediazione di manodopera scomposte dentro strutture di appalto e subappalto (il)lecito.

E’ necessario ripensare e individuare un nucleo indissolubile di diritti, garanzie e norme che garantiscano a chiunque lavori le medesime tutele. Invero l’esperienza anche professionale ci ha dimostrato come il sovrapporsi di normative non armoniose e l’incoerente applicazione giurisprudenziale, aggravino l’esercizio del diritto e dei diritti e pongano sempre il lavoratore in una posizione di sudditanza e fragilità giuridica come di sminuita tutela economica.

La legge 142/2001 aveva disegnato il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Cooperative distinto dal rapporto associativo che, in genere, si sommano e aveva tentato di valorizzare il ruolo del lavoratore. In realtà, il rapporto di lavoro rimane sempre assoggettato e condizionato a quello associativo come già indicava la circolare del Ministero del lavoro nr. 10/2004. Nella concretezza dei fatti e nell’evoluzione normativa (L. 30/2003) il lavoro alle dipendenze di una cooperativa è una delle forme più sottopagate di lavoro, quasi esclusiva di una manovalanza meno qualificata, priva di molti dei diritti riservati “agli altri lavoratori”. E’ un rapporto di lavoro più instabile perché risente del ricatto della condizione di socio e delle obbligazioni economiche nascenti dal rapporto associativo.

In genere il socio non partecipa all’attività associativa ma subisce le conseguenze delle scelte delle assemblee a cui di rado partecipa proprio per la mistificazione della vita sociale.

Si rende necessario, quindi, intervenire a livello normativo per ridimensionare il sistema di sfruttamento lavorativo che le Cooperative, anche sociali e di produzione e lavoro, hanno agevolato con una serie di correzioni volte ad assicurare:

1) Applicazione chiara e univoca dei regimi giuridici di socio e di lavoratore, eliminando l’interdipendenza ai fini dell’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro,

2) Solidarietà sicura tra committente e cooperativa per retribuzioni, contribuzioni, diritti del lavoratore;

3) Parità di trattamento retributivo e normativo tra lavoratori di cooperativa e lavoratori del committente;

4) Regole uniformi di sicurezza sul lavoro per tutti i soggetti che lavorano, in qualsiasi veste, in un medesimo ambiente di lavoro;

5) Possibile indagine di merito sulla genuinità delle esternalizzazioni e cessioni di rami d’azienda da parte dei lavoratori;

6) Sistemi di contenimento per il ribasso dei costi del lavoro

7) Forme di garanzia per gli accordi tombali con il lavoratore tra un cambio di appalto e l’altro.

8) Maggiore chiarezza sui CCNL applicabili

9) Rafforzamento dei diritti dei soci di controllo delle scelte dell’amministrazione sociale, anche su un piano processuale.

10) Possibilità rafforzate di controllo contabile e di nomina e/o variazione della compagine amministrativa in seno alle cooperative.

 

29.                     IL DIRITTO DI CITTADINANZA SOCIALE

DIRITTO AL LAVORO E REDDITO

 

a) Premessa

Il processo di trasformazione che è avvenuto negli ultimi trent’anni nel mondo del lavoro, a causa dell’introduzione delle nuove tecnologie, sembra produrre un preoccupante calo occupazionale.

Negli anni 'Novanta, Jeremy Rifkin affrontava il tema della terza rivoluzione industriale nel suo "La fine del lavoro"[89]. Da allora il lavoro ha continuato, progressivamente, a diminuire. L'introduzione delle nuove tecnologie ha radicalmente spazzato via una serie di lavori, ancora esistenti pochi anni fa.

Il processo è quello di desertificazione crescente, che interessa soprattutto i profili lavorativi meno qualificati.

Di recente, sul tema, sono state pubblicate, sul piano internazionale, talune ricerche di grande importanza.

Nel 2013 due ricercatori dell'Università di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne[90], hanno calcolato che il 47% dei posti di lavoro nel mercato americano rischiano di sparire nei prossimi vent'anni a causa dell'automazione. Secondo Mark Haefele[91] il dato va esteso a tutte le economie avanzate.

Secondo tesi più ottimistiche[92], nei paesi che investono maggiormente nella produzione tecnologica sarebbero ‘solo’ il 9% i lavoratori a rischio ‘sostituzione’.

E infatti, tali paesi generano posti di lavoro nel campo delle tecnologie informatiche, che, entro una misura ben determinata, sostituiscono i posti di lavoro perduti. In ogni caso, anche la tesi più ottimistica, restituisce uno scenario drammatico, soprattutto in paesi che già in partenza non godevano della piena occupazione.

Ad esempio, sino a pochi anni fa, tutti gli studi legali, anche quelli più piccoli, avevano un segretario che provvedeva a battere a macchina e a svolgere incombenze in tribunale. Oggi, con pc, email, Pec e processo telematico solo gli studi più grandi, di fatto, hanno il supporto di un segretario (e comunque ne hanno ridotto il numero rispetto a quindici anni fa). In Italia, quindi, il settore degli studi legali (e professionali in genere) ha espulso del lavoro non meno di 50.000 figure professionali, che non sono state rimpiazzate in nessun modo.

Si riduce drasticamente il lavoro nelle banche (soppiantato dall’home banking), nelle compagnie assicurative (le assicurazioni ormai sono pressoché tutte on line), nelle agenzie di viaggi, nei giornali, etc.

Il meccanismo prefigurato dagli economisti liberisti, nel contempo, mostra tutti i suoi limiti. Si riteneva che a un aumento della produttività, conseguisse un calo dei prezzi, e un conseguente aumento della produzione e vendita, che compensava la accresciuta produttività marginale. Non è stato così (o comunque è avvenuto in minima parte). Si pensava che si potesse agire sulla leva monetaria e del tasso di interesse; ma ciò non ha sortito i frutti sperati[93].

Occorre poi accennare a due fenomeni connessi: il calo delle ore lavorate, e l’aumento del part time[94] (spesso connesso a lavori non garantiti), e una sorta di esplosione del lavoro informale (si pensi ai ciclofattorini, anche detti rider, o a piattaforme come Uber)[95].

Per effetto di tutto questo, in Italia, il reddito medio delle famiglie (a prezzi costanti) nel 2016 era inferiore dell’11% rispetto al reddito medio del 2006[96]. Inoltre, è aumentata la quota di persone a rischio di povertà, ossia che dispongono di un reddito-equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano: si tratta del 23%[97].

Il tutto, in un quadro in cui il PIL italiano è in effetti, nel 2016, inferiore solo del 3% a quello del 2006[98].

Insomma, il reddito delle famiglie si abbatte e la povertà cresce notevolmente, anche se il PIL non è decresciuto in modo rilevante. Si è quindi verificato l’effetto prefigurato dall'economista francese Thomas Piketty ("Il capitalismo del XXI secolo"[99]): la ricchezza mondiale ed italiana si accumula sempre di più nelle fasce alte del reddito, schiacciando il ceto intermedio (in particolare quello a bassa qualificazione) e lasciando la fascia più povera della popolazione senza redditi e inesorabilmente senza lavoro[100]. Nel contempo si assiste alla diminuzione dei lavoratori permanenti, a vantaggio di forme lavorative sempre più precarie e volatili[101].

Per quanto attiene alle possibili contromisure, occorre in primo luogo confutare la tesi finora dominante. Quella per cui il sistema genererà nuove utilità tali da assorbire tutti i disoccupati, oppure che sia sufficiente agire sulla leva dei costi del lavoro.

In primo luogo occorre capire che oggi il costo del lavoro incide ben poco sugli utili. Google o Amazon non hanno alcun problema a pagare bene quei pochi lavoratori che impiegano, stanti gli enormi margini di utile. In un quadro in cui, per la grande parte dei beni, i costi del lavoro incidono in parte minima sui costi, la riduzione di un punto dei suddetti costi produce un effetto irrisorio[102].

Le analisi dei liberisti, che vantano una presunta modernità, sono ferme all’Ottocento.

Ma anche le analisi della scuola keynesiana mostrano i loro limiti. Per molti aspetti le analisi sono ferme a un tempo in cui i bisogni primari degli esseri umani erano virtualmente infiniti, insoddisfatti e l’ambiente sembrava senza limiti di sfruttamento.

Oggi si deve comprendere che la via d’uscita dalla crisi non può essere quella di un aumento indiscriminato della produzione di beni. Se la produttività del lavoro aumenta di dieci volte, per compensare i posti di lavoro sarebbe necessario aumentare (almeno) di dieci volte la produzione[103]. Ma ciò è impensabile per diverse ragioni. Il sistema non è in grado di assorbirli, l’ambiente naturale non lo sopporterebbe.

Ciò che va compreso è che il livello di servizi e prestiti bancari (da cui le banche traggono i loro utili) non dipende affatto dal costo dei servizi medesimi (bensì dal livello dell’economia, dal saggio di interesse etc.). Stesso dicasi per gli studi professionali: il numero di cause che patrocina un avvocato non dipende dalle tariffe (ma dall’indice di conflittualità giuridica, dalla chiarezza delle norme etc.), e lo stesso vale per i progetti che disegna un architetto (che sono funzione della necessità di costruire nuovi immobili).

Inoltre l’espulsione dei lavoratori casellanti autostradali, dovuta all’automazione, non solo non genera né una diminuzione dei prezzi, né un aumento dei viaggi autostradali, ma soprattutto —anche ove i viaggi stessi aumentassero— non genera in ogni caso un aumento di posti di lavoro, perché si arriva ad un punto di progresso tecnologico in cui anche l’aumento macroscopico di vendita del bene o del servizio non genera alcun posto di lavoro (in quel determinato comparto). Si arriva ad un punto di sviluppo tecnologico, in cui è la stessa tecnologia a far fronte a un aumento di produzione (ed, a monte, da un aumento della domanda aggregata). E dunque saranno sempre i caselli automatizzati, ad assorbire il maggiore traffico, e sarà sempre l’home banking a gestire le aumentate transazioni bancarie.

Possiamo definirla la trappola dell’automazione.

Solo in relazione a beni ad alta incidenza di manodopera (sempre meno), una diminuzione dei costi genera un corrispondente calo dei prezzi e un aumento della produzione sufficientemente compensativo in termini occupazionali. Se però la produzione è funzione della domanda (come dimostrato da Keynes), e la domanda di un medesimo bene non è infinita, ma giunge a saturazione, dall’aumento di produttività non può che derivarne una disoccupazione strutturale, come la recente storia si è incaricata di dimostrare.

Inoltre, anche le politiche di stampo keynesiano, di sostegno alla domanda, perdono parte della loro efficacia in un mondo globalizzato[104].

Occorre allora giungere a una conclusione.

Il liberismo funziona discretamente bene nella prima fase, di soddisfazione di alcuni bisogni materiali primari. Poi tende a iper soddisfare sempre i medesimi bisogni, consumando oltremisura l’ambiente. È un discorso che porterebbe lontano. Ciò che conta è che non si può moltiplicare per dieci la produzione di hamburger per assorbire l’impatto delle nuove tecnologie.

Quindi, l’iper-produzione di beni privati ad alto consumo ambientale deve essere sostituita dalla produzione di beni sociali compensativi.

 

b) Il nuovo patto sociale

 

Nei grandi momenti di crisi le risposte sono solo due, o accettare il declino civile, o rilanciare e provare ad evolversi. Il dramma che la storia insegna è proprio questo: non c’è una terza via, chi non si evolve, declina irrimediabilmente.

La nostra società ha drammaticamente cessato di credere nelle proprie possibilità di evoluzione.  Curiosamente, questo avviene proprio quando la tecnologia ci permetterebbe di fare un notevole salto.

Occorre dunque uno sforzo collettivo, che impegni tutte e tutti, nessuno escluso. Ciascuno deve conferire in misura maggiore alla collettività. L’incremento dei beni comuni, tornerà a giovamento di tutti.

L’obiettivo è un più alto punto di convergenza, un più elevato livello di civiltà ed un nuovo patto sociale.

Il principio guida è collettività contro egoismo sociale.

 

c) Il diritto al lavoro

Art. 4 Cost.: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

È giunto il momento di dare una lettura diversa di questo fondamentale principio costituzionale.

L’interpretazione tradizionale afferma che lo Stato deve limitarsi a favorire condizioni economiche e giuridiche generali che possano poi spontaneamente creare posti di lavoro.

Sotto questo profilo, la prima conclusione che deve trarsi, dall’analisi condotta in precedenza, è che è evidente che l’orario di lavoro va limitato, per consentire la generazione di nuovi posti di lavoro.

Questa proposta, tuttavia, vuole introdurre un elemento ulteriore, perché si basa sull’assunto per cui, se il mercato spontaneamente non crea sufficienti posti di lavoro, deve essere lo Stato ad intervenire in modo diretto, per combattere la disoccupazione strutturale.

Interessanti anche le tesi del BIN, Basic Income Network Italia, che sostiene la corresponsione a tutti di un reddito base, tale da liberare definitivamente le persone dallo stato di bisogno.

La presente proposta vuole rappresentare una sintesi e un passo in avanti. Oltre al diritto al reddito va, infatti, riconosciuto un diritto al lavoro.

Sotto il profilo del diritto, il lavoro è un modo fondamentale di esplicazione della personalità. Il lavoro è il contributo dell'individuo alla costruzione della società in cui vive. È una fondamentale modalità relazionale. Nel lavoro l'individuo cresce, si forma, si organizza. Hegel afferma che «L'uomo è l'essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso».

 

d) La proposta

Si tratta di una proposta radicale, con forte valenza simbolica: lavoro per tutte e per tutti[105].

Non come promessa generica, o come mero diritto politico, ma come diritto soggettivo. E dunque del diritto al lavoro come diritto di credito, nei confronti dello Stato, azionabile in giudizio.   

Chiunque deve potersi presentare e dire: «Io domani voglio lavorare». E lo Stato, per legge, deve dare un lavoro.

Come detto, l'articolo 4 della Costituzione afferma: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».

Occorre poi superare la contrapposizione tra lavoro e reddito.

Il reddito è temporaneo, nel tempo necessario per la riqualificazione e la ricerca del nuovo lavoro. Non solo. Si può senz’altro immaginare, nel quadro di un più elevato livello di civiltà, che alla persona sia conferito un reddito anche solo per godere di una pausa, per riposo, per un lungo viaggio, per occuparsi di qualcuno o per scrivere un romanzo o una sinfonia.  L’aumento di produttività, dovuto alla tecnologia, oggi ci permette tutto questo, e dobbiamo credere e volere fortemente una società che garantisca a tutti una vita più umana. 

Tuttavia il reddito resta una soluzione di passaggio, ma non appare una risposta al cambiamento epocale che abbiamo vissuto.

Il centro della proposta è il diritto al lavoro.

Occorre quindi superare la posizione tradizionale, che non vede nel diritto al lavoro attribuito dalla Costituzione un diritto “perfetto”, ossia, uno di quelli azionabili in sede giudiziaria. Secondo la lettura data finora, il diritto al lavoro, come gli altri diritti sociali è “azionabile in sede politica attraverso il processo democratico". Insomma, il cittadino ha solo la via elettorale per ottenere la speranza di un posto di lavoro. La responsabilità di un sistema pubblico che, alla prova dei fatti, non risolve il problema della disoccupazione, resta sempre solo politica.

A fronte del cambiamento epocale che stiamo vivendo, quella canonica è una risposta insufficiente, e va cambiato il paradigma.

Il lavoro è (diventa) un diritto soggettivo pieno - perfetto- azionabile in ogni sede. Debitore è lo Stato, creditore chi non lavora. 

Fondamento giuridico, peraltro, rinvenibile nella stessa Costituzione, non solo nel primo comma dell'art.4, ma soprattutto nel secondo, laddove è scritto 

"Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società"

Se come cittadino ho anche il dovere di svolgere una 'attività o funzione', vuol dire che lo Stato mi deve mettere in condizione di adempiere.   

Altro punto essenziale: il lavoro cessa di essere solo un mezzo per produrre altri beni sociali, ma è esso stesso bene sociale che deve essere prodotto dalla collettività.  

Si è constatato che il sistema capitalista, senza intervento pubblico, non produce spontaneamente sufficiente lavoro per tutte/i.

Lo Stato, quindi non si deve limitare ad usare lavoro come un mezzo di produzione, ma deve intraprendere iniziative volte, semplicemente, a crearlo. E’ questo il cambio di prospettiva. 

Anche il lavoro deve essere un servizio pubblico.  Garantire ai cittadini il benessere attraverso la possibilità di esplicare le loro potenzialità attraverso attività di contribuzione al bene pubblico.

Come conseguenza di questo processo lo Stato otterrà anche altri beni pubblici come effetto del lavoro È il cuore della proposta.

Il lavoro di cittadinanza è un lavoro di (almeno) 5/6 ore al giorno, pagato con una somma tale da permettere non solo la mera sopravvivenza, ma un relativo agio (e con importi, comunque, non inferiori a quelli da CCNL).

Nel momento in cui il lavoratore fa richiesta, sceglie il proprio percorso di lavoro, sulla base di aspirazioni, competenze e necessità. Le competenze possono essere acquisite anche nel percorso formativo che egli stesso sceglie. Questo significa che occorrerà tenere conto delle inclinazioni di ciascuno.

Facciamo degli esempi concreti per comprendere meglio. Il violinista suonerà nella stanza del museo, gli attori formeranno una compagnia teatrale che girerà per le scuole per far conoscere la tragedia greca e latina. Altri terranno aperte le scuole dopo l’ora di pranzo, permettendo agli studenti di fermarsi a studiare e ad altri lavoratori di dare delle ripetizioni.

Il nodo essenziale deve, però, essere: le prestazioni di lavoro non devono sostituire lavori o servizi esistenti, ma creare una nuova utilità sociale, che prima non esisteva. Un’utilità che andrà a beneficio dei cittadini, ma che favorirà anche il sistema produttivo. In modo partecipato e, per quanto possibile, autogestito, s‘individuano bisogni sociali ed ambientali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative. Un esempio potrebbe essere quello di proporre di tenere aperto un bene culturale, o ambientale, fino a quel momento non fruibile.

Ma va dimenticata la ricerca speculativa, la produzione artistica, musicale e culturale in genere. 

A questo punto, il lavoratore chiamato potrà rimanere nella condizione quanto vuole, anche per tutta la vita, se trova un equilibrio. Lui restituisce alla società più di quello che riceve.

Sia in fase iniziale, sia in fase successiva, il singolo lavoratore o un gruppo di soggetti può presentare progetti, in cui si individuano bisogni sociali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative.

In sostanza, i singoli o i gruppi di lavoratori, potrebbero redigere delle proposte (o delle controproposte) di lavoro, sviluppando quello che oggi viene costruito come il nuovo mutualismo.

Ad esempio: un gruppo di lavoratori sviluppa un progetto di recupero e visite guidate al parco della Marcigliana, fino a quel momento abbandonato a se stesso. O un progetto di apertura giornaliera delle case romane di S. Paolo alla Regola, fino a quel momento rimaste chiuse. O un progetto per rappresentazioni teatrali nelle scuole, o per recitare poesie sulla spiaggia di Ostia nelle notti d'estate.

Nel progetto vanno indicati anche costi, tariffe ed utili per il pubblico (biglietto che si può richiedere).

L'attività di organizzazione dei lavori, di approvazione e controllo dei progetti è rimessa ad altri lavoratori di pubblica utilità. Questi stessi lavoratori potrebbero aiutare gli altri a sviluppare progetti di lavoro.

 

e) Il campo di lavoro

 

Si è detto come si debba trattare della valorizzazione di beni e servizi attualmente improduttivi o sotto-utilizzati.

L'obiettivo è quello di generare utilità in attesa di realizzazione e concretizzazione. I beni pubblici "improduttivi" sono, evidentemente, la prima risorsa da sfruttare.

Alcuni esempi.  In primo luogo tutte le occupazioni artistiche, di cui si è detto.  Ci sono moltissimi beni culturali in attesa di valorizzazione e che necessitano di manutenzione. Beni ambientali: parchi, riserve naturali, spesso rimangono chiuse perché possono essere fruite solo con visite guidate. Piano per la formazione ed istruzione, di supporto alle famiglie. Le famiglie sono chiamate sempre più al supporto dei figli che studiano.  Assistenza ad anziani e invalidi; servizi per l'infanzia. Si pensi a un pulmino che prelevi bambine e bambini da casa, conducendoli a scuola e/o viceversa: riduce il traffico e l'inquinamento, aiuta le famiglie. O il classico servizio di "autobus a piedi". Ancora, un servizio di baby sitting collettivo, serale (sempre nelle scuole). Oppure l’istruzione a domicilio ed un grande piano di alfabetizzazione informatica. Formazione nel settore informatico. Realizzazione di Pec, per tutti i cittadini (promessa, ma mai attuata dallo Stato). Valorizzazione dell'usato. Grande servizio nazionale di ritiro e recupero di beni non più utili:  piano per i trasporti alternativi, per le biciclette (vigilanza e riparazione) e per la diffusione di ulteriori mezzi di trasporto sostenibili. Es.: istituzione presso ogni fermata metro e ferroviaria di servizio di custodia (di bici private) ed affitto biciclette. Settore turistico: utile impiegare lavoratori nel settore dell'accoglienza turistica. Informazioni, indicazioni, vigilanza sulle eventuali truffe ai turisti. Settore agricolo e del biologico: alcuni lavoratori potrebbero essere impiegati nel settore. Settore delle energie rinnovabili. Un piano per la residenzialità alternativa. Assistenza aiuto all’inserimento, formazione  per gli immigrati.

 È l’intera gestione del sistema che può essere affidata agli stessi lavoratori di cittadinanza

I campi di intervento sono comunque moltissimi. Sarà poi lo stesso sistema a selezionare ed immaginare altri campi di intervento.

 

f) Il diritto europeo di cittadinanza sociale

La dimensione europea è ineludibile. Solo un insieme politico ampio può garantire la pace nel continente che ha provocato ben due guerre mondiali e può essere in grado di correggere efficacemente le storture e le contraddizioni di cui è responsabile la globalizzazione.

L’Europa oggi è sostanzialmente un incontro tra Stati. Gli Stati nazionali hanno svolto un ruolo storico fondamentale per secoli, oggi non basta più, di fronte ai processi di globalizzazione occorre dare vita a sedi internazionali di governo dei processi finanziari ed economici, altrimenti gli Stati sono destinati a subire i ricatti dei gruppi finanziari ed economici che finirebbero con il dettare le regole.

Senza un deciso passo avanti, proseguendo nella strada attuale, l’Europa è destinata ad implodere. Solo una risposta politica democratica e progressista può ridare un futuro unitario credibile all’Europa, contrastando la svolta a destra e per essere tale deve innovare in profondità istituzioni, regole e politiche dell’Unione.

Occorre quindi democratizzare il progetto europeo, costruendo un sistema istituzionale realmente rappresentativo, che le attuali regole non garantiscono, mettendo il parlamento in grado di esercitare il potere legislativo e un reale controllo politico, finora appannaggio degli stati nazionali.

L’Unione, deve essere trasformata pienamente in una democrazia parlamentare.  L’Europa non può essere solo il luogo dell’incontro tra Stati, ma sede del confronto tra culture e politiche per realizzare un primo grado di reale unificazione. Occorre lavorare da subito per costruire un nuovo campo d’azione istituzionale, politico e sociale, costruendo insieme agli altri europei democratici un’azione per spingere l’Unione Europea ad una profonda inversione delle politiche economiche sociali che non solo abbandoni definitivamente le politiche di austerità ma ponga le necessarie garanzie per uno sviluppo equilibrato di tutto il continente, che abbia occupazione e coesione sociale e accoglienza come pilastri fondamentali.

Anzitutto occorre lavorare per una cittadinanza sociale europea. Occorre andare oltre la carta di Lisbona e l’individuazione dei pur indispensabili diritti fondamentali riconosciuti a tutti i cittadini europei per arrivare a concrete scelte politiche che riconoscano e garantiscano ai singoli cittadini europei i diritti fondamentali (reddito, fisco, lavoro, istruzione, salute, casa, assistenza e previdenza pubbliche, etc.) di cui la stessa Unione deve essere direttamente responsabile in modo unitario.

Dunque il finanziamento del progetto reddito/lavoro di cittadinanza deve gravare direttamente (e non attraverso il corpo intermedio Stato) sul bilancio dell’Unione.

In generale deve affermarsi che i livelli della sanità, dell’istruzione, del sostegno al lavoro e per il lavoro debbono essere obiettivi e traguardi europei, comuni a tutti i paesi. Di conseguenza il bilancio comunitario deve affrontare direttamente alcuni capitoli di entrata e di spesa,  finora lasciati a livello nazionale, in un’ottica di bilancio consolidato a livello europeo.

Il lavoro non può più rimanere un fatto esclusivamente privato, di cui lo Stato si disinteressa, ma bensì un diritto oltre che un dovere del cittadino[106].

 

30.                     REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE

 

a) Premessa

L’introduzione nel nostro ordinamento di un “reddito di cittadinanza”, in concreto destinato anzitutto, anche se non esclusivamente, a disoccupati e inoccupati apre una nuova e probabilmente insperata, o comunque non pienamente valutata, prospettiva di una lotta alla disoccupazione finalmente vittoriosa.

Invero, nella corrente opinione e considerazione, il reddito di cittadinanza costituisce essenzialmente una misura di redistribuzione del reddito con secondari, e per lo più solo sperati, effetti occupazionali laddove invece – ed è quanto cerchiamo di dimostrare con questa nota – consente di redistribuire insieme, e con la stessa intensità e certezza, reddito e occupazione, a patto di saper costruire nuove e positive correlazioni tra concetti ed istituti.

La redistribuzione dell’occupazione costituisce una via obbligata per rispondere in tempi brevi alla domanda: “cosa si può fare qui e subito per ridurre drasticamente la disoccupazione giovanile?” Si porrebbe così rimedio in tempi brevi, e non medio-lunghi o lunghissimi, al dramma sociale della mancanza di lavoro, continuativamente aggravata anche dal progresso tecnologico, senza peraltro negare in alcun modo la contemporanea, parallela necessità di investimenti e politiche economiche che comportino, in progresso di tempo, un aumento assoluto del fabbisogno di forza-lavoro.

La possibile sinergia tra reddito di cittadinanza ed incremento occupazionale sembra peraltro essere sfuggita, fino ad ora, sia ai detrattori che ai sostenitori e promotori dello stesso reddito di cittadinanza ed, invero, i “detrattori” li considerano addirittura concetti agli antipodi, vedendo nel reddito di cittadinanza un istituto essenzialmente assistenziale, di mero trasferimento di reddito verso strati della popolazione certamente poveri e disagiati, ma anche sospettati o indiziati di pigrizia, di tendenza al parassitismo sociale e addirittura di probabili comportamenti simulatori e truffaldini.

Questo ingiusto e pregiudiziale atteggiamento ha in qualche modo impressionato anche i proponenti e sostenitori del nuovo istituto che hanno assunto una posizione, per così dire, “difensiva”, condizionando la percezione del reddito di cittadinanza ad una lunga serie di requisiti ed anzitutto alla soggettiva disponibilità del disoccupato percettore ad accettare, a pena di perdita del beneficio, offerte di lavoro da parte degli uffici ed organismi pubblici operanti nel mercato del lavoro.

Ma il sistema pubblico di regolazione di questo mercato ha sempre dato pessima prova nel procurare ai disoccupati posti di lavoro con la conseguenza che, a parte le intenzioni, e le “grida” circa l’obbligo di accettare le eventuali offerte, resta altamente probabile che per mancanza in concreto di offerta non si vada al di là di una, comunque positiva, misura anti-povertà. Ed invece alla fine, a ben pensarci, con la stessa spesa pubblica si potrebbe ottenere molto ma molto di più, e cioè un lavoro vero per i disoccupati/inoccupati e inoltre parallela riduzione del “tempo di lavoro” con conseguente aumento del “tempo di vita”, per un numero di lavoratori già occupati quadruplo di quello dei disoccupati che verrebbero assunti. La via è essenzialmente quella dei contratti di solidarietà espansivi, che tra breve compiutamente illustreremo.

Occorre, a nostro avviso, adottare questo punto di vista: una volta introdotto nel nostro ordinamento il reddito di cittadinanza, con il conseguente stanziamento nel bilancio statale di una somma sicuramente ingente, il legislatore, senza accorgersene, o quasi, ha anche felicemente creato la provvista per finanziare, senza spese aggiuntive, un reale aumento del numero degli occupati.

Il punto è semplicissimo, addirittura lapalissiano, ma decisivo: ogni posto in più che venisse creato dalla volontaria riduzione di orario accettata da 4 lavoratori già in forza comporterebbe un reddito di cittadinanza in meno da pagare al disoccupato così assunto, il quale godrebbe non già di un sussidio ma di un lavoro vero e di un vero reddito da lavoro normalmente più alto del sussidio stesso.

Tutto il problema di politica sociale e legislativa si riduce, insomma, al riuscire a creare un nuovo posto di lavoro spendendo lo stesso importo che si spenderebbe per corrispondere il reddito di cittadinanza a quel soggetto se restasse disoccupato o inoccupato.

Onde evitare confusione, occorre anzitutto marcare la distanza tra la via che indichiamo della redistribuzione del lavoro e quella che il legislatore ha, invece, prospettato come relazione tra reddito di cittadinanza e crescita occupazionale: l’idea cioè di destinare la parte del reddito di cittadinanza, ipoteticamente in godimento ad un disoccupato, al datore di lavoro che lo assuma, così realizzando un aumento netto del monte ore lavorative della sua azienda.

Vedremo nel paragrafo seguente, spiegando in sintesi la formula (o ricetta) dell’operazione, come ciò sia perfettamente possibile.

 

b) Formule (o “ricette”) per l’occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva.

La via ora ricordata, attraverso cui il legislatore vorrebbe legare il reddito di cittadinanza alla crescita occupazionale, è quella di incentivare direttamente i datori di lavoro all’assunzione, promettendo loro l’importo mensile del reddito di cittadinanza per il tempo di residuo godimento da parte dell’ex-disoccupato ora neo-assunto. Tale via è certo apprezzabile, pur reiterando una tradizionale tipologia di incentivo occupazionale (“soldi pubblici a chi assume”), ma i suoi effetti non potranno che essere limitati. La ricordata misura, infatti, presuppone pur sempre che il datore di lavoro abbia bisogno di forza-lavoro “in più” ossia che sussista nell’azienda un fabbisogno occupazionale superiore rispetto al passato.

Invero, nessun datore di lavoro assume se non ha necessità di lavoro in più, ancorché il posto di lavoro sia in parte “pagato” da contributi pubblici.

La via che indichiamo è diversa, senza escludere quella ora ricordata, perché non presuppone un nuovo ulteriore fabbisogno di ore lavorative, in quanto misura di tipo redistributivo ed i nuovi posti di lavoro, per così dire, “si creano e si pagano da sé” utilizzando la stessa provvista di denaro pubblico stanziata per il reddito di cittadinanza.

L’incentivazione pubblica costituita dal reddito di cittadinanza, invero, va intelligentemente utilizzata in modo, per così dire, “indiretto” o “di sponda”: occorre destinare un importo equivalente a quello del reddito di cittadinanza - che quel disoccupato/inoccupato avrebbe percepito - a quattro lavoratori, già occupati, i quali volontariamente accettino di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giornate, così “aprendo uno spazio” per l’assunzione di quel disoccupato/inoccupato e guadagnando per sé un giorno libero in più alla settimana.

L’importo che sarebbe stato destinato all’erogazione di un singolo reddito di cittadinanza dovrebbe appunto compensare, invece, quei quattro lavoratori “riducenti orario” della ovvia perdita salariale (di 1/5) conseguente alla riduzione dell’orario lavorativo da 5 a 4 giorni settimanali.

Lo strumento negoziale da usare per questa operazione è il contratto di solidarietà espansiva, previsto oggi dall’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, che è un accordo sindacale aziendale nel quale tutta la vicenda può essere convenientemente negoziata e pattuita nei particolari e che è perfettamente invocabile in giudizio nel caso di inadempimenti.

Con il contratto di solidarietà, come è noto, si riduce l’orario di lavoro di un certo numero di dipendenti già in forza: in quelli cd. “difensivi” per fronteggiare crisi aziendali e temporanea mancanza di lavoro e in quelli “espansivi” (che ci interessano) per “creare spazio” all’assunzione di nuovi lavoratori. Tuttavia, la legge vigente (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) prevede compensazioni salariali ai lavoratori, i cui orari vengano ridotti solo con riguardo ai contratti di solidarietà “difensivi” e non a quelli “espansivi”. Senza un’adeguata compensazione salariale lo strumento da noi proposto non funzionerebbe, perché i lavoratori, pur desiderando certamente un giorno libero in più alla settimana e con tutta la simpatia per i disoccupati, non potrebbero permettersi una perdita salariale del 20% (1/5 dello stipendio).

Per converso, però, con una compensazione adeguata vicina al 100% o addirittura totale della perdita si avrebbe una vera e propria “corsa alla riduzione di orario”.

Ebbene, quella compensazione altamente adeguata può derivare proprio dalla finalizzazione al suo pagamento della risorsa finanziaria che sarebbe stata assorbita dal pagamento del reddito di cittadinanza, con la precisazione – che è meglio formulare fin d’ora – che l’attribuzione della risorsa economica ai lavoratori accettanti la riduzione di orario potrebbe avvenire, per motivi anzitutto di semplificazione burocratica, sotto forma di riduzione della trattenuta fiscale IRPEF in busta paga.

Si può, dunque delineare, in via di prima sintetica conclusione, una semplice ma originale formula: per non limitarsi ad alleviare la povertà del disoccupato/inoccupato, ma per garantirgli il lavoro e relativo reddito conviene “giocare di sponda” e destinare la stessa risorsa monetaria (€ 780,00 mensili) non a lui direttamente, bensì alla compensazione salariale di quattro neo-colleghi, i quali, riducendo la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni, creano praticamente ex novo, ed in modo certo, il posto di lavoro che serve.

Con vantaggio di tutti: dello (ex) disoccupato, dei lavoratori riducenti l’orario e dello stesso datore di lavoro, come più sotto si avrà agio di dimostrare.

 

c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta.

Abbiamo ritenuto opportuno, per semplicità ed efficacia di comunicazione, anticipare il nucleo essenziale della nostra proposta, ma nei paragrafi seguenti sarà opportuno o addirittura necessario scendere nei dettagli e nelle esemplificazioni, per meglio spiegarla e dimostrarne la pratica fattibilità.

Bisogna, però, formulare, in via ancora introduttiva, almeno le seguenti avvertenze:

1) quando si parla di destinare ai lavoratori che accettino di ridurre il loro orario settimanale, a titolo di compensazione, il beneficio monetario che sarebbe stato corrisposto al disoccupato come reddito di cittadinanza, ovviamente non si parla di rapporti o negozi giuridici tra soggetti individualmente considerati, ma solo di un confronto di contabilità generale tra diverse partite.

Si vuol dire che per lo Stato è lo stesso pagare al disoccupato Tizio € 780,00 mensili a titolo di reddito di cittadinanza, oppure praticare uno sconto fiscale di € 195,00 mensili a quattro lavoratori, Caio, Sempronio, Mevio e Saturnino, che, riducendo il loro orario settimanale, consentono l’assunzione di Tizio.

Per questo, comunque, non è affatto necessario che i cinque lavoratori si conoscano o siano entrati o entrino in contatto tra di loro.

2) L’unico atto giuridico concretamente necessario, secondo la nostra proposta, è la stipula a livello di singola azienda di un contratto di “solidarietà espansiva” (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) ovvero di un accordo sindacale con il quale viene pattuito, ad esempio, che l’Impresa assumerà cinque nuovi lavoratori, visto che 20 lavoratori già in forza hanno accettato di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni.

3) La proposta può applicarsi non solo alle imprese ma anche alle Pubbliche Amministrazioni, seppur alle condizioni e con le limitazioni che saranno illustrate.

4) Precedenti progetti, ispirati al meccanismo dei contratti di solidarietà espansiva - messi a punto da chi redige questa nota prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza, con l’utilizzo di diversi tipi di risorse economiche per ottenere una provvista da distribuire ai “riducenti orario” - restano in sé validi, ma ormai soprattutto come possibile strumento di completamento e arricchimento della provvista implicitamente creata con il decreto sul reddito di cittadinanza.

Se ne riparlerà, pertanto, nel paragrafo 6. di questa nota, onde formulare un progetto completo.

 

d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo.

Si può, dunque, iniziare l’illustrazione della proposta rammentando alcuni dati e parametri quantitativi necessari per apprezzarne il significato e la portata.

Il primo dato di interesse è costituito dal numero degli occupati e dei disoccupati, visto che gli occupati costituiscono, per così dire, “la provvista” per l’operazione di riassorbimento dei disoccupati tramite la riduzione dell’orario di lavoro settimanale del personale già in forza.

I disoccupati “ufficiali”, cioè i soggetti che si registrano dichiarando la loro disponibilità all’assunzione al lavoro presso i competenti uffici amministrativi, ammontano a circa 2,5 milioni cui va, però, aggiunto un numero difficilmente precisabile di “inattivi”, ossia di persone che non cercano o non cercano più lavoro (essenzialmente per sfiducia), ma lo accetterebbero se ne avessero l’occasione, ed il loro numero può essere stimato, almeno come ipotesi di lavoro, in 1,5 milioni di soggetti e forse di più.

Molti di questi quattro milioni di soggetti, di cui il 30-33% costituito da giovani, versano, ovviamente, in condizioni di povertà e sarebbero, dunque, in grado di candidarsi alla percezione del reddito di cittadinanza.

Passando all’altro fulcro del problema, ossia al numero degli occupati, essi sono calcolati ufficialmente in circa 23 milioni, ma di essi 5 milioni sono lavoratori autonomi, e dei 18 milioni di lavoratori dipendenti solo 15 milioni sono “permanenti”, ossia assunti a tempo indeterminato e quindi immediatamente utilizzabili per i nostri scopi.

Pur con tutte queste limitazioni ed altre diverse, i parametri quantitativi restano confortanti, perché anche nell’ipotesi che la “provvista” degli occupati utilizzabili per la riduzione d’orario scenda, per varie ragioni, all’atto pratico, da 15 a 8-10 milioni di lavoratori e la settimana lavorativa possa (sempre volontariamente) essere ridotta da cinque a quattro giorni, i nuovi posti di lavoro risultanti ammonterebbero a non meno di 2-2,5 milioni, più che sufficienti per riassorbire tutta la disoccupazione giovanile, che costituisce l’obiettivo assolutamente privilegiato dell’operazione proposta.

Altro profilo quantitativo di centrale importanza riguarda la perdita salariale da compensare ai lavoratori accettanti la più volte ricordata riduzione dell’orario settimanale.

Detta perdita sarebbe, in teoria, di 1/5 del salario sia lordo che netto, visto che l’orario viene ridotto da 5 a 4 giornate, e possiamo assumere l’ipotesi di doverla applicare ad un salario medio-minimo, che stando ai principali CCNL, è di circa € 1.300,00 mensili netti, ovvero circa € 1.600,00 lordi, importi i quali, dedotto quel 1/5, si ridurrebbero quindi ad € 1.040,00 netti ed € 1.280,00 lordi.

Si parla, comprensibilmente, di importi previsti per le fasce centrali, operaie ed impiegatizie, degli inquadramenti in qualifiche che contemplano, però, anche qualifiche più basse e più alte con relativi importi che, tuttavia, ben raramente superano i € 2.000,00 mensili, ed interessano solo marginalmente, per le ragioni che si diranno, il nostro problema.

Assumendo, quindi, un importo medio di riferimento di € 1.300,00 netti, la perdita di potere di acquisto da ripianare o da compensare dopo la riduzione di orario sarebbe di € 260,00 netti mensili (1.300/5=260).

La questione diventa, allora, di appurare in qual misura una tale perdita possa e debba essere ripianata o compensata, perché il lavoratore si proponga per la riduzionedi orario o, comunque, la accetti e poi, ovviamente, con quali risorse e modalità realizzarla.

Anche a seguito dei risultati di uno specifico studio demoscopico (realizzato in Emilia Romagna), si può affermare che con una compensazione al 100% l’adesione sarebbe totale, ma che anche con un indennizzo pari ai 2/3 della perdita salariale la netta maggioranza degli occupati interpellati accetterebbe di “passare” alle quattro giornate lavorative settimanali: va precisato che i 2/3 della perdita teorica del 20% del salario significano una riduzione del salario complessivo del 7% a fronte, però, di un giorno libero in più alla settimana.

Vedremo, allora, più sotto in dettaglio come la misura proposta di destinare ai quattro “riducenti orario” l’importo del reddito di cittadinanza (€ 780,00 mensili) che sarebbe andato al disoccupato/inoccupato realizzerebbe già di per sé, una compensazione del 75% della perdita ossia, a fronte della conquista di un giorno libero, una riduzione salariale complessiva solo del 5% dell’intero salario. Con la precisazione, però, che restino possibili e vengano proposte (cfr. paragrafo § 6) misure aggiuntive che potrebbero azzerare quella perdita.

 

e) L’utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell’incremento occupazionale.

Conviene, ora, entrare nel merito dell’operazione, in sé semplice ma richiedente un impegno assiduo delle forze sindacali e sociali, oltre che delle istituzioni: lo strumento operativo è costituito - come detto - dal contratto di solidarietà espansiva di cui all’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, ossia da un contratto collettivo aziendale nel quale il datore di lavoro, da un lato, e le OOSS dall’altro pattuiscono un certo numero di nuove assunzioni in determinate qualifiche (ad es. 10 assunzioni) a fronte di un numero quadruplo di riduzioni di orario da 5 a 4 giornate settimanali (quindi, nell’esempio, 40 riduzioni) volontariamente accettate da altrettanti lavoratori già in forza.

La preparazione, azienda per azienda, dei contratti di solidarietà sarebbe, dunque, per le organizzazioni sindacali un impegno organizzativo e operativo notevole, ma anche di grande soddisfazione, trattandosi di realizzare, in un solo atto, due obiettivi sindacalmente importantissimi, quali nuove assunzioni, da un lato, ed un sostanziale aumento del tempo libero per i riducenti orario dall’altro. Si tratterebbe, allora:

  1. A) di censire, in primo luogo, i lavoratori già in forza all’azienda disponibili alla riduzione di una giornata della loro settimana lavorativa, a fronte della compensazione della perdita salariale, contestualmente risultante da fonti normative e dallo stesso contratto di solidarietà.
  2. B) di censire, per converso ed in secondo luogo, in numero pari a ¼ di quello dei precedenti soggetti, i possibili neo assunti i quali appunto devono essere soggetti disoccupati/inoccupati già titolari o sicuri destinatari di un reddito di cittadinanza.

É poi altamente raccomandabile, per intuibili ragioni di ordine sindacale, economico, sociale ed umano che si tratti di giovani assumibili con contratto di apprendistato, così da fornire anche all’impresa una quanto mai vantaggiosa prospettiva di formazione mirata e di ringiovanimento degli organici.

Tuttavia non si tratta di una condizione esclusiva - saranno invero le parti sociali del contratto di solidarietà a decidere in concreto della tipologia delle nuove assunzioni - neanche sotto il profilo finanziario, dal momento che l’importantissima “decontribuzione” previdenziale dei neo-assunti è prevista sia dalle leggi sull’apprendistato dei giovani, sia comunque dalla normativa sui contratti di solidarietà espansiva per i neo assunti di qualsiasi età che trovino lavoro mediante tale strumento.

  1. C) Di prevedere il coordinamento temporale, in termini di immediatezza o, comunque, di certezza tra le due operazioni di riduzione di orario e di assunzione dei disoccupati/inoccupati già convenientemente selezionati. D) Di prevedere anche eventuali misure aggiuntive (oltre alle fondamentali detrazioni di imposta di cui subito sotto si dirà) per portare possibilmente al 100% la compensazione della perdita retributiva teoricamente subita dai lavoratori riducenti orario: pensiamo, in particolare, a benefici di “welfare” aziendale e ad un contributo regionale di importo finanziario moderato ma di grande valore politico, perché le Regioni dovrebbero essere i soggetti istituzionali promotori, garanti ed anche firmatari dei suddetti contratti di solidarietà espansiva.

Va da sé che al momento della stipula dei contratti di solidarietà dovrebbe essere già vigente la previsione normativa contemplata dalla nostra proposta e che ne costituisce “il motore”, consentendo quel “gioco di sponda” tra reddito di cittadinanza e incentivo occupazionale che, della proposta, è, a sua volta, l’anima.

La previsione, cioè, in sé semplicissima, di una detrazione di imposta, da aggiungere a quelle già elencate all’art. 13 ss. TUIR (Testo Unico Imposta sui Redditi) di € 200,00 mensili (arrotondando da € 780,00 /4=€ 195,00) per quei lavoratori che abbiano accettato la riduzione dell’orario settimanale in ragione e nell’ambito di un contratto di solidarietà espansiva.

Non vi è per il lavoratore alcuna pratica burocratica da espletare, perché sarà il datore di lavoro, avvertendo ovviamente l’Agenzia delle Entrate, a ridimensionare di € 200,00 la trattenuta fiscale mensile in busta-paga.

In questo modo, il lavoratore “recupera” € 200,00 (arrotondamento di € 780,00/4= € 195,00) sui 260,00 che ha perso (sempre su un salario netto di € 1.300,00 mensili) perché il netto corrisposto in busta-paga risalirebbe da € 1.040,00 ad € 1.240,00, ossia solo € 60,00 in meno rispetto al salario (€ 1.300,00) precedente la riduzione di orario, con una perdita salariale complessiva soltanto del 4,6%.

È assolutamente probabile e ragionevole che la grande maggioranza dei lavoratori ben volentieri pagherebbe € 60,00 mensili per avere un giorno libero in più alla settimana, ma anche questo piccolo sacrificio potrebbe essere evitato al “riducente orario” grazie alle “misure aggiuntive” di incentivazione inseribili nel contratto aziendale di solidarietà espansiva di cui tra breve diremo.

Ma il cuore dell’operazione e della proposta consiste nella misura principale ora descritta, la quale evidenzia come con la introduzione del reddito di cittadinanza e dei relativi stanziamenti di bilancio sia virtualmente già pagata la diversa, ma gigantesca e salvifica, operazione di reperire, da subito, l’occupazione per centinaia di migliaia di giovani.

Quei giovani, infatti, non riceverebbero il reddito di cittadinanza cui hanno diritto, bensì qualcosa di meglio, ossia un posto di lavoro con relativo stipendio, poiché con la risorsa finanziaria destinata all’erogazione del reddito verrebbe creato ex novo lo stesso posto di lavoro, finanziando la volontaria riduzione d’orario di quattro dipendenti già in forza all’impresa.

Non era questo il vantaggioso risultato cui pensavano coloro che hanno voluto l’introduzione nel nostro ordinamento del reddito di cittadinanza, ma è ben noto che, storicamente, molte importanti scoperte ed invenzioni sono avvenute “per caso”, a cominciare – potremmo dire - nell’industria farmaceutica…. dalla penicillina e dal Viagra.

 

f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario.

Quanto ora affermato non toglie che per garantire un pieno successo dell’operazione sia opportuno cercare di eliminare anche quel modesto differenziale di € 60,00 mensili calcolato sullo stipendio medio-minimo di riferimento di € 1.300,00 mensili e di estendere l’operazione complessiva anche ai percettori di uno stipendio netto superiore, ad esempio, fino a € 2.000,00 mensili netti. Sono questi lavoratori di alta qualifica che potrebbero essere interessati alla riduzione di orario la quale, però, sarebbe per loro alquanto costosa con conseguente effetto disincentivante: su uno stipendio netto di € 2.000,00 la riduzione stipendiale mensile sarebbe, infatti, di € 400,00 compensata solo per metà (€ 200,00) dalla ricordata detrazione di imposta.

Ovviamente, sopra gli € 2.000,00 di stipendio netto le cose peggiorerebbero ancora ma, a nostro avviso, per questi livelli superiori (impiegati di alto concetto e quadri) l’intera problematica non si porrebbe in concreto, trattandosi, per lo più, di soggetti “in carriera”, non interessati a maggior tempo libero.

Possono, allora, tornare utili per coinvolgere nella riduzione di orario settimanale anche i lavoratori con stipendio netto fino ad € 2.000,00 mensili, alcune misure che chiameremo ora “aggiuntive”, ma che prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza costituivano l’asse portante di una proposta sullo stesso oggetto della riduzione di orario con effetti occupazionali nel quadro di contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Entrando nel merito, va anzitutto sottolineato, con riguardo alle fonti di finanziamento di tali “misure aggiuntive”, che il datore di lavoro, nella vicenda del contratto aziendale di solidarietà espansiva, come sopra considerato, realizza comunque un notevole vantaggio economico-finanziario per diminuzione del costo del lavoro.

Infatti, la quantità delle ore complessivamente lavorate non cambierebbe, perché la riduzione di orario dei lavoratori che la accettano sarebbe perfettamente riequilibrata dalle ore lavorate dei nuovi assunti, ma questi ultimi all’impresa costerebbero di meno, perché sui loro salari non andrebbero pagati contributi previdenziali (ai sensi dell’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015 e/o ai sensi della normativa sull’apprendistato), ed in più essi subirebbero la temporanea decurtazione retributiva prevista dal CCNL sotto la denominazione di “salario di ingresso”. Il vantaggio economico del datore di lavoro è così in realtà notevole, trattandosi di € 300,00/400,00 mensili per ogni nuovo lavoratore assunto e sarebbe, allora, equo destinare almeno la metà di tale risorsa ad aumentare la compensazione per i “riducenti orario”: si tratterebbe, in pratica, di un beneficio aggiuntivo di circa € 50,00 pro capite (€ 200,00/4=€ 50,00) che, aggiunti agli € 200,00 di detrazione di imposta, colmerebbero totalmente nella sostanza la perdita stipendiale da riduzione di orario per i percettori di un salario netto di € 1.300,00.

Nel concreto, questo beneficio aggiuntivo potrebbe convenientemente assumere la forma di una voce di welfare aziendale da aggiungersi, normativamente, a quelle già previste ed elencate dall’art. 51 secondo comma, lettera i) del TUIR.

Queste “voci” costituiscono per i lavoratori beni o servizi che dovrebbero acquistare e pagare nel mercato (es.: asili per i figli, abbonamenti a mezzi pubblici, assistenza a parenti anziani ecc..) e che, invece, ricevono gratuitamente dall’Azienda, senza, inoltre, che costituiscano reddito imponibile a fini fiscali.

Il datore di lavoro, invece, può dedurle fiscalmente come costo di lavoro e proprio questa, come si comprende, è la potente molla del “welfare aziendale”: che ciò che per il lavoratore non costituisce reddito imponibile è, invece, per il datore di lavoro, costo deducibile, con evidente vantaggio di entrambi.

La misura incentivante aggiuntiva di “welfare aziendale” potrebbe così, ad esempio, assumere la forma di “voucher” ovvero “buoni acquisto” (ora consentiti dall’art. 51, comma 3 bis TUIR) presso catene convenzionate della Grande Distribuzione con valore, cadauno, di € 50,00 per lavoratori percettori di salario netto fino ad € 1.300,00 e con due “tagli” superiori di € 100,00 ed € 150,00 per stipendi netti rispettivamente fino ad € 1.800,00 e fino ad € 2.000,00, allo scopo di coinvolgere, se lo vogliono, nella riduzione di orario anche lavoratori di più alta qualifica.

Va notato che per i datori di lavoro tali “voucher” o “buoni acquisto” avrebbero un costo di parecchio inferiore rispetto al loro valore facciale, utilizzato e goduto dal lavoratore nell’acquisto di beni e servizi, perché ovviamente i datori e le loro associazioni potrebbero ottenere dei forti sconti dai fornitori, acquistandone ingenti quantità da distribuire poi ai lavoratori “riducenti orario”.

Vale, comunque, la pena di spendere ancora qualche parola sull’argomento, perché, come già detto, sarebbe possibile costruire un progetto o formula di riassorbimento della disoccupazione tramite contratti di solidarietà espansiva anche con l’utilizzo soltanto del “welfare aziendale” e dei risparmi dei costi contributivi e retributivi dei nuovi assunti: ed un progetto di questo tipo è stato anche predisposto prima dell’entrata in vigore del reddito di cittadinanza. Resta pertanto pienamente utile quando si trattasse di assumere disoccupati non destinatari, per vari motivi, del reddito di cittadinanza.

In tale situazione occorrerebbe “surdimensionare” l’utilizzo dei risparmi dei costi sui neoassunti e la corresponsione di parte della retribuzione (fino ad 1/3 della stessa), mediante “voucher” di welfare aziendale, avendo cura che l’importo dei voucher sia superiore a quello matematico della perdita retributiva da riduzione di orario.

Per riprendere il nostro esempio di stipendio netto di € 1.300,00, ridotto teoricamente ad € 1.040,00 per la riduzione di orario settimanale, possiamo immaginare che il contratto di solidarietà aziendale possa ridurre ancora questo netto monetario ad € 800,00, ma attribuendo al lavoratore anche un “voucher” di welfare aziendale del valore di € 450,00, in modo che egli recuperi un potere di acquisto pari ad € 1.250,00.

Quei voucher di € 450,00 non costituirebbero, però, un vero sacrificio per il datore di lavoro, perché di quegli € 450,00, una quota di € 240,00 era comunque dovuta (differenza tra € 1.040,00 ad € 800,00), una quota di € 100,00 corrisponde al risparmio di costo sul nuovo assunto ripartito sui quattro riducenti orario, mentre una quota di € 100,00 corrisponde al presumibile sconto che il datore di lavoro (o associazione sindacale) otterrebbe acquistando i “voucher” all’ingrosso dai fornitori, con l’aggiunta finale di € 10,00 di contributo da parte dell’Ente Regione.

Per il lavoratore “riducente orario” la compensazione del suo potere di acquisto sarebbe così quasi completa, mancando solo € 50,00 mensili, corrispondenti al 4% dell’intero salario, “scotto” del tutto sopportabile per un giorno libero in più alla settimana.

Tutto è molto più semplice, ovviamente, quando, come nella fortunata situazione attuale, le leve finanziarie per pagare o compensare la riduzione di orario sono due e non una: non soltanto, cioè, il “welfare aziendale”, ma anche, ed anzitutto, l’utilizzo “indiretto” o “di sponda”, del reddito di cittadinanza, che consente, tramite detrazione d’imposta di € 200,00 al lavoratore “riducente orario” del nostro esempio, di abbattere la sua perdita retributiva teorica da € 260,00 a solo € 60,00, con amplissima possibilità, poi, di esaminare anche questo residuo tramite una modesta misura di “welfare aziendale”.

Per le suddette ragioni si è voluto prevedere e regolamentare nell’articolato del progetto di legge ambedue le “leve” o strumenti, che prendono la forma delle due modifiche o integrazioni al TUIR (all’art.13 e all’art.51 secondo comma): perché la leva del “welfare aziendale”, che è marginale ed una sorta di “Cenerentola”, quando opera l’altra dell’utilizzo indiretto del reddito di cittadinanza, possa all’occorrenza, quando ciò non avvenga, funzionare anche da sola, seppur con modalità più impegnative e severe.

Occorre, infine, completare il quadro delle risorse finanziarie utilizzabili per la realizzazione delle proposte ricomprendendovi un contributo regionale alle imprese firmatarie di contratti di solidarietà espansiva.

Il suo importo finanziario potrebbe essere modesto, poniamo di € 10,00 mensili rimborsate al datore di lavoro per ogni riducente orario con stipendio netto di € 1.300,00, e di € 15,00 o € 20,00 per fasce superiori, lasciando, magari, al contratto aziendale di solidarietà espansiva di prevederne l’eventuale riversamento ai lavoratori.

Ciò costituirebbe per la Regione una sorta di “titolo legittimante” per sedersi ai tavoli dei contratti aziendali di solidarietà espansiva.

 

g) Una proposta vantaggiosa per tutti.

Ci si può chiedere, a questo punto, quali sarebbero i vantaggi che deriverebbero dalla descritta proposta alle parti protagoniste o comunque coinvolte nella sua realizzazione mediante contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Vediamo le singole categorie:

  1. A) Disoccupati/inoccupati neo-assunti.

Sono, ovviamente, i principali beneficiari, perché finalmente otterrebbero in termini di certezza un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al posto del reddito di cittadinanza cui avrebbero altrimenti diritto.

È importantissimo e fondamentale ribadire che, a stregua di questa proposta, non ci si limita a “sperare” che il datore di lavoro, attratto dall’incentivo economico, voglia dotarsi di un posto di lavoro “in più”, dal momento che invece riduzione di orario e nuove assunzioni costituiscono una sorta di sistema “a vasi comunicanti” disciplinato come evento certo e in termini di obbligo giuridico dal contratto di solidarietà, una volta sottoscritto.

Parliamo qui di assunzioni stabili a tempo indeterminato e questa affermazione non è contraddetta dall’indicazione del preferibile utilizzo, in sede assuntiva, del contratto di apprendistato che, come si sa, resta risolubile ad nutum alla fine dei 2-3 anni di sua durata se non interviene la trasformazione a tempo indeterminato. L’esperienza insegna infatti che quando vi è un “piano di apprendistato” seguito dalle OOSS che lo abbiano versato e sottoscritto in un contratto aziendale, le disdette e mancate trasformazioni sono rarissime, anche in considerazione dei costi di formazione già sopportati dall’impresa.

L’assunzione di giovani disoccupati con contratto di apprendistato sarebbe, naturalmente, vista con molto favore dagli imprenditori che, in sostanza, potrebbero ringiovanire gli organici, realizzando i piani formativi di cui avvertono la necessità.

  1. B) Lavoratori già occupati che riducono l’orario lavorativo da cinque a quattro giornate settimanali.

È la categoria “nuova” introdotta dalla proposta e che costituisce il “motore” o la “provvista” per l’effetto di incremento occupazionale e va subito chiarito che da detta proposta i lavoratori “riducenti orario” ricevono un vantaggio solo di poco inferiore a quello dei disoccupati neo-assunti.

Per la gran parte delle persone che lavorano – ad iniziare, ovviamente, dalle donne lavoratrici – la prospettiva di un giorno libero in più a settimana è tale, letteralmente, “da cambiare la vita”, consentendo al lavoratore ed alla lavoratrice di accedere ad una quantità quasi sconfinata di attività culturali, ludiche, di cura familiare, di volontariato ecc. ecc.

E ciò a fronte di una penalizzazione salariale del 5% soltanto o, meglio ancora, probabilmente senza alcuna penalizzazione.

Al vantaggio proprio dell’acquisto di maggior tempo libero non potrebbe non sommarsi, poi, l’intima soddisfazione di aver così contribuito all’eliminazione della piaga sociale dell’inoccupazione, soprattutto giovanile.

Conviene, però, soffermarsi ancora un poco sugli aspetti tecnico-normativi della proposta, che consentono a questi lavoratori una riduzione economicamente indolore dell’orario di lavoro settimanale.

Tutto quello che occorre, dal punto di vista delle modifiche normative, sono due laconiche, ma cruciali innovazioni ed “addizioni” a due norme del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) ed esattamente all’art. 13, in tema di detrazioni di imposta per i redditi di lavoro, e all’art. 51 secondo comma che elenca le prestazioni di “welfare aziendale”, ossia di beni e servizi erogati al lavoratore, ma che non costituiscono per lui reddito fiscalmente imponibile.

  1. C) Datori di lavoro.

Questa proposta si fa carico, naturalmente, dell’atteggiamento normalmente riottoso ed “allergico” dei datori di lavoro verso prospettive di aumento dell’occupazione e/o della riduzione dell’orario di lavoro nelle (proprie) aziende e lo fa escludendo, anzitutto, che possano essere fondate eventuali doglianze di aumento del costo del lavoro.

Infatti, secondo la proposta, il monte-ore complessivo lavorato e retribuito non varia, essendo il minor orario settimanale dei vecchi assunti che passano alle quattro giornate lavorative settimanali, perfettamente riequilibrato dal lavoro dei nuovi assunti.

Anzi, il costo del lavoro diminuirebbe perché le ore lavorate dai nuovi assunti sarebbero esenti da contribuzione previdenziale (per 3 anni) e temporaneamente retribuite con l’istituto del “salario di ingresso”, di qualche punto percentuale inferiore agli “standard” contrattuali collettivi.

Soprattutto, però, i datori di lavoro avrebbero l’occasione più unica che rara di procedere, in modo sostanzialmente gratuito, alla realizzazione di una strategia di ringiovanimento degli organici e di formazione professionale mirata dei nuovi assunti mediante piani di apprendistato. Certamente questo comporta l’instaurazione di un rapporto duraturo con le Organizzazioni Sindacali, al di là della sola messa a punto del contratto di solidarietà espansiva, ma questo è, secondo l’esperienza, un vantaggio, stante la costante buona riuscita, sia in Italia che all’estero, di piani formativi concordati e controllati d’intesa con le Organizzazioni Sindacali.

Quanto alle eventuali misure aggiuntive di “welfare aziendale”, sarebbero in parte finanziate dai risparmi sul costo del lavoro dei neo-assunti e sarebbe questa l’occasione per tanti imprenditori di avvicinarsi ad una modalità di gestione “fidelizzante” dei rapporti con il personale, ormai adottata con convinzione da molte moderne imprese di medie-grandi dimensioni.

 

31.                     CASSA FORENSE

 

Gli avvocati versano i contributi alla Cassa Forense, questi variano in base al fatturato, con un contributo minimo soggettivo-per il 2020 pari a €2.890,00- al quale si aggiunge il contributo maternità e una percentuale sul volume d’affari IVA dichiarato.

Com’è noto con la riforma del 2013 Cassa Forense ha introdotto il sistema retributivo misto sostenibile aumentando il livello di copertura delle pensioni; le pensioni retributive sono caratterizzate da uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute. In alcuni casi si si tratta di un vero e proprio regalo a carico della collettività, in altri casi la differenza in più tra quanto versato con la contribuzione e quanto incassato con la pensione diventa un vero e proprio intervento assistenziale; si pensi alle numerose pensioni integrate al minimo erogate dalla Cassa Forense.

Un sistema a ripartizione è finanziariamente sostenibile solo quando restituisce al lavoratore, sotto forma di pensione, i contributi versati, capitalizzati ad un tasso non superiore al tasso di crescita dell’economia e spalmati sull’arco di vita probabile desumibile dalle tavole di mortalità pubblicate dall’ISTAT. La differenza costituisce il famoso regalo offerto dal sistema retributivo di Cassa Forense che va ad implementare il già cospicuo debito previdenziale e che viene scaricato tout court sulle generazioni più giovani, molto criticato da più parti.

Ma oltre le critiche suddette, ampliamente trattate, ci preme rilevare un altro problema, di cui si parla poco ma che è destinato ad essere sempre più pressante, esso opera contro i colleghi più deboli che possono fatturare nulla, o che fatturano al di sotto dei €20.000 annui.

Se consideriamo che il reddito medio per il 2019 è stato inferiore ai € 40.000, che i redditi più bassi si sono registrati tra le donne ed i meridionali, che il blocco per l’infezione da covid19, provocherà una crisi economica – forse la più grave degli ultimi cento anni - quindi un’ulteriore flessione dei redditi degli avvocati, il problema si prospetta di notevoli dimensioni.     

Al netto della riduzione per i giovani colleghi, della possibilità di esonero, che per malattia può essere chiesto una sola volta, della possibilità (spesso non riconosciuta) di rientrare nella pensione al minimo, ci troviamo svariati casi in cui se per una grave malattia, per qualche accidente o disgrazia non si riesca a fatturare o si fattura meno di € 20.000 annui, il collega sarà tenuto a versare il contributo minimo soggettivo, magari proprio nel  momento di estrema difficoltà della sua vita, ma l’abominio è nel fatto che questo contributo- versato nella maggior parte dei casi, con grande sacrificio- non verrà considerato ai fini pensionistici.

La disfunzione che inverte i principi assistenziali, va sicuramente rettificata, perché particolarmente odiosa e perché in agguato proprio nei momenti più difficili della vita.

Proposta

 

Si potrebbe ipotizzare l’abolizione dei contributi minimi, anche del contributo integrativo minimo momentaneamente sospeso; tale manovra provocherebbe una modestissima flessione delle entrate della Cassa Forense, ma è intollerabile che una Cassa di previdenza ed assistenza pretenda dai soggetti più deboli, dei contributi che non verranno considerati ai fini pensionistici e favoriranno esclusivamente i soggetti più agiati.

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32.                     SECONDE GENERAZIONI

 

Quando parliamo di seconde generazioni, intendiamo generalmente i figli dei primi migranti nati nel paese in cui i genitori sono emigrati, anche se con questo termine vengono inclusi  anche i figli degli immigrati che sono arrivati nel periodo dell’adolescenza o durante la prima infanzia tramite ricongiungimento familiare. Una tipologia ormai classica è quella proposta dal sociologo Rubén Rumbaut (1997), che distingue i figli dei migranti a seconda della data di arrivo nel paese di immigrazione dei genitori. Egli definisce le seconde generazioni nate nel paese in cui attualmente vivono attraverso una distinzione  così ripartita

  • Generazione 1.75: popolazione che emigra in età prescolare ( 0-5 anni) e svolge l’intera carriera scolastica nel paese di destinazione
  • Generazione 1.50: è la generazione che ha cominciato il processo di socializzazione e la formazione primaria nel paese di origine ma ha completato l’educazione scolastica all’estero
  • Generazione 1.25 soggetti che emigrano dal paese di origine tra i 13 e i 17 anni

L’Italia che può definirsi un paese di recente immigrazione assiste nell’ultimo decennio alla formazione delle seconde generazioni in cui appare prevalente la posizione occupata dalla componente minorile. Secondo i dati forniti dal MIUR “nell’anno scolastico 2016/2017 gli studenti e le studentesse di origine migratoria presenti nelle scuole italiane sono circa 826mila con un aumento di oltre 11mila unità rispetto all’A.S. 2015/2016 (+1,38%). L’aumento è di entità leggermente superiore per i maschi (+5.994; +1.41%) rispetto alle femmine (+5.246; 1,34%) che nel complesso rappresentano il 48% degli studenti con cittadinanza non italiana” ( Fonte Dossier MIUR 2018).

Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, i bambini nell’età compresa tra i 3 e i 5 anni con cittadinanza non italiana residenti in Italia presenti nelle scuole, rappresentano il 77% dei bambini con cittadinanza non italiana residenti in Italia. La scuola primaria, che sembra assorbire il maggior numero di studenti con cittadinanza non italiana ha registrato nell’anno scolastico 2016/2017 l’aumento più̀ consistente di studenti, pari a circa 4.800 unità (+1,63%). Nella scuola secondaria di I grado, l’incremento degli studenti con cittadinanza non italiana è pari a circa 3.900 unità dopo un triennio di costante diminuzione e nella scuola secondaria di II grado gli studenti con cittadinanza non italiana presenti sono circa 192.000 unità, con un aumento del 2,21% (+4.138 unità) rispetto all’anno precedente.

Interessante a tal proposito è la distribuzione delle seconde generazioni che si rivela non uniforme nel territorio italiano e si evidenzia una concentrazione maggiore nell’area del centro-nord, dove il fenomeno migratorio ha assunto una dimensione di stabilità. Secondo un rapporto della Camera dei deputati del 5 luglio 2018  “La regione in cui gli studenti con cittadinanza non italiana incidono di più nel contesto scolastico locale è l'Emilia Romagna, dove quasi il 16% degli studenti non ha la cittadinanza italiana. Seguono Lombardia (14,7%), Umbria (13,8%) Toscana (13,1%), Veneto e Piemonte (13,0%), Liguria (12,3%) e viceversa, la Campania è la regione in cui l'incidenza degli studenti con cittadinanza non italiana è la più bassa a livello nazionale (2,4%) “. ( fonte rapporto Camera dei Deputati L'integrazione scolastica dei minori stranieri , 5 luglio 2018).

Un altro campo che richiede un’analisi approfondita è quello concernente il mondo del lavoro. Nell’ultimo decennio è emerso con chiarezza che l’integrazione socio-economica delle seconde generazioni fosse tutt’altro che un processo lineare e privo di ostacoli come ipotizzato dai primi approcci teorici assimilazionisti. L’approccio assimilazionista sosteneva che il processo di inserimento delle seconde generazioni a differenza dei primi-migranti fosse un processo “automatico” e lineare in virtù dell’acquisizione delle competenze linguistiche e della socializzazione ai valori e ai modelli comportamentali della società̀ ricevente. In realtà, per l’inserimento nel mercato del lavoro sono emersi orientamenti distinti che ci possono far comprendere al meglio questa complessità.

Un primo orientamento, che sembrerebbe a oggi prevalere per alcune specifiche nazionalità, può definirsi tradizionalista, nel quale ci si pone di proseguire la carriera lavorativa iniziata e sviluppata dai genitori una volta arrivati nel paese di destinazione. Un orientamento scelto dalle seconde generazioni che intendono continuare la tradizione lavorativa familiare realizzata dai propri genitori sfruttando il capitale economico, sociale e culturale familiare e le risorse derivanti dal network etnico di riferimento nel paese di residenza.

Un secondo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro è di tipo individualista in cui le seconde generazioni scelgono un percorso formativo e di carriera lavorativa che si discosta dalle scelte familiari e sentono il forte peso delle aspettative lavorative che i genitori si auspicano per i loro figli ovvero di intraprendere ambiziose carriere lavorative, quasi rappresentassero un riscatto sociale della loro condizione economica e sociale. È molto ricorrente in questi casi che i genitori occupano i posti meno prestigiosi e remunerati nella gerarchia occupazionale, e che spesso abbiano vissuto un percorso difficoltoso nel processo di inserimento nella società italiana. Spesso questi giovani sentono non solo di non potere soddisfare tali aspettative, ma anche di non volerle soddisfare perché́ le loro ambizioni sono differenti da quelle familiari in quanto cresciuti e socializzati in un altro contesto socio-culturale. Si tratta di seconde generazioni che intraprendono in opposizione ai genitori un percorso formativo diverso come ad esempio chi sceglie di continuare a studiare raggiungendo alti livelli di istruzione - laurea e dottorato di ricerca - che lasciano presupporre opportunità lavorative più elevate rispetto a quelle dei genitori.

Un terzo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro è quello transnazionalista. Si tratta di seconde generazioni di migranti che sfruttano il proprio capitale culturale che si differenzia dalla popolazione locale e, utilizzando le reti transnazionali, riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro sia nella società in cui risiedono sia in quella da cui sono emigrati i propri genitori..

Un ultimo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro italiano è quello con tendenza all’isolamento con downward assimilation. Si tratta di seconde generazioni di migranti con un minore capitale economico, sociale e culturale derivante dal background familiare. Generalmente provengono da istituti professionali o tecnici oppure non sono riusciti a conseguire il diploma delle superiori. Il rischio è, tuttavia, di rimanere intrappolati in lavori precari, mal pagati con poche o nulle prospettive di carriera (bad jobs). L’inserimento lavorativo diventa oltremodo difficoltoso per coloro che non possiedono ancora la cittadinanza italiana ma solo il permesso di soggiorno.

In questo quadro una delle maggiori barriere nell’inserimento del mercato del lavoro italiano risiede nella difficoltà di ottenere la cittadinanza italiana che, com’è noto, richiede procedure burocratiche molto lunghe ed estenuanti per chi non è nato in Italia. Va però aggiunto che anche le seconde generazioni nate in Italia (2G) ottengono con molta difficoltà la cittadinanza italiana visto che vale il principio dello ius sanguinis e non lo ius soli, e sempre che dimostrino di avere risieduto continuità sul territorio nazionale. Pertanto, le seconde generazioni che, sono in possesso del permesso soggiorno, risultano fortemente penalizzate sia nel momento dell’assunzione sia nella progressione di carriera.

 

 

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33.                     I Appendice giurisprudenza antifascismo

 

Allegato n. 1

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-03-2019) 16-05-2019, n. 21409

l'imputato L.G., in occasione della seduta pubblica della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano su sicurezza e coesione sociale, polizia locale, protezione civile e volontariato, politiche sociali e servizi per la salute, avente a oggetto il cosiddetto "(OMISSIS)" rom e svoltasi l'(OMISSIS), eseguiva il "saluto fascista", anche noto come "saluto romano"

Osserva il Collegio che risultano immuni da vizi logici o giuridici le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello di Milano, secondo cui il "saluto fascista" o "saluto romano" costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all'ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dal D.L. n. 122 del 1993, art.2, evidenziando che la fattispecie contestata a L. non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, che è quella propria dei reati di pericolo astratto (Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753; Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792).

Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il "saluto fascista" accompagnato dalla parola "presente" integra la fattispecie del D.L. n. 122 del 1993,art.2, per la connotazione di pubblicità che qualifica tale espressione gestuale, evocativa del disciolto partito fascista, che appare pregiudizievole dell'ordinamento democratico e dei valori che vi sono sottesi. Sul punto, è sufficiente richiamare il principio di diritto, secondo cui: "Il cosiddetto "saluto romano" o "saluto fascista" è una manifestazione esteriore propria o usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205 (misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) e inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge" (Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 3, n. 37390 del 10/07/2007, Sposato, Rv. 237311).

In questa cornice, deve rilevarsi che la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie delD.L. n. 122 del 1993,art.2 impone, per la sua configurazione, che sia accertata l'idoneità della condotta a offendere il bene giuridico, contestualizzando il comportamento dell'agente attraverso un giudizio ex ante. Tale contestualizzazione presuppone un accertamento finalizzato a verificare se la condotta dell'imputato è astrattamente idonea a essere percepita come manifestazione esteriore o come ostentazione simbolica ed emblematica "delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art.3(...)".

Sulla legittimità costituzionale dei reati di pericolo astratto, del resto, la Corte costituzionale si è ripetutamente pronunciata (Corte Cost., sent. n. 225 del 2008; Corte Cost., sent. n. 286 del 1974), ribadendo la loro compatibilità con le norme costituzionali, a condizione che nelle fattispecie di volta in volta considerate siano rinvenibili elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite. Occorre, pertanto, verificare se il fatto concreto possieda tali connotazioni di offensività, certamente riscontrabili nel caso di specie, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzava il comportamento criminoso di L., correttamente valutate dai Giudici di merito secondo una prospettiva ex ante.

 

Allegato n. 2

 

Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

Sezione II

Sentenza 18 aprile 2019, n. 447

Presidente: Testori - Estensore: Limongelli

FATTO

  1. Con deliberazione n. 125 del 30 novembre 2017, il consiglio comunale di Rivoli, preso atto del ripetersi sempre più frequente di "manifestazioni promosse da organizzazioni neofasciste, portatrici di idee e di valori che si collocano al di fuori del perimetro costituzionale", impegnava l'amministrazione "a non concedere spazi o suolo pubblici a coloro i quali non garantiscano di rispettare i valori sanciti dalla Costituzione, professando e/o praticando comportamenti fascisti, razzisti e omofobi", dando mandato di adeguare i regolamenti comunali a quanto espresso nell'atto di indirizzo, in particolare "subordinando la concessione di suolo pubblico, spazi e sale di proprietà del Comune, a dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall'ordinamento repubblicano".
  2. Con successiva deliberazione n. 164 del 15 maggio 2018, la giunta comunale di Rivoli dava mandato ai competenti uffici comunali di richiedere, a fronte di istanze di concessione del suolo pubblico o di utilizzo di spazi e sale di proprietà comunale, la presentazione da parte dei richiedenti di una dichiarazione espressa, redatta ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000, del seguente testuale tenore:

"Il sottoscritto (...) dichiara (...):

- "di ripudiare il fascismo e il nazismo;

- di aderire ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo; (...)".

  1. Con istanza dell'8 ottobre 2018, la signora Sara Novello, agendo "in nome e per conto di Casapound Italia", chiedeva al Comune di Rivoli l'autorizzazione ad occupare il suolo pubblico con un gazebo di mt 2x2 in via Fratelli Piol per tredici giorni non consecutivi, festivi e prefestivi, compresi tra il 1° dicembre 2018 e il 27 aprile 2019, al fine dichiarato di svolgere "propaganda politica e di promozione delle attività politiche e del pensiero politico della sig.ra Sara Novello".
  2. Alla propria istanza, la richiedente allegava la seguente dichiarazione: "La sottoscritta (...) dichiara di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all'odio", nonché "di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico".
  3. Con atto del 22 novembre 2018, gli uffici comunicavano alla richiedente che l'iter autorizzativo dell'istanza era stato "sospeso" dal momento che all'istanza era stata allegata una dichiarazione difforme dal modello-tipo approvato dall'amministrazione con le predette deliberazioni, invitando l'interessata a regolarizzare la dichiarazione e precisando che l'autorizzazione sarebbe stata rilasciata non appena fosse stata trasmessa la dichiarazione in questione.
  4. La ricorrente presentava proprie osservazioni, contestando la legittimità della richiesta dell'Amministrazione e rifiutando di rendere la dichiarazione nei termini pretesi dall'amministrazione.
  5. Alla luce di quanto sopra, con provvedimento notificato il 23 gennaio 2019 l'amministrazione dichiarava l'istanza "improcedibile", non essendo stato prodotto il documento richiesto.
  6. Con ricorso notificato il 15 marzo 2019 e depositato il 20 marzo successivo, l'interessata impugnava dinanzi a questo TAR il suddetto provvedimento di "improcedibilità", unitamente alle presupposte delibere del consiglio comunale n. 125/2017 e della giunta comunale n. 164/2018, e ne chiedeva l'annullamento, previa sospensione cautelare, sulla base di cinque motivi, con i quali deduceva vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto plurimi profili.
  7. Il Comune di Rivoli si costituiva in giudizio con articolata memoria difensiva, eccependo preliminarmente l'inammissibilità del ricorso in ragione della tardiva impugnazione degli atti presupposti, divenuti ormai inoppugnabili, e in subordine, nel merito, contestando il fondamento del ricorso e chiedendone il rigetto.
  8. All'udienza in camera di consiglio del 10 aprile 2019, dopo la discussione dei difensori delle parti, il collegio si riservava di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, sussistendone i presupposti di legge e sentite, sul punto, le parti costituite.

DIRITTO

Si può prescindere dall'esame dell'eccezione preliminare formulata dalla difesa comunale, dal momento che il ricorso è manifestamente infondato nel merito.

  1. Con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione degli artt. 2, 3, 17, 18 e 21 della Costituzione in materia di tutela dei diritti fondamentali, di eguaglianza, diritto di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero e di associazione in partiti politici; tali principi, secondo la ricorrente, non consentirebbero di subordinare l'esercizio dei diritti civili e politici a dichiarazioni di adesione ai valori dell'antifascismo, ai valori repubblicani e a quelli della Resistenza; la libera manifestazione del pensiero e il "foro interno" di ciascun cittadino non possono essere coartati attraverso l'obbligo di adesione a valori predeterminati, secondo modelli tipici dei regimi totalitari; all'atto della domanda di concessione del suolo pubblico, la ricorrente ha dichiarato di aderire ai valori della Costituzione italiana e di non avere intenzione di ricostituire il disciolto Partito Fascista, e tanto deve essere ritenuto sufficiente; secondo la ricorrente, l'amministrazione non potrebbe imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati "valori dell'antifascismo" che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a "ripudiare il fascismo e il nazismo", atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell'individuo, che non può essere coartata dall'amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali e con le leggi dello Stato.

La censura è infondata.

1.1. I valori dell'antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell'ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, non solo perché sottesi implicitamente all'affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo, ma anche perché affermati esplicitamente sia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, sia nell'art. 1 della legge "Scelba" n. 645 del 20 giugno 1952, che, nel dare attuazione alla predetta norma costituzionale, ha individuato come manifestazioni esteriori di ricostituzione del partito fascista il perseguire finalità antidemocratiche proprie del partito fascista attraverso, tra l'altro, la minaccia o l'uso della violenza quale metodo di lotta politica, il propugnare la soppressione delle libertà costituzionali, lo svolgere propaganda razzista, l'esaltare principi, fatti e metodi propri del predetto partito, il compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e il denigrare la democrazia, le sue istituzione o i "valori della Resistenza"; inoltre, l'art. 5 della stessa legge Scelba n. 645/1952 punisce le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quando siano compiute durante eventi pubblici.

1.2. I principi affermati nelle predette norme costituiscono un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui, le quali non possono esplicarsi in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del disciolto partito fascista.

1.3. Si tratta di principi che, per evidenti motivi, trovano precipua applicazione in materia di propaganda politica ed elettorale.

1.4. In tale contesto, allorquando si richieda di esercitare attività di propaganda politica ed elettorale in spazi pubblici, sottraendoli, sia pure temporaneamente, all'uso pubblico per destinarli all'utilizzo privato, non appare irragionevole che l'amministrazione richieda, al fine di valutare la meritevolezza dell'interesse dedotto, una dichiarazione di impegno al rispetto dei valori costituzionali e, in particolare, dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell'ideologia autoritaria fascista e all'adesione ai valori fondanti l'assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell'antifascismo e della Resistenza; e ciò anche al fine dell'eventuale revoca della concessione in caso di violazione dell'impegno assunto. E benché, nel caso di specie, il modello di dichiarazione predisposto dall'amministrazione comunale non appaia scevro da qualche ridondanza, non per questo è possibile rilevarne un profilo di illegittimità, tenuto conto anche della forte valenza simbolica, oltre che amministrativa, che l'amministrazione ha inteso riconnettervi e che giustifica qualche eccesso di enfasi.

1.5. Nel caso di specie la ricorrente ha richiesto all'amministrazione comunale, "quale attivista e delegata" dell'associazione "Casapound Italia", la concessione del suolo pubblico nella via Fratelli Piol - peraltro, una via pubblica di forte valenza evocativa, perché intestata a martiri della Resistenza e dell'antifascismo - per svolgere attività di propaganda politica; ma, alla richiesta dell'amministrazione di rendere la dichiarazione di impegno predisposta dalla giunta comunale, ne ha resa una diversa, nella quale ha sì dichiarato "di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostruire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all'odio", nonché "di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico", ma ha omesso, volutamente, la parte di dichiarazione relativa al "ripudio del fascismo e del nazismo" e all'adesione "ai valori dell'antifascismo".

1.6. Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell'adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica.

1.7. Non appare pertanto censurabile il comportamento del Comune che, a fronte dell'assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell'antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica.

La censura va quindi disattesa.

  1. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto vizi di violazione di legge e di eccesso di potere per sviamento; l'amministrazione avrebbe utilizzato in materia sviata i propri poteri in materia di occupazione del suolo pubblico, i quali sarebbero previsti dalla legge per finalità prettamente fiscali e di tutela della viabilità e della sicurezza pubblica; l'amministrazione avrebbe invece perseguito una finalità estranea al paradigma normativo, quella di estorcere ai cittadini dichiarazioni di adesione ideologica ad una "carta di valori" predeterminata.

Anche tale censura è infondata.

2.1. La disciplina dell'occupazione del suolo pubblico è demandata ai Comuni, sia in ordine alla individuazione dei presupposti che in ordine alla determinazione del canone. La legge, in particolare, non predetermina le finalità in vista delle quali può essere attribuito a privati l'uso esclusivo del suolo pubblico, ma rimette ai Comuni il potere di regolamentarle e valutarle caso per caso, in funzione della meritevolezza dell'interesse perseguito e della sua idoneità a giustificare la sottrazione temporanea del bene pubblico all'utilizzo collettivo.

2.2. È stato affermato, al riguardo, che la concessione di suolo pubblico "esige sempre e comunque una decisione ponderata in ordine al bilanciamento dell'interesse pubblico con quelli privati eventualmente confliggenti, di cui dare conto nella motivazione, stante il loro carattere discrezionale, con la conseguenza che la P.A., prima di concederla, deve, attraverso apposita istruttoria, effettuare una accurata ricognizione degli interessi coinvolti" (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 25 luglio 2017, n. 8934).

2.3. Nel caso di specie, la concessione del suolo pubblico è stata richiesta dalla ricorrente al fine dichiarato di effettuazione di attività di propaganda politica. L'amministrazione, nel richiedere, al fine di valutare l'assentibilità dell'istanza, una dichiarazione preventiva di adesione ai valori costituzionali dell'antifascismo e di ripudio del fascismo e del nazismo, ha bilanciato correttamente l'interesse privato della ricorrente a svolgere attività di propaganda politica con l'interesse pubblico a che ciò avvenga nel doveroso e consapevole rispetto dei valori costituzionali.

  1. Con il terzo motivo, la ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione del vigente regolamento comunale di Rivoli in materia di concessione di suolo pubblico; ha osservato la ricorrente che tale regolamento non è stato modificato a seguito degli atti impugnati, e, allo stato, non contiene alcuna norma che imponga la presentazione di una dichiarazione di adesione ai valori dell'antifascismo per poter ottenere uno spazio pubblico.

Anche tale censura è infondata.

Il diniego impugnato è stato adottato in ossequio a quanto previsto dal consiglio comunale con la deliberazione n. 125 del 30 novembre 2017.

Il consiglio comunale è l'organo competente ad approvare e modificare i regolamenti comunali.

Nel caso di specie, la delibera n. 125/2017 ha dettato un indirizzo di carattere generale ed astratto che, benché non inserito formalmente all'interno del testo regolamentare, è tuttavia idoneo ad integrarlo ab externo, sia in ragione della sua natura sostanzialmente regolamentare sia in considerazione dell'organo che l'ha adottato.

  1. Con il quarto motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000; tali norme, richiamate nella dichiarazione-tipo predisposta dalla giunta comunale, prevedono che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni possano attestare unicamente "stati e qualità", non opinioni politiche; l'amministrazione avrebbe quindi imposto una autocertificazione di carattere ideologico contraria ad ogni legge.

La censura non ha fondamento.

4.1. Benché il modello di dichiarazione predisposto dall'amministrazione richiami, in effetti, gli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000, la dichiarazione richiesta dall'amministrazione non è una vera dichiarazione sostitutiva di certificazione, ma una dichiarazione di impegno del privato al rispetto dei principi costituzionali e dei valori ad essi sottesi, in funzione della valutazione di meritevolezza dell'interesse perseguito dal richiedente attraverso l'utilizzo del suolo pubblico.

4.2. Il richiamo alle norme citate è quindi improprio, ma giuridicamente inconferente.

  1. Infine, con il quinto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 48, comma 2, del d.P.R. 445/2000, il quale prevede che, ai fini della redazione di dichiarazioni sostitutive, gli interessati hanno la facoltà, e non l'obbligo, di avvalersi dei moduli predisposti dall'amministrazione; la ricorrente ha reso effettivamente una dichiarazione sostitutiva di adesione ai valori della Costituzione, sia pure utilizzando un modulo diverso da quello predisposto dall'amministrazione, per cui l'amministrazione avrebbe dovuto ritenere assolto l'obbligo previsto dalle delibere di giunta e di consiglio.

Anche quest'ultima censura è infondata.

5.1. La ragione per la quale l'amministrazione ha respinto l'istanza della ricorrente non risiede nel fatto che la dichiarazione non sia stata resa utilizzando il modello predisposto dall'amministrazione, ma nella circostanza che il suo contenuto non corrispondeva a quanto richiesto dall'amministrazione, non contenendo, in particolare, né il ripudio del fascismo e del nazismo né l'adesione della richiedente ai valori dell'antifascismo.

  1. In conclusione, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso va respinto.
  2. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
  3. Attesa la manifesta infondatezza del ricorso, va respinta anche la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore del Comune di Rivoli, che liquida in Euro 2.000,00 (duemila/00), oltre oneri accessori.

Respinge la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

 

*****

Allegato 3

La sentenza della Cassazione n. 3806 del 2022

In una recente sentenza (n. 3806 del 2022 udienza 19/11/2021) 41 la Corte di Cassazione, in tema di manifestazioni usuali del partito fascista (saluto romano e intonazione della chiamata del presente) si è espressa per l’applicabilità della legge Mancino con una ampia ed esaustiva motivazione che analizza i precedenti giurisprudenziali, mette a fuoco i tratti comuni e differenziali delle due norme, applica il principio di specialità, evidenzia la presunzione insita nella legge Scelba circa il carattere discriminatorio e razzista della ideologia fascista e nazista. Nelle due norme comune è la condotta: ad esempio, in una pubblica riunione il saluto romano o la chiamata del “presente”; diverso (come si è più volte rilevato) è il pericolo paventato, in un caso la ricostituzione del partito fascista (o comunque l’adesione ad un progetto a ciò finalizzato), nell’altro raccogliere adesioni di un vasto pubblico in funzione di attività di propaganda e di istigazione per condotte discriminatorie razziali, etniche e religiose. Il pregio della sentenza in esame è che la Corte ha particolarmente evidenziato due aspetti di fondamentale importanza. Superando alcune ambiguità delle precedenti pronunce, è stata esplicita sul tipo di pericolo che in più punti della motivazione ha qualificato in termini di concretezza. Dunque, è necessario un pericolo concreto sia per la legge Scelba che per la Mancino. Ha rilevato la Corte che “ l'interpretazione degli elementi normativi presenti nella disposizione dianzi citata («propaganda di idee»; «odio razziale o etnico»; «discriminazione per motivi razziali») deve essere compiuta dal giudice tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, e da valorizzare perciò l'esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto”. Un altro punto significativo della motivazione attiene alla chiara esplicitazione del criterio di scelta tra le due norme individuato nel principio di specialità 42 di cui all’articolo 15 c.p. : “La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque, a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba, riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre, nel caso della legge n. 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicché, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione dell'art. 2 I. n. 203 del 1993”. Afferma inoltre la Corte, sempre invocando il concetto di concretezza: “una volta chiarito che, per entrambe le fattispecie, è necessaria una concreta idoneità della condotta, è utile precisare che sussiste una ipotesi di specialità ex art. 15 cod. pen. della seconda fattispecie (art. 5 I. n. 645 del 1952) rispetto alla prima (art. 2 I. n. 205 del 1993). Rileva, inoltre, la Cassazione che la legge Mancino del 1993 oltre ad introdurre l’art. 2 ha anche emendato la legge Scelba (in particolare l’art. 4) il che evidenzia che il legislatore, che ha mantenuto in vigore la menzionata legge Scelba, era ben consapevole del tenore letterale delle due norme (art. 2 legge Mancino e art. 5 legge Scelba) che evidentemente ha ritenuto soloapparentemente omogenee ma in realtà diverse atteso che solo la legge Scelba richiede il rischio di riorganizzazione del partito fascista che è invece assente nella legge Mancino. Un altro apprezzabile profilo di chiarezza della sentenza in esame è dato dalla considerazione relativa alla presunzione, per la legge Scelba, iuris et de iure che le organizzazioni e i movimenti neofascisti hanno una ideologia discriminatoria e razzista, finalità queste che quindi non devono essere provate contrariamente alle organizzazioni non nominate di cui alla legge n. 654 del 1975 (ora 604 bis c.p.). L’art. 4 comma 2, in riferimento alla apologia del fascismo, dispone infatti che “se il fatto riguarda idee e metodi razzisti la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni”. E’ stato giustamente rilevato 43 che il ricorso “”forse non proprio ortodosso”, alla legge Mancino, anziché alla Scelba, per sanzionare le manifestazioni usuali fasciste potrebbe essere stato determinato dal fatto che la legge Mancino consente l’applicazione del c.d. DASPO e non ha subito interventi manipolativi della Corte Costituzionale per cui l’accertamento del reato sarebbe più agevole. Dinanzi, quindi, al sospetto che il ricorso alla legge Mancino sia una sorta di escamotage (uguale e contrario all’interpretazione che di fatto rende ineffettiva la legge Scelba stante l’improbabile prova del pericolo concreto di riorganizzazione del partito fascista) per facilitare l’accertamento del reato sul presupposto che il pericolo richiesto sia astratto, bene ha fatto la Cassazione in quest’ultima sentenza a chiarire con fermezza che il pericolo richiesto anche dalla Mancino deve essere concreto.

 

[1] Laura Ronchetti, Il Nomos Infranto, Jovene editore 2007 pag.226.

[2] F. LAFFAILLE, Mythologie constitutionnelle : le chef de l’État, neutre gardien de la stabilité du régime parlementaire italien, Revue française de droit constitutionnel 2016/4 (N° 108).

  1. SILVESTRI, La separazione dei poteri, I, Milano, 1979, II, Milano, 1984.
  2. BARBERIS, Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso (1988. Il Mulino, Bologna)
  3. CECCHETTI, S. PAJNO, G. VERDE, Dibattito sul Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato nell’ordinamento costituzionale italiano, Due punti Edizioni, Palermo, 2012, spec. pp. 65 ss.

AA.VV. La Dittatura della Maggioranza (coautori: Aldo e Giuseppe Bozzi, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Pancho Pardi, Federica Resta), Chimienti editore, 2008

[3] Silia Gardini.  L’effettività del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nei piccoli comuni (nota a Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 62). www.giustiziainsieme.it/

 

[4] L. Ferrajoli Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, 2022.

[5] Corte Cost. sentenza n. 45 del 2005.

[6] Corte Cost. sentenza n. 15 del 2008.

[7]Su 193 costituzioni che si possono leggere, alla data odierna, 149 contemplano norme che definiscono i principi e i valori per la tutela dell’ambiente (ci sono delle gravi eccezioni, come gli USA, il Canada e l’Australia; non senza che nei singoli Stati che formano tali federazioni vi siano costituzioni regionali che riconoscono espressamente questi principi).

[8] 5 S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Riv. quad. dir. amb., 2017, p. 7

[9] Questo passaggio della sentenza della Corte cost. n. 126/2016 recita espressamente:  «L'espressa individuazione,  a  seguito  della  riforma  delTitolo V, e della materia  “tutela  dell'ambiente,  dell'ecosistema”,all'art. 117, secondo comma,  lettera  s),  Cost.,  quale  competenzaesclusiva  dello  Stato,  fotografa,   dunque,   una   realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come desumibile dal  complesso  deivalori e dei principi costituzionali».

 

[10] Corte cost n. 641 del 1987.

[11] Corte cost. n. 126 del 2016.

[12] Peculiare rilievo assume, in questo ambito, la Dichiarazione ONU sui diritti delle popolazioni indigene (2007) che all’art. 29 riconosce il diritto dei «popoli indigeni … alla conservazione e protezione dell’ambiente e della capacità produttiva delle loro terre o territori e risorse. Gli Stati devono avviare e realizzare programmi di assistenza ai popoli indigeni per assicurare tale conservazione e protezione, senza discriminazioni».

[13] S. Grassi, Ambiente e Costituzione, cit..

[14] Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza del 20 febbraio 2020, n. 6626.

[15]  Ossia 599 (fonte Ministero dell'Interno dal 2011 al 2016) con riferimento alle due sigle più famose di quella “galassia”, cioè Casa Pound Italia e Forza Nuova (altre sigle sono Comunità militante Avanguardia nazionale, Dora - comunità militante dei dodici raggi,  Fortezza Europa, Generazione identitaria, Hammerskin, Lealtà Azione , Movimento fasci italiani del Lavoro, Rivolta Nazionale, Skin4skin, Veneto fronte skinhead).

[16] Venendo poi alla previsione delle singole fattispecie di reato:

Art. 2. - Sanzioni penali.

Chiunque promuove, organizza o dirige le associazioni, i movimenti o i gruppi indicati nell'articolo 1, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 10.329 .

Chiunque partecipa a tali associazioni, movimenti o gruppi è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 516 a euro 5.

Se l'associazione, il movimento o il gruppo assume in tutto o in parte il carattere di organizzazione armata o paramilitare, ovvero fa uso della violenza, le pene indicate nei commi precedenti sono raddoppiate.

L'organizzazione si considera armata se i promotori e i partecipanti hanno comunque la disponibilità di armi o esplosivi ovunque custoditi.

(Fermo il disposto dell'art. 29, comma primo, del codice penale, la condanna dei promotori, degli organizzatori o dei dirigenti importa in ogni caso la privazione dei diritti e degli uffici indicati nell'art. 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del codice penale per un periodo di cinque anni. La condanna dei partecipanti importa per lo stesso periodo di cinque anni la privazione dei diritti previsti dall'art. 28, comma secondo, n. 1, del codice penale.)

[17] Alcuni corollari della disciplina penale sono:

Art. 3 - Scioglimento e confisca dei beni.

Qualora con sentenza risulti accertata la riorganizzazione del disciolto partito fascista, il Ministro per l'interno, sentito il Consiglio dei Ministri, ordina lo scioglimento e la confisca dei beni dell'associazione, del movimento o del gruppo.

Nei casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo, sempre che ricorra taluna delle ipotesi previste nell'art. 1, adotta il provvedimento di scioglimento e di confisca dei beni mediante decreto-legge ai sensi del secondo comma dell'art. 77 della Costituzione.

Art. 5 - Manifestazioni fasciste.

Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da euro 206 a euro 516.

Art. 4. - Apologia del fascismo

Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell'articolo 1 è punto con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da euro 206 a euro 516 .

Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da euro 516 a euro 1.032 .

La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da euro 516 a euro 2.065 se alcuno dei fatti previsti nei commi precedenti è commesso con il mezzo della stampa .

La condanna comporta la privazione dei diritti previsti nell'articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del c.p., per un periodo di cinque anni.

Art. 5 - Manifestazioni fasciste.

Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da euro 206 a euro 516.

 

[18] Si ricordano in particolare: 

Art. 2 - Disposizioni di prevenzione.

  1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 258.
  2. È vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno.

(3. Nel caso di persone denunciate o condannate per uno dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, o per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 del presente decreto, nonché di persone sottoposte a misure di prevenzione perché ritenute dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica, ovvero per i motivi di cui all'articolo 18, primo comma, n. 2-bis)  della legge 22 maggio 1975, n. 152 si applica la disposizione di cui all'articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e il divieto di accesso conserva efficacia per un periodo di cinque anni, salvo che venga emesso provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento o provvedimento di revoca della misura di prevenzione, ovvero se è concessa la riabilitazione ai sensi dell'articolo 178 del codice penale o dell'articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327)

Art. 5. - Perquisizioni e sequestri.

  1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , e dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, l'autorità giudiziaria dispone la perquisizione dell'immobile rispetto al quale sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, di deposito o di rifugio o per altre attività comunque connesse al reato. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l'autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore.
  2. È sempre disposto il sequestro dell'immobile di cui al comma 1 quando in esso siano rinvenuti armi, munizioni, esplosivi od ordigni esplosivi o incendiari, ovvero taluni degli oggetti indicati nell'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110. É sempre disposto, altresì, il sequestro degli oggetti e degli altri materiali sopra indicati nonché degli emblemi, simboli o materiali di propaganda propri o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alle leggi 9 ottobre 1967, n. 962 , e 13 ottobre 1975, n. 654 , rinvenuti nell'immobile. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 324 e 355 del codice di procedura penale. Qualora l'immobile sia in proprietà, in godimento o in uso esclusivo a persona estranea al reato, il sequestro non può protrarsi per oltre trenta giorni.
  3. Con la sentenza di condanna o con la sentenza di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale, il giudice, nei casi di particolare gravità, dispone la confisca dell'immobile di cui al comma 2 del presente articolo, salvo che lo stesso appartenga a persona estranea al reato. É sempre disposta la confisca degli oggetti e degli altri materiali indicati nel medesimo comma 2.

Art. 7 - Sospensione cautelativa e scioglimento.

  1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'attività di organizzazioni, di associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente, ai sensi dell'articolo 3 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, la sospensione di ogni attività associativa. La richiesta è presentata al giudice competente per il giudizio in ordine ai predetti reati. Avverso il provvedimento è ammesso ricorso ai sensi del quinto comma del medesimo articolo 3 della legge n. 17 del 1982.
  2. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengono meno i presupposti indicati al medesimo comma.
  3. Quando con sentenza irrevocabile sia accertato che l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi abbia favorito la commissione di taluno dei reati indicati nell'articolo 5, comma 1, il Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, ordina con decreto lo scioglimento dell'organizzazione, associazione, movimento o gruppo e dispone la confisca dei beni. Il provvedimento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

 

[19] Trovasi scritto in sentenza, infatti, che “secondo il radicato orientamento di questa corte di legittimità il confronto tra le fattispecie in apparente convergenza va realizzato con riferimento alla struttura delle medesimi tramite la comparazione dei rispettivi elementi costitutivi e non riguarda il modus interpretativo di ciascuna di esse o elementi esterni alla dimensione della tipicità.... si tratta di insegnamenti più volte ribaditi dalle sezioni unite di questa corte per cui in caso di concorso di disposizioni penali che reggono la stessa materia il criterio di specialità richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse alla cui verifica deve procedersi mediante confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (sezioni unite numero 1235 del 28 ottobre 2010);  ed ancora nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall'articolo 15 del codice penale che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme effettuata dalla legislatore ( sezioni unite numero 20664 del 23 febbraio 2017)... solo la esistenza di un rapporto di continenza derivante dal confronto strutturale tra le fattispecie nel cui ambito si individui in una delle due disposizioni un elemento specializzante impone dunque di applicare esclusivamente la disposizione speciale e non di scegliere se applicare la disposizione generale o quella speciale, salvo che sia altrimenti stabilito; negli altri casi la quaestio iuris va risolta applicando il generale principio di tipicità/tassatività dell'illecito e le norme in tema di concorso di reati (articolo 81 con la deroga di cui all'articolo 84 codice penale). Calando tali principi di diritto nel caso in esame va anzitutto precisato che la Corte di Appello di Milano fa ricorso, nella operazione di qualificazione giuridica del fatto secondo una “pretesa” specialità ... ad un criterio rappresentato dalla connotazione interpretativa di “pericolo concreto” (legge Scelba) o “pericolo presunto” (legge Mancino) del reato, che non rientra affatto nel perimetro di obbligatorio confronto di cui all'articolo 15 cod. pen. (la struttura astratta delle due fattispecie) perché attiene al profilo della interpretazione dei profili estrinseci della punibilità delle condotte.

In realtà le due disposizioni incriminatrici hanno possibile aspetti di convergenza fattuale ma non possono essere ritenute collocabili nella dimensione della specialità.

L'articolo 5 della legge scelba inquadra una condotta di rievocazione storica del <disciolto> partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico.

L'articolo 2 del d.l. numero 122 del 1993 incrimina a determinate condizioni l'utilizzo di emblemi o simboli “propri o usuali” di organizzazioni o gruppi che, all'attualità, incitino alla discriminazione o violenza per motivi razziali etnici nazionali o religiosi.

Dunque se da un lato vi è un aspetto di possibile interferenza (il fascismo ha promosso storicamente discriminazione e violenza anche per motivi razziali, fermi restando altri concorrenti disvalori),  dall'altro nel confronto tra le fattispecie astratte non vi è continenza, sia in ragione della maggiore ampiezza delle connotazioni ideologiche negative del fascismo sia per l'essenziale diversità di ambito applicativo rappresentata dalla correlazione tra l'uso dei simboli e la identificazione di un gruppo/movimento/associazione oggi esistente (secondo la legge dei 75) che persegua il particolare finalismo discriminatorio.

E' dunque ben possibile che un gruppo oggi esistente, strutturato in modo da risultare punibile ai sensi dell'attuale articolo 604 bis cod. pen., si richiami all'ideologia fascista,  utilizzi la medesima simbologia e ostenti in pubbliche riunioni la simbologia o le manifestazioni fasciste, facendole proprie. In tal caso ci si troverebbe di fronte alla possibile applicazione di entrambe le disposizioni incriminatrici (ove riscontrata, per la legge Scelba, la dimensione di idoneità della condotta a porsi come fattore causale di ricostituzione del partito fascista)  secondo quanto previsto dall'articolo 81, primo comma, cod. pen., ma lì dov'è la dimensione fattuale descritta nella contestazione risulti incentrata esclusivamente sulla manifestazione esteriore del disciolto partito fascista - in un contesto commemorativo - senza previa identificazione e connotazione del gruppo o della associazione esistente oggi, cui accedono le condotte (rientrante nel cono applicativo dell'art. 604 bis, secondo comma, cod. pen.), l'unica disposizione incriminatrice applicabili è proprio quella dell'articolo 5 l. n. 645 del 1952, in forza delle ricadute del principio di tipicità e tassatività delle norme penali descritte dall'illecito”.

 

[20] “Con questa interpretazione, continua il Collegio, coerente a quella che la Corte Costituzionale ha dato nella sentenza n. 1 del 1957 in merito all'art. 4 della l. Scelba, l'art. 5 l. n. 645 del 1952 si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, nè contravviene al principio dell'art. 21, primo comma, della Costituzione.

Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicchè quando questi requisiti sussistono l'ipotesi di cui all'art. 5 della legge citata è costituzionalmente legittima.

Questo principio è, d'altra parte fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sè ogni singola disposizioni di cui si compone la legge 20 giugno 1952, n. 645.

La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre nel caso della legge numero 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicché, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione dell'art. 2 l. n. 203 del 1993.

L'elemento selettivo introdotto dalla legge Scelba è costituito dal pericolo di ricostituzione del partito fascista e delle sue idee, pericolo che.... è accompagnato dalla presunzione di pericolosità delle organizzazioni fasciste e naziste che consente al giudice di operare una semplificazione del ragionamento probatorio. 

Così chiarito che la manifestazione esteriore osteggiata dall'art. 5 l. n. 645 del 1952 attenta allo Stato democratico attraverso il pericolo di ricostituzione del partito fascista, realizzato attraverso la pubblica diffusione delle sue idee e simboli, è utile sottolineare che la legge Scelba introduce altresì una presunzione iuris et de iure di illiceità di dette idee che trova un duplice fondamento: il primo, di natura normativa super primaria, nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione; il secondo, di origine storico sociale, che si poggia sulla condivisa esperienza della disumanità dell'ideologia fascista e nazista, consapevolezza storica che è stata acquisita dalla comunità internazionale nel corso di oltre vent'anni di regime tirannico e di guerra mondiale e che è stata specificamente sofferta dal popolo italiano e perciò trasfusa in un divieto espresso contenuto nella Carta costituzionale....viceversa la legge numero 205 del 1993 rimette all'accertamento del giudice la verifica della natura discriminatoria razzista negazionista delle organizzazioni vietate dalla legge numero 654 del 1975.

La presunzione introdotta dalla legge Scelba porta con sé quindi un elemento di specialità (la natura fascista e nazista delle ideologie)  che opera anche a livello di semplificazione probatoria, essendo indubbio che le ideologie fasciste naziste osteggiate dalla legge Scelba e da essa nominativamente individuate come vietate, rientrano ex se,  per i contenuti  ideologici  e le azioni materiali poste in essere nel periodo storico cui si è fatto riferimento, tra quelle indicate dalla legge numero 654 del 1975 (ora art. 604 bis cod. pen.);  viceversa, per le organizzazioni <non nominate> sarà compito del giudice di verificare dimostrare che sono ispirate da ideologie discriminatorie razziste ect.., e che compiono o invitano a compiere gli atti illeciti indicati nella norma.

Ne consegue che allorquando il giudice penale sia chiamato da applicare l'art. 2 l. n. 203 del 1993, con riguardo a un gruppo od organizzazione che si richiama alle ideologie fasciste naziste, sarà esonerato dalla necessità di procedere all'accertamento della natura vietata dell'organizzazione investigata - al quale deve invece dedicarsi alla luce delle disposizioni della legge Mancino che non evocano nominativamente le organizzazioni vietate - potendosi affidare alla presunzione legale introdotta dalla legge Scelba.

 

[21] Si veda l’intervista rilasciata al quotidiano “Libero” dal leader di CasaPound, Gianluca Iannone, il quale dichiara: “(Il fascismo è stato) un grande padre, severo e giusto. E responsabilizzante. Mussolini era troppo buono, ha dato una seconda chance a gente che non lo meritava. Per esempio a Badoglio, che poi lo tradì…Noi ai tempi del Duce non c’eravamo, non possiamo provarne nostalgia. Siamo fascisti perchè siamo convinti che avesse ragione lui ma siamo giovani. Nessuna nostalgia, lavoriamo al futuro” .

Dichiarazioni dello stesso tenore sono state rese nel mese di marzo di quest’anno dal candidato Sindaco di Lucca, che alla domanda: “Fabio Barsanti fascista doc. Come biglietto di presentazione le può andare bene?” risponde: “Sì, perché lo sono, però, sono anche sempre stato non nostalgico proprio perché la storia del fascismo insegna che bisogna andare avanti e incarnare un'avanguardia. Quindi lo sono come un liberale può essere liberale e un comunista può essere comunista. Rivendico il diritto, che per me è anche un dovere di italiano, potermi rifare a questa esperienza come ad altre esperienze italiane e quindi di vedere in quella dottrina e in quella idea di stato una stella polare. Io, però, vivo nel 2017 e guardo al futuro”.

I suoi sostenitori, come è prevedibile, si esprimono negli stessi termini: “Rossi: Noi ci reputiamo fascisti, ma lo facciamo contestualizzandolo al giorno d’oggi” .

Ancora, in un’intervista a Simone Laurenzi, responsabile di CasaPound nella regione Abruzzo, si legge: “Come CasaPound Italia non abbiamo mai fatto mistero di vedere nel Fascismo il nostro punto di riferimento ideale”.

In termini altrettanto chiari si è espresso anche il responsabile bergamasco dell'associazione, il quale nel 2012 ha dichiarato: “Siamo fascisti del terzo millennio, come un giornalista ha scritto pensando di darci un'etichetta negativa. Da quel che ne so nessuna legge ci vieta di dire la nostra” .

 

[22] Soltanto per rendere l’idea dell’ampiezza del fenomeno, si elencano alcune delle aggressioni registrate negli ultimi anni (evidentemente, l’elenco non può essere completo):

1 - 22 Aprile 2010, attivista di Ostia viene aggredito da alcuni fascisti mentre attaccava manifesti sul 25 aprile;

2 - Settembre 2011, aggressione agli studenti del liceo “Anco Marzio”; 

3 - 10 Gennaio 2012, aggressione agli attivisti di “Rifondazione Comunista”; 

4 - 23 Febbraio 2012, aggressione agli attivisti del Teatro del Lido di Ostia;

5 - 11 Maggio 2015, colpito ragazzo perchè indossava una maglietta della "Spartak Lidense"; 

6 - 25 Aprile 2016, aggressione fascista presso EXDEPò di Ostia;

7 - Maggio 2016, aggressione studenti del liceo “Democrito”; 

8 - 24 Maggio 2016, testata in volto al rappresentante d'istituto del liceo “Labriola”. 

 

 

[23] (http://94.23.251.8/~casapoun/images/unanazione.pdf).

[24]Disponibile su https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104721.pdf  

[25]Cfrhttps://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52016DC0587&from=IT

[26] https://www.corrierecomunicazioni.it/telco/giacomelli-agcom-allitalia-dellera-5g-serve-un-nuovo-piano-bul/

[27]Entro il 2030 almeno l'80% della popolazione adulta dovrebbe possedere competenze digitali di base e 20 milioni di specialisti dovrebbero essere impiegati nell'UE nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, con un aumento del numero di donne operative nel settore.

[28]Entro il 2030 tutte le famiglie dell'UE dovrebbero beneficiare di una connettività Gigabit e tutte le zone abitate dovrebbero essere coperte dal 5G; la produzione di semiconduttori sostenibili e all'avanguardia in Europa dovrebbe rappresentare il 20% della produzione mondiale; 10 000 nodi periferici a impatto climatico zero e altamente sicuri dovrebbero essere installati nell'UE e l'Europa dovrebbe dotarsi del suo primo computer quantistico.

[29]Entro il 2030 tre imprese su quattro dovrebbero utilizzare servizi di cloud computing, big data e intelligenza artificiale; oltre il 90% delle PMI dovrebbe raggiungere almeno un livello di base di intensità digitale e dovrebbe raddoppiare il numero di imprese "unicorno" nell'UE.

[30]Entro il 2030 tutti i servizi pubblici principali dovrebbero essere disponibili online, tutti i cittadini avranno accesso alla propria cartella clinica elettronica e l'80% dei cittadini dovrebbe utilizzare l'identificazione digitale (eID).

[31]Cfr: https://www.agcom.it/documentazione/documento?p_p_auth=fLw7zRht&p_p_id=101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE&p_p_lifecycle=0&p_p_col_id=column-1&p_p_col_count=1&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_struts_action=%2Fasset_publisher%2Fview_content&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_assetEntryId=21763414&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_type=document

 

 

 

[32] Per avere un’idea del fenomeno, dalla ventesima edizione dell’Ericsson Mobility Report 2021 il ritmo attuale al quale sta viaggiando il 5G è di un milione di nuovi abbonamenti al giorno che prevede per la fine del 2021, le sottoscrizioni saranno 580 milioni sottoscrizioni al mondo, arrivando a 3,5 miliardi (il 40% del totale) e una copertura del 60% della popolazione mondiale entro il 2026.

[33] I mercati più convenienti sembrano essere quelli delle Smart Cities (circa 190 miliardi).

[34] Per un approfondimento sulla definizione e sui vari tipi di IA si veda: https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20200827STO85804/che-cos-e-l-intelligenza-artificiale-e-come-viene-usata

[35] https://www.abiresearch.com/market-research/service/ai-machine-learning/

[36]Cfr. pag 89 Amazon dietro le quinte M. Angioni Raffaello Cortina Editore, Milano 2020.

[37]https://avanzamentodigitale.italia.it/it/progetto/spid

 

[38] L'acronimo con cui individuarle nasce in quegli ambienti open-source che promuovono la consapevolezza della distorsione politico-economica conseguente. Ma è soprattutto in Francia che questo acronimo è associato ad una campagna di sensibilizzazione contro gli abusi della concentrazione.

[39]https://www.savethechildren.it/blog-notizie/scuola-e-covid-19-pensieri-e-aspettative-degli-adolescenti

 

[40] Acronimo inglese di (Young people) Neither in Employment or in Education or Training, o anche " Not (engaged) in Education, Employment or Training", indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione. Usato per la prima volta nel 1999 in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito, come termine di classificazione per una particolare fascia di popolazione, di età compresa tra i 16 e i 24 anni. In seguito, l'utilizzo del termine si è diffuso in altri contesti nazionali, a volte con lievi modifiche della fascia di riferimento: in Italia, ad esempio, l'utilizzo di né-né come indicatore statistico si riferisce, in particolare, a una fascia anagrafica più ampia, la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni, anche se in alcuni usi viene ampliato per i giovani fino a 35 anni, se ancora coabitanti con i genitori

[41] In base al Considerato 59 della Direttiva 20218/1808 con il termine “alfabetizzazione mediatica” ci si riferisce “alle competenze, alle conoscenze e alla comprensione che consentono ai cittadini di utilizzare i media in modo efficace e sicuro. Al fine di consentire ai cittadini di accedere alle informazioni, usare, analizzare criticamente e creare in modo responsabile e sicuro contenuti mediatici occorre che essi dispongano di un livello avanzato di competenze di alfabetizzazione mediatica. L'alfabetizzazione mediatica non dovrebbe essere limitata all'apprendimento in materia di strumenti e tecnologie, ma dovrebbe mirare a dotare i cittadini delle capacità di riflessione critica necessarie per elaborare giudizi, analizzare realtà complesse e riconoscere la differenza tra opinioni e fatti. È pertanto necessario che sia i fornitori di servizi di media sia i fornitori di piattaforme per la condivisione di video, in cooperazione con tutti i soggetti interessati pertinenti, promuovano lo sviluppo dell'alfabetizzazione mediatica in tutti i settori della società, per i cittadini di tutte le età, e per tutti i media, e che se ne verifichino attentamente i progressi.”

[42] Tratto da “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, libro basato su di una serie di lezioni preparate da Italo Calvino nel 1985 in vista di un ciclo di sei lezioni da tenere all'Università di Harvard, nell'ambito delle prestigiose "Poetry Lectures" - intitolate al dantista e storico dell'arte americano Charles Eliot Norton. Il ciclo, previsto per l'autunno di quello stesso anno, non si è mai tenuto a causa della morte di Calvino avvenuta nel settembre 1985.

[43]In “Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione”, Guerini e Associati, Milano, 2003 raccolti, a cura di G. Paolucci, degli atti del convegno su «Rapidità. La contrazione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana», tenuto presso l’Istituto Universitario Europeo (Firenze) nel gennaio del 2002.

[44] Per un approfondimento si rinvia al Par. 5 “Il lato passivo della libertà di informare: a) la libertà di informarsi/essere informati (interesse a ricercare notizie e diritto di accesso);” del Cap. I “L’art. 21 Cost. e la libertà di informare” del manuale Diritto dell'informazione e della comunicazione di R. Zaccaria, A. Valastro, E. Albanesi XI ed. CEDAM 2021.

[45]Corte di giustizia dell’Unione europea sentenza 24 novembre 2011, C-70/10, Scarlet Extended SA c. SABAM).

[46] Sentenza 12 luglio 2011, C-324/09, L’Oréal SA c. eBay International AG.

[47]Sentenza 3 ottobre 2019, C-18/18, Eva Glawischnig-Piesczekc.Facebook Ireland Limited

[48]Corte di Cassazione Civile (Prima sezione) sentenza 19 marzo 2019, n. 7708.

[49]Si tratta delle delibere 102/20/CONS, 103/20/CONS e 104/20/CONS irrogate, rispettivamente a Mywayticket, Viagogo, e StubHub per un totale di 5.580.000 euro, e diffidando allo stesso tempo tali piattaforme dal porre in essere ulteriori comportamenti in violazione delle disposizioni di legge.

[50]Con il provvedimento 541/20/CONS l’Autorità ha sanzionato Google Ireland, titolare del servizio Google Ads (servizio di indicizzazione e promozione di siti web) il quale ha consentito, attraverso il servizio di posizionamento pubblicitario online, la diffusione, dietro pagamento, di link che indirizzano verso determinati siti (landing page), in violazione delle norme di contrasto al disturbo da gioco di azzardo.

[51] XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it).

[52] Gazzetta ufficiale di sabato 26 giugno: delibera del Senato recante "Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico", proposta da una nutrita schiera di senatori, a iniziare da Mauro Maria Marino (Iv-Psi).

[53] Regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online.

[54]Art. 2 par. 1 del regolamento: “un privato che agisce nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali o una persona giuridica che offre beni o servizi ai consumatori tramite servizi di intermediazione online per fini legati alla sua attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale”;

[55]Art. 2, par. 2 del regolamento: “servizi che soddisfano tutti i seguenti requisiti: a) sono servizi della società dell’informazione ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio (12); b) consentono agli utenti commerciali di offrire beni o servizi ai consumatori, con l’obiettivo di facilitare l avvio di transazioni dirette tra tali utenti commerciali e i consumatori, a prescindere da dove sono concluse dette transazioni; c) sono forniti agli utenti commerciali in base a rapporti”.

[56]Art. 2, par. 5 del regolamento: “un servizio digitale che consente all utente di formulare domande al fine di effettuare ricerche, in linea di principio, su tutti i siti web, o su tutti i siti web in una lingua particolare, sulla base di un interrogazione su qualsiasi tema sotto forma di parola chiave, richiesta vocale, frase o di altro input, e che restituisce i risultati in qualsiasi formato in cui possono essere trovate le informazioni relative al contenuto richiesto”;

[57]Art. 2, par. 5 del regolamento: “persona fisica che agisce per fini che esulano dall’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale di tale persona”.

[58] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0825&from=en

[59] Durante la sua recente audizione in Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi Rai lo scorso 13 aprile 2021 disponibile su https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=12116

[60] EUR-Lex - 52020PC0842 - EN - EUR-Lex (europa.eu)

[61] L. Aria in “L’attività delle piattaforme tra DSA e Direttiva SMAV. La frontiera di una nuova regolazione?”  del 29.01.2021 in MediaLaws http://www.medialaws.eu/lattivita-delle-piattaforme-tra-dsa-e-direttiva-smav-la-frontiera-di-una-nuova-regolazione/

[62] In una sua intervista «Un “new digital deal” per regolare le big tech: le azioni Agcom nel contesto Ue» su https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/un-new-digital-deal-per-la-regolazione-delle-big-tech-le-azioni-agcom-nel-contesto-ue/ illustrando in particolare l’indagine conoscitiva relativa ai servizi offerti sulle piattaforme online, avviata con delibera n. 44/21/CONS.

[63] http://presidenti.quirinale.it/Pertini/documenti/per_disc_31dic_82.htm

[64] Citazione da ultimo del documentario “the social dilemma” di Jeff Orlowski e scritto dallo stesso Orlowski insieme a Davis Coombe e Vickie Curtis e presentato il 26 gennaio 2020 al Sundance Film Festival, oggi distribuito da Netflix

[65] https://www.lapaginagiuridica.it/wp-content/uploads/2019/10/A_74_48037_AdvanceUneditedVersion.pdf

[66] Articolo 9 del GDPR

Trattamento di categorie particolari di dati personali

  1. È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.
  2. Il paragrafo 1 non si applica se si verifica uno dei seguenti casi:
  3. a) l’interessato ha prestato il proprio consenso esplicito al trattamento di tali dati personali per una o più finalità specifiche, salvo nei casi in cui il diritto dell’Unione o degli Stati membri dispone che l’interessato non possa revocare il divieto di cui al paragrafo 1;
  4. b) il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato;
  5. c) il trattamento è necessario per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica qualora l’interessato si trovi nell’incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso;
  6. d) il trattamento è effettuato, nell’ambito delle sue legittime attività e con adeguate garanzie, da una fondazione, associazione o altro organismo senza scopo di lucro che persegua finalità politiche, filosofiche, religiose o sindacali, a condizione che il trattamento riguardi unicamente i membri, gli ex membri o le persone che hanno regolari contatti con la fondazione, l’associazione o l’organismo a motivo delle sue finalità e che i dati personali non siano comunicati all’esterno senza il consenso dell’interessato;
  7. e) il trattamento riguarda dati personali resi manifestamente pubblici dall’interessato;
  8. f) il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali;
  9. g) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato;
  10. h) il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3;
  11. i) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato, in particolare il segreto professionale;
  12. j) il trattamento è necessario a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici in conformità dell’articolo 89, paragrafo 1, sulla base del diritto dell’Unione o nazionale, che è proporzionato alla finalità perseguita, rispetta l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.
  13. I dati personali di cui al paragrafo 1 possono essere trattati per le finalità di cui al paragrafo 2, lettera h), se tali dati sono trattati da o sotto la responsabilità di un professionista soggetto al segreto professionale conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti o da altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti.
  14. Gli Stati membri possono mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riguardo al trattamento di dati genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute.

 

[67] Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979 e ratificata dall’Italia con legge 132/1985, rappresenta lo strumento giuridico

internazionale fondamentale in tema di diritti delle donne. L’attuazione della Convenzione viene monitorata dal Comitato il quale ai sensi dell’art. 21 della Convenzione stessa adotta le General Recommendations, atti con i quali offre un’interpretazione della Convenzione volta a fornire agli Stati indicazioni utili a ben definire il contenuto degli obblighi così da facilitarne l’applicazione. A questo proposito è utile ricordare che la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che si "dovrebbe attribuire particolare peso" alle interpretazioni fornite del Comitato per i diritti umani in relazione al Patto internazionale sui diritti civili e politici. Per analogia, la medesima rilevanza deve essere attribuita anche alle General Recommendations, del Comitato CEDAW. M. A. Freeman, Oxford Commentaries on International Law: Un Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women: a Commentary, Oxford, 2012

[68]  Basti pensare alle numerose pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di violenza contro le donne, alcune delle quali sono di condanna dell’Italia. In particolare sono identificabili 2 ambiti entro i quali la Corte ha adottato decisioni relative a fatti oggetto di giudizio da parte delle nostre corti nazionali e cioè in primis le valutazioni compiute dall’autorità giudiziaria italiana in tema di capacità genitoriale di madri vittime di violenza domestica, e talune situazioni di  inerzia o ritardo della magistratura italiana nella concessione di misure di protezione in favore di donne vittime di violenza domestica. Si tratta di interventi della Corte. I principali obblighi positivi degli Stati membri in materia di lotta alla violenza contro le donne affermati dalla giurisprudenza della Corte Edu, concernono l’interpretazione degli articoli 2, 3, 8 e 14 della Convenzione. Altre disposizioni convenzionali, rilevanti sono previste agli articoli 4 e 13. Per una disamina sintetica della giurisprudenza della Corte europea in materia di violenza si veda: https://www.coe.int/it/web/portal/-/implementing-echr-judgments-new-factsheet-on-domestic-violence-cases.

[69] v. rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta 17.6.2021, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf -

[70] v. rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta 17.6.2021, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf -

[71] COM (2022) 105 definitivo, 8 marzo 2022. La lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica rientra tra le attività della Commissione europea in materia di protezione dei valori fondamentali dell'UE e e rispetto dei diritti previsti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. La necessità di prevenire e combattere la violenza contro le donne, proteggere le vittime e punire gli autori di questi reati rientra nella Strategia per la parità di genere 20202025. L’intento di considerare queste tematiche è presente trasversalmente nella Strategia dell'UE sui diritti dei minori (2021-2024), nella Strategia dell'UE sui diritti delle vittime (2020-2025), nella Strategia di uguaglianza LGBTIQ 2020-2025 e nella Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030. Il Piano d'Azione sulla parità di Genere III fa della lotta alla violenza di genere una delle priorità dell'azione esterna dell'Unione. La presente proposta si basa sul combinato disposto dell'articolo 82, paragrafo 2, e dell'articolo 83, paragrafo 1, del TFUE. L'articolo 82, par. 2, del TFUE fornisce la base giuridica per stabilire norme minime riguardanti i diritti delle vittime di reato relativamente al riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale per questioni di dimensione transnazionale. L'articolo 83, par. 1, del TFUE interessa invece le norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni riguardanti lo sfruttamento sessuale di donne e minori e i reati informatici. L’1 giugno 2023, l’Unione Europea ha inoltre concluso, con due decisioni del Consiglio, il processo di adesione alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, processo che aveva incontrato molteplici ostacoli, non da ultimo la necessità di attendere il parere della Corte di giustizia dell’Unione europea, reso nel 2021 su richiesta del Parlamento europeo. La ratifica da parte dell’UE è espressamente prevista dalla Convenzione di Istanbul (art. 75) ed era tra le priorità dell’attuale Commissione come emerge dalla Strategia per la parità di genere 2020-2025. A questo proposito va rilevato che, la direttiva, una volta adottata a maggioranza qualificata, obbligherà tutti gli Stati membri dell'UE a rispettare le sue disposizioni, che riflettono in parte la Convenzione del Consiglio d'Europa e che continua ad essere contestata quei paesi europei nei quali la retorica anti-gender rappresenta una minaccia diretta ai progressi in materia di parità di genere. Va anche considerato però che l'UE può essere vincolata dalle disposizioni di un testo internazionale nei limiti delle sue competenze perciò la ratifica della Convenzione Europea da parte dell’UE (in vigore per l’Unione europea dal 1° ottobre 2023) riguarda de facto solo le disposizioni che rientrano nelle sue competenze, ossia la cooperazione giudiziaria in materia penale, l’asilo e il non respingimento. Per gli Stati membri dell’UE che non hanno ratificato la Convenzione di Istanbul, quest’ultima “entrerà” nel loro sistema giuridico perciò nei limiti delle competenze attribuite dai Trattati, del diritto derivato dell’Unione europea. Ciò implica che in materia di criminalizzazione, fatti salvi altri interventi legislativi a livello UE, gli Stati che non sono parte della Convenzione di Istanbul non avranno alcun obbligo giuridico, ma avranno pur tuttavia un obbligo di attuare misure di protezione delle vittime dei reati di cui alla Convenzione che costituirà per tutti uno strumento interpretativo del diritto europeo già in vigore.

[72] Ricordiamo che il 28 giugno la Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere e la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo hanno votato la loro posizione sulla Proposta di DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, Strasburgo, 8.3.2022  COM(2022) 105 final 2022/0066 (COD), chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52022PC0105

[73] Al riguardo la Cassazione sembra però ferma nella sua  posizione del tutto negativa ,si veda al riguardo Cass. Sez.1 30 gennaio 2017 ,n.2224.

[74] Attuale anche dopo la riforma Cartabia ( II comma art. 473 bis-11) applicazione delle disposizioni ni generali sulla competenza salvo che si tratti di minori.

[75] Si veda  al riguardo, ad esempio, in Veneto la Legge di data 23 aprile 2013 al n.5 .

[76] Tra gli altri,   Ancona.

[77] Per vero, un trojan o trojan horse (cavallo di Troia) è una tipologia di malware. L'allegorico epiteto di "trojan horse" deriva dalla sua modalità di inoculazione: esso viene infatti nascosto all'interno di un altro programma apparentemente innocuo; eseguendo o installando quest'ultimo programma installa o esegue di conseguenza anche il codice del malware. Quindi, il software viene comandato da un soggetto terzo, e può eseguire delle operazioni all’interno del dispositivo infettato.

In realtà, il metodo di inoculazione del malware può essere vario. E’ pertanto tecnicamente incorretto chiamare tale metodo di investigazione “trojan”.

[78] Si veda il comunicato dei docenti universitari rinvenibile al link https://www.unito.it/sites/default/files/documento_captatori_informatici_0.pdf

[79] Si veda, ex plurimis, CEDU, Klass and others v. Germany, (Application n. 5029/71), 6 settembre 1978, § 50.

[80] Rinvenibile al link https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0050160.pdf

[81] Si veda, a titolo di mero esempio, FR, Code de Procédure Pénale, Artt. 706-102-1, 706-102-2.

[82] Decreto ministeriale 20 aprile 2018 – Disposizioni di attuazione per le intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico e per l’accesso all’archivio informatico a nor- ma dell’articolo 7, commi 1 e 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216.

[83] La Corte di cassazione, con sentenza n. 31604/20, depositata l’11 novembre, ha rilevato come  il captatore informatico non possa in inquadrarsi tra "i metodi o le tecniche" idonee ad influire sulla libertà di determinazione del soggetto, vietati dall’art. 188 c.p.p. poiché «non esercita alcuna pressione sulla libertà fisica e morale della persona, non mira a manipolare o forzare un apporto dichiarativo, ma, nei rigorosi limiti in cui sono consentite le intercettazioni, capta le comunicazioni tra terze persone, nella loro genuinità e spontaneità».

[84] Tale bene giuridico, specificazione informatica del domicilio comune, è da intendersi – secondo interpretazioni più attente al valore sociale che il dato digitale ha acquisito nel tempo – sia come spazio fisico contenente dati riservati, sia come spatium vitae et cogitationis attraverso cui la personalità umana si estrinseca. Il bene giuridico tutelato si esprimerebbe quindi nella libertà di condurre, all’interno del luogo-sistema informatico, qualsiasi attività che non si ponga in contrasto con l’ordinamento di diritto. Ne discende che la tutela penale si concreterebbe nel momento di esercizio dello “ius excludendi alios” del dominus loci, estendendosi, al pari della tutela del domicilio fisico, sin dove la voluntas excludendi si spinga (posto il necessario rispetto di eventuali norme che autorizzino l’accesso).

[85] Si veda: GER, Bundesverfassungsgericht, Urteil des Ersten Senats vom 15. Dezember 1983 - 1 BvR 209/83;  Bundesverfassungsgericht, Urteil des Ersten Senats vom 27. Februar 2008, 1 BvR 370/07 u. a. – Online-Durchsuchung/Computer-Grundrecht

[86] Si veda in particolare il D.Lgs. 51/2018 di attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorita’ competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonche’ alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio.

 

[87] Ud. 21 dicembre 2017, Presidente Canzio, Relatore De Amicis

[88] Ma si veda poi anche la più nota sentenza Spano del 7 dicembre 1995 causa C-462/93 Spano e a.

[89] Baldini&Castoldi, 1995.

[90] "The Future of Employment", pubblicato da Oxford University Programme, 2013.

[91] Global Chief Investment Officer di Ubs Wealth Management. Il dato è contenuto nella ricerca di Ubs "Workforce Future 2016".

[92] «Gli studi di Arntz, Gregory e Zierahn chiariscono molti aspetti e mostrano in modo evidente come la ricerca di Frey e di Osborne (e quelle successive, basate su simili supposizioni) sia poco attendibile. Stando a quanto riportato dai tre ricercatori del “Center for European Economic Research” di Mannheim….esaminando 21 paesi della zona OCSE (tra cui anche l’Italia), gli autori evidenziano come –in generale– solo il 9% degli attuali occupati sia ad alto rischio “sostituzione”. In particolare, il pericolo del progresso tecnologico sembra essere minore in tutti quei paesi avanzati che investono di più nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), che spendono maggiormente nell’educazione terziaria», Giovanni Caccavello, research fellow in European Policy presso EPI Center ed Institute of Economic Affairs. Qual è il vero rischio dell’automazione del lavoro? Econopoly, 30 gennaio 2017.

[93] Il tasso di interesse nell'eurozona (e in generale nei paesi più industrializzati) è quasi a zero, da circa nove anni https://voxeu.org/article/evidence-low-real-rates-will-persist. Tra l’altro, per quanto attiene l’Italia, i tassi bassissimi non hanno avuto effetti significativi neanche sugli investimenti https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economia-italiana-in-breve/index.html. Il che, naturalmente, non significa che le politiche monetarie siano inutili o ininfluenti, ma solo che non sono di per sé sufficienti in relazione a disoccupazione ed impoverimento.

[94] I lavoratori part time sono aumentati in Italia di circa 10 punti, passando dall’8% a oltre il 18% dei lavoratori. Il numero delle ore lavorate medie  è, conseguentemente,  sceso (dati Istat).

[95] Il dato è notevolissimo, e va tenuto presente quando si leggono i numeri della disoccupazione. L’Italia conta il 50% in più della Germania, e il 66% più della Franca, di self-employed persons, vale a dire lavoratori autonomi. Una larga parte di questi autodichiarati autonomi lo è diventato per carenza di altri sbocchi lavorativi.

[96] Dati della Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2016/index.html.

[97] Medesima indagine Bankitalia del 2016: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2016/index.html.

[98] Dati Istat (https://www.istat.it/it/archivio/226611).

[99] Éditions du Seuil, 2013.

[100] Si veda in merito anche Povertà, a cura di Carlo Cefaloni, con testi di Leonardo Becchetti, Maurizio Franzini, Alberto Mingardi, Chiara Saraceno, Vittorio Pelligra, Città nuova, Roma 2016.Nel testo si ricorda come in Italia negli ultimi dieci anni la povertà si sia allargata a macchia d’olio, mettendo in ginocchio intere famiglie. La povertà è cresciuta in modo notevolissimo: più 141%, con l’8% della popolazione residente in Italia che vive nell’indigenza assoluta (4,6 milioni di persone).

[101] Il piano inclinato del capitale: crisi, competizione globale e guerre, Luciano Vasapollo, Editoriale Jaca Book, 2003.

[102] In Italia, tuttavia, per non farci mancare nulla, sono scesi mediamente anche i salari: https://medium.com/@OECD/what-happened-to-wage-growth-8df7b6dfe9b4

[103] E sempre ammesso che non si cada in quella che sopra abbiamo definito la ‘trappola dell’automazione’.

[104] È chiaro infatti che gli effetti di un aumento dei consumi sul lavoro si disperdono in larga parte, laddove una buona parte dei beni sul mercato provenga dalle importazioni. Anche se ciò non deve scoraggiare dall’intraprendere queste politiche, che non solo sono valide, ma che sostenendo anche i paesi in via di sviluppo, contribuiscono al buon andamento dell’intera economia mondiale.

[105] All’interno dei Giuristi Democratici occorre dare conto di una diversa posizione:

Nel documento si afferma che il reddito di cittadinanza “resta una soluzione di passaggio”. Lo si presenta come l’unica adeguata “risposta al cambiamento epocale che abbiamo vissuto” e se ne cita, tra i fondamenti culturali, Hegel, per cui «l'uomo è l'essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso» e come fondamento giuridico la Costituzione all’art. 4, ”laddove è scritto che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. L’equivoco è tutto nel fatto che laddove è scritto “attività” e “costruzione” viene letto “lavoro” e “orario”. Deve infatti essere riconosciuta come rilevante l’attività di cura dei propri cari e dell’ambiente in cui si vive, quella svolta nella coltivazione di se stessi o nella dimensione ludica e sociale, in favore della scelta di prevedere la necessità di un “lavoro” formale. Dunque dissentiamo dalla proposta, in quanto, lungi dall’essere una "risposta al cambiamento", difetta proprio nel non saper guardare all’oggi, al momento storico in cui il lavoro ha toccato il suo picco assoluto di sofferenza, svalorizzazione ed insensatezza relativamente alla capacità di favorire la “libera” espressione della propria personalità.

È cioè una proposta obsoleta e —nella misura in cui punta alla piena occupazione con un lavoro formale— tanto impossibile quanto indesiderabile. E che per altro ha il difetto, involontariamente, di volgere le spalle alle lotte delle nuove generazioni per inventare un mondo davvero nuovo e sostenibile ipotizzando altri milioni a pendolare ogni giorno tra quartieri dormitori e posti di “lavoro”, affossando in prospettiva il mercato delle attività culturali e assistenziali che sarebbe bruciato da un esercito di lavoratori di cittadinanza non specializzati da impiegare. Se poi invece essa sottende a una reindustrializzazione di massa avrebbe —per pura ipotesi di realizzabilità— delle conseguenze devastanti dal punto di vista ecologico, in quanto presupporrebbe un massiccio ampliamento dell’apparato produttivo che per funzionare dovrebbe dragare risorse energetiche, e produrre quantità di scarti, tali da accelerare l’orizzonte autodistruttivo del pianeta. Alla fine tutto ciò che di progressivo resterebbe è la natura “pedagogica” della proposta che rinvia alla parte meno libera e feconda delle esperienze del socialismo reale, dimenticando come già Marx invitasse alla lotta contro l’alienazione del lavoro salariato e il conseguente furto del valore prodotto, valore che —dagli operaisti in poi— abbiamo appreso essere estratto proprio da quelle libere “attività” di cui parla l’art. 4 della Costituzione e rispetto a cui il reddito si configura già come dovuto salario sociale senza bisogno di inventare elefantiache organizzazioni pubbliche di messa in produzione, sorveglianza e controllo dei disoccupati.

Per queste ragioni abbiamo espresso disagio nel riconoscerci nel lavoro di cittadinanza, e l’aspetto straordinario e unico dei Giuristi Democratici è che è stato ritenuto non solo possibile ma arricchente l’invito ad esprimere le ragioni del nostro dissenso, che si illustrano con queste righe unitamente ai motivi della rinnovata adesione.

 

[106] Umberto Terracini, La Costituzione e i diritti del lavoro, in Costituzione della Repubblica, Roma, 1948, da Dalla monarchia alla repubblica. 1943-1946, la nascita della Costituzione italiana a cura di Enzo Santarelli, L'Unità-Editori Riuniti.

  

 

 

 

Libro bianco dei Giuristi Democratici

Edizione 2023

 


Sommario

Premessa all’edizione 2023. 6

Qualcosa su di noi 7

  1. REPUBBLICA E COSTITUZIONE. 8
  2. a) Premessa. 8
  3. b) Sistema istituzionale. 8
  4. c) Sistema elettorale. 9
  5. d) Misure per la parità elettorale di genere. 12
  6. e) Personalismo della politica. 14
  7. f) Sul numero dei parlamentari e voto di preferenza. 14
  8. g) Quarto potere. 15
  9. h) La tentazione presidenzialista. 17
  10. UNIONE EUROPEA. 19
  11. a) Premessa. 19
  12. b) Cittadinanza sociale europea. 21
  13. c) Democrazia parlamentare piena. 21
  14. d) Riduzione del potere dei governi nell’Unione. 22
  15. e) Tutela dei diritti 23
  16. COSTITUZIONE DELLA TERRA. 24
  17. AUTONOMIA DIFFERENZIATA. 26
  18. a) Premessa. 26
  19. b) Profili problematici 27
  20. BENI COMUNI 30
  21. STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA. 32
  22. a) Referendum ammissibilità. 33
  23. b) Referendum- Quorum.. 34
  24. c) Raccolta firme referendum e proposta di legge di iniziativa popolare. 34
  25. d) Italiani all’estero. 35
  26. INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA. 35
  27. a) Magistratura ordinaria. 35
  28. b) Magistratura onoraria. 37
  29. c) Separazione delle carriere. 38
  30. VINCOLI DI BILANCIO.. 40
  31. TUTELA DELL’AMBIENTE. 41
  32. a) Premessa. 41
  33. b) La giurisprudenza costituzionale. 41
  34. c) Il principio internazionalista e la tutela ambientale. 43
  35. d) La recente modifica costituzionale. 44
  36. ASILO RESPINGIMENTI ED ONG. 46
  37. a) Premessa. 46
  38. b) Respingimenti 47
  39. c) Decreto Piantedosi 49
  40. LA NORMATIVA ANTIFASCISTA. 51
  41. a) Premessa. 51
  42. b) Attualità del pericolo di una involuzione autoritaria di tipo fascista nel nostro paese. 52
  43. c) La normativa in materia. 54
  44. d) L’attuazione della XII disposizione. 59
  45. e) Legge Scelba. 61
  46. f) Il saluto fascista tra legge Scelba e legge Mancino. 62
  47. g) Limiti alla propaganda politica. 68
  48. h) La Lista CasaPound. 70
  49. i) L’esclusione della lista. 73
  50. DEMOCRAZIA DIGITALE. 74
  51. a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale. 74
  52. b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa. 75
  53. c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale. 77
  54. d) L’improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale. 79
  55. e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti 81
  56. f) L’irresponsabilità delle piattaforme digitali nell’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale. 84
  57. g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B) 86
  58. h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA) 90
  59. i) Conclusioni 93
  60. LO STATO SOCIALE DIGITALE. 97
  61. a) Premessa. 97
  62. b) La verifica dell’identità. 98
  63. c) La valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali 99
  64. d) Il primato del diritto sul codice informatico: code is not law.. 100
  65. e) Proposta. 100
  66. f) Azioni concrete per una evoluzione digitale. 100
  67. g) L’uso degli algoritmi nel procedimento amministrativo ed open source nella PA.. 102
  68. h) Proposta. 105
  69. DIRITTO PENALE. 106
  70. a) Premessa. 106
  71. CRIMINI DI SISTEMA. 107
  72. CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. 109
  73. a) Premessa. 109
  74. b) Incentivare l’autonomia. 116
  75. c) Misure cautelari: proposte. 117
  76. d) I disegni di legge oggi in discussione. 119
  77. e) I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia. 119
  78. f) La formulazione degli atti 125
  79. g) Le fonti internazionali 127
  80. h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71. 131
  81. L’USO DI NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI NELLE INDAGINI PENALI 138
  82. a) Introduzione. 138
  83. b) Le Sezioni Unite nel 2016. 138
  84. c) La richiesta di intervento del legislatore. 139
  85. d) L’attuale regolamentazione normativa. 140
  86. e) La situazione odierna e le correlate problematiche. 140
  87. f) Le proposte. 141
  88. f) Considerazioni finali. 142
  89. LA PARTE OFFESA. 143
  90. ARTICOLI 613 E 97 CPP. 145
  91. a) Premessa. 145
  92. b) de iure condendo. 146
  93. c) proposta. 147
  94. CARCERE. 147
  95. a) Premessa. 147
  96. b) Proposte. 149
  97. ERGASTOLO OSTATIVO.. 150
  98. IL REGIME DETENTIVO SPECIALE EX ART. 41-BIS O.P. 151
  99. RIPORTARE LA COSTITUZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO.. 154
  100. a) Tutela reale contro ogni licenziamento illegittimo. 157

Considerazioni preliminari circa “la civiltà giuridica di questo paese”. 157

  1. b) I principi di diritto comune. 158
  2. c) La equiparazione del contratto di lavoro a tutti gli altri 160
  3. d) L’opera di demolizione della civiltà giuridica. 165
  4. e) La norma dichiaratamente classista di cui all’art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare) 167
  5. f) Il Jobs Act, ossia il trionfo del neoliberismo: dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti. 168
  6. g) “Sorvegliare e punire”: il panottico come modello e figura del potere nella società contemporanea. 169
  7. h) La istituzionalizzazione della precarietà. 171
  8. i) La disciplina dei licenziamenti 171
  9. l) Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico. 172
  10. m) Ripristinare lo stato costituzionale di diritto. 173
  11. n) Proposte. 174
  12. TRASFERIMENTO E CESSIONE D’AZIENDA. 175
  13. DELOCALIZZAZIONI 179
  14. PROCESSO DEL LAVORO SPESE DI GIUSTIZIA. 181
  15. PRECARIATO NEL PUBBLICO IMPIEGO.. 182
  16. a) Premessa. 182

b)I contratti ex art 110 tuel 182

  1. c) Problemi di coordinamento del quadro normativo dopo il Decreto Dignità. 184
  2. d) Sulla causalità dei rapporti/contratti 184
  3. e) Sulla decadenza. 184
  4. IL RAPPORTO DI LAVORO NELLE COOPERATIVE. 185
  5. IL DIRITTO DI CITTADINANZA SOCIALE. 187

DIRITTO AL LAVORO E REDDITO.. 187

  1. a) Premessa. 187
  2. b) Il nuovo patto sociale. 190
  3. c) Il diritto al lavoro. 191
  4. d) La proposta. 192
  5. e) Il campo di lavoro. 194
  6. f) Il diritto europeo di cittadinanza sociale. 195
  7. REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE. 196
  8. a) Premessa. 197
  9. b) Formule (o “ricette”) per l’occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva. 198
  10. c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta. 200
  11. d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo. 201
  12. e) L’utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell’incremento occupazionale. 202
  13. f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario. 204
  14. g) Una proposta vantaggiosa per tutti. 207
  15. CASSA FORENSE. 209

Proposta. 210

  1. SECONDE GENERAZIONI 210
  2. I Appendice giurisprudenza antifascismo. 212

Allegato n. 1. 212

Allegato n. 2. 213

Allegato 3. 216

 

 

 

Premessa all’edizione 2023

L’idea posta alla base del lavoro che ha portato alla redazione del Libro Bianco, che finalmente vede ora la luce, era quella di consegnare alle forze politiche, sindacali ed associative approfondimenti e proposte su molte, se non tutte, le problematiche che coinvolgono la tutela dei diritti dei cittadini, consegnando, così, alla società civile un quadro di insieme di analisi e proposte che un’associazione come la nostra ha elaborato negli anni, ispirandosi sempre ad un assoluto e completo rispetto dei valori costituzionali.

Come è noto, l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici non è monosettoriale, né corporativa, onde lo sforzo compiuto è stato particolarmente esteso e di ardua realizzazione ed ha richiesto circa due anni di lavoro.

Ora, se ciò ha consentito una più completa disamina dei temi che occupano l’attività ed i progetti dell’Associazione, ha determinato che una serie di avvenimenti, di normative nuove possano aver reso meno attuali i riferimenti e le progettualità esposte nel Libro Bianco.

In particolare, l’esito delle elezioni politiche, con il successo della Destra e specificamente del partito più notoriamente vicino al fascismo, ha reso ancora più rilevante la problematica della difesa dei valori costituzionali, già messi in forte pericolo durante il periodo berlusconiano ed oggi attaccati senza alcuna remora da FdI e Lega.

In questo senso, ulteriori argomenti ed approfondimenti saranno necessari in tema di richiesta di modifiche costituzionali circa l’introduzione di forme di premierato.

Anche la riforma elettorale necessiterà di ulteriori aggiustamenti rispetto a quanto già da noi scritto nel Libro Bianco.

Ed ancora: l’entrata in vigore della Riforma Cartabia, peraltro oggi rimessa in discussione dal Governo e dalla maggioranza parlamentare, meriterebbe e meriterà un ulteriore approfondimento in vista della attuazione di un vero “giusto processo”, con il rispetto delle garanzie dei diritti dei cittadini e del diritto ad una piena uguaglianza.

Il prossimo tema in discussione sul fronte giustizia, la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, andrà ulteriormente esaminato.

La delicata questione della situazione delle carceri (dall’incremento del numero di suicidi al caso Cospito) ha acquisito un rilievo maggiore di quanto fosse immaginabile.

Analogo discorso può e deve essere fatto con riferimento all’aggravarsi della situazione immigrazione, che ha assunto, secondo il Governo, caratteristiche di emergenza, cui si intenderebbe intervenire con interventi disumani.

Ed infine, la questione della guerra in Ucraina, che ha creato spaccature non certo sulla responsabilità dell’aggressione, pacificamente attribuita alla Russia, ma sulle modalità per fermare questa guerra, che rischia, come minimo, di determinare uno stallo che può durare anni, con incommensurabili perdite di vite umane, e come massimo di portare alla catastrofe nucleare.

Insomma, per concludere, un ulteriore esame di tutte le problematiche relative alla tutela dei diritti dei cittadini richiederebbe un aggiornamento continuo delle analisi, il che porterebbe alla concreta impossibilità di intervenire in tempi reali sui singoli argomenti: dunque, abbiamo deciso consapevolmente di pubblicare il lavoro fino ad ora fatto, ben consci di una sua parziale inadeguatezza rispetto alle modifiche ed alle novità sopravvenute, ma convinti di produrre un utile materiale di analisi e di approfondimento che potrà essere via via aggiornato con produzioni di documenti settoriali.

 

Qualcosa su di noi

L'associazione Giuristi Democratici si è ricostituita formalmente nel 2004 dopo essere stata fondata nel secondo dopoguerra, tra gli altri, da Umberto Terracini, Bianca Guidetti Serra, Ugo Natoli, Romeo Ferrucci, Raimondo Ricci e Lelio Basso.

Fanno parte dell'associazione, orientata politicamente a Sinistra, avvocati, magistrati, funzionari pubblici, studiosi del diritto appartenenti al mondo dell'Università e della ricerca.

L’Associazione italiana è parte dell'associazione europea dei giuristi democratici (ELDH) e dell'associazione internazionale avvocati per i diritti umani (IADL).

Il fine dell'associazione è quello di promuovere un concreto impegno di tutti gli operatori del diritto a difesa e per l'attuazione dei principi della Costituzione repubblicana, democratica, laica e antifascista, delle istanze progressive per l'applicazione della Convenzione dei Diritti umani, per il garantismo penale, per la realizzazione di una Costituzione europea autenticamente democratica, fondata sul ripudio della guerra, con particolare riguardo ai diritti dei lavoratori, dei meno abbienti e degli emarginati e ai diritti di associazione, libertà di circolazione, riunione e manifestazione del pensiero.

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È possibile inserire nell'apposita sezione della dichiarazione dei redditi il codice fiscale dell'Associazione Nazionale Giuristi Democratici: 91239960379.

Associazione Nazionale Giuristi Democratici CF: 91239960379,

Vicolo Buonarroti, 2 - 35132 Padova

 

 

1.    REPUBBLICA E COSTITUZIONE

 

a) Premessa

Tra le sue primarie finalità l’Associazione Giuristi Democratici vanta la difesa della Costituzione delle Repubblica, la promozione della sua attuazione e la diffusione della conoscenza dei suoi principi e valori. Noi vogliamo che il sistema democratico nel quale siamo cresciuti e ci siamo formati come cittadini, diventi patrimonio dei nostri figli; non potremmo fare loro regalo più grande che contribuire a preservare il prezioso lavoro delle donne e degli uomini che hanno fondato la Repubblica nata dalla resistenza.

Quella italiana è una Costituzione condivisa ed è il risultato di una esperienza e di un percorso storico, politico e culturale.

Storico, perché segna la presa di coscienza di un popolo nei confronti della dittatura fascista, della guerra, e dell’occupazione nazifascista. La Costituzione segna il punto di arrivo della consapevolezza della unità nazionale, dal percorso risorgimentale, dalla formazione di uno stato unitario portatore dei principi di libertà, di uguaglianza formale e di laicità, fino al raggiungimento dei principi di uguaglianza sostanziale di solidarietà/fratellanza nel rispetto della dignità e della realizzazione individuale della persona umana, nell’ambito dei diversi contesti sociali.

Politico, perché segna i principi condivisi tra i principali filoni di pensiero sviluppatisi nell’ultimo secolo di storia, liberale, liberalsocialista, socialista e comunista e cristiano sociale e cattolico nonché la condivisione di essi tra le diverse componenti sociali presenti nel Paese.

Culturale, perché tutte le componenti sociali, consapevoli di non voler ripetere gli errori e gli orrori del passato, hanno inteso affermare i principi di solidarietà ed il rispetto formale e sostanziale dei diritti e della dignità umana, in senso universale, nei confronti di tutti i popoli e di tutte le persone, affermando il ripudio della guerra per la risoluzione delle controversie internazionali.

Da questo fondamentale punto di partenza, da difendere e tutelare, si può e si deve partire per riconoscere, affermare e tutelare i nuovi diritti, che permetteranno un rilancio del senso di solidarietà delle nostre comunità.

 

b) Sistema istituzionale

In termini politico istituzionali, i Giuristi Democratici lavorano per il rafforzamento dei bilanciamenti costituzionali e per la rigorosa separazione dei poteri.

Ciò che appare utile da difendere e da potenziare, tra le altre cose, è infatti un modello dove poteri istituzionali e poteri di governo siano separati.

Il quadro tradizionale prevedeva una suddivisione di tre poteri (giudiziario, legislativo e esecutivo). Una democrazia compiuta non può fondarsi solo su questa tripartizione.

Da un lato va integrata con il riconoscimento di un potere partecipativo, del popolo e delle sue espressioni organizzate.

In tal senso deve essere valorizzato il concetto di isonomia.

Come molti ricordano, ad Atene, prima del concetto di democrazia, ossia governo del demos, si impone un concetto ben più pregnante, quello di isonomia. Dal greco isos: "uguale" e nomos. Tradizionalmente si traduce questo concetto come uguaglianza davanti alla legge. Ma non è corretto.

Infatti nomos viene dal verbo greco νέμω (“nemo”) che significa “distribuisco”, “faccio le parti”. Tanto che l’etimologia di nomos è la stessa di numero (ossia parte). Il concetto di isonomia, quindi è quello di eguale ripartizione. Il sistema isonomico quindi è il sistema che garantisce una corretta ed eguale ripartizione.

Il concetto, anche di recente è stato adoperato in riferimento alla corretta ed equa ripartizione del potere pubblico (o della partecipazione al potere pubblico).

 “Questa operazione è tutta ispirata dal principio di isonomia, in base al quale tutti hanno diritto alla stessa quota di sovranità”… Vi è una forte correlazione logica e materiale, infatti, tra l’apposizione di limiti al potere e la libertà e l’uguaglianza, tra una giuridicità diffusa e una democrazia: per questo la democrazia può essere indicata come «un regime nel quale si riconosce al cittadino, ad ogni cittadino, la capacità di creare diritto» e che «non afferma solo il principio della pari dignità di ogni cittadino, ma della sovrana pari dignità di tutti i cittadini» (7 C. ESPOSITO, Commento all’art. 1 della Costituzione)”[1].

 

Nel contempo, e sempre in questo quadro, va separato dai tre poteri tradizionali, il potere istituzionale. Un potere arbitro, e garante di tutti gli altri poteri, così come delle regole costituzionali.

Anche per tale ragione i Giuristi Democratici hanno sempre espresso contrarietà al modello costituzionale presidenziale.

 

c) Sistema elettorale

Nessun tema più della legge elettorale coinvolge il principio democratico.

Anche il potere elettorale popolare deve incontrare dei limiti, si deve scongiurare quella che è stata definita la ‘dittatura della maggioranza’.

L’obiettivo deve essere quello di lavorare per una messa in sicurezza ulteriore della nostra Costituzione, affinché essa stessa sia a riparo da modifiche in mano alla estemporanea maggioranza, e affinché si implementino i bilanciamenti ed i contropoteri, autonomi rispetto al governo di turno.

Una riflessione moderna sulla democrazia deve infatti considerare che il corpo elettorale esprime l’interesse degli elettori attuali e raramente prende in considerazione i problemi futuri (ad esempio si veda il degrado ambientale).

Inoltre l’attribuzione di tutto il potere (governativo e legislativo) in un singolo momento elettorale plebiscitario non è prudente. È all’interno di una tale riflessione che occorre valutare in concreto i singoli istituti e contrappesi della democrazia rappresentativa[2].

Il Parlamento deve rappresentare tutti ed essere uno specchio del Paese. Le distorsioni sono antidemocratiche.

Negli ultimi anni i sistemi elettorali (ad esempio il “Rosatellum”), pur presentando alcuni aspetti positivi, quali la visibilità dei candidati nel collegio uninominale, hanno sostanzialmente deluso le aspettative che avevano suscitato. Si è prodotta una artificiale rarefazione dell'offerta politica (e quindi della possibilità dei cittadini di essere rappresentati), provocando una conseguente rarefazione della rappresentanza sociale, senza raggiungere i risultati promessi in termini di riduzione della frammentazione. Infatti non è diminuito il numero dei partiti, né il potere delle loro burocrazie, né la loro litigiosità, né i cittadini si sono avvicinati ai loro rappresentanti. Anzi è stata favorita una torsione oligarchica del sistema politico, favorendo il congedo delle classi popolari dalla politica, ridotta ad una gara di opinioni e di potere, con molti spettatori e sempre meno protagonisti.

Ne è scaturita una rendita di posizione per i dirigenti dei principali partiti politici, i quali venivano esonerati dalla concorrenza dei partiti minori e favoriti dalla rarefazione forzata dell’offerta politica.

Gli effetti delle leggi elettorali restrittive si sono intrecciati con il taglio di un terzo dei parlamentari, generando un sistema che premia oltremodo chiunque abbia anche la più piccola maggioranza. Le liste che godono e godranno, nei singoli territori, anche di una piccola maggioranza conquisteranno una larga maggioranza nazionale dei seggi. Una maggioranza sproporzionata rispetto ai voti ottenuti.

Ad esempio, la legge elettorale oggi in vigore può consentire ad una coalizione di conquistare gran parte dei collegi uninominali, puntando ad eleggere i 2/3 dei parlamentari. Un numero che permetterebbe un’agevole modifica del testo costituzionale e impedirebbe di chiedere il referendum popolare per impedire le modifiche della Costituzione.

Le norme in vigore per la modifica della Costituzione (art 138) furono, infatti, scritte in presenza di un sistema elettorale proporzionale e non sono mai state modificate per impedire che il maggioritario mettesse la Costituzione nelle mani di una minoranza di elettori per effetto di meccanismi elettorali premiali.

I moniti di chi scrive e dei più avveduti costituzionalisti, purtroppo, sono caduti nel vuoto. A questo punto, essendo caduti inascoltati gli appelli a cambiare la legge elettorale, è necessario un nuovo richiamo.

L’Associazione dei Giuristi Democratici propone quindi di tornare ad un sistema elettorale proporzionale puro. Ovviamente taluni modesti correttivi possono essere apportati.

I fautori degli sbarramenti, impliciti ed espliciti, affermano che questi rispondevano a due esigenze. Da un lato quella della governabilità: aiutare le forze maggiori a crescere, favorirebbe la formazione di maggioranze stabili. Nel contempo fornirebbe una buona motivazione alle forze minori ad aggregarsi, superando una rissosità interna che, talora, era legata a ragioni difficilmente comprensibili agli elettori.

A queste argomentazioni, però, se ne contrappongono altre, non meno valide.

Una di principio: il Parlamento è il luogo della rappresentanza e la legge elettorale non dovrebbe servire a indurre comportamenti virtuosi. Il sistema elettorale deve comportarsi come un buon traduttore: qualunque cosa dica chi è tradotto, certamente non è compito del traduttore correggerlo.

Peraltro, il difetto delle riforme dei sistemi elettorali consiste sempre nel fatto che sono promosse da chi governa in un determinato momento storico ed è chiaro che chi governa porta acqua al proprio mulino.

Insomma, in un paese in cui la cultura democratica è consolidata, e che vuole evitare una alterazione strumentale della rappresentanza politica, la legge elettorale è super partes, condivisa ed equa.

Si può prevedere uno sbarramento per formazioni molto piccole, non tanto perché non meritino di essere rappresentate, ma per favorire le aggregazioni.

Si può ipotizzare qualche piccolo premio implicito alle formazioni maggiori, ma l’essenza deve essere quella per cui la rappresentanza politica deve aprirsi, per rilanciare il senso di appartenenza e partecipazione dei cittadini. Non è chiudendo il Parlamento alla rappresentanza che si garantisce la governabilità del paese. Periodicamente riaffiora, invece, la proposta di una riforma elettorale che attribuisca la maggioranza dei seggi ad una minoranza, attraverso artifizi vari. Elezioni che conferiscano tutto il potere ad una forza politica, o meglio ancora ad un singolo gruppo dirigente. 

Non è pensabile governare contro la maggioranza del popolo, non solo per ragioni democratiche, ma perché la storia insegna che si tratta di esperienze improduttive. 

Sotto altro profilo, si è osservato che la rissosità di corrente, interna ai partiti è addirittura superiore a quella tra i partiti della coalizione di governo.  Dunque introdurre soglie, ed indurre a aggregazioni posticce non migliora l’armonia delle forze che sostengono l’Esecutivo, né riduce il potere di ago della bilancia, di piccole formazioni di deputati.

d) Misure per la parità elettorale di genere

Il principio di parità tra i sessi si configura, dunque, come irrinunciabile elemento costitutivo di qualsivoglia sistema statale costruito sui principi di libertà ed uguaglianza e proteso al buon funzionamento delle sue istituzioni[3].

Su questo presupposto, il legislatore è intervenuto con più riforme costituzionali, al fine di permettere l’inserimento nel sistema elettorale italiano di strumenti volti a correggere le disparità di genere all’interno delle assemblee rappresentative.

Dapprima con la legge costituzionale n. 2 del 2001, e poi con le leggi costituzionali n. 3 del 2001 e n. 1 del 2003, sono state poste le basi per ogni successivo intervento normativo in tal senso, il cui spirito è sintetizzato nel nuovo capoverso del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione (“La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini“) e nel settimo comma dell’articolo 117 (“Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive“).

Da quel momento, tutte le riforme volte ad inserire strumenti che facilitassero un riequilibrio della rappresentatività di genere, hanno superato il vaglio di Costituzionalità, sino a giungere all’attuale disciplina contenuta nella legge n. 165 del 2017 (il già richiamato Rosatellum).

Il Rosatellum è un sistema elettorale misto, con prevalenza della componente proporzionale.

Il 37,5% dei seggi è assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre quelli rimanenti sono attribuiti con sistema proporzionale.

Ciò premesso, l’attuale legge elettorale ha introdotto quattro diverse previsioni volte ad agevolare un equo bilanciamento tra i sessi nella rappresentanza parlamentare, riguardanti l’elezione presso sia i collegi uninominali che quelli plurinominali.

Le prime due previsioni riguardano il metodo proporzionale e dispongono che “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere” e che “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento“.

La terza previsione, invece, riguarda i collegi uninominali e, in maniera simile alle precedenti, stabilisce che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento” nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione, a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato.

La quarta e ultima previsione, infine, riguarda i poteri di controllo affidati all’Ufficio centrale nazionale e all’Ufficio elettorale regionale.

Tali previsioni, di sicuro impatto nella promozione del riequilibrio di genere, suscitano alcune riflessioni problematiche se considerate nel contesto elettorale nel suo complesso.

Per un primo aspetto, indicare la soglia del 60 per cento anziché del 50 per cento, pone evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio di pari opportunità di accesso alla competizione elettorale, poiché ogni strumento volto al raggiungimento di quegli obiettivi costituzionali prima evidenziati, non può che essere improntato ad un trattamento eguale e paritario.

Per un secondo aspetto, è insensato che la circoscrizione Estero sia stata del tutto esclusa dall’applicazione da ogni misura volta al riequilibrio della rappresentanza di genere, acuendo le critiche già espresse in merito alla creazione di una circoscrizione elettorale del tutto separata dal circuito nazionale.

Occorrerebbe poi maggiore attenzione alla visibilità delle candidature, ossia alla collocazione in lista delle donne.  

Per altro verso, le sanzioni previste per il mancato rispetto della parità di genere devono essere maggiormente severe ed efficaci.

Infine, le disposizioni sin qui esposte vengono grandemente depotenziate dal sistema delle pluricandidature, per cui è consentito che un candidato sia presente più volte in diversi collegi plurinominali (con un limite di cinque).

Ciò che accade, nel concreto, è che i candidati cd. “blindati” (cioè coloro che il partito intende far entrare in parlamento) vengono di fatto presentati in più collegi, in parte aggirando l’alternanza di genere. Se la candidata da blindare è una donna infatti – e si tratta di un’eventualità meno frequente del contrario – verrà indicata quale prima candidata in più collegi e la sua vittoria in uno di questi, permetterà a tutti gli uomini indicati quali secondi negli altri di essere eletti, con un rapporto di quattro ad una. Se invece il candidato da blindare è un uomo, piuttosto che indicarlo quale capolista in più collegi, lo si inserisce quale secondo in lista di un collegio in cui, con tutta probabilità, la prima candidata verrà eletta in un altro collegio, lasciando libero il posto al candidato blindato.

Questo sistema ha permesso alle forze politiche – chi più e chi meno – di eleggere nell’ultima tornata elettorale, nei soli collegi plurinominali, il 64 per cento di uomini e il 36 per cento di donne, con aggiramento della parità di genere.

 

e) Personalismo della politica

Negli anni del bipolarismo e del maggioritario, inaugurati dall'elezione diretta dei sindaci e proseguita con i collegi uninominali del Mattarellum e infine con la lunga e devastante stagione dei premi di maggioranza trainati dai “capi” delle coalizioni, l’attenzione si è spostata sul voto ‘alla persona’.

 L’effetto, peraltro prevedibile, è stato quello di una battaglia politica che, dai programmi e dalle visioni del mondo, si è spostata sulla persona dell’avversario.

Si così è generato un inasprimento della battaglia politica, che non solo è scivolata sul personale, ma che si è trasformata in una lotta senza esclusione di colpi.

Avere buone idee, o validi ideali, non è più stato essenziale. In una corsa a due, basta dimostrare che l’altro è peggio di te. Da una battaglia sulle proposte, si è scivolati, velocemente, ad una demolizione personale dell’avversario.

Il sistema proporzionale ha quindi anche questo vantaggio: ciascuno corre in parallelo agli altri e deve farsi carico di proposte e valori, senza poter fare conto sulle cadute degli altri contendenti.

 

f) Sul numero dei parlamentari e voto di preferenza

La costituzione italiana è un organismo complesso. Si fonda su un accorto bilanciamento, modificarla senza un grande progetto democratico è sempre un errore, soprattutto se le revisioni del testo costituzionale non sono meditate dal ceto politico.

Tagliare il numero dei parlamentari non è solo una questione di numeri o di costi, si tratta di una riforma destinata ad incidere sulle modalità di organizzazione della rappresentanza politica attraverso la quale si esprime e si realizza il principio fondamentale della Repubblica secondo cui la sovranità appartiene al popolo e che attribuisce al parlamento un ruolo centrale nel nostro sistema democratico.

Il consenso all’ultima riforma costituzionale è stato alimentato da un grande equivoco, ossia che riducendo il numero dei parlamentari si punisca la casta mentre, al contrario, si puniscono i cittadini che vedranno diminuita la possibilità di eleggere un “proprio” rappresentante.

Minando il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Aumenta, anche geograficamente, la distanza fra rappresentato e rappresentante e viene ulteriormente sacrificato il pluralismo, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante.

È certamente vero che la classe politica, oggi, è avvertita come un gruppo “sociale e professionale” privilegiato a sé stante, separato dai cittadini. Ed è altrettanto vero che questa stessa classe politica deve mostrare in prima persona di essere in sintonia con l’elettorato, anche nella consapevolezza della difficoltà del vivere quotidiano di milioni di persone. Tuttavia è preoccupante che il rapporto sia inteso solo come rapporto di tipo economico e che il parlamentare sia inteso solo come uno stipendiato, non come il proprio rappresentante nelle istituzioni. Il cittadino dovrebbe essere ben consapevole che il suo interesse è quello di avere la massima presenza, la massima rappresentanza nelle istituzioni. Ci sono ben altri costi da tagliare e potranno essere tagliati solo se l’elettore sarà rappresentato

Nel contempo va ricordato che vi è una ragione se si è giunti a questo punto. Il rapporto diretto con un deputato, percepito come proprio, è venuto completamente a cessare da molti anni. Era un rapporto che si fondava soprattutto sul voto di preferenza Da molti anni i deputati sono, per lo più, indicati dai vertici di partito e, per questo motivo, l’elettore non avverte alcun collegamento diretto con lo specifico deputato, perché non lo ha scelto e talvolta non sa neanche chi sia. Ed il deputato non è all’elettore che sente di dovere una risposta, posto che le sue possibilità di rielezione derivano solo dall’essere ricandidato (magari in un collegio sicuro), dal vertice del proprio partito. In questo quadro è chiaro che per l’elettore sia piuttosto indifferente al numero di deputati: i deputati eletti non lo rappresentano in Parlamento, rappresentano il (suo) partito.

Il taglio dei parlamentari sommato alle norme elettorali in vigore apre una ferita nella capacità di rappresentare i cittadini, i territori, le posizioni politiche esistenti nel paese, creando per di più squilibri tra le aree territoriali a parità di popolazione.

Ciò è tanto più grave alla luce della legge elettorale vigente caratterizzata da una forte quota maggioritaria (3/8 dei seggi) con liste bloccate nel proporzionale e voto obbligatoriamente congiunto tra candidato uninominale e lista collegata, con l’effetto di comprimere notevolmente la possibilità dell’elettore di scegliere i propri rappresentanti.

La crisi della rappresentanza politica non si può curare riducendo il numero dei rappresentanti ma facendo sì che gli elettori possano tornare a scegliere direttamente i propri rappresentanti di modo che il Parlamento ritorni ad essere il motore della democrazia.

 

g)  Quarto potere

Il principio di separazione dei tre poteri dello Stato risale al ‘700, a Montesquieu, che scrivendo dello spirito delle leggi, affermava come ogni funzione statale (legislativa, amministrativa e giudiziaria) debba essere esercitata da organi diversi, in modo che “il potere arresti il potere”.  Montesquieu traeva spunto, peraltro, da pensatori precedenti. Il filosofo Locke, aveva distinto tra funzione legislativa, esecutiva e federativa (relativa ai rapporti di politica estera).

Il principio di separazione dei tre poteri canonici, ha portato le democrazie occidentali, in linea di massima, a prevedere l’indipendenza della magistratura, ed a separare l’organo di vertice dell’amministrazione (ossia il Governo) dal Parlamento, cui è attribuita la funzione legislativa

Oltrepassate le soglie del nuovo millennio, occorre però chiedersi, se davvero i poteri da tenere separati siano solo tre. E conviene particolarmente chiederselo, nel momento in cui sono ancora vive nella memoria le immagini dei tristi fatti del gennaio 2021, quando i manifestanti pro Trump assalirono il congresso degli Usa per cercare di impedire la transizione presidenziale, e dell’8 gennaio del 2023, con i tumulti di Brasilia.

Rileggendo a mente fredda quei fatti, ci si accorge del principale problema del sistema presidenziale:  manca un arbitro che sia al di sopra delle parti, il cui unico compito sia quello di far rispettare le regole. Quando Trump annunciava che non avrebbe lasciato il potere, nessuno, sopra di lui, poteva richiamarlo all’ordine. Il presidente americano è capo dell’esercito (Commander in Chief), è vertice delle istituzioni, ed è anche il capo del governo, quindi non ha nessuno sopra di lui.

Si comprende allora come, in una democrazia matura, vi sia un ulteriore, fondamentale potere, che merita riconoscimento e tutela, ed è il potere attribuito agli organi deputati al mero rispetto delle regole costituzionali.

In termini teorici, si può discutere se questo sia un quarto potere, se sia la somma di tutti gli altri, se sia un potere neutro o meno, così come si discute se il bianco sia un colore, o la compresenza di tutti i colori.

Ciò che rileva è che questo ruolo di Garanzia, e di vigilanza, è essenziale nella democrazia moderna, perché la garantisce nella sua sopravvivenza. Tuttavia non si attiva solo nei momenti più drammatici, ma si esplica nel quotidiano della vita repubblicana. È il potere di definire i conflitti tra gli altri tre poteri, e di spingerli verso il rispetto dei propri confini.

Nel corso dei secoli, le democrazie hanno sviluppato questo potere di Garanzia, a discapito degli altri poteri. Ciò si inscrive in una tendenza più globale che riguarda tutti i poteri, non solo quelli pubblici.

Le riflessioni sulla democrazia matura, per cui abbiamo recuperato la definizione di Isonomia, mirano a tracciare un percorso evolutivo: ridurre lo spazio del potere, inteso come scelta arbitraria, per sottomettere ogni, pur minimo, potere, alla regola.  E quindi comprimere, bilanciare, frammentare, controllare e regolamentare ogni forma di potere, pubblico o privato, fino a togliergli l’essenza di potere per far emergere l’essenza di funzione.

La democrazia matura è quindi l’era politica in cui la Regola, democraticamente generata, nel compromesso, nella tutela delle minoranze, nel principio di partecipazione, prevale sull’esercizio arbitrario del potere. Tanto colui che è apparentemente sovraordinato (il generale, il magistrato, il proprietario), che colui che è apparentemente sotto ordinato (il soldato, l’imputato, il dipendente) hanno una via segnata e delimitata dallo steccato della norma. Il funzionario pubblico (ma anche privato), a qualunque livello, non può più fare ciò che vuole, ma è tenuto e muoversi all’interno di regole predefinite. In tal modo il potere diviene funzione.

In questo quadro si legge la crescita del potere di Garanzia (o, più correttamente, la funzione di garanzia, perché anche il garante deve agire secondo le regole). La partita democratica trova il proprio arbitro, ed i propri guardalinee.  Arbitri sempre contestati, naturalmente, perché è ben noto come i poteri siano allergici ai limiti, alle regole, agli steccati.  Ed è proprio per questo che questo quarto potere deve essere tenuto ben vivo, fortificato e separato rigorosamente dagli altri. Arbitro e giocatori non possono coincidere, se non si vuole il ripetersi della tragedia (democratica) americana, e di tanti altri paesi che hanno sottovalutato il tema e sono scivolati verso forme che non possono più definirsi, a rigore, democratiche. 

E qui va detto, ancora una volta, che la nostra Costituzione è stata davvero lungimirante e matura. Ha delineato la Corte costituzionale, che è sicura manifestazione di questo potere di Garanzia, e che giudica i conflitti tra i poteri dello Stato, e ha creato la figura apicale del Presidente della Repubblica.

 

h) La tentazione presidenzialista

Si riaffacciano, periodicamente, in Italia, le tentazioni presidenzialiste. Uno degli argomenti su cui si fa leva è quello per cui l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, renderebbe il sistema più democratico.

Vale però la pena di affrontare il tema con attenzione, per verificare se davvero il presidenzialismo sia un modello che si prospetta, nel futuro, come evoluzione naturale della democrazia, o se invece al contrario sia un relitto del passato, un attrezzo desueto e poco funzionale.

La Costituzione definisce il Presidente della Repubblica “Capo dello Stato” e “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87). Gli attribuisce la funzione di garanzia costituzionale, cioè di preservazione di quel patto fondamentale – la Costituzione – che unisce i cittadini fra loro ed è condizione di quell’unità dell’intera nazione che egli rappresenta. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2013, definisce il Presidente “garante dell’equilibrio costituzionale”.

Non può sfuggire, e lo dimostra il sentimento diffuso dopo la rielezione del Presidente Mattarella, come questa figura sia in netta crescita rispetto alle altre. Un soggetto che non rappresenta la maggioranza di governo, né un orientamento partitico. Tuttavia la figura del Presidente della Repubblica non è una fredda figura tecnica, il Presidente non è, e non è visto, come un mero arbitro.  Egli viene riconosciuto simbolicamente come portatore degli interessi dell’Istituzione, e del Popolo, come pure del Bene Comune. Un soggetto, quindi, che resta politico, ma che è chiamato a svolgere un ruolo super partes, e che viene tenuto a riparo, saggiamente, dal fango delle accuse incrociate, perché istintivamente i partiti ed i politici sanno che poggiamo tutti su un terreno comune, che può franare.

Il Presidente non è portatore della politica della maggioranza, ma incarna la Repubblica. Questa funzione simbolica è talmente forte, da avere un rilievo nei processi democratici, ed incide financo sul carattere individuale. Si può osservare come, salvi rari casi, chi è stato chiamato a ricoprire la carica presidenziale ha sentito il ruolo, e lo ha interpretato in modo corretto.

Si è sopra accennato al tema della separazione dei poteri. La riflessione sulle forme più avanzate di democrazia ci ha portato a evidenziare l’esigenza di frammentare la concentrazione del potere in un solo individuo, e di assegnare ad un soggetto super partes quello che si è definito il quarto potere.

La repubblica presidenziale, tradizionalmente auspicata dalla destra italiana, è invece articolata sui tre poteri canonici. Al presidente della repubblica, eletto direttamente dal popolo, è attribuito sia il ruolo di vertice dell’Istituzione, che in Italia oggi è svolto dal Presidente della Repubblica, sia il ruolo di capo del governo. Introdurre il presidenzialismo in Italia significa quindi eliminare la figura del Presidente della Repubblica come la conosciamo noi, di soggetto sopra le parti. Il premier assumerebbe entrambi i ruoli.

Questa semplice considerazione permette di capire perché si tratta di un arretramento. In Italia il Presidente della Repubblica è espressione del quarto potere, così come lo sono i presidenti delle Camere, le molteplici autorità indipendenti, i garanti etc

In questo contesto è chiaro che, se il Presidente fosse eletto dal popolo, non potrebbe più svolgere un simile ruolo.

L’attuale Presidente della Repubblica agisce e deve agire per il bene della collettività nel suo insieme, senza favorire una parte politica. Storicamente questo ruolo sopra le parti è stato interpretato con grande dignità dai presidenti che si sono alternati: Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ciascuno di loro si è anche esposto a critiche, ma non può non emergere il senso complessivo di una funzione rilevante, che è cresciuta nel corso del tempo, l’autorevolezza che deriva dal parlare per l’Istituzione e non per la maggioranza temporaneamente al governo. Ed un effetto simile si è avuto per altre analoghe figure di rilievo (si pensi alla presidente Marta Cartabia della Corte costituzionale). 

Nel sistema presidenziale, invece, le diverse forze proporrebbero i loro candidati, farebbero dure campagne elettorali, anche distruttive degli altrui candidati, fino alla fatidica frase, per cui l’eletto ‘non è il mio presidente’. Prendere il Presidente della Repubblica e gettarlo nella mischia di maggioranza e minoranza, costringerlo all’attività spicciola e quotidiana di governo, all’imposizione di tasse ed alle dichiarazioni polemiche contro gli avversari, non sarebbe un progresso. 

Sarebbe invece una lesione della sua alta dignità. Non è un caso che le figure più rispettate ed amate della politica italiana abbiano rivestito questo ruolo. È un ruolo che migliora la personalità politica: chi si sente chiamato ad essere migliore, spesso lo diventa. Ma ciò che più conta è che sulla dignità di questo ruolo riposa anche una parte della residua capacità degli italiani di identificarsi con la Repubblica.

E non occorre davvero soffermarsi sul danno che una democrazia subisce, quando una consistente parte dell’elettorato, sente di non avere una figura di rappresentanza nelle istituzioni. La situazione è già critica per effetto di fattori concomitanti che hanno inciso sulla vita democratica.  La frammentazione politica ha aumentato il numero dei competitori, la personalizzazione ha imbarbarito il confronto. La lotta politica, in un contesto in cui i social network sono il principale strumento di comunicazione, non ha più argini. Si scava nella vita privata dell’avversario politico e della sua famiglia. Il bersaglio non sono le proposte politiche, ma le biografie personali. Nessuno può salvarsi, perché le accuse sono spesso false ed i fatti distorti. La conseguenza è che una parte, sempre crescente, del popolo, non solo italiano, non trova più modo di riconoscersi in alcun modo nei propri rappresentanti, neanche quando ne condivide, in grandi linee, le idee e le proposte.

In questo contesto, è divenuta sempre più essenziale l’enucleazione del quarto potere, che non è solo Garanzia ma, anche e soprattutto, rappresentanza dell’unità nazionale, non solo dei territori, ma dei cittadini e delle cittadine. E le stesse forze politiche, che in taluni casi dimostrano maturità, hanno percepito che non sarebbe più accettata l’elezione di un Presidente che non fosse frutto di un compromesso su una figura riconosciuta come idonea a svolgere questo tipo di ruolo. In altri termini, per come si è venuta configurando la figura del Presidente della Repubblica Italiana, il compromesso, allargato per quanto possibile, non solo non rappresenta una sconfitta, ma rappresenta la naturale modalità di elezione (corroborata dalla indicazione costituzionale, dei due terzi, richiesti nelle prime tre votazioni).

La riflessione, su questo quarto potere è essenziale. Fondere in un sola figura il ruolo di Presidente della Repubblica e quello di Presidente del Consiglio, o attribuire ruoli di governo attivo al Presidente della Repubblica, non solo non aggiungerebbe nulla, ma sopprimerebbe il ruolo di vigilanza e, ciò che è perfino peggio, la percezione popolare di un Garante, che si fa portatore dell’idea stessa della Repubblica.

In questo la democrazia ha notoriamente un limite, nella capacità di rappresentarsi con efficacia. Questo quarto potere, attribuito a prestigiosi soggetti, dopo una condivisione tra le diverse forze politiche, è una delle espressioni migliori della democrazia stessa, che può scegliere anche chi la rappresenti simbolicamente ed idealmente. Va quindi difeso, e valorizzato ove possibile.

 

2.    UNIONE EUROPEA

 

a) Premessa

La dimensione europea è oggi indispensabile per l’agire politico ed economico del nostro Paese nel panorama mondiale, in mancanza di organizzazioni e strumenti che siano in grado di far fronte alle difficoltà globali. Solo una vera unione europea può continuare a garantire la pace e a far prevalere la cooperazione alla competizione in un continente dal quale sono partite ben due guerre mondiali e contemporaneamente essere un agente attivo di pacificazione dei conflitti che si sviluppano nel mondo. Solo una vera res publica europea può essere in grado di correggere le ingiustizie sociali e le contraddizioni di cui è responsabile la globalizzazione, ed applicare politiche finanziarie e fiscali incisive.

Anche la recente, grave, crisi sanitaria ha dimostrato che le risposte nazionali sono sempre più inadeguate. 

Occorre, quindi, distinguere tra processo formativo dell’UE, che deve andare avanti in modo deciso, con attenzione ai diritti sociali dei singoli, e conduzione politica degli ultimi anni.

Riteniamo che l'Italia e gli altri Paesi dell'area geografica europea, se vogliono perseguire finalità di cooperazione, pace e solidarietà al proprio interno nella dialettica globale, devono organizzare strategie di contrasto sia alle diseguaglianze e alle crisi sociali e ambientali sia allo strapotere della finanza e degli intenti predatori di soggetti globali. Pertanto riteniamo che l'Unione Europea debba riformarsi in due direzioni entrambe indispensabili: assumere con coerenza una chiara rappresentatività delle proprie istituzioni legislative e di governo rispetto al popolo europeo e superare il misero obiettivo di garantire la stabilità monetaria e la libera circolazione delle imprese, delle ricchezze e delle persone, per assumere stabilmente ed in coerenza con i principi fondamentali della Carta di Nizza, obiettivi di tutela e garanzia dei diritti sociali ed economici, di rimozione delle disuguaglianze e di uguaglianza e solidarietà fra gli stati membri.

 

Quanto ai limiti della conduzione politica il giudizio dei Giuristi Democratici è severo.

Il dogma della libera concorrenza, assieme alla detta priorità della stabilità della moneta e ai vincoli di bilancio, travasati in alcuni trattati istitutivi, hanno prodotto disuguaglianze dentro l'area UE. Gli stati potrebbero evitare aggregazioni e ristrutturazioni che approfondirebbero, sfruttando dissesti dovuti alla crisi, i divari fra loro; e potrebbero arginare il crollo dell'occupazione che, oltre ad essere un costo per il welfare statale, riduce i salari e i diritti dei lavoratori.

Le importanti deroghe di questi ultimi anni dimostrano che le priorità dell'UE possono divenire un ostacolo nelle fasi di crisi, ovvero, per essere più severi e sinceri, creano profonde diseguaglianze fra gli stati e favoriscono solo politiche economiche e monetarie procicliche.

Una nuova fase potrebbe aprirsi però, a seguito della nuova crisi. La sospensione nell'UE del divieto degli aiuti di stato alle imprese nazionali avvenuta con due decisioni della Commissione (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CEL) e, come più noto, la sospensione dei vincoli di bilancio del Fiscal compact vanno accolte con favore.  Quindi la possibilità degli stati di investire in deficit, oltre i parametri, diventare azionisti, acquistare imprese, esercitare la golden power in settori di interesse nazionale (di cui per i soli settori strategici già nel DL 21/2012): sono misure anticrisi che, se divenissero permanenti, segnerebbero una svolta essenziale nell'integrazione dell'UE. Assieme alle ipotesi di aiuti a fondo perduto (senza aumento del debito nazionale) e al QE della Bce (e auspicabilmente a cospicue monetizzazioni dei debiti dei paesi più esposti) renderebbero l'integrazione sostenibile e meno iniqua.

La proposta, in sostanza, è quella di dare vita a un grande progetto, un new deal a livello continentale, di cui la stessa Unione deve essere direttamente responsabile in modo unitario.

I giuristi democratici ritengono che questa possa e debba diventare l’occasione per un passo avanti deciso in senso democratico e sociale nella costruzione del processo unitario.

Si costruisca la Res Publica Europea, un soggetto pubblico garante dei diritti sociali e politici di tutti i cittadini, una  Repubblica responsabile della sanità e della scuola in tutta l’Unione.

Questo percorso ha un senso, una coerenza e forse anche una storica inevitabilità.

 

b) Cittadinanza sociale europea

Occorre poi lavorare per una cittadinanza sociale europea.

Uno status dei diritti che l’Unione garantisce a donne ed uomini. Capace in primo luogo di abbattere in ogni campo ogni discriminazione ed uniformare i diversi livelli di servizi sociali tra i paesi dell’Unione e garantirne la piena agibilità ed esigibilità. Noi puntiamo al riconoscimento ai singoli cittadini europei di un corpo di diritti sociali, che non passi attraverso la mediazione degli Stati; e perciò pretendiamo che la stessa Unione sia diretta responsabile dei diritti fondamentali (reddito, lavoro, salute, casa etc.).

Non è sufficiente che l’Europa consenta al corpo intermedio 'Italia' di fare più debito: il bilancio comunitario deve accrescere la propria entità, oltre alle proprie competenze, anche per poter sostenere i servizi sociali europei, garantendo a tutti i cittadini europei livelli uniformi.

 

c) Democrazia parlamentare piena

 Per garantire l’universalità dei diritti sociali è indispensabile che l’Unione economica e monetaria sia dotata di un vero e proprio governo politico ed economico e di un bilancio idoneo fondato su una capacità fiscale autonoma. Occorre allora ripensare e democratizzare l’attuale struttura istituzionale europea, costruendo un sistema realmente rappresentativo, che le attuali regole non garantiscono, mettendo il Parlamento in grado di esercitare il potere legislativo e un reale controllo politico sugli altri organi europei. È quindi necessario redigere con gli altri europei democratici una proposta di riforma istituzionale dell’Unione, con l’obiettivo di trasformare la stessa in una democrazia parlamentare piena.

La stessa Unione Europea dovrebbe avviare una profonda riflessione costituzionale, e verificare se non sia il caso di introdurre la figura presidenziale parlamentare di Garanzia. In particolare si potrebbe ipotizzare una doppia presidenza di genere, ossia una Presidente donna, ed un Presidente uomo, con identici poteri e compiti. Una doppia presidenza opportuna per ragioni di dimensione territoriale e di decentramento, almeno simbolico, e di avvicinamento ai territori del sud e del nord dell’Unione.

I due presidenti dovrebbero essere eletti dal Parlamento europeo, a maggioranza qualificata (ad esempio 3/5), in modo da svolgere funzione di garanzie delle minoranze, assumendo un ruolo simile a quello ora svolto dal Presidente della Repubblica in Italia o in Germania, dai monarchi parlamentari europei, e con qualche elemento di potere mutuato dal Presidente della Repubblica francese (ad esempio la ratifica dei trattati internazionali e la nomina di alti funzionari, a loro volta con ruoli di garanzia).

In questo quadro di democratizzazione dell’Unione è necessario promuovere e definire anche una riforma elettorale che preveda liste per le elezioni europee non più su base nazionale, con candidature di carattere europeo.

In tal senso viene vista con favore riforma la riforma in corso dell’Atto elettorale europeo del 1976 (che ha visto il via libera della commissione per gli Affari costituzionali -AFCO).

Dopo il via libera della plenaria di Strasburgo dovrà essere adottata all’unanimità dal Consiglio dell’UE e poi ottenere l’approvazione di tutti gli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”.

In base a tale importante riforma ogni elettore avrà a disposizione due voti: uno servirà per eleggere i deputati nelle circoscrizioni nazionali, mentre l’altro permetterà di scegliere i 28 nuovi eurodeputati aggiuntivi della circoscrizione UE.

Avranno diritto a presentare liste di candidati a livello UE “entità elettorali europee”ossia coalizioni di partiti politici di diversi paesi, e partiti politici europei (probabilmente anche gruppi parlamento europeo).

La soglia elettorale obbligatoria minima del 3,5 per cento per le grandi circoscrizioni (con almeno 60 seggi)

Nella scheda ci sarà anche Spitzen kandidaten, ossia il nome che il partito europeo candida alla carica di presidente della Commissione Europea.

In tal modo vi sarà un rafforzamento dei partiti politici europei, e le campagne transnazionali creeranno un vero dibattito paneuropeo.

 

d) Riduzione del potere dei governi nell’Unione

Ridisegnare l’Unione Europea, trasformarla in una res publica, avvicinarsi ad una democrazia parlamentare piena, significa ripensare, da un lato il ruolo dei governi nazionali, all’interno dell’Unione, e nel contempo entrare nell’ordine di idee che una riforma compiuta non potrà che riguardare anche i territori di cui è costituita l’Unione.

Ed insomma, anche il dialogo tra centro (Unione) e diramazioni locali (Stati e Regioni) non può che essere ripensato in una riforma organica. Se la politica centrale avrà maggiore spazio, in un disegno che avvicini l’Europa ad un soggetto unitario democratico, nel contempo vanno ripensate le forme dell’autonomia dei territori. Occorre quindi ripensare i meccanismi di co-decisione e di adattamento delle decisioni collettive europee.

In tal senso si può aprire un dibattito su un possibile parlamento federale costituito dai rappresentanti delle regioni d’Europa.

Tali processi di approfondimento dell'unione fra gli stati europei in senso federale, dovranno necessariamente compiersi a fianco, e condizionatamente, al progresso del disegno sociale ed economico; e nel complesso è una direzione riformatrice che consideriamo indispensabile per rendere legittima e sostenibile, dal punto di vista interno e costituzionale, la cessione di sovranità nazionale in favore di un soggetto istituzionale che rispetti i caratteri fondamentali del paradigma del costituzionalismo democratico scelto dall'Italia.

 

e) Tutela dei diritti

 Occorre riconoscere che l’Unione Europea, mentre è stata insoddisfacente sul piano delle politiche economiche si è mossa in modo più convincente sul piano della tutela dei diritti: il corpus normativo del diritto eurounitario, accanto a norme dei trattati che andrebbero urgentemente modificate, ha sviluppato un buon impianto di tutela dei diritti.

Con l'entrata in vigore del "Trattato di Lisbona", la Carta di Nizza ha acquisito il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati.

La Carta, quale fonte primaria di protezione dei diritti fondamentali nell’UE, diviene parametro di legittimità degli atti dell’Unione. Questa carta si occupa anche di diritti sociali, talora con intensità maggiore anche della Costituzione italiana, anche se questa resta un presidio a difesa dei diritti fondamentali della persona, come il diritto al lavoro e alla salute, specie laddove subordina esplicitamente a questi, alla dignità della persona e all'utilità sociale le libertà economiche e la proprietà privata e segna compiti di intervento pubblico nell'economia per il raggiungimento dell'eguaglianza sostanziale.

Appare ad esempio più netto e definito il riconoscimento del diritto di sciopero nella norma europea (Art. 28), o la tutela del lavoratore licenziato (art.30/33).

I diritti fondamentali previsti nella carta di Nizza concorrono con quelli costituzionali (Corte costituzionale  n. 269 del 2017 che afferma che si possa “ disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione” ) .

 

Anche su altri versanti il diritto eurounitario ha rappresentato un avanzamento sociale. La Cassazione, con sentenza del 23 dicembre 2014, n. 27363 ha condannato l'"abuso" del precariato nella pubblica amministrazione: con richiamo alla sentenza "Mascolo" 2014 della Corte di Giustizia Europea sulla scuola, ha dichiarato che un precariato pubblico di oltre trentasei mesi costituirebbe "abuso" di contratti a termine per contrasto con la direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999.

La Corte di Giustizia Europea ha sancito che la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale. In particolare le sentenze   Arblade e a., 1999, cause riunite C-369/96 e C-376/96 e poi  Causa C-438/05 International Transport Workers’ Federation, laddove è stato affermato che “Si deve aggiungere che, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c) e j), CE, l’azione della Comunità comporta non soltanto «un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali», ma anche «una politica nel settore sociale». L’art. 2 CE afferma infatti che la Comunità ha il compito, in particolare, di promuovere «uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche» e «un elevato livello di occupazione e di protezione sociale».  Poiché dunque la Comunità non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale, tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 136, primo comma, CE, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata e il dialogo sociale”.

La Commissione europea ha presentato il 4 marzo 2021 una proposta sulla trasparenza salariale per garantire che donne e uomini nell’UE ricevano la stessa retribuzione per lo stesso lavoro. La proposta stabilisce misure di trasparenza retributiva, come informazioni sulla retribuzione per chi cerca lavoro, il diritto di conoscere i livelli retributivi per i lavoratori che svolgono lo stesso lavoro, nonché obblighi di segnalazione del divario retributivo di genere per le grandi aziende .

Altro settore in cui il diritto comunitario è più avanzato di quello nazionale è il diritto ambientale.

Poi il diritto antitrust, e quello di protezione del consumatore.

L’Unione Europea manifesta in tal modo la sua utilità, come area più ampia di applicazione di tali normative. L’azienda pur di poter accedere ad un’area territoriale ricca come l’UE, è disposta ad accettarne le regole, in termini ambientali, di abuso di posizione dominante, di sicurezza, di protezione del consumatore, di rispetto della privacy etc.

L’UE deve quindi proseguire su tale strada per affrontare in modo unitario una ulteriore serie di misure. È infatti urgente una regolazione unitaria dei movimenti di capitale della tassazione, volta ad eliminare i paradisi fiscali (etc.).

 

3.    COSTITUZIONE DELLA TERRA

 

Nel contempo occorre sostenere la brillante intuizione politica, ed il progetto delineato da Luigi Ferrajoli, nel suo volume Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio.

Le politiche nazionali sono vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali, o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali, interessati soltanto al consenso elettorale, di affrontare le sfide e i problemi globali con politiche alla loro altezza. La democrazia odierna conosce insomma soltanto spazi ristretti e tempi brevi. Non ricorda e anzi rimuove il passato e non si fa carico del futuro, ossia di ciò che accadrà oltre i tempi delle scadenze elettorali e al di là dei confini nazionali. È affetta da localismo e da presentismo.

Occorre quindi un costituzionalismo sovranazionale, in grado di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri selvaggi dei mercati e il carattere ancora prevalentemente locale della politica e del diritto.

Una Costituzione della Terra è diversa da tutte le altre carte costituzionali, perché deve rispondere a problemi globali sconosciuti in altre epoche, e tutelare nuovi diritti e nuovi beni vitali contro nuove aggressioni, in passato impensabili. Non è un'utopia. È l'unica strada per salvare il pianeta, per affrontare la crescita delle disuguaglianze e la morte di milioni di persone nel mondo per fame e mancanza di farmaci, per occuparsi del dramma delle migrazioni forzate, per difendersi dai poteri selvaggi che minacciano la sicurezza di intere popolazioni con i loro armamenti nucleari[4].

L’ipotesi proposta da Ferrajoli è quella di una riformulazione della classica tipologia e separazione dei poteri formulata da Montesquieu: la distinzione, ancora una volta, tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia. Le istituzioni di governo sono quelle investite di funzioni politiche, di scelta e di innovazione discrezionale in ordine a quella che Ferrajoli definisce la «sfera del decidibile»: non solo, quindi, le funzioni propriamente governative di indirizzo politico e di scelta amministrativa, ma anche le funzioni legislative. Le istituzioni di garanzia sono invece quelle investite delle funzioni vincolate all’applicazione della legge, e in particolare del principio della pace e dei diritti fondamentali, a garanzia di quella che Ferrajoli definisce  la «sfera dell’indecidibile»: le funzioni giudiziarie o di garanzia secondaria, ma ancor prima le funzioni deputate alla garanzia in via primaria dei diritti sociali, come le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle assistenziali, quelle previdenziali e simili.

Sono queste funzioni e queste istituzioni di garanzia, ben più che le funzioni e le istituzioni di governo, che a livello globale è necessario sviluppare in attuazione del paradigma costituzionale. Ciò che si richiede, ai fini della garanzia della pace, dell’ambiente e dei diritti umani, è non già l’istituzione di un’improbabile e neppure auspicabile riproduzione della forma dello Stato a livello sovranazionale —una sorta di superstato mondiale, sia pure basato sulla democratizzazione politica dell’Onu— ma piuttosto l’introduzione di tecniche, di funzioni e di istituzioni adeguate di garanzia.

La costituzione della Terra oggetto della proposta si caratterizzerà – come propone lo stesso  Ferrajoli-  per un allargamento del paradigma costituzionale oltre lo Stato, in tre direzioni:

  1. a) in direzione di un costituzionalismo sovranazionale o di diritto internazionale, in aggiunta all’odierno costituzionalismo statale, tramite la previsione di funzioni e di istituzioni sovra-statali di garanzia all’altezza dei poteri economici e politici globali;
  2. b) in direzione di un costituzionalismo di diritto privato, in aggiunta all’odierno costituzionalismo di diritto pubblico, tramite l’introduzione di un sistema adeguato di regole e di garanzie nei confronti degli attuali poteri selvaggi dei mercati;
  3. c) in direzione di un costituzionalismo dei beni fondamentali, in aggiunta a quello dei diritti fondamentali, tramite la previsione di garanzie dirette a conservare e ad assicurare l’accesso di tutti al godimento di beni vitali come i beni comuni, ma anche i farmaci salva-vita e l’alimentazione di base.

 

4.    AUTONOMIA DIFFERENZIATA

a) Premessa

Negli anni novanta del secolo scorso, l’Italia attraversava una grande ubriacatura federalista. A dispetto dei tanti che allertavano sugli enormi problemi, anche pratici, che comportava ampliare la potestà legislativa delle regioni, le forze politiche maggioritarie sembravano attraversate da una vera febbre devolutiva.

La modifica del Titolo V della Costituzione è quindi approvata sul finire della legislatura per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra. Il testo fu proposto il 19 settembre 2000, e poi votato il 21 settembre nel testo oggi vigente. 

L'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, nel testo riformulato, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. "regionalismo differenziato" o "regionalismo asimmetrico", in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre), ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma).

L'ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono: tutte le materie che l'art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente; un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato: a. organizzazione della giustizia di pace; b. norme generali sull'istruzione; c. tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

L'attribuzione di tali forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita con legge rinforzata: in altri termini, in primo luogo vi deve essere un'intesa fra lo Stato e la Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi di cui all'art. 119 Cost. in tema di autonomia finanziaria; successivamente il testo deve essere approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

La norma così introdotta non ha avuto attuazione immediata. Con la legge di stabilità per il 2014, il Parlamento ha approvato alcune disposizioni di attuazione dell'art.116, terzo comma, Cost., relative alla fase iniziale del procedimento.

Dopo i referendum in Lombardia e Veneto del 2017 e la richiesta dell'Emilia Romagna, queste regioni hanno firmato, il 28 febbraio del 2018, col governo Gentiloni ormai da tempo dimissionario una pre-intesa, relativa a cinque materie specifiche (tutela di ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali),

 Si prevede per la prima volta per quelle regioni il principio della compartecipazione ai tributi erariali, cioè per la prima volta si prevede che la spesa prestabilita ad esempio per sanità ed istruzione dipenda dalle tasse riscosse in più in una specifica regione. Fino ad oggi, invece, la ripartizione dei fondi fra le regioni viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (spesa storica); viceversa le regioni che chiedono il trattamento differenziato vogliono sganciarsi da questo criterio generale ed affermare il principio per cui le somme loro erogate devono dipendere da quante tasse pagano i cittadini residenti sul loro territorio.

Sarebbe un passaggio epocale, anche dal punto di vista culturale, ed un enorme successo per il movimento federalista. Infatti si stabilirebbe il principio in virtù del quale il livello dei servizi nella regione non dipende dai ‘bisogni’ ma dal ‘reddito’ regionale . Il giudizio dei Giuristi Democratici, su questa innovazione, è ovviamente negativo.

 

b) Profili problematici

Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano: così sintetizza Mario Dogliani in uno scritto del febbraio 2019, segnalando che il regionalismo differenziato non è una questione tecnico-amministrativa, ma un processo di capitale significato politico che potrebbe mettere in discussione il principio di eguaglianza tra gli italiani nella fruizione dei servizi pubblici nazionali e nelle condizioni di vita dei cittadini abitanti le diverse regioni, sino alla messa in pericolo dello stesso principio di unità nazionale.

Secondo i commentatori il progetto di autonomia differenziata rischia di violare implicitamente i principi costituzionali di perseguimento dell’eguaglianza sociale (artt.3, 32) e di integrità della Repubblica (artt.5, 117-118-119), di parità e progressività della tassazione (art.53) e di determinazione di principi della funzione legislativa (art.76).

La disposizione dell'art. 116 comma 3° della Costituzione si intreccia inevitabilmente con il recentissimo contesto storico in cui – a partire dal 2017, anno dei referendum consultivi tenuti in Veneto e in Lombardia, sino ad oggi – si è assistito ad una estensione smisurata dell'istanza 'autonomistica' di alcune Regioni, in specie del Nord Italia.

Da un iniziale “richiesta” di trasferimento alle regioni di 5 materie tra quelle indicate dall'art. 117, si è passati (Veneto e Lombardia in particolare) alla pretesa di deliberare sulla totalità delle materie: non è irragionevole pensare che l'ampliamento sia dipeso da motivi non di natura costituzionale ma di natura politica, secondo un disegno trasversale che accomuna varie forze.

Testo e contesto, dunque: testo che però “va maneggiato con cura” (cit.), perché l'art. 116 3° comma come modificato nel 2001 consente applicazioni in conflitto con altre norme dell'ordinamento costituzionale e con i principi che le dettano, primo fra tutti l'unità e l'indivisibilità della Repubblica.

Cosa significa “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni”?

Significa innanzitutto che le competenze legislative regionali richieste non possono essere dannose o pregiudizievoli allo Stato o ad altre Regioni, pena il dissolvimento della unitarietà del Paese.

Significa che nessuna “ulteriore autonomia” può prescindere dal rispetto dei diritti fondamentali: uguaglianza tra i cittadini, in primis, in attuazione dell'art. 3 della Costituzione, che è compito dello Stato tutelare e far osservare; ma soprattutto uguaglianza e solidarietà redistributiva fondano l'imposizione tributaria disegnata dall'art. 53 cost. Una lettura estremistica dell'autonomia fiscale pretende la redistribuzione del prelievo fiscale entro lo stesso territorio, dimenticando che gli individui sono tassati in base alla loro capacità contributiva, non in base alla residenza; e se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a costituzione formalmente invariata.

Ma non è solo un problema fiscale e di risorse, ma anche di competenze e regole: si pensi alla salute, all'istruzione, al governo del territorio: materie che hanno evidente attinenza con i principi costituzionali fondamentali sui quali si fonda l'ordinamento dello Stato nella sua indivisibilità.

Occorre quindi una particolare attenzione alla concreta attuazione dell'art. 116 3° comma: la richiesta deve fondarsi su peculiarità specifiche - non occasionali o di “convenienza” - della regione e può sostenersi se circoscritta e giustificata. E, ancora, può riguardare materie il cui trasferimento alla regione richiedente sia davvero realizzabile.

Come può ritenersi giustificata una competenza legislativa regionale in materie come l'istruzione se gli articoli 33 e 34, nell'ottica del principio della libertà di insegnamento e dell'uguaglianza tra i cittadini, attribuiscono allo Stato il potere di dettare le norme generali in ragione dell'unitarietà culturale del sistema di istruzione e di ricerca?

Come può ritenersi conforme a Costituzione l'attribuzione esclusiva alle regioni richiedenti di materie che per loro natura richiamano la potestà legislativa statale, come la tutela e sicurezza sul lavoro, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione?

Nella dottrina costituzionalistica si è ipotizzato un quadro normativo insostenibile: se Veneto e Lombardia ottenessero l'autonomia differenziata a cui anelano, si produrrebbe l'abrogazione dell'art. 117 comma 3° per due sole Regioni.

L'ipotesi dimostra quanto sia labile il confine tra attuazione costituzionale e incostituzionale dell'art. 116 3° comma; sfruttando le potenzialità dell'art. 116  si potrebbe scardinare l’intero titolo V prevedendo, come nelle intese con Lombardia e Veneto, la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, III comma) in competenze esclusive di solo alcune regioni, sottraendo allo stato anche le tre materie sue esclusive previste dal II comma dell'art. 117.

Del resto, l'emergenza sanitaria è stata vissuta da alcune regioni come un'occasione per promuovere la differenziazione e la gestione autonoma nei propri territori del diritto fondamentale appartenente all'intera collettività nazionale; ma l'emergenza sanitaria ha anche scoperto il fianco dei fautori dell'autonomia differenziata, protagonisti negativi della evidente incapacità di gestire la sanità pubblica e di tutelare il diritto alla salute degli stessi concittadini regionali: se un insegnamento proviene dalla lunga gestione della pandemia è la necessità di gestire il servizio sanitario nazionale secondo criteri coerenti ed efficaci decisi a livello nazionale secondo un percorso democratico trasparente e svincolati sia dalle contingenti maggioranze alla guida delle varie giunte regionali, sia dalle diverse capacità di risposta alla crisi da parte dei servizi locali.

Dopo le “intese” del 2018-2019 tra governo e regioni, la procedura sembra essersi arenata nell’elaborazione di una proposta di una legge-quadro – per opera del ministero dei rapporti con le regioni -  la cui bozza  presenta significative lacune sulla lettura dell'art. 116 3° comma (nulla dice su adattamento a specificità locali ed esclusione di alcune materie dove deve permanere una necessaria uniformità), ma soprattutto smaschera la sua debolezza di “tenuta”: una legge cd rinforzata prevista nel procedimento dell'art. 116 3° comma, frutto dell'intesa con una regione, potrebbe modificarla, derogarla, abrogare la legge quadro e a nulla sarebbe valsa la sua eventuale approvazione. Il parlamento è così ostaggio delle dinamiche politiche fra stato e regioni e la costituzione rischia di essere stravolta in suoi aspetti fondamentali; spezzare l'unità del paese sul tema fiscale e aprire a radicali differenziazioni di competenze su istruzione e sanità, per tacer d'altro, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale ad opera di una legge ordinaria vincolata ad un accordo politico con delle regioni. Anche per tali ragioni la proposta non è stata presentata in Parlamento entro la scadenza della legislatura  nel settembre 2022.

Ciò che appare evidente in questo contesto è che, ad oggi, nessun serio coinvolgimento è stato avviato con i soggetti direttamente interessati alla vicenda costituzionale del regionalismo differenziato: l'opinione pubblica e il Parlamento.

Senza l'avvio di questo confronto, ogni proposta di attuazione dell'art. 116 3° comma rischia di restare appannaggio di limitati centri istituzionali che certo non rappresentano la comunità nella sua espressione nazionale.

L’autonomia regionale differenziata verrebbe attuata a scapito anche delle autonomie locali e degli enti di prossimità, le istituzioni più vicine alla cittadinanza, in quanto le esproprierebbe di alcuni poteri a favore di nuovi “carrozzoni” centralizzati e inefficienti, questa volta però a livello regionale. In particolare, sarebbe soppressa l'universalità dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre secondo il reddito dei loro residenti, per poter usufruire dei quali, nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca.

I c.d. LEP, ossia i livelli essenziali delle prestazioni non potrebbero né prevenire né impedire la frammentazione del paese derivante dall’autonomia differenziata. Attengono infatti al livello del servizio, e non all’organizzazione dei poteri pubblici che lo forniscono. La prova si trae dai LEA, equivalente sanitario dei LEP, che non hanno evitato il sostanziale dissolvimento del servizio sanitario nazionale.

5.    BENI COMUNI

I beni comuni possono essere qualificati – utilizzando una formula sintetica ed estremamente efficace di James Boyle -, come l’ “opposto della proprietà”. Questa definizione negativa di un’idea nuova, infatti, consente di andare oltre il concetto di “funzione sociale” della proprietà privata, così come si legge all’art. 42 della Costituzione. Il “retroterra non proprietario” sotteso ai beni comuni, infatti, è volto a garantire quelle situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni primari della persona costituzionalizzata e a rimettere in discussione il concetto stesso di cittadinanza. I beni comuni intesi come “opposto della proprietà” aprono, quindi, alla questione – tutta politica - di comprendere in che modo questa nuova pretesa di soddisfazione dei bisogni e di accesso ai beni primari che la persona costituzionalizzata porta con sé, possa trovare un riconoscimento positivo nella legislazione ordinaria ovvero a livello primario.

Procedendo a una breve ricognizione dei significati normativi assunti dal lemma “beni comuni”, possiamo partire dagli esiti della “Commissione Rodotà” istituita nel 2007 presso il Ministero della Giustizia, che ha proposto una definizione incentrata sulla relazione funzionale tra determinati beni, i diritti fondamentali e il libero sviluppo della persona. Secondo l’elenco non tassativo stilato dalla Commissione, sono da considerarsi beni comuni: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

La disciplina dei beni comuni, inoltre, avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica armonizzazione normativa con quella già vigente e riguardante gli usi civici; si prevedeva una tutela inibitoria diffusa e una tutela restitutoria in capo allo Stato. Pensata come una riforma che riguardava lo statuto civilistico della proprietà, l’inversione della individuazione della categoria tassonomica dal regime ad una ontologia naturalistica e funzionalistica, lasciava scoperto il tema del soggetto giuridico a cui avrebbe dovuto esserne affidata la gestione e l’amministrazione. Un’altra linea pratico-ermeneutica assai feconda ha interpretato la sussidiarietà orizzontale come chiave di volta per accedere a nuove forme di gestione dei c. d. “beni comuni urbani”, assenti dal dibattito teorico normativo della Commissione Rodotà, sebbene molte esperienze di gestione collettiva di spazi urbani orbitassero nel suo spazio ideale. Secondo la proposta di “Labsus – laboratorio per la sussidiarietà”, trasfusa nel regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni della città di Bologna, ripresa poi da molte altre città, i beni comuni urbani sono quei “beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l’Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva”. Tra le critiche a questa impostazione, c’è quella che ha segnalato la prassi di un abuso della sussidiarietà, che ha deresponsabilizzato le amministrazioni locali e ha prodotto una impostazione sostanzialmente competitiva tra le varie associazioni della cittadinanza attiva poste in concorrenza tra loro per la gestione di pezzi tutto sommato poco rilevanti del territorio.

 

Partendo da queste critiche, sui beni comuni urbani si sono sviluppate altre proposte, tra cui quella del nuovo istituto dell’uso civico e collettivo urbano, sperimentato a Napoli e seguito da altre amministrazioni locali, ma soprattutto dai movimenti che rivendicano la gestione diffusa dei beni comuni. L’istituto non prevede l’assegnazione in uso esclusivo ad un soggetto individuato da un patto di condivisione (come nel modello sopra citato), ma si compone, da una parte, dell’attribuzione del “diritto di uso comune” di spazi e aree urbane in proprietà pubblica o privata, e dall’altro si qualificano, sulla scia degli usi civici tradizionali, degli specifici organi assembleari come organi di gestione di tali spazi.

La proposta dei Giuristi democratici consiste nel recuperare la sintesi di questi avanzamenti politici in materia, unendo la tutela dei beni comuni come funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della personalità dei cittadini, alla partecipazione nella loro gestione e amministrazione, quale elemento qualificante. In questa ottica, quindi, sarebbe auspicabile un ripensamento ed una riscrittura dell’articolo 43 della Costituzione: questo articolo, infatti, è stato poco considerato, sia a livello teorico che politico, nonostante la grande importanza che ne avevano dato i Costituenti, in quanto avrebbe dovuto svolgere una duplice funzione, garantista ma allo stesso tempo interventista, per quanto concerne l’azione dello Stato nell’economia. Del resto, l’articolo 43 esprime una valutazione di fondo molto importante e cioè che i monopoli privati, o comunque la gestione privata delle fonti di energia e dei servizi pubblici essenziali, ostacolerebbero la realizzazione di quei “fini di utilità generale” che devono essere letti in combinato disposto con l’articolo 3, secondo comma, quindi quale estrinsecazione del principio di uguaglianza sostanziale.

Quello che va approfondito è un ponte di congiunzione tra beni comuni urbani e beni comuni naturali, perché facendo leva sui diritti fondamentali (intesi in senso ampio) e sulla gestione collettiva, si apre una divaricazione tra risorse molto diverse, che non solo non possono essere gestite nello stesso modo, ma che rispondono alla realizzazione di categorie di diritti molto diversificate. In virtù dell’indissolubile legame che connette beni comuni e dignità della persona, il loro accesso non può essere escluso in base a criteri di disponibilità economica, ma dovranno semmai caso saranno alcuni aspetti relativi alla loro gestione a dover essere segnati in chiave partecipativa, attraverso procedure istituzionali che coinvolgano la platea dei loro fruitori ovvero loro rappresentanti speciali. Esistono poi altri beni in grado di garantire il soddisfacimento di diritti che arricchiscono il catalogo di quelli fondamentali, in particolare in direzione di quelli sociali e civili. Normalmente appartengono alla categoria dei beni pubblici e privati, e in questi casi assolvono tali funzioni secondo logiche di servizio oppure di domanda e offerta; in alcuni casi però anche questi beni possono essere ripensati come beni comuni.

Ciò accade quando vengono percepiti da una collettività ampia come propri, ma non in un senso proprietario né di appartenenza ideale o territoriale, bensì comunitario: ciò si traduce nella concreta disponibilità del bene per un utilizzo e una gestione diretta secondo regole stabilite, attraverso procedure determinate dagli stessi utilizzatori. Il valore di questi beni comuni non risiede soltanto nei diritti che sono in grado di soddisfare, ma nel sistema relazionale che permette prima l’individuazione, a volte una vera e propria scoperta, di bisogni e desideri diversi, e poi l’attivazione mutualistica e cooperativa per affrontarli.

In questo caso i beni possono essere resi comuni quando viene valorizzato questo processo vitale per la democrazia, per cui si forma una comunità che, più che di un bene in sé, si prende cura in forme reciproche e solidali dei bisogni che essa è messa in condizione di esprimere.

Al riguardo, ci sembra opportuno precisare come la nostra idea di beni comuni non sia soltanto da considerarsi come “l’opposto della proprietà”, ma anche come “l’opposto della sovranità”: infatti, se si tratta di cambiare paradigma giuridico ed economico, se si tratta di superare l’individualismo proprietario e le incrostazioni della proprietà codicistica, allora si tratta anche di far emergere i legami sociali che sono sottesi ai beni primari a cui ogni singola persona, a prescindere dal fatto che sia o meno cittadino/a, deve necessariamente accedere. In questa ottica, “comune” non può essere sinonimo di “comunitario”, almeno non nella declinazione di comunità organica e chiusa, ma aperta: se non si assume consapevolezza anche di questo ulteriore mutamento di paradigma, il rischio è quello di utilizzare una formula nuova per reintrodurre nell’ordinamento “chiusure” vecchie, connesse all’appartenenza originaria di un determinato gruppo sociale rispetto a determinati beni.

Dal nostro punto di vista, quindi, la logica anti-sovrana insita nei beni comuni, produce una prassi rivendicativa e conflittuale nei confronti delle pretese speculative e di sfruttamento delle risorse naturali da parte del neo-liberismo, il cui esito ultimo - in termini politici - è l’approdo ad una “condizione istituzionale di indifferenza rispetto al soggetto che risulta essere il titolare formale” del bene fondamentale in questione, per utilizzare le parole di Rodotà. Se i beni comuni, in sintesi, appartengono a tutti e a nessuno, se tutti possono accedervi e nessuno può vantarvi diritti esclusivi, allora i valori che essi catalizzano non sono soltanto oppositivi all’individualismo proprietario, ma valorizzano i legami sociali in una logica egualitaria e solidaristica, necessariamente anti-sovrana.

 

6.    STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA

L'esercizio della sovranità popolare è un principio sancito dal primo articolo della Costituzione il quale afferma solennemente che “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Una parte di tale sovranità si esercita anche attraverso gli strumenti di democrazia diretta. L’Associazione Giuristi Democratici ha sviluppato talune proposte per rafforzare tali istituti.

a) Referendum ammissibilità

L’art. 75 recita: È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

I casi in cui non è ammesso il referendum abrogativo sono dunque un numerus clausus.

Questa norma è integrata con altra norma di rango costituzionale, l’art. 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1:

“2. - Spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso.”

La tradizionale giurisprudenza della Corte ha esteso il novero dei controlli ed valorizzato la necessità della permanente funzionalità di organi costituzionalmente necessari: “ciò che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una valutazione liminare e inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se, nei singoli casi di specie, il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all'applicazione di un precetto costituzionale, consistente in una diretta e immediata vulnerazione delle situazioni soggettive o dell'assetto organizzativo risultanti a livello costituzionale[5]. Ed in tema di referendum elettorali: “Questa Corte può spingersi soltanto sino a valutare un dato di assoluta oggettività, quale la permanenza di una legislazione elettorale applicabile, a garanzia della stessa sovranità popolare, che esige il rinnovo periodico degli organi rappresentativi[6].

La Corte ha quindi valutato di dover estendere il proprio sindacato alla normativa di risulta, non tanto per verificare la costituzionalità della stessa, quanto per accertare se l’abrogazione referendaria può condurre alla paralisi della funzionalità di un organismo necessario costituzionalmente.

In questi casi la Corte ha dichiarato inammissibili i referendum.

Vi è però da verificare se la soluzione adottata dalla Corte sia stata quella che ha maggiormente consentito il pieno dispiegarsi della previsione costituzionale dell’art. 75.

Concorrono infatti due interessi: da un lato il pieno dispiegarsi della sovranità popolare ‘diretta’ ed il diritto costituzionalmente garantito alla sottoposizione di una norma al referendum popolare. Dall’altro la necessità di garantire che l’abrogazione della norma non generi una cesura nella funzionalità di un organo.

Nella scelta adottata dalla Corte, però, piuttosto che una composizione tra i due interessi si è generato un sacrificio totale del primo, in tutti gli innumerevoli casi in cui il referendum poteva incidere su un precetto costituzionale nel senso sopra esposto.

Con il risultato di snaturare completamente l’istituto referendario. È infatti possibile, ma non certo, che attraverso un intervento manipolativo si possa garantire la perdurante funzionalità dell’organo. Inoltre, di fatto, è lasciato alla più completa causalità la possibilità di sottoporre una norma al referendum abrogativo.

b) Referendum- Quorum

 Occorre una riforma dell’istituto referendario.  Allo stato attuale, perché il referendum sia valido, devono votare più della metà degli aventi diritto. È quindi facile gioco per chi sostiene il NO di turno (a torto o a ragione) appellarsi all’astensione. In questo modo i NO si sommano all’astensione fisiologica (anziani, malati, disinteressati). L’astensione fisiologica, cresciuta negli ultimi anni, ormai è almeno del 20%. Quindi i NO consapevoli si sommano ai NO inconsapevoli e vincono sempre.

Ma c’è un’altra distorsione molto preoccupante, di cui nessuno si cura. In questo modo, infatti, l’esercizio del voto non è più garantito di fatto dalla segretezza, ma diventa palese, perché chi si limita soltanto a dichiarare che andrà a votare, implicitamente dichiara che voterà SI’.

E’ quindi possibile sapere perfettamente chi la pensa in un modo chi in un altro, dunque è possibile controllare il voto e, in taluni contesti, persino condizionarlo.

Si tratta di un esito molto grave, cui va posto subito rimedio: la proposta dei G.D. è quella di cambiare il sistema del quorum di validità: il referendum è valido e vincono i SI’, qualora rappresentino almeno il 40% degli aventi diritto al voto (e qualora siano più dei NO); a ciò si deve poi aggiungere l’opportunità di escludere dal computo del quorum dei referendum abrogativi gli italiani residenti all’estero.

 

c) Raccolta firme referendum e proposta di legge di iniziativa popolare.

Affinché gli strumenti di democrazia diretta possano essere realmente efficaci, è necessario che il loro impiego non sia monopolio di organizzazioni che dispongono di fondi consistenti e reti di amministratori autenticatori. La semplificazione e la digitalizzazione delle procedure di sottoscrizione e vidimazione dei quesiti referendari è indispensabile per rendere effettivo il diritto del cittadino all’accesso agli strumenti di democrazia diretta.

I GD hanno proposto che le sottoscrizioni per richiedere un referendum o per una iniziativa legislativa popolare, possano essere raccolte in modalità digitale. Tale proposta sembra essere stata attuata di recente. Nell’ottobre 2022 è stato emanato il decreto attuativo relativo al funzionamento della piattaforma di raccolta elettronica delle sottoscrizioni per i referendum e i progetti di legge di iniziativa popolare.

 

d) Italiani all’estero

L’esperienza maturata nel corso degli ultimi anni, ci ha convinti senza alcun dubbio della necessità e urgenza di operare una revisione sia del sistema normativo sia delle modalità operative con le quali riconoscere e fare esercitare il diritto di voto ai connazionali residenti all’estero.

Abbiamo potuto verificare che spesso il corpo elettorale chiamato ad esprimersi è composto da cittadini emigrati da decenni e che negli elenchi figurano persone già decedute. Si dovrebbe porre rimedio a troppi episodi che nel voto all'estero hanno contraddetto i principi essenziali di un'espressione di voto segreto e personale.

Troppi episodi verificatisi durante la campagna referendaria del 2016 per la modifica della Costituzione hanno confermato che il voto degli italiani all'estero non è stato espresso in modo segreto e anzi personaggi conosciuti dall'opinione pubblica hanno ritenuto di farsi fotografare durante il voto, con evidenti intenzioni di disprezzo dei principi costituzionali e delle leggi.

I seggi dovrebbero quindi essere di norma all'interno delle sedi consolari e degli Istituti di cultura italiana all'estero, oppure organizzati con tutte le necessarie garanzie in sedi pubbliche degli stati Esteri. Sarà compito dei consolati organizzare i seggi della circoscrizione Estero in modo tale da renderli fisicamente raggiungibili e accessibili nella giornata elettorale a tutti i cittadini iscritti nei propri elenchi elettorali.

Inoltre nel conteggio degli aventi diritto ai fini del quorum, si è evidenziata la scarsa affidabilità del numero degli aventi diritto al voto residenti all’estero, con conseguente artificioso e non corretto innalzamento del complessivo quorum di validità della consultazione.

Tra le proposte dei Giuristi Democratici vi potrebbe essere l'iscrizione volontaria del residente all'estero alla lista elettorale - iscrizione che dovrebbe valere per un certo numero di anni, salvo richiesta di rinnovo.

Agendo su questo "prerequisito" per poter esprimere il voto, si porrebbero molti meno problemi sulle modalità del voto, che, peraltro, ormai potrebbero essere anche telematiche.

Inoltre la richiesta di iscrizione alla lista elettorale testimonierebbe l'interesse a mantenere un rapporto con la "Patria", che in moltissimi casi è venuto meno tra chi si ritrova iscritto solo perchè decenni orsono si è iscritto all'Aire o solo perchè figlio o figlia di italiano all'estero che nemmeno ha mai messo piede in Italia.

 

7.    INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA

a) Magistratura ordinaria

Nella Costituzione le garanzie di indipendenza sono formulate direttamente nel Titolo IV per i magistrati ordinari, mentre vengono riservate alla legge ordinaria per i magistrati delle giurisdizioni speciali.

L’indipendenza riguarda l’istituzione, l’organizzazione, l’ufficio, nonché i singoli componenti dell’ufficio giusdicente che non devono essere condizionati da qualsiasi altro potere dal punto di vista generale e istituzionale Sull’importanza della separazione dei poteri, non serve dilungarsi. Non è opportuno, in uno Stato democratico, che le promozioni ed i trasferimenti dei magistrati, siano decise dal Governo, che potrebbe premiare magistrati amici e punire quelli scomodi.

La Costituzione, all’art. 104, ha stabilito garanzie di autonomia, in virtù delle quali la magistratura governa se stessa. Un’indipendenza che tutte le forze politiche a parole rispettano, ma che nei fatti infastidisce molti.

In particolare, le critiche si appuntano sulle elezioni dei componenti magistrati del CSM (definiti “togati”). È noto a molti il fatto che negli anni i magistrati si sono affiliati, più o meno formalmente, ad associazioni, di stampo prevalentemente culturale, che però sono state un trampolino di lancio per le elezioni del CSM. Formalmente queste associazioni non sono riconosciute, nel senso che sulla scheda per le elezioni non compaiono simboli. È però sicuramente vero che, in molte circostanze, queste associazioni di magistrati hanno dato indicazioni di voto, ed hanno svolto la funzione di ‘partitini’ dei magistrati.

Tuttavia, quando si critica l’esercizio del potere democratico, non si deve dimenticare che il problema non è la scelta dei rappresentanti, ma il loro controllo, ed i limiti al potere che è loro attribuito. La soluzione è stringere il nodo delle regole. Le promozioni, ed i trasferimenti dei magistrati non devono avvenire arbitrariamente, ma in base a criteri predefiniti e stringenti. Occorre potenziare i controlli, rendere trasparenti le scelte, criticabili i giudizi, effettivi i controlli, anche giurisdizionali. In Italia spesso chi è sovra ordinato (ossia posto in una posizione di potere), si sente sottratto al rispetto delle regole. Ed invece, è proprio l’esercizio di un maggiore potere che impone ancora più fortemente la necessità del rispetto della regola.

I Giuristi Democratici hanno, poi, posto l’attenzione sulla necessità di potenziare le garanzie di indipendenza anche delle giurisdizioni speciali.  In particolare del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Allo stato attuale, l’attività di governo, del Paese e del territorio, costantemente incontri sulla sua strada, spesso nelle vesti di ostacolo, la giustizia amministrativa e contabile.

Si pensi ai ricorsi in materia ambientale che interessano le piccole e grandi opere, alle nomine, agli appalti, all’urbanistica, ai ricorsi in materia elettorale. 

La giustizia penale, ed il suo potenziale dispiegarsi in piena autonomia, possono incidere indirettamente sull’attività di governo, attraverso gli attori; la giustizia amministrativa e la giustizia contabile incidono, invece, direttamente sul momento esecutivo delle scelte.

Nel tempo ciò ha generato una insofferenza del potere esecutivo rispetto ai giudici amministrativi (ed ancor più al peso del loro sindacato demolitorio) e tensioni intorno al meccanismo dei controlli.

Gli ultimi anni hanno visto il declino della cultura costituzionale del bilanciamento e dei controlimiti ai poteri - proprio in un tempo storico in cui ve ne sarebbe più bisogno - e le tensioni sono divenute espliciti attacchi.  Viene rappresentata una artificiosa contrapposizione tra interesse nazionale e rispetto delle norme, tra crescita del PIL e giustizia nell’amministrazione.

Si dimentica, in tal modo, che l’unico interesse nazionale conoscibile al diritto è quello al rispetto della legge.  Nessuno impedisce, a chi ha il potere, di modificare le norme, di cambiarne il contenuto. Ciò che però non si può concepire, senza scivolare al di fuori dello stato di diritto, è che si configuri una categoria di esercizio del potere al di fuori delle norme.

Ciò che si osserva, nei ripetuti attacchi, è come si postuli invece uno scavalcamento della legge da parte del decisore.  La regola deve divenire cedevole rispetto alla decisione assunta. Non è più la legge la portatrice dell’interesse collettivo nazionale, ma la decisione attiva, da chiunque presa, e con qualunque contenuto.

Da ciò nasce la critica a chi garantisce efficacia ai precetti, il Giudice Amministrativo (o contabile), criticato non perché inefficiente, ma perché troppo rigoroso. Da questo nasce la contemporanea pulsione ad un addomesticamento della giurisdizione amministrativa e contabile.   

Quindi, il tema della indipendenza dei giudici speciali è assolutamente fondamentale, non solo per una compiuta divisione dei poteri, ma anche per la difesa dello stato di diritto.

b) Magistratura onoraria

A nostro avviso, è opportuno che termini il “precariato” del Giudice di Pace. Allo stato attuale, stante la temporaneità dell’incarico, il giudice di pace che ha conseguito una buona esperienza deve lasciare l’incarico. Mentre assume l’incarico un soggetto privo di adeguata formazione.  Inoltre, non potrà essere certo un giovane ad investire professionalmente su una funzione di durata temporanea, ma sufficientemente lunga per impedirgli di percorrere, per tempo, altre strade.  Infatti allo stato attuale è un ruolo scelto prevalentemente da persone al termine delle proprie rispettive carriere, spesso in pensione.

Riteniamo dunque opportuna una riflessione. È indubbia l’importanza del lavoro svolto dai Giudici di Pace, di cui oggi, il sistema non potrebbe fare a più a meno.

E’ quindi opportuno che il sistema investa adeguate risorse per la formazione del Giudice di Pace. Che lo Stato dunque assuma giovani, neo laureati, con un pubblico concorso. Persone che investano professionalmente in un’attività di ausiliari della giustizia, e che dunque godano di una retribuzione stabile , della copertura previdenziale etc..

Ciò permetterebbe, peraltro, di aumentare la competenza ordinaria, per valore, almeno fino a 10.000 euro di valore.

 

c) Separazione delle carriere

Il problema della separazione delle carriere deve essere visto in maniera assolutamente laica, cercando di trovare soluzioni che evitino alcune inaccettabili commistioni tra giudice e pubblico ministero. Le norme attualmente vigenti, impediscono o rendono, comunque, estremamente difficile il passaggio da una funzione all’altra, ed hanno già, in buona parte, ovviato ai principali inconvenienti. Il restante problema di possibile commistione tra giudicante e requirente non pare tanto fondato sulla appartenenza allo stesso ordine, ma piuttosto determinato da ragioni di maggiore conoscenza e amicizia personale tra i magistrati. Si tratta, dunque, in prima battuta e senza voler essere eccessivamente superficiali, di questioni di natura personale che potrebbero essere risolte con un maggior impegno del giudicante a rispettare e applicare la propria autonomia nei confronti sia del pubblico ministero che dell’avvocato.

Il principale timore in relazione alla separazione delle carriere è che essa possa incidere sull’indipendenza della magistratura e, conseguentemente, sulla tutela dei diritti dei cittadini. Essa andrebbe ad aggiungersi, oltre che alla delegittimazione della magistratura, alla richiesta di rottura del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fulcro e base dell’uguaglianza dei cittadini. Sembra estremamente pericoloso contribuire ulteriormente all’opera di normalizzazione e limitazione dell’autonomia della magistratura attraverso una modifica costituzionale che, istituendo una doppia carriera e un doppio Consiglio superiore (partendo addirittura, al fine di aggirare la necessità della riforma costituzionale, da un doppio concorso, come è stato ipotizzato recentemente), rischia di far dipendere il pubblico ministero dal potere esecutivo. In ogni caso, un simile pubblico ministero resterebbe ancora più lontano da quella cultura della giurisdizione che dovrebbe accomunare magistratura e avvocatura; nascerebbe una autonoma cultura dell’indagine e dunque dell’accusa fondata su principi ed elementi non necessariamente coincidenti con quelli sino ad oggi seguiti, anche se in maniera non soddisfacente.

Anche molti avvocati sono, infatti, perplessi nell’idea di creare una figura di magistrato che, dall’inizio alla fine della sua carriera, sia destinato e dedicato solo al ruolo di pubblica accusa. Molti ritengono che una migliore cultura e formazione si acquisisce solo se uno stesso soggetto ricopre tutti i ruoli del processo. In astratto meglio ancora sarebbe se il magistrato svolgesse prima il ruolo di difensore, poi di accusatore, poi di giudicante, e poi ruotasse ancora. Chi ha giudicato, sarà anche più prudente nell'accusare (nel chiedere un rinvio a giudizio). Chi ha accusato e difeso sarà più consapevole nel giudicare. Negli USA, ad esempio, gli avvocati per un periodo sono chiamati a svolgere il ruolo di procuratori dell’accusa, poi tornano a fare gli avvocati difensori.

Il tema sollevato dai promotori è reale e concreto.  Chi sostiene il ruolo dell’accusa, in un giudizio, ha una posizione privilegiata, che potremmo definire come una sorta di accesso agevolato al convincimento del giudice giudicante. I promotori ritengono che sia legato ad uno spirito di corpo, che si crea per il passaggio da una funzione all’altra, e dunque al senso di colleganza. Non è così.

Il nodo è che il PM è un soggetto pubblico. Quando decide di 'accusare' si presume lo faccia nell'interesse pubblico. In sostanza, è vero che nel processo vi può essere un pregiudizio favorevole alla tesi del PM. Ma questo nasce dal fatto che il PM accusa in buona fede, perché ne è convinto, perché ha trovato la (sua) verità, giusta o sbagliata che sia, ma nel pubblico interesse, mentre l'avvocato rappresenta una parte privata (che si difende nel proprio interesse). Ecco perché nel giudizio la parte pubblica è avvantaggiata, perché un giudizio super partes, quando inizia il processo, c'è già stato. Ed è quello del PM che ha deciso di accusare l’imputato.

Questo pregiudizio non si potrà mai eliminare. È presente anche nel giudizio civile o nel giudizio amministrativo presso il TAR. Il problema è che una parte è pubblica, ed il difensore della parte pubblica agisce (o si presume agisca) nell'interesse collettivo. Il pregiudizio positivo resta, nel giudizio civile o amministrativo, anche quando la parte pubblica, ad esempio l’ente locale, è difeso da un avvocato privato

Ciò che rileva, è che nulla potrà mutare questa situazione, e certamente non il fatto di separare le carriere. Per mutare questo pregiudizio positivo all'accusa, occorrerebbero tali sconvolgimenti, da non essere affatto consigliabili.

Sotto altro profilo, la separazione delle carriere non risolverebbe i problemi della giustizia.

Si sostiene che la comunanza di carriera e logistica porterebbe come conseguenza un asservimento dei giudici allo strapotere dei pubblici ministeri, mediaticamente molto più forti. Ma ciò non sarebbe impedito se le carriere fossero due. Ed anzi si rischia un’ulteriore sovraesposizione mediatica dei pubblici ministeri, non più intralciati da regole deontologiche (già oggi sovente violate), che finirebbe per pesare, anche a livello inconscio, sui giudici, premuti dall’opinione pubblica.

Ciò che deve essere garantito è che tutti i magistrati, ed anche gli avvocati, partano da un comune terreno di “gioco”, una condivisa visione della giurisdizione. In questo impianto, poi, occorre creare un rigido e serio controllo da parte della magistratura giudicante sull’operato del pubblico ministero. Questo controllo è sovente mancato in questi anni, ma certo non è la separazione delle carriere che lo renderebbe più agevole. Servirebbe, invece, un senso di responsabilità e di vera indipendenza di ogni magistrato, oggi spesso mancante.

Un noto penalista, Astolfo Di Amato, ha sostenuto, sulle colonne del Riformista, che il condizionamento dell’accusa sulle giurisdizioni, anche su quelle superiori, è enorme, onde il problema non sarebbe quello di «tenere il pubblico ministero immerso nella cultura della giurisdizione affinché si autolimiti. Occorre, viceversa, creare le condizioni affinché la giurisdizione costituisca un momento di controllo rigoroso e non condizionabile delle attività del pubblico ministero. Ed ecco perché serve la separazione delle carriere». Se la premessa è giusta, certo non lo è il modo per raggiungere l’obiettivo: il rigoroso controllo dell’attività del pubblico ministero ben può, e anzi deve, essere perseguito, ma ciò è perfettamente compatibile con l’attuale sistema di separazione delle funzioni. Occorrerebbe, invece, correggere l’attuale cultura di alcuni pubblici ministeri (che si muovono al fine di acquisire notorietà mediatica e consenso sociale) e rafforzando nei giudici la piena autonomia non solo dai pubblici ministeri (e dagli avvocati, nei rari casi in cui ciò potrebbe succedere) ma anche dalla stampa e dall’opinione pubblica.

Si tratta, in definitiva, di approfondire il tema, discuterne collettivamente, valutarne gli aspetti positivi e quelli negativi, operare un bilanciamento tra essi, superando quella contrapposizione, dannosa per i cittadini, Avvocati-Magistrati, che da anni ha contrassegnato il tema, nella ricerca di una comune cultura della giurisdizione.

 

8.    VINCOLI DI BILANCIO

 La modifica all'art. 81 della Costituzione approvata quasi all'unanimità nel 2012 dal parlamento ha introdotto il principio del pareggio di bilancio con la formula “equilibrio tra le entrate e le spese”.

La limitazione della spesa pubblica, se non frutto di un'ideologia estremista e cieca, deve adattarsi alle esigenze della popolazione, consentire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, mentre il pareggio di bilancio comprime i diritti che la stessa costituzione, all'art. 2, definisce solennemente come inviolabili. Pertanto sarà il bilancio a sottostare alla necessità di garantire l'erogazione di prestazioni e interventi indispensabili per la tutela di diritti insopprimibili e non il contrario, come stabilito con chiarezza dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 275 del 2016. Lo stesso vincolo esterno del Fiscal compact - che pure non imponeva alcuna modifica costituzionale - si è rivelato non “inviolabile” in tempi di pandemia e di crisi economica conseguente, tanto da esser stato prontamente sospeso dalla Commissione UE. Ci troviamo infatti a dover approvare periodicamente, durante la pandemia, gli scostamenti di bilancio, quando saremmo giustificati dalle istituzioni europee.

Appare urgente, in sintonia ormai con i segnali di eccezione a livello europeo che speriamo si tradurranno in stabili riforme, rivedere l'art. 81 tornando alla originaria formulazione, o meglio ancora fissare esplicitamente la inviolabilità dei diritti fondamentali delle persone su tutto il territorio nazionale - anche a schermo contro le distorsioni che deriverebbero dalle spinte secessioniste del “regionalismo differenziato” - proprio in relazione alle esigenze degli interventi di politica economica e monetaria.

Proprio in tal senso è stato elaborato un disegno di legge costituzionale dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale: si chiede pertanto di rimuovere il pareggio di bilancio introdotto nel 2012 rendere esplicito che le politiche di spesa pubblica devono in ogni caso garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

 

9.    TUTELA DELL’AMBIENTE

a) Premessa

La questione ambientale non è estranea alla Costituzione italiana, così come non è assente nella tradizione del costituzionalismo moderno e contemporaneo[7]. D’altra parte, l’ambiente è «un presupposto di tutti gli altri diritti e, come tale, costituisce una sfida per l’intero assetto di quello che, in base alle costituzioni nate nella seconda metà del secolo scorso, si può definire lo Stato costituzionale»[8].

Nel testo originario della Costituzione la questione ambientale, seppur dimessamente, è menzionata all’art. 9.2 che richiama espressamente il compito della Repubblica di tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Successivamente, con L. cost. n. 3 del 2001, la Costituzione si è dotata di disposizioni e formule più “evolute” e rispondenti alla (drammatica) rilevanza assunta dalla questione ambientale nella società odierna.

All’interno del nuovo titolo V la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” è annoverata tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato (art. 117.2, lett. s). Alla legislazione concorrente Stato-Regioni spetta, invece, la «valorizzazione dei … beni ambientali», nonché il «governo del territorio» (art.117.3). Sono state, altresì, assegnate al medesimo comparto legislativo anche la «tutela della salute», l’«alimentazione», la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Adottando questa soluzione, seppure in un ambito del tutto peculiare (il titolo V è – com’è noto –integralmente dedicato alle autonomie territoriali), il legislatore costituzionale del 2001 ha, da una parte, ammesso – come rilevato finanche dalla Corte costituzionale - la vigenza del principio ambientalista nell’interno dell’ordinamento italiano, ritenendolo «desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali»)[9]. Dall’altra ne ha coerentemente recepito la rilevanza ordinamentale. E declinando il principio ambientalista in una duplice direzione ha assicurato la convivenza, a partire dal testo costituzionale, di un’interpretazione di tipo antropocentrico («tutela dell’ambiente») con una lettura di carattere ecocentrico (tutela dell’ «ecosistema»).

b) La giurisprudenza costituzionale

La Costituzione italiana tutela il diritto all’ambiente. Ad averlo, in più occasioni ribadito, è stata la Corte costituzionale. A tale riguardo è interessante rilevare come il giudice costituzionale sia approdato a questo esito non sulla base di una visione giusnaturalista e immanente dei diritti dell’uomo (e in quanto tale sganciata dal testo costituzionale). E neppure impiegando l’art. 2 Cost. alla stregua di una norma a fattispecie aperta (soluzione questa di per sé idonea ad assorbire all’interno della generica formula «diritti inviolabili dell’uomo» tutti quegli interessi che, venuti maturando nella coscienza sociale nel corso del tempo, non erano stati espressamente menzionati in Costituzione).

La Corte è venuta enucleando la nozione costituzionale di ambiente (e la dimensione dei diritti a essa sottesa) a partire da disposizioni puntuali e dettagliate della Costituzione italiana. È il caso della tutela del paesaggio ex art. 9, formula dalla quale il giudice costituzionale ha ricavato la definizione di  «ambiente naturale modificato dall’uomo» (Corte cost. n. 94 del 1985 e n. 151 del 1986). E del diritto alla salute come «diritto fondamentale» e «interesse della collettività» (art. 32  Cost.) dal quale non solo la Cassazione (Cass. S.U. 6.10.1979, n. 5172), ma anche la Corte costituzionale ha desunto l’esistenza del «diritto all’ambiente salubre»(Corte cost. n. 247/1974; n. 167 del 1987).

La presa di posizione assunta, già alla fine degli anni Ottanta, dal giudice costituzionale su questo punto è quanto mai netta, soprattutto nelle sue implicazioni di ordine sistemico:

«L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto»[10]

Di qui l’innestarsi di un impianto giurisprudenziale che ha consentito al giudice costituzionale di assumere la tutela dell’ambiente anche come limite da opporre all’iniziativa economica (art. 41), al diritto di proprietà (art. 42), all’uso razionale del suolo (art. 44).

A offrire una coerente ed esaustiva sintesi degli sviluppi della giurisprudenza sul diritto dell’ambiente è stato lo stesso giudice delle leggi in una sua recente sentenza:

«È noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l'espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l'ecosistema, questa Corte  con  numerose  sentenze  aveva riconosciuto (sentenza n. 247  del  1974)  la  “preminente  rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell'uomo(art. 32) e alla protezione dell'ambiente in cui questi vive (art. 9,secondo comma)”, quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210del 1987). E la  giurisprudenza  successiva  aveva  poi  superato  la ricostruzione in termini solo finalistici,  affermando  (sentenza  n.641 del 1987) che l'ambiente costituiva “un bene immateriale unitario sebbene  a  varie  componenti,  ciascuna  delle  quali   può anche costituire, isolatamente  e  separatamente,  oggetto  di  cura  e  di tutela; ma tutte, nell'insieme,  sono  riconducibili  ad  unità.  Il fatto  che  l'ambiente  possa  essere  fruibile  in  varie  forme   e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie  norme  che assicurano la tutela dei vari profili in cui si  estrinseca,  non  fa venir meno e non intacca la sua natura e  la  sua  sostanza  di  bene unitario che l'ordinamento prende in considerazione”. Il  riconoscimento  dell'esistenza  di   un   “bene   immateriale unitario” non è fine a se  stesso,  ma  funzionale  all'affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della  tutela, uniformità  che  solo  lo  Stato  può  garantire,  senza   peraltro escludere che anche altre istituzioni  potessero  e  dovessero  farsi carico degli  indubbi  interessi  delle  comunità  che  direttamente fruiscono del bene»[11].

c) Il principio internazionalista e la tutela ambientale

Tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano peculiare rilevo riveste il principio internazionalista che ha il suo perno negli artt. 10-11 Cost.   L’art. 10.1 Cost., in particolare, oltre a riconoscere implicitamente il diritto pattizio, sancisce che «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. L’istituto dell’adattamento nel diritto internazionale implica l’esistenza di un “rinvio mobile” e pertanto un recepimento automatico delle norme internazionali nell’ordinamento interno. Peculiare rilevo è venuto assumendo, all’indomani della revisione costituzionale del 2001, l’art. 117.1 Cost. che vincola la legislazione statale e regionale al rispetto degli obblighi internazionali e dell’ordinamento Ue.

Le procedure e gli istituti giuridici sottesi al principio internazionalista hanno reso, in questi anni, possibile l’ingresso nell’ordinamento italiano di norme e principi in materia ambientale maturati nel diritto internazionale e dell’Unione europea. Si pensi alle numerose convenzioni internazionali siglate dall’ONU (conferenze di Stoccolma del 1972, di Rio del 1992, di Johannesburg del 2002, Accordo di Parigi del 2015sottoscritto da195 Stati e che oggi si propone di adottare azioni congiunte per fronteggiare i mutamenti climatici e surriscaldamento)[12].

In Europa la questione ambientale ha fatto capolino anche all’interno della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sebbene la CEDU(1950) non menzioni espressamente questo diritto. La Corte europea ha originalmente ricavato il diritto dell’ambiente dall’art. 8 della Convenzione avente ad oggetto la tutela della vita privata e familiare (si vedano i casi Lopez Ostra c. Spagna - 09.12.1994; Cordella e altri c. Italia - 24 gennaio 2019).

Ben più incisive e puntuali sono invece le disposizioni in materia di tutela ambientale contenute nel Trattato sull’Unione europea, dalle cui disposizioni apprendiamo che l’Unione «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato … su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. 3,§. 3) e promuove lo «sviluppo sostenibile della Terra» (art. 3, §§. 3-4). 

Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono stati invece definiti gli ambiti di competenza dell’Unione in materia ambientale. A tale riguardo il Trattato rileva che le «esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile» (art. 11). Nel TFUE sono stati altresì definiti i profili funzionali della tutela ambientale fondata «sui principi di precauzione, dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”» (art. 191,§. 2, TFUE

In questo contesto ciò di cui abbiamo oggi bisogno è una coerente e dettagliata riforma legislativa diretta a «individuare le modalità con le quali inserire la valutazione degli interessi ambientali nella programmazione di tutte le altre attività pubbliche e di tutti i programmi economici e sociali che vengono proposti e approvati nel circuito decisionale Parlamento / Governo (il modello potrebbe essere quello della Loi Grenelle francese), individuando criteri e metodi del bilanciamento» [13]

 

d) La recente modifica costituzionale

Una riforma Costituzionale di inizio 2022 ha introdotto la tutela dell’ambiente nella prima parte della Costituzione, in particolare il testo recita:

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

Se è vero, come abbiamo scritto, che la giurisprudenza costituzionale aveva già individuato l’ambiente come un bene da tutelare, appare evidente che inserirlo anche espressamente tra i beni tutelati, aggiungere la biodiversità, gli ecosistemi, l’interesse delle future generazioni e la tutela degli animali non può altro che avere un effetto importante sulla futura giurisprudenza costituzionale ed anche sulla lettura costituzionalmente orientata delle norme.

Le perplessità relative alla prima volta che viene modificata la parte iniziale della Costituzione, quella dei principi generali, possono essere superate dal fatto che la norma è stata approvata quasi all’unanimità, dando l’idea che si tratta davvero di un principio generale condiviso da tutti, come deve essere un principio costituzionale.

Si vedrà quale sarà l’evoluzione della giurisprudenza ma non vi è motivo di dubitare che la tutela dell’ambiente potrà solo essere aumentata dall’inserimento di questi elementi nella nostra Carta Costituzionale.

Forse ancora più importante è la modifica dell’art.41, 2° co., Cost.

Per l’art.41 “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recar danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.”

In periodo di liberismo, una modifica costituzionale che pone limiti all’iniziativa economica privata sulla base dell’ambiente e della salute diventa una novità che non è possibile sottovalutare.

Se si pensa ai processi per disastro o inquinamento ambientale, ai processi per omicidi colposi sul lavoro, diventa evidente che la libera iniziativa economica diventerà ben debole argomento ogni qualvolta andrà a scontrarsi con l’ambiente o con la salute dei lavoratori o dei cittadini.

Anche in questo caso gli sviluppi si vedranno in futuro, certamente si tratta di un segnale dell’importanza che ha assunto la questione ambientale, di una presa d’atto che l’ambiente è valore costituzionale riconosciuto a livello internazionale e non vi fosse ragione perché non fosse anche in modo espresso nella Costituzione Italiana. Il riconoscimento di una prevalenza dell’ambiente (e della salute) come valore superiore alla libera iniziativa economica privata, in grado di limitarla, è un elemento in più, importante.

 

 

10.                     ASILO RESPINGIMENTI ED ONG

a) Premessa

Le destre xenofobe e razziste hanno spesso costruito il loro spazio politico e culturale, e le loro fortune elettorali intorno al primato dell’appartenenza nazionale e agli interessi da tutelare contro i “nemici stranieri”.

La formula “prima gli italiani”, del tutto sovrapponibile a quel America First dell’ultra conservatore Trump e, andando indietro negli anni bui del vecchio continente, al Deutschland Uber Alles del nazismo, riscuote successo in Italia come, declinata nei diversi Paesi, a quasi tutte le latitudini.

Si tratta solo dell’ultima tappa di una gara che vede forze oscurantiste, conservatrici e xenofobe, insieme a forze democratiche, impegnate da anni a contendersi uno spazio pubblico costruito intorno alla sottrazione di diritti alle persone di origine straniera.

Una corsa che va avanti da più di venti anni e che ha portato nel nostro Paese ad esempio, ma vale per gran parte dei Paesi europei, a rendere impraticabile l’ingresso regolare agli stranieri sia per motivi di lavoro sia per richiesta d’asilo.

La cultura proibizionista, che favorisce i trafficanti, rende ricattabili e socialmente fragili i lavoratori e le lavoratrici stranieri; caratterizza oramai l’agenda sull’immigrazione, sempre più concentrata sull’esternalizzazione delle frontiere e sui programmi di rimpatrio forzato.

Se le destre hanno così ben interpretato il loro ruolo, da riuscire a dettare l’agenda ai governi, che oramai parlano e programmano attività e politiche su tali temi in maniera quasi ossessiva, partendo dalla criminalizzazione dell’immigrazione, le forze democratiche e di sinistra non sono state, fino ad oggi, in grado di trovare una proposta credibile e una strategia alternativa.

La proposta che vede diretta destinataria l’Unione Europea, per invertire la direzione, è quella di:

  1. Introdurre, attraverso una direttiva, vie d’accesso per ricerca di lavoro, anche autonomo, nonché modalità permanenti, non straordinarie, di uscita dall’irregolarità che tengano conto della condizione di inclusione sociale e lavorativa delle persone;
  2. Riformare, secondo le linee individuate dal documento votato dal Parlamento Europeo in questa legislatura, il Regolamento Dublino, consentendo una ripartizione equa e ragionevole dei richiedenti asilo, a partire dalle esigenze delle persone coinvolte e avendo cura dei territori e dei legami precedenti tra le persone e quei territori;
  3. Chiudere la stagione del “diritto speciale per gli stranieri”, con l’abolizione di ogni forma di detenzione amministrativa legata allo status giuridico;
  4. Trasferire le competenze riguardanti il soggiorno degli stranieri agli enti locali, sottraendole alle forze dell’ordine e al sistema della Sicurezza
  5. Implementare un programma europeo di ricerca e salvataggio e in parallelo un programma di reinsediamento per un numero non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione europea ogni anno.
  6. Interrompere i programmi e gli accordi per il controllo delle frontiere esterne all’UE, soprattutto in paesi come la Libia, l’Egitto, la Turchia, il Niger, il cui effetto è l’aumento dei morti e delle violazioni dei diritti umani, che spesso si traducono in veri e propri crimini contro l’umanità.

 

b) Respingimenti

Norme e principi di carattere nazionale, costituzionale e sovranazionale non possono essere stracciati impunemente, neanche da un governo “forte”. Lo stesso testo unico sull’immigrazione (art. 10 ter) prevede che le persone salvate in mare devono essere condotte nei centri di prima accoglienza e devono essere informate del diritto di chiedere la protezione internazionale, essendo il diritto d’asilo un diritto fondamentale garantito dall’art. 10, comma 3 della Costituzione. Inoltre l’espulsione collettiva di stranieri è vietata dall’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Il Decreto del 4 novembre 2022 - dei Ministeri dell’interno, dei trasporti e della mobilità sostenibile e della difesa - vieta alla nave Humanity1, della ONG SOS Humanity, di “sostare nelle acque territoriali italiane …oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed il precarie condizioni di salute”; analogo decreto è stato adottato la sera del 6 novembre 2022 per la nave Geo Barents, della ONG Medici Senza Frontiere, secondo un metodo che potrebbe ripetersi anche nell’immediato futuro (altre navi con naufraghi a bordo sostano infatti al confine con le acque territoriali).

I decreti sono manifestamente illegittimi in quanto violano numerose norme del diritto internazionale ed interno.

Invocando un generico pericolo per la sicurezza dell’Italia, posto in relazione allo sbarco di naufraghi, impropriamente richiamando l’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione Onu sul diritto del mare, il Governo impedisce la conclusione delle operazioni di salvataggio di naufraghi. L'obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce, infatti, nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. "place of safety")[14].

Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall'Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004), allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Obbligo al quale le autorità preposte, italiane e maltesi, si sono sottratte.

Non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché  tali persone hanno, tra i numerosi altri diritti, quello di presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave.

A ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la Risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d'Europa secondo cui «la nozione di "luogo sicuro" non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.).

Al riguardo, risulta arbitraria quanto approssimativa la distinzione all’interno dei gruppi dei naufraghi che il Governo italiano sta proponendo, come risulta impossibile escludere la situazione emergenziale delle decine se non centinaia di persone a bordo la cui condizione va valutata singolarmente, in ossequio all’art. 19 della Carta del Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che vieta le espulsioni collettive e all’effettivo rispetto dell’art 3 della CEDU e dell’art 4 della CDFUE, nonché  al carattere assoluto del divieto di trattamenti inumani e degradanti (l'art. 15 della Convenzione EDU fa espresso divieto di deroga, persino in caso di guerra o di pericolo pubblico che interessi la nazione). La Commissione Europea che più volte ha richiamato l’Italia, invitandola a «minimizzare la permanenza delle persone a bordo delle navi» (da ultimo il 10 novembre con una nota ufficiale), come peraltro prescrivono il diritto internazionale del mare e il Regolamento europeo n.656 del 2014.

La terminologia scandalosa utilizzata dai rappresentanti del governo per definire i migranti lasciati a bordo (“carico residuale”, “sbarco selettivo”) è un insulto a chiunque possegga un minimo di umanità. Peraltro, l’attività di respingimento del “carico residuale si esporrebbe a una seconda sanzione della Corte Europea, dopo la condanna dell’Italia nella sentenza Hirsi Jamaa c/ Italia del 2012, emessa per la violazione dell’art. 4, protocollo 4 Cedu.

Deve poi essere assicurato alle persone a bordo della nave e in acque territoriali italiane il diritto a chiedere la protezione internazionale in attuazione dell’art. 6 della direttiva 2013/32/UE (direttiva procedure) che obbliga gli Stati membri a garantite un accesso effettivo alla procedura. Si tratta di diritto fondamentale sancito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione, norma declinata anche come diritto di accedere al territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura anche di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. sent. n. 25028/2005), in quanto, come affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 29460/2019), il diritto alla protezione internazionale “è pieno e perfetto” e “il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto” che “nelle forme del procedimento è solo accertato…il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità”.

Ai sensi dell’art 10 ter del D.lvo n. 286/98 le persone giunte sul territorio nazionale a seguito di salvataggio in mare devono essere condotte presso i punti di crisi o nei centri di prima accoglienza, dove sono identificati, è assicurata la prima assistenza e deve essere assicurata l’informazione anche sul diritto a chiedere la protezione internazionale. L’illegittimo tentativo di fare sbarcare esclusivamente alcuni dei naufraghi e respingere indistintamente tutti gli altri al di fuori delle acque territoriali nazionali si configura, oggettivamente, come una forma di respingimento collettivo, vietato dall’art. 4, Protocollo n. 4 della CEDU; attività, quest’ultima, per la quale l’Italia è già stata condannata in passato (sentenza Hirsi Jamaa c. Italia del 2012).

La condotta governativa si pone, altresì, in contrasto con i principi sanciti nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e, in primo luogo, del principio di non refoulement (art. 33). In questa condizione se i comandanti delle navi portassero fuori dai confini italiani i naufraghi potrebbe configurarsi a loro carico, e a carico degli armatori, una responsabilità per avere prodotto, in esecuzione di un ordine manifestamente illegittimo, una grave violazione dei diritti umani.

 

c) Decreto Piantedosi

 

Il Decreto, pubblicato il 21 settembre 2023 sulla Gazzetta Ufficiale, che interviene sul tema dei respingimenti prevede il versamento di una garanzia finanziaria di 5.000 euro da parte dei migranti privi di passaporto che vogliono evitare i centri di permanenza temporanea.

È quanto ogni singolo migrante dovrà versare allo Stato italiano in attesa dell’esito della procedura di richiesta d’asilo, se non vuole essere trattenuto in un centro di permanenza temporanea.

La notizia ha suscitato un’ondata di sdegno. È stato argomentato che la somma richiesta costituirebbe una sorta di “riscatto” per ottenere la libertà, un “pizzo” di Stato. Tuttavia, dovendosi addentrare in una selva legislativa particolarmente oscura, in cui si intersecano fonti legislative nazionali ed europee e atti amministrativi, per poter esprimere una valutazione congrua, occorre fare un po’ di chiarezza sull’origine, sui destinatari, sull’ambito di applicazione del provvedimento.

All’origine del provvedimento c’è una norma del decreto Cutro, l’art. 7 bis (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  procedure  accelerate  in frontiera) che introduce, sulla falsariga della Direttiva “Procedure” dell’Unione Europea, una procedura accelerata, da svolgersi direttamente in frontiera o nelle zone di transito per i richiedenti asilo provenienti da paesi ritenuti “sicuri” (Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia). Si tratta di una procedura finalizzata ad una rapida evasione della domanda di asilo e al rimpatrio immediato. Per evitare il pericolo di fuga è previsto che lo straniero possa essere trattenuto fino ad un massimo di 28 giorni: “qualora il richiedente non abbia consegnato il  passaporto o altro documento equipollente in  corso  di  validità,  ovvero  non  presti idonea garanzia finanziaria.”

Insomma il decreto Cutro, forzando le procedure europee, ha introdotto una forma speciale di detenzione amministrativa per alcune categorie di richiedenti asilo ai quali è riservato un esame sommario della domanda di protezione internazionale, posto che provengono da paesi “sicuri”. Si può sfuggire all’internamento solo in due ipotesi: se gli stranieri consegnano il passaporto, ovvero se prestano idonea garanzia finanziaria. Astrattamente la possibilità di prestare una garanzia finanziaria dovrebbe essere una misura a favore del richiedente asilo che non può o non vuole consegnare il passaporto. Il decreto del Ministro Piantedosi dovrebbe consentire l’esercizio di questa facoltà, ma in realtà la nega, rendendola impossibile.

Infatti l’art. 3 del decreto Piantedosi (Determinazione delle modalità di prestazione della garanzia finanziaria)  prevede:        

  1. Allo straniero di cui all’art. 1, comma 3, del presente decreto è dato immediato avviso della facoltà, alternativa al trattenimento, di prestazione della garanzia finanziaria.  2. La garanzia finanziaria è prestata in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi. 3. La garanzia finanziaria deve essere prestata entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico ai sensi degli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (..)

Secondo questo provvedimento, il tunisino o l’algerino che sbarca a Lampedusa entro tre giorni (il tempo previsto per le operazioni di fotosegnalamento) si deve rivolgere ad una Banca o ad una Assicurazione (mentre si trova rinchiuso nel centro di identificazione) e farsi rilasciare una fideiussione o una polizza fideiussoria: operazione assolutamente impossibile, anzi inimmaginabile. Per eliminare ogni residua possibilità di prestare una garanzia finanziaria, il decreto prevede che la polizza non può essere versata da terzi (come potrebbe fare, per es., un parente residente in Italia che sia titolare di un c/c bancario). Con il decreto Cutro, come applicato da Piantedosi, è stata inaugurata una nuova tecnica normativa: la burla legale. La legge non serve a dare delle disposizioni che devono essere attuate da qualcuno, per perseguire dei fini più o meno legali, ma per sbeffeggiare i soggetti interessati ed ingannare l’opinione pubblica. Tuttavia l’aspetto più scandaloso non sta nella burla sulla garanzia finanziaria, bensì nella procedura di somma urgenza che sacrifica pesantemente la possibilità per il richiedente asilo di far valere il suo diritto alla protezione internazionale, ove sussistente. È infatti previsto che la Commissione territoriale debba decidere entro sette giorni. Contro la decisione è ammesso ricorso nel termine di 14 giorni sul quale il giudice monocratico deve decidere entro cinque giorni con un decreto non impugnabile (cioè non appellabile, né ricorribile per cassazione). In questo modo è stato reso evanescente il diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, e la possibilità di ottenere la tutela giurisdizionale contro i provvedimenti della pubblica amministrazione assicurata dall’art. 113 della Costituzione. 

 

11.                     LA NORMATIVA ANTIFASCISTA

 

a) Premessa

I sistemi costituzionali danno luogo ad architetture complesse e fragili. Accade, dunque, che nel dibattito politico delle liberaldemocrazie possano attecchire ideologie illiberali e antidemocratiche, che alle elezioni repubblicane si presentino – ad esempio – partiti monarchici, e che gruppi organizzati chiedano e ottengano cittadinanza politica, pur tradendo la propria ostilità nei confronti dei presupposti fondativi dell’ordinamento.

È uno dei paradossi della democrazia, chiamata ogni giorno a fare i conti con sé stessa per mantenere fede alla propria identità: ciò, anche quando determinate forze tentino di metterne in luce i nervi scoperti, cercando di piegare le istituzioni e le procedure democratiche ai controvalori propugnati dalle prime.

In questo quadro la categoria politica del fascismo, è sempre attuale e, nel nostro tempo è più attuale che mai, anche se la vicenda storica del fascismo – naturalmente - è morta e sepolta e non può più essere riportata in vita. È ovvio che il fascismo ed il nazismo non torneranno mai più nella forma storica in cui noi li abbiamo conosciuti. I forni di Auschwitz non si metteranno a fumare un'altra volta e non ritornerà più un signore con la camicia nera e la mascella squadrata a prometterci di nuovo l’impero, fra il tripudio della folla. Quegli episodi storici sono nella loro specificità conclusi. Ma possiamo escludere che la mala pianta del razzismo e della discriminazione non tornerà di nuovo a fiorire nel nostro paese, che il flagello della guerra continuerà ad essere bandito dal nostro futuro, come pretende la Costituzione, che il pluralismo sarà rispettato, che il Parlamento non sarà marginalizzato e che non si concentreranno un’altra volta tutti i poteri nella mani di un capo politico, interprete e padrone della volontà popolare?

Il fascismo non è stato solo un evento storico. La parola fascismo è una metafora, essa rappresenta una condizione patologica dello spirito umano nella sua dimensione sociale. In questo senso il fascismo è un fenomeno transtemporale, non è appannaggio esclusivo di un’epoca storica, né di una determinata parte politica. Ci sono delle costanti storiche e psicologiche che si riaffacciano, specialmente nei periodi di crisi; ci sono politiche che costruiscono risposte violente ed autoritarie ai problemi della convivenza umana; ci sono condizioni psicologiche che attivano meccanismi di fuga dalla libertà e spingono gli uomini a liberarsi del fardello delle proprie responsabilità consegnandosi nelle mani di un uomo forte.          Il fascismo è una malattia dello spirito pubblico che, quando si attiva, corrompe la democrazia e corrode le istituzioni democratiche.

E’ vero che la Costituzione italiana costituisce un baluardo contro il ritorno dei disvalori e delle pratiche proprie del fascismo. La Costituzione, stabilendo un recinto inviolabile di libertà individuali e collettive ed organizzando la separazione, la diffusione e la distribuzione dei poteri, rende impossibile ogni forma di dittatura della maggioranza. Ma, proprio per questo la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica. Ridotta all’osso è questa la questione centrale che ha animato i tentativi di grande riforma della Costituzione che sono stati praticati nel tempo.       

Una politica che non riconosca i valori ed i principi fondamentali dell’ordinamento democratico come delineato dalla Costituzione repubblicana, può portare rapidamente all’obsolescenza ed al tramonto della Costituzione, anche a prescindere da modifiche o stravolgimenti formali dell’impianto costituzionale.

Rimane il problema di capire a che punto siamo della notte. Che cosa non ha funzionato nel modello di democrazia prefigurato nella Costituzione repubblicana. Quale sia l’origine del “male oscuro” che corrode la democrazia ed ha avviato una transizione dagli sbocchi indefinibili.

La crisi della democrazia politica in Italia viene da lontano e la degenerazione rappresentata dal Berlusconismo e dal Salvinismo non ne è la causa principale, ma – in un certo senso l’effetto, ovvero lo stadio finale, se non ci sarà una reazione adeguata a questo fenomeno ed alle cause che lo hanno generato.    

 

b) Attualità del pericolo di una involuzione autoritaria di tipo fascista nel nostro paese.

Vi sono sentimenti che, nelle società ricche, traggono origine dall’inconscio collettivo, dal senso delle perduta stabilità, dalla paura del futuro, dal timore di non conservare i diritti o i privilegi acquisiti, e che si esprimono in una ricerca di esclusività, in una esacerbata affermazione di identità, in un’ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in una difesa corporativa del proprio gruppo, o regione, o cortile, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della pelle degli altri.

In questa situazione cresce l’insicurezza, il senso delle precarietà della vita individuale e collettiva ed avanza una sottopolitica che costruisce le sue fortune sulla paura, che mette uomo contro uomo in uno spregiudicato gioco per il potere. Tutte le ultime elezioni politiche hanno dimostrato che organizzare la paura paga in termini di consenso elettorale, in quanto il c.d. “tema della sicurezza”, comprensivo della richiesta di oscure misure nei confronti di Rom e stranieri, è sempre l’atout su cui è fondata la campagna elettorale del centro-destra.

Di fronte alla drammaticità della crisi economica e sociale che il nostro continente sta vivendo e attraversa, e anche alle difficoltà delle istituzioni democratiche ad affrontarla, crescono nei Paesi europei i movimenti neofascisti e neonazisti. Si tratta di fenomeni politici che in taluni casi attraversano il confine della vera e propria eversione.  Alba Dorata, che raccoglie in Grecia un consenso elettorale significativo, si serve addirittura di squadre paramilitari che aggrediscono gli avversari politici e gli immigrati.

Questo fenomeno riguarda anche il nostro Paese.

Il nostro è uno dei Paesi nei quali la crisi economica ha influito maggiormente, aggravando il malcontento, la tensione sociale e le diseguaglianze fra i cittadini. A causa dell’instabilità politica e della profonda debolezza dei partiti non si è ancora giunti a quelle importanti riforme istituzionali ed economiche di cui il Paese ha un estremo bisogno. La crisi e la percezione diffusa di una difficile ripresa alimentano ulteriormente i focolai di rinascita del fenomeno di cui si discute.

Insomma, occorre una grande, collettiva, azione per contrastare un fenomeno che non può essere tollerato, in un Paese che ha subìto vent’anni di dittatura fascista, ha subìto l’autoritarismo e la discriminazione razziale nelle forme più odiose e violente. Una parte fondamentale della suddetta azione deve essere costituita, necessariamente, dall’esclusione dal confronto elettorale di tutti quei gruppi e movimenti politici che sono chiara espressione di un’ideologia in aperto contrasto con i principi testé richiamati.

In particolare si segnala che le norme italiane prevedono financo la sanzione penale per chi tenta la ricostituzione di movimenti fascisti o para-fascisti. Ebbene, è chiaro che si rischia di adottare una politica contraddittoria. Prima della sanzione penale viene la legittima resistenza politica (ed amministrativa) alla pretesa di tali movimenti di partecipare alla competizione elettorale.

Se, infatti, si ammettono liste neo-fasciste alle elezioni, si avvalora l’idea che sarebbe legittima una gestione della cosa pubblica improntata a tali idee. In tal modo, indirettamente, si legittima l’esistenza di un rinato movimento dai contorni fascisteggianti.

In sostanza, non è rilevante che poi tali liste siano o meno idonee a conquistare effettivamente il consenso elettorale. Ciò che più conta è ribadire che, pur in un sistema democratico, ci sono dei limiti, dettati dalla autoconservazione del sistema stesso e dei suoi valori fondamentali.

Se non si procede alla esclusione di tali liste, si ammette implicitamente che tali liste, in caso di vittoria schiacciante, potrebbero trasformare il sistema democratico in sistema autoritario, razzista, omofobo, etc (con lesione dei diritti fondamentali di tutti i cittadini che non hanno voluto quella trasformazione). Trasformazione che, poi, per esperienza storica, diviene irrevocabile. Dunque la lista deve essere esclusa a monte, perché la trasformazione che propugna non è ammissibile, non solo per effetto delle specifiche disposizioni costituzionali che impediscono la ricostituzione del disciolto partito fascista, ma anche in difesa di tutti gli altri diritti costituzionali.

 

c) La normativa in materia

Occorre partire dalla grundnorm, cioè dalla nostra Costituzione che, con la XII disposizione transitoria e finale, stabilisce, al primo comma, che è “vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

I nostri Costituenti hanno vietato non solo la ricostituzione dello storico partito fascista, inteso come un fenomeno storico politico culturale ben riconoscibile, cioè il Partito Nazionale Fascista (d'altra parte il partito fascista era già stato punito con lo scioglimento per mezzo del regio decreto 2 agosto 1943 numero 704), ma anche quella di partiti e movimenti che “sotto qualsiasi forma” professino l'ideologia fascista.

Ora, per comprendere l'importanza della XII disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione, è necessario chiedersi perché i nostri Costituenti l'abbiano inserita nel testo della Costituzione.

In fondo il regime era caduto, già da qualche anno, il Duce era morto e con lui almeno una parte dei suoi gerarchi e sodali; perchè, dunque, inserire questa norma?

Certamente possiamo ritenere che ciò derivi, almeno in parte, dal fatto che la nostra Costituzione è espressione della lotta antifascista; è il prodotto dell'azione e del pensiero di uomini che hanno lottato contro il fascismo  e il nazismo, che sono stati perseguitati, che magari sono stati in prigione per le loro idee, che sono stato partigiani, che hanno combattuto con le armi in pugno il regime fascista, magari che hanno vissuto sulla loro pelle o di quelle di persone a loro vicine le stragi commesse dai nazi-fascisti.

Sicuramente è così. Però non è solo questo.

E a maggior ragione bisogna chiederselo per il fatto che l'introduzione di questo articolo nella Costituzione non è un fatto banale, anche da un punto di vista giuridico; perchè la XII disposizione transitoria e finale è una norma problematica, e lo è perchè si pone, almeno astrattamente, in contrasto con quanto la nostra Costituzione dichiara, statuisce, o perfino celebra, con articoli fondamentali, posti per lo più nella sua prima parte. Ci si riferisce principalmente all'art. 21 la libertà di pensiero e a quel combinato di articoli  (artt.18,19, 39 e 49) che dettano la disciplina della libertà di associazione (in generale, religiosa, sindacale e politica).

La lettura di questi articoli ci chiarisce che in essi si esprime appieno il diritto di associazione e se ne esplicitano in modo esaustivo e non etero integrabile anche i limiti e le eccezioni.

Se consideriamo, ad esempio, l'articolo 18 vediamo che dopo aver espresso il principio generale (“i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione”), la norma indica espressamente i limiti e le eccezione di cui si parlava (“per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale....sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militari”).

Questa della XII disposizione non è un'eccezione alla regola generale; perchè essa stessa è, in fondo, una regola generale.

Ancora, l'importanza della XII disposizione si misura tutta se solo si considera come essa incide su quel particolare diritto di associazione che è la partecipazione al partito politico.

Va considerato, sul punto, che i partiti politici sono associazioni avente rilevanza costituzionale, mediante le quali i cittadini concorrono, con metodo democratico “a determinare la politica nazionale”, come recita l'art. 49 Cost. Dunque si può ben sostenere che se la determinazione della politica nazionale ha molto a che fare con la sovranità popolare che “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, secondo la dizione dell'art. 1, comma 2, Cost., la rilevanza costituzionale del partito politico assume un carattere concreto e fondamentale per il funzionamento della Stato di diritto e, conseguentemente, la regola generale introdotta dalla XII disposizione transitoria e finale, ne diventa una delle colonne portanti.

Inoltre, la ricaduta di questo possibile contrasto coinvolgerà, ovviamente, anche le leggi ordinarie di attuazione di questa regola generale che, a loro volta, si potranno porre in contrasto con le norme della Costituzione che abbiamo citato, e ancor più con la norma della Costituzione che vieta la discriminazione tra le persone, in ragione delle proprie convinzioni politiche cioè l'art. 3, comma 1, che disciplina il principio di uguaglianza formale.

E, ovviamente, laddove questo contrasto si verifichi, come è effettivamente avvenuto anche per la legge (“Scelba”) di attuazione della XII disposizione, si potrà sollevare davanti ad un'autorità giudiziaria la relativa eccezione di costituzionalità di quella norma.

Volendo andare ancora più in profondità, possiamo dire che la XII disposizione è sicuramente una norma volta a scongiurare l'ipotesi di una torsione totalitaria (evidentemente la Costituzione non può contemplare l'ipotesi che tale torsione non venga perseguita dall'interno del sistema quanto per via “rivoluzionaria” o “eversiva”), ma si pone con riferimento a questa funzione in termine di rapporto tra genus e species, nella rappresentazione di quella particolare forma di regime totalitario che è il regime fascista; in questa sua caratteristica essa non va considerata discriminatoria, perchè il suo grado di intolleranza (contro l'ideologia fascista) rappresenta l'unica intolleranza che è concessa alla democrazia, cioè quella contro i sistemi politici e sociali intolleranti (e il nazifascismo lo fu(rono) ampiamente).

Peraltro, si deve considerare che la nostra Costituzione, ha aliunde disciplinato l'ossatura di uno stato di diritto, con lo stabilire e regolare la divisione dei poteri dello Stato e nell'assicurare l'autonomia e indipendenza della Magistratura, oltrechè nel riconoscere (in primis con l'art. 2) i diritti inviolabili dell'uomo, i diritti di libertà, civili e politici, dei singoli cittadini; ossatura che risulta granitica (e che sembrerebbe, dunque, poter prescindere dalla XII disposizione transitoria finale) in ragione del fatto che è Costituzione rigida (art. 138) e ulteriormente garantita dalla norma di “chiusura” del sistema prevista dall'art. 139 (“la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”); norma, quest'ultima, che va interpretata in maniera estensiva, sì da ritenere non soggette a revisione tutte le disposizioni costituzionali relative alla sussistenza dello stato di diritto.

Tutto ciò detto, dobbiamo ancora rispondere alla domanda che ci siamo posti.

Ebbene, alla domanda si può cominciare a rispondere, leggendo il secondo comma della XII disposizione transitoria e finale dove si trova scritto che “in deroga all'articolo 48 (che indica i requisiti per l'elettorato attivo) sono stabilite con leggi, per non oltre un quinquiennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”.

Questa disposizione fa comprendere, senza ombra di dubbio alcuno. che i Costituenti si rendevano perfettamente conto che il fascismo non era morto con la fine di Mussolini.

Essi intesero bene che i vent'anni del regime e la presenza più che ventennale del movimento fascista, non erano, come pensava Benedetto Croce, una parentesi nello stato liberale, un'aberrazione che non avrebbe lasciato tracce dopo il suo crollo (quello della RSI) del1945.

I Costituenti avevano ben presente le piazze piene di cittadini in delirio per il Duce e avevano ben presente la lezione di Piero Gobetti quando aveva parlato del fascismo come autobiografia della nazione.

Con il senno di poi, non possiamo che concordare pienamente con la previsione e la previdenza dei Costituenti e lo possiamo fare in ragione di ciò che ci separa dal 1948, della storia che nel frattempo si è dipanata, senza dimenticare le radici socio culturali del fascismo.

Sul punto, basterà semplicemente confrontare la nostra attualità con quanto indicava Umberto Eco nell'elencare nel suo “il Fascismo eterno”: una lista di caratteristiche tipiche di quello che lui chiamava, appunto l’ “Ur-Fascismo“, o il “fascismo eterno“.

A distanza di quasi cent'anni, possiamo tranquillamente riconoscere che non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo con la storia e la storia ritorna a ricordarcelo.

Non l'abbiamo fatto come popolo, al di là della evidenza di quel consenso di cui si parlava che non può essere dimenticato e delle dinamiche interne alle società di massa e “liquide”, tanto più oggi che viviamo la  crisi delle liberal- democrazie.

La giustificazione che “tutti” dovevano essere iscritti al partito se volevano campare (PNF ossia “Per Necessità Familiari”) ha contribuito a liquefare l'epurazione a tutti i livelli mentre il mito tranquillizzante “italiani brava gente” ha cancellato, da quei “conti”, i massacri nell'Africa coloniale o le atrocità commesse nei Balcani dai nostri compatrioti.

Ma non l'abbiamo fatto, a maggior ragione e fino in fondo, a livello di istituzioni dello Stato.

La continuità dell'ordinamento repubblicano democratico con le strutture della dittatura fascista è stata questione di uomini, anche pesantemente compromessi con il regime, uomini che sono rimasti ai loro posti, che hanno continuato a “servire” la patria.

 

E questo vale anche e soprattutto per la magistratura: per un certo periodo l'organo apicale dell'ordinamento giudiziario è la Corte di Cassazione (almeno sino al 1956 anno in cui entra in funzione la Corte Costituzionale). E ancora nel 1968, tutti i 524 magistrati di Cassazione erano entrati in servizio prima del 1944, il che significa che l’alta magistratura, da cui venivano estratti la maggioranza dei componenti togati del Csm, i presidenti e i procuratori generali delle corti di appello, era ancora esclusivamente di nomina fascista.

Conseguenza certamente legata a questa dato di fatto e la giurisprudenza, aberrante, che si sviluppò in relazione alla normativa finalizzata a sanzionare le condotte criminali fasciste e cioè il decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio 1944 n. 159 e l'interpretazione degli altri strumenti legislativi in vigore nel secondo dopoguerra come l'amnistia “Togliatti”, del 22 giugno 1946, il decreto presidenziale n. 4.

Sul punto si ricordano le interpretazioni accomodanti che furono seguite per scagionare i criminali fascisti e le modalità con le quali le stesse norme venivano interpretate in modo restrittivo nei confronti dei partigiani.

Certamente, si deve considerare le nuove evenienze che si andavano sviluppando: la divisione del mondo in due blocchi e il fatto che il nuovo nemico si chiamava “comunismo”; sicchè, c'era proprio bisogno che l'epurazione non andasse in profondità e gli apparati di provata fede anticomunista rimanessero integri.

Quale esempio più eclatante è possibile ricordare degli “armadi della vergogna”: è fatto storico che nel 1994 il procuratore militare Antonino Intelisano (incaricato di  istruire il processo contro l'ex SS Erich Priebke) rinvenne nella sede della Procura Militare di Roma, un armadio, con le ante rivolte verso il muro, nel quale c'erano fascicoli di decenni prima, "archiviati provvisoriamente", che riguardavano le più importanti stragi nazifasciste del periodo bellico (come l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, delle Fosse Ardeatine, di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto), e tante altre.

Tra i fascicoli anche un documento secret redatto dal comando dei servizi segreti britannici, dal titolo Atrocities in Italy (Atrocità in Italia), con all'interno il frutto di accurate indagini (comprensive di testimonianze) su episodi di violenze commessi nazifascisti, che, al termine della guerra, era stato consegnato ai giudici italiani per essere, poi, come visto, “provvisoriamente” archiviato.

E per tornare alla continuità tra regime fascista e stato liberal democratico, basterà ricordare che, ancora oggi, il nostro codice penale è il Codice Rocco” del 1930 (r.d  n. 1398 del 19 ottobre 1930) e il nostro codice nuovo di procedura penale (istitutivo del modello “accusatorio”, seppur spurio, a scapito di quello “inquisitorio”) è datato 1988, introdotto quasi in concomitanza (tutt'altro che casuale) con la “caduta del muro di Berlino” e più in generale con il crollo del socialismo reale.

Del resto, nel nostro ordinamento, vige ancora il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del  R.D. n. 635 del 18 giugno 1931 n. 773 (e il suo regolamento del 6 maggio 1940 n. 635): vero strumento liberticida del regime fascista e che, non per nulla, fu oggetto della prima sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 1  del 14 giugno 1956) demolitiva dell'art. 113, sulla “stampa”.

Ma la Storia successiva all'entrata in vigore della Costituzione è costellata di riscontri alla previsione dei nostri Costituenti: ed ecco gli innumerevoli tentativi di colpo  di stato da parte di fascisti e neo-fascisti, la stagione della strategia della tensione, con le stragi fasciste e l'utilizzo in chiave anticomunista della manovalanza neofascista anche da parte di apparati dello Stato, con le successive coperture e depistaggi da parte di quegli stessi apparati finalizzati per assicurare poi l'impunità propria e quella dei neofascisti coinvolti.

Oggi, in Italia, dove accade anche che un giornalista vive sotto protezione per le minacce ricevute perchè autore di libri-inchiesta (Paolo Berizzi, autore dell'imprescindibile “Naziitalia. Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista”), i dati della “galassia nera”, i dati recensiti, che si possono reperire, ci parlano (dal 2014 al 2018) di centinaia di episodi riconducibili all'estreme destra (intimidazioni atti di violenza danneggiamenti, attentati, omicidi) e centinaia le persone denunciate[15]

Questi ed altri gruppi facenti parte della “galassia nera” operano da un lato nell'ambito della “politica ufficiale” e dall'altro nel tessuto sociale, soprattutto in favore degli gli strati più deboli della popolazione (italiana), per trovare una legittimazione da parte dell'opinione pubblica.

A titolo esemplicativo del contesto di questo proselitismo, si va dal mondo giovanile e studentesco (Blocco Studentesco); al lavoro, (Sindacato blu); all'ecologia, (“La foresta che avanza”); alla solidarietà (“La salamandra”); alla salute e sicurezza, (“Impavidi Destini”, “Braccia tese”).

Notevole, infine, anche la presenza massiccia sui social network e sul dark web oltre che nelle tifoserie calcistiche (es. “Brigate Gialloblu” del Hellas Verona fondato nel 1971 e si sviluppano tra il richiamo alle Brigate nere mussoliniane e la nascita del Veneto fronte skinhead).

Si mira, in definitiva, alla caduta della pregiudiziale sulle manifestazioni di quella ideologia, la sua normalizzazione e persino l'accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante; vi è, anche, nell'opinione pubblica un atteggiamento di noncuranza con riferimento alle manifestazioni connotate di illiceità in sé del neofascismo. E quando si levano le voci allarmate di chi paventa un ritorno del fascismo, l'atteggiamento sembra quello di chi considera il fenomeno “nero” come qualcosa di residuale, di scarsa importanza e/o inattuale.

Questo il quadro storico che ci divide temporalmente dalla previdente scelta dei nostri Costituenti, la cui avvedutezza è stata, peraltro, recentemente riconosciuta dalla Cassazione che ha considerato la XII disposizione norma sempre attuale dal momento che, “le esigenze di tutela delle istituzioni democratiche non risultano, infatti, erose dal decorso del tempo... frequenti risultano gli episodi ove sono riconoscibili rigurgiti di intolleranza ai valori dialettici della democrazia e al rispetto dei diritti delle minoranze etniche o religiose” (cfr,. Cass. n. 37577/2014).

Tutto ciò, in definitiva, ci dà il senso dell'importanza dell'inserimento nella Costituzione della XII disposizione transitoria e finale che deriva dalla sempre attuale necessità di vigilare sulla presenza in Italia del fascismo che non ha mai smesso di rappresentare un pericolo per le istituzioni democratiche (una forma di Stato totalitario, di polizia, alieno dal riconoscere i diritti di libertà, civili e politici e fondato sull'uso della violenza come strumento di lotta politica).

d) L’attuazione della XII disposizione

Ebbene, Ebbene, non ci rimane ora da considerare in che termini è stata data attuazione dal punto di vista normativo alla XII disposizione. 

Si deve subito dire che la scelta del Legislatore è stata quella di rispondere con una legislazione incentrata sulla sanzione penale.

Innanzi tutto, va richiamata la legge 20 giugno 1952, n. 645, recante “norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale, comma primo, della Costituzione” (c.d. legge Scelba).

Questa legge ha aperto la strada alle successive fattispecie incriminatrici di discriminazione razziale introdotte dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654 (c.d. legge Reale), di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, le cui disposizioni sono state successivamente modificate dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (c.d. legge Mancino), concernente “misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa”.

Con il decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 221, poi, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della l. n. 654/1975 ed all’art. 3 del d.l. n. 122/1993, poi modificato dalla legge Mancino, è stato integralmente trasfuso nelle nuove fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 604-bis e 604-ter nel codice penale, con contestuale abrogazione delle norme originarie.

Per risolvere i possibili casi di interferenza con le disposizioni della legge n. 645 del 1952, le ipotesi di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico o di istigazione a tale attività di discriminazione (art. 604-bis, comma 1, lett. a) o alla commissione di violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (lett. b), previste dalla legge Mancino, sono caratterizzate da una clausola di riserva generale – espressione del principio di sussidiarietà – che ne impone l’applicazione solo nel caso in cui le condotte non siano punite in modo più grave da altra disposizione.

Più di recente, infine, la legge 16 giugno 2016, n. 115 ha dato rilievo penale, attraverso alla previsione di una specifica ipotesi di aggravante, alle asserzioni negazioniste della Shoah e dei crimini contro l’umanità previsti dalla Statuto della Corte Penale Internazionale, prendendo atto delle esigenze e delle spinte della comunità internazionale verso la previsione di forme di tutela penale della “memoria”.

Più specificamente, la legge Scelba (legge 20 giugno 1952, n. 645) chiarisce il perimetro applicativo della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista[16].

Quanto alle ulteriori disposizioni[17], tra le altre vi sono quelle collegate alla “legge Mancino”, dl 26 aprile 1993, n. 122, con norme rilevanti in materia[18] .

Con il decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 221, in attuazione della delega di codificazione penale, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della l. n. 654/1975 ed all’art. 3 del d.l. n. 122/1993, poi modificato dalla legge Mancino, è stato integralmente trasfuso nelle nuove fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 604-bis e 604-ter nel codice penale, con contestuale abrogazione delle norme originarie.

e) Legge Scelba

Negli ultimi anni si è registrato un sensibile aumento dei casi in cui, in  occasione di eventi svoltisi in luogo pubblico o aperto al pubblico, singoli e gruppi hanno dato luogo a manifestazioni che si richiamano esplicitamente al fascismo.

Le relative condotte (saluto romano; chiamata del “presente!”; ostentazione di immagini, vessilli e simboli propri del regime fascista ecc.) non vengono quasi mai impedite dalle Forze dell’ordine e raramente i loro autori vengono identificati, con il risultato che il giudice penale è solo sporadicamente investito della valutazione circa la liceità di tali condotte; a ciò si aggiunga che i differenti tribunali – e talvolta, addirittura, i diversi giudici dello stesso tribunale -  pervengono a conclusioni diametralmente opposte, con ciò precludendo il formarsi di un orientamento giurisprudenziale chiaro e univoco.

Rispetto alle ipotesi di reato previste dalla legge Scelba (n. 645 del 20 giugno 1952), il differente approdo cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità e di merito si spiega con la loro ricostruzione quali reati di pericolo concreto, nel senso che gli stessi possono ritenersi consumati solo se si accerti che la condotta dell’agente ha creato il pericolo concreto di riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Le norme in questione, dunque, non forniscono un’elencazione delle condotte vietate perché le stesse non sono pericolose in quanto tali, ma solo in quanto rendano concreto il rischio paventato, che deve essere accertato sulla base di elementi indiziari o sintomatici la cui valutazione può avere come risultato risposte contradditorie. 

Per tali effetti, la medesima condotta può configurare o meno la “Riorganizzazione del partito fascista” vietata dall’art. XII delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione, e sanzionata dall’art. 1 della legge Scelba, sulla base delle specifiche circostanze di tempo e luogo nonché delle modalità con cui venga posta in essere; è evidente, tuttavia, che i parametri per ritenere sussistente il relativo pericolo siano estremamente labili.

Ad analoghe conclusioni il giudice di legittimità è pervenuto anche rispetto al reato di “Apologia del fascismo”, previsto dall’art. 4 della legge Scelba, e a quello di  “Manifestazioni fasciste”, di cui al successivo art. 5. Più in generale, è stato ribadito che, in ragione delle libertà garantite dall'art. 21 della Costituzione, le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista non sono sanzionabili in sé, e che le istanze repressive sottese alle fattispecie di istigazione e apologia devono armonizzarsi non solo con la libertà di manifestazione del pensiero, ma anche con il principio di offensività, come chiarito dalla Corte costituzionale.

Deve peraltro rilevarsi che le manifestazioni di cui si verte sono spesso promosse da organizzazioni confluiti in veri e propri partiti senza che le pubbliche autorità abbiano adottato alcun provvedimento per pervenire al loro scioglimento e alla confisca dei loro beni, come invece previsto dall’art. 3 della legge Scelba.

 

f) Il saluto fascista tra legge Scelba e legge Mancino

Appare poi urgente e necessario un intervento giurisprudenziale, in tema di saluti fascisti e simili.

Come noto, un nuovo modo di guardare l'applicazione della legge penale si è fatto strada a livello europeo (vedasi Corte di Giustizia europea Sez. I, del 11/06/20) con ricadute anche nel nostro sistema giudiziario (vedasi caso “Contrada”, CEDU Sez. IV , del 14/04/15),  affermando che la legittimità della sanzione penale è legata alla prevedibilità giurisprudenziale.

Se così è, occorre un orientamento chiaro in tema di punibilità della manifestazione pubblica di matrice fascista. In particolare occorre una chiara indicazione nell'esegesi logico-giuridica rispetto a saluti fascisti, labari della RSI, svastiche, fasci littori, “Duce Duce” e  altre amenità di tale segno.

Dopo diversi decenni di tortuosità ermeneutiche sul punto, restano in piedi due orientamenti contrastanti.  Di tale contrasto sono manifestazione due sentenze della I Sez. della Corte di Cassazione n. 3806/2022, udienza del 19/11/2021 e n. 7904/2022 udienza del 12/10/21.

Brevemente i fatti.

Nella sentenza numero 7904 del 2022 udienza 12 ottobre 2021, prima sezione penale della Corte di Cassazione, si trattava di una cerimonia commemorativa dei Caduti della Repubblica Sociale Italiana all'interno del Cimitero Maggiore di Milano del 25 Aprile 2016, in cui alcuni soggetti compivano manifestazione usuali del disciolto partito fascista quali la chiamata del presente e saluto romano.

Nel primo grado di giudizio il Tribunale di Milano, con sentenza del 30 aprile 2019, qualificava i fatti nell'articolo 5 della legge Scelba assolvendo gli imputati perché il fatto non sussiste, dal momento che nel fatto non si sarebbe ravvisata una concreta idoneità delle condotte a determinare il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista. La Corte d'Appello di Milano, il 22 novembre 2019, nel ripristinare l'originaria qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'articolo 2 del decreto legge n 122 del 1993, affermava la responsabilità degli imputati.

La  Suprema Corte, nella sentenza menzionata,  annulla senza rinvio la sentenza della Corte d'Appello perché il fatto non sussiste.

Al contrario la sentenza della Cassazione, sezione prima, numero 3806 del 2022 udienza 19 novembre 2021, confermava la sentenza di condanna della Corte d'Appello di Milano che, in totale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 13 giugno 2019, affermava la responsabilità penale degli imputati ai sensi dell'articolo 2 del decreto legge numero 122 del 1993; costoro, nell'ambito di una pubblica manifestazione commemorativa, manifestavano per i caduti della rivoluzione fascista  coincidente con anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, iniziativa promossa dall'associazione Dharma Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale e della Associazione Nazionale Arditi d'Italia. 

La divergenza emersa dal primo e secondo grado aveva ad oggetto la rilevanza penale della condotta e in particolare, ancora una volta, la questione di diritto se il rituale sopra descritto, lettura dei nomi dei Caduti cui seguiva la risposta del presente con conseguente saluto romano, fosse qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice di cui all'articolo 2 del  legge numero  205 del 1993 oppure se ricadesse piuttosto sotto la legge Scelba

Ebbene cominciando dalla prima sentenza n. 7904/22, la decisione della Corte di Cassazione affronta il problema della plurima riqualificazione giuridica dei fatti in base alla lettura della nozione di specialità di cui all'articolo 15 del cod. pen.

 

Sul punto scrive la Cassazione di ritenere del tutto impropria l'adozione, da parte del Giudice di merito, nel caso in esame, della categoria dogmatica della specialità di cui all'articolo 15 del codice penale[19].

Ma il Collegio della Suprema Corte va anche oltre nella sua analisi o “chiarimento” demolitivo perchè dapprima richiama, la sentenza della Cassazione, sempre prima  sezione, n. 21409 del 27/3/2019 così massimata: “il cosiddetto “saluto romano” o “saluto fascista” (nella specie accompagnato dalla espressione “presenti e ne siamo fieri”) è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni gruppi indicati nel d. l. n. 122 del 1993 ... ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale etnico”; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'articolo 2 del citato d.l”, aggiungendo che “nella motivazione di tale decisione si afferma ….che “il saluto fascista” ben può rientrare nella previsione incriminatrice di cui all'articolo 2 d. l. n. 122 del 1993 trattandosi di una <manifestazione gestuale che rimanda alla ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e intolleranza>,  il tutto in una dimensione di pericolo astratto.  Vengono citate a sostegno della assunto, Sez prima n. 25184 del 4.3.2009, ... e Sez. III n. 37390 del 10 luglio 2007....”

 In seguito, chiarendo la propria contraria valutazione, viene scritto in sentenza che “il Collegio esprime dissenso verso un simile inquadramento delle condotte punibili, atteso che nelle decisioni di cui sopra non viene esaminato il profilo - da ritenersi ineludibile - della inerenza delle manifestazioni o gestualità ad associazioni o gruppi attivi e presenti nella realtà fenomenica attuale, cui si riferisce la disposizione incriminatrice in modo espresso (... propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 3 legge n. 654 del 1975)  gruppi che vanno previamente identificati, allo scopo di comprendere se si tratti di aggregazioni umane che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali etnici nazionali o religiosi. Ciò in aderenza ai principio di tassatività delle norme incriminatrici e necessaria corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta”.

La conclusione di quanto argomentato, porta a concludere la Suprema Corte nel senso di sottolineare che “nel caso in esame, il profilo descrittivo dell'accusa e la stessa attività istruttoria svolta nei due gradi di giudizio di merito hanno inquadrato non già la ascrivibilità del gruppo “Lealtà e Azione” (pur indicato nella contestazione) al novero dei gruppi “vietati” ai sensi dell'articolo 3   l. n. 654 del 1975, quanto incentrato la ricostruzione sull' avvenuto utilizzo delle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, in un contesto innegabilmente commemorativo dei Caduti della RSI. Ne deriva la considerazione di un corretto inquadramento giuridico della fattispecie nei termini espressi dal Tribunale di Milano ai sensi dell' art. 5 l. il n. 654 del 1952, con presa d'atto dell'assenza di profili in fatto valorizzabili in chiave di punibilità, per assenza del pericolo concreto di ricostituzione del disciolto partito fascista, profili non apprezzati nemmeno dal giudice di secondo grado  in virtù della - illegittima, per quanto finora esposto - operazione di riqualificazione del fatto”

Ebbene, “in direzione ostinata e contraria” la sentenza, n. 3806 sempre della prima sezione; in essa dapprima si chiarisce che “la divergenza emersa dal primo e secondo grado ha per oggetto la rilevanza penale della condotta cioè la questione di diritto se il rituale … lettura dei nomi dei Caduti cui seguiva la risposta del presente con conseguente saluto romano,  sia qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice di cui all'articolo 2 del  l. n.  205 del 1993 oppure se ricada piuttosto sotto la legge Scelba”.

Sul punto nella sentenza vengono, poi, descritti i rapporti tra le condotte di cui all'art. 2  l. n. 205 del 1993 e articolo 5 l. n. 645 del 1952, specificando che sussiste un'ipotesi di specialità ex articolo 15 del cod. pen. della seconda fattispecie legge Scelba rispetto alla prima legge Mancino.

Il Collegio fornisce un'approfondita motivazione scrivendo che “va innanzitutto evidenziato che il legislatore quando è intervenuto nel 1993 ... ha chiaramente mostrato di voler introdurre nell'ordinamento l'articolo 2 della l. n. 205 del 1993 mantenendo espressamente in vigore le previsioni della legge Scelba, il cui testo normativo è stato contestualmente emendato e aggiornato alle nuove esigenze punitive, ferma restando la apparente omogeneità delle condotte sanzionate, incentrate sul compimento di atti esteriori simbolici propri dei gruppi che propugnano le idee vietate”.

Infatti l'articolo 4 l. n. 205 del 1993 ha espressamente sostituito il secondo comma dell'articolo 4 della l. n. 645 del 1952, mantenendo in vigore entrambi i testi normativi con la “consapevolezza che, alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la condotta vietata dalla legge Scelba richiede altresì uno specifico rischio che, invece, non è richiesto dalla fattispecie generale di cui all'art. 2 l. n. 205 del 1993.

L'art. 2 della l. n. 205 del 1993, continua il Collegio, è in effetti la fattispecie generale che sanziona le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, dei simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano idee discriminatorie: le medesime condotte sono sanzionate dalla art. 5 l. n. 645 del 1952,  ma soltanto allorquando  si ravvisa quel particolare pericolo concreto che attiene alla riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Del resto in disparte l'elemento specializzante previsto dalla legge Scelba le due fattispecie sono identiche dal punto di vista sanzionatorio come pure sono del tutto sovrapponibili le condotte incriminate”.

Partendo da questi presupposti, la Suprema Corte in questa sentenza afferma che “ciò che rileva per selezionare le fattispecie alla luce del principio di specialità di cui all'articolo 15 cod. pen. è la <intenzione del legislatore il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'articolo 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare....  La ratio  della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta da attuare la disposizione XII della Costituzione. Il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione> ( Corte Costituzionale sentenza n. 74 del 1958)”.

Evidente, a questo punto, che la differenza sostanziale che riguarda i due approdi giurisprudenziali concerne la circostanza che il richiesto pericolo di ricostituzione del partito fascista non sarebbe, secondo quanto argomentato nella sentenza n. 3806/22, un aspetto interpretativo della norma quanto un elemento precipuo e caratterizzante la fattispecie contenuta nella legge Scelba[20].

Per la Corte di Cassazione, in definitiva, fu corretta la qualificazione normativa dei fatti addebitati  agli imputati,  essendo ai medesimi contestato di aver compiuto delle manifestazioni esteriori simboliche ed evocative del regime fascista, da qualificarsi alla stregua dell'art. 2 legge n. 203 del 1993, non essendo stata contestata l'idoneità a costituire un pericolo per la ricostituzione del disciolto partito fascista che avrebbe piuttosto configurato la violazione dell' articolo 5 legge numero 645 del 1952.

 

Dopo la lettura di queste due sentenza della Suprema Corte, come si diceva prima, ci si deve aspettare che la querelle continui, con nuovi capitoli e canoni interpretativi che generino ulteriore disorientamento negli interpreti oltre a possibili sacche di impunità in relazione alla normativa di attuazione della XII disposizione, oppure che le questioni più dibattute siano affidate SSUU, o ancora che il Legislatore introduca norme chiare e semplici come quelle che sono state inserite nelle proposte di legge di iniziativa popolare e parlamentare, ma fino ad ora sempre disattese.

Da parte nostra auspicheremmo che la lettura della normativa che viene esplicitata dalla sentenza n.3806/22, venisse implementata da una considerazione in ordine alla fattispecie di cui all'art. 5 della legge Scelba, con riferimento alla necessità del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista di cui alla sentenza n. 74/1958 della Corte Costituzionale.

In particolare, noi riteniamo che la manifestazione fascista, di qualunque tipo essa sia, costituisce di per sé un pericolo per lo Stato democratico fondato sulla Costituzione repubblicana perchè intrinsecamente finalizzata alla ricostituzione del partito fascista, mentre la concretezza di tale pericolo deriva esclusivamente dalla valutazione del contesto pubblico, cioè al momento e ambiente, in cui essa si verifica.

In questi termini, anche la possibile obbiezione di violare il diritto di cui all'art. 21 Cost., sarebbe infondata, sulla scorta di quanto più volte statuito dalla giurisprudenza e cioè che il diritto alla libera manifestazione del pensiero non può giustificare atti o comportamenti che, pur se esternazione di proprie idee e convinzioni, siano lesivi di altri principi di rilevanza costituzionale e dei valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno e internazionale.

Sul punto, è stato scritto, ad esempio, che tutte le forme di discriminazione razziale costituiscono anche violazione dell'applicazione del fondamentale principio di uguaglianza indicato nell’art. 3 Cost., “sicché è ampiamente giustificato il sacrificio del diritto di libera manifestazione del pensiero”.

Si è altresì specificato che le idee assumono portata di discriminazione e odio razziale quando contengono “il germe della sopraffazione od enunciazioni filosofico-politico-sociali che conducano a discriminazioni aberranti col pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione. La diffusione di tali ideologie produce la lesione della dignità dell’uomo e delle condizioni di pacifica convivenza democratica, fondate sulla reciproca tolleranza fra popolazioni di differente cultura ed etnia” (Cass., Sez. 1, n. 3791 del 30/09/1993, Freda, in CED, Rv. 196583)

Concetti questi espressi anche a livello di Corte europea dei diritti dell'uomo che più volte ha sentenziato che non può essere invocato l'art. 10 della convenzione che statuisce il principio di libertà di pensiero, da chi compie un atto che mira alla distruzione dei diritti  e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione medesima, abusandone, in base all'art. 17 della Convenzione europea (ad esempio il caso della sentenza del 21 ottobre 2015 riguardava un ingiuria pubblica aggravata dalla componente razzista).

Tutto ciò, naturalmente, ci porta a concludere che la mancata introduzione di norme chiare nel sanzionare la manifestazione pubblica di matrice fascista derivi solo ed esclusivamente da motivi e volontà di natura politica.

g) Limiti alla propaganda politica

Una recente sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (n. 447/2019 del 18 aprile 2019.) ribadisce l’attitudine dei principi fondamentali a conformare direttamente la funzione pubblica, e rammenta l’intensa correlazione sussistente fra diritti e doveri nella trama costituzionale.

La rappresentante piemontese di una formazione della destra extraparlamentare chiedeva al comune di Rivoli l’assenso a collocare un gazebo – per ragioni di propaganda politica – nella via cittadina intitolata a due giovani partigiani, i fratelli Arduino e Agostino Piol (quest’ultimo insignito della medaglia d’oro al valor militare).

Alcuni mesi prima il locale consiglio comunale aveva vincolato la giunta a sollecitare – nei riguardi di tutti gli aspiranti concessionari di suolo pubblico – la formalizzazione di una dichiarazione, attestante il ripudio del «fascismo» e del «nazismo», nonché l’adesione «ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo».

L’interessata si impegnava per iscritto a «riconoscersi nei valori della Costituzione, [a] non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, [a] non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio», così come «a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico».

L’omissione di ogni riferimento alla Lotta di Liberazione, tuttavia, induceva l’amministrazione a ritenere incompleta – e, dunque, inadeguata – la produzione dell’istante, e comportava il rigetto della richiesta.

Ne scaturiva un contenzioso giudiziario, definito dalla seconda sezione del succitato Tribunale con la decisione n. 447 del 18 aprile 2019.

La pronuncia si distingue per la cristallina riaffermazione di alcuni capisaldi dell’intelaiatura costituzionale, confrontandosi con l’estensione dei diritti di libertà e il mosaico assiologico della Repubblica.

La premessa del percorso decisorio è data dall’affermazione – compiuta con provvidenziale franchezza – della limitatezza dei diritti fondamentali.

Soltanto a una narrazione malaccorta – ancorché disgraziatamente fortunata – le situazioni giuridiche enunciate in Costituzione possono apparire incondizionate. Ma, se così fosse, presto o tardi la loro incontenibilità ne snaturerebbe l’essenza, autorizzando la tirannia di alcune a discapito di altre.

L’intera evoluzione del discorso sui diritti fondamentali è permeata dalle esigenze del bilanciamento: non a caso, una feconda parte dell’elaborazione pretoria – riveniente sia dai giudici comuni sia dalla Consulta – affida al canone di ragionevolezza l’armonizzazione delle molteplici istanze emergenti dalla quotidianità.

La composizione reciproca dei diritti di matrice costituzionale ambisce, pertanto, a scongiurare il rischio della disgregazione delle fondamenta dell’ordinamento, verosimilmente scaturente dall’ipotesi d’indiscriminata prevalenza di un diritto su quelli rimanenti: nella consapevolezza di come gli assolutismi giuridici non possano trovare asilo all’interno del perimetro costituzionale.

Ciò vale vieppiù per la libertà di manifestazione del pensiero (politico), pure invocata dalla ricorrente a sostegno della denunziata antigiuridicità del provvedimento comunale da lei avversato.

Operando una sintetica ma esaustiva ricognizione dei principali snodi normativi individuabili in materia, il Tribunale amministrativo puntualizza la fallacia dell’argomento a mente del quale la libertà d’esternazione e propaganda di cui all’art. 21 della Costituzione legittimi ogni forma di proselitismo politico, e sottragga alla pubblica autorità il compito di saggiarne – sebbene estrinsecamente – la consonanza all’assetto valoriale scolpito in Costituzione.

«I valori dell’antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, […] perché sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo», precisa il Collegio.

È bene sottolineare come la motivazione della sentenza riposi non già su considerazioni moraleggianti bensì su specifici addentellati positivi – fra i quali la XII disposizione transitoria e finale della Carta, e l’art. 1, legge n. 645/1952 – la cui lettura circolare consente al Tribunale di esplorare i margini entro i quali si posiziona la libertà in discorso, incompatibile – come osservato dalla pronuncia – con la denigrazione dei «valori della resistenza».

Per questa via, la statuizione perviene al proprio passaggio baricentrico.

Il generico richiamo all’osservanza della Costituzione – quand’anche apertamente professato dalla richiedente – si dimostra apparente, insincero e stilistico, laddove deliberatamente mutilato della sua naturale conclusione: la condivisione sostanziale del significato ascrivibile alla Lotta di Liberazione, evidentemente invisa all’interessata e conseguentemente taciuta nella sua dichiarazione d’intenti.

Il giudice amministrativo rimarca, in proposito, come «Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica».

 

h) La Lista CasaPound

Il movimento CasaPound ha spiccate caratteristiche di tipo fascista.

In primo luogo, sono gli stessi esponenti di CasaPound a definirsi fascisti. Sono numerose le dichiarazioni e le interviste rilasciate dagli attivisti nelle quali i medesimi si qualificano come fascisti, dicono di essere ispirati da ideologia e personalità fasciste, ed elogiano le politiche attuate nel ventennio fascista[21].

In secondo luogo, si deve sottolineare come tanto a livello nazionale, quanto a livello locale (e nello specifico ad Ostia, dove si terrà la competizione elettorale che interessa in questa sede), gli esponenti di CasaPound si siano resi colpevoli di numerosissimi casi di violenza.

Si veda, ad esempio, il doc. 1, nel quale si rende noto che tra il 2011 e l’inizio del 2016 (l’articolo è del 4 febbraio 2016) sono stati arrestati ben 20 fra militanti e simpatizzanti di Casapound. Nello stesso periodo i denunciati sono stati 359. Nei 106 scontri avuti con gli "antagonisti" si sono rimasti feriti (in alcuni casi anche gravemente) ben 24 attivisti di entrambi i fronti.

In questa sede appare opportuno segnalare che moltissimi episodi di violenza hanno interessato proprio la zona di Ostia[22],

Quanto sopra è confermato dal programma ufficiale del movimento Casa Pound[23]

In primo luogo appare molto chiaro l’art.15 del programma:

Democrazia” è stato, fino ad oggi, il nome di una truffa. Se i politici sono camerieri dei banchieri – come accade oggi – significa che la “sovranità popolare” viene svuotata in favore dei poteri forti di tipo economico, criminale, confessionale o sovranazionale. I centri decisionali per eccellenza, del resto, oggi sono concentrati in istituzioni e potentati non elettivi e puramente castali. Noi riteniamo tuttavia che possa esistere un'altra forma di democrazia che sia organica e qualitativa. Democrazia come partecipazione di un popolo al proprio destino. Momento cruciale della politica, posto che per noi la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità”.

Quest’ultima frase (“la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità”) è una citazione mussoliniana.

La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino” è invece tratta dal saggio Il terzo Reich di Moeller Van Der Bruck.

Il medesimo articolo del programma propugna la “Sostituzione del Senato con una Camera del lavoro che garantisca la rappresentatività armonica di tutte le categorie produttive e lavorative” in assonanza con la Camera dei fasci e delle corporazioni.

Nel programma si ravvisano alcune inequivocabili affermazioni di stampo fascista:

Nella Introduzione si legge “Lo Stato che vogliamo è uno Stato etico, organico, inclusivo, guida e riferimento spirituale della comunità nazionale, uno Stato che torni a essere un fatto spirituale e morale”…. Noi vogliamo un'Italia libera, forte, fuori tutela, assolutamente padrona di tutte le sue energie e tesa verso il suo avvenire. Un'Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana.”.

Dall’art. 2 “La dittatura del libero mercato, le politiche miopi e servili dei vari governi sin qui succedutisi, lo smantellamento dello stato sociale creato durante il Fascismo, obbligano gli italiani a subire la disoccupazione, la precarietà, la proletarizzazione e l’immigrazione forzata e incontrollata”.Si propone dunque  “Politica autarchica integrata nell’area europea”.

Dall’art. 4 “Rifondazione culturale dell’Umanesimo del Lavoro, secondo l'ispirazione fondamentale di Giovanni Gentile” (ndr ministro dell’istruzione nei governi fascisti)

Dall’art.12 “In campo culturale proponiamo: – Creazione di un Ente nazionale di cultura che coordini l'intera produzione culturale nazionale in ogni ambito e settore”.

Dall’art.13 “Estirpazione del lobbismo e della politicizzazione interna alla magistratura”

Dall’art. 14 , “Contro la sottomissione nazionale, proponiamo: …Ripristino della geopolitica degli “anni Trenta” verso il Mediterraneo e l’Oceano Indiano” (ndr la geopolitica ‘anni trenta’ nel mediterraneo portò, tanto per dirne una, all’invasione dell’Albania nel 1939).

Dall’art. 14  “L’Italia non deve avere limitazioni su nessun sistema d’arma: dalle portaerei alle armi nucleari”.

Insomma, sebbene il programma eviti abilmente gli eccessivi richiami espliciti al fascismo, abbondano i riferimenti ed i rimandi alle parole d’ordine proprio del regime mussoliniano e la critica al sistema democratico.

In base alle norme vigenti, quindi, la lista di CasaPound non può essere ammessa alla competizione elettorale.

 

i) L’esclusione della lista

Il potere di ricusare la lista che viola i precetti costituzionali (e della normazione primaria applicativa del precetto costituzionale, sopra richiamata), spetta alla commissione elettorale.

Le istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature, elaborate dal Ministero dell’Interno nell’anno 2017, in relazione in particolare all’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale, prevedono:

3.4.4. Esame dei contrassegni di lista

La commissione elettorale circondariale dovrà procedere, poi, all’esame dei contrassegni di lista.

La commissione dovrà ricusare:

(…)

  • i contrassegni in cui siano contenute espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole «fascismo», «nazismo», «nazionalsocialismo» e simili), come tali vietate a norma della XII disposizione transitoria e finale, primo comma, della costituzione e dalla legge 20 giugno 1952, n. 645”.

Su questo specifico aspetto si è pronunciato in termini chiarissimi il Consiglio di Stato, con la sentenza della sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, nella quale ha sostenuto: “il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’articolo 49 della Costituzione, e quello di accesso alle cariche elettive, ex articolo 51 della costituzione, trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere e democratiche dinamiche. Va soggiunto che l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teleologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione di un’associazione vietata, ma deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista.

Tale essendo il quadro costituzionale entro il quale si iscrive la disciplina che regola il procedimento elettorale e che fissa i poteri delle commissioni elettorali, si deve ritenere che gli articoli 30 e 33 del D.P.R. n. 570/1960 fissino i casi di esclusione e di correzione dei contrassegni e delle liste elettorali presupponendo implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XII disposizione di attuazione e transitoria della costituzione. In altri termini la normativa in parola, nello stabilire i casi di ricusazione dei contrassegni e delle liste, si riferisce a situazioni in astratto assentibili sul piano della superiore normativa costituzionale senza fungere da garanzia per situazioni già vietate, in via preliminare e preventiva, dall’ordinamento costituzionale. L’impossibilità che il movimento o l’associazione a cui si riferisce il simbolo o la lista partecipi alla vita politica postula quindi, in via implicita ma necessaria, il potere della commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento giuridico.

Dalla sopramenzionata sentenza emerge quindi un dato fondamentale.

Non solo il simbolo può essere ricusato dalla commissione, ma la lista in sé, laddove faccia capo ad un movimento o associazione di stampo neofascista.

Infatti la norma , nel disciplinare l’ammissione della lista presuppone “implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XII disposizione di attuazione”.

Il potere di ricusazione della commissione si estende alla valutazione del presupposto di conformità alle norme costituzionali della lista. E’ attribuito quindi “in via implicita ma   necessaria, il potere della commissione di ricusare la lista”.

 

 

12.                     DEMOCRAZIA DIGITALE

 

a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale

“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. Ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo”: a distanza di quasi mezzo secondo da questa frase, pronunciata da Italo Calvino durante un’intervista per “Mondoperaio”, è lecito domandarsi cosa avrebbe pensato il suo autore della rete - e dei social in particolare- a cui ciascuno di noi dedica il massimo del tempo della propria vita moderna.

La lettura cartacea ha repentinamente lasciato il passo a quella digitale, allargando indubbiamente i nostri confini e le nostre conoscenze ed entrando sempre di più, sempre di più, nel nostro quotidiano. Il web 3.0 - ossia quello inclusivo dei walled garden dei social network – ci ha alleggerito (sic!) la vita fornendoci - brevi manu - le notizie direttamente all’interno dei social stessi senza doverle più andare trovare singolarmente, intenzionalmente e faticosamente altrove. Siamo sempre connessi e lo saremo sempre di più, specie grazie a buona parte del recovery plan dedicato al digitale. Il passaggio dalla scarsità all’abbondanza delle informazioni è stato repentino, ingrassando oltremodo la nostra mente affetta da una bulimia del sapere; non riusciamo più a comprendere, ad assorbire, a valutare e a decantare. Tale condizione ci ha drogati (in)consciamente rendendoci tuttologi del sapere: siamo diventati medici, avvocati, politici, chef, scienziati, giudici, comodamente dal divano di casa, elargendo tutto il nostro sapere sconfinato attraverso i polpastrelli di una mano.

Questo contributo intende esplorare “il mondo nuovo della rete” alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali e disposizioni normative, nel tentativo di predisporre una “cassetta degli attrezzi” che abbia una fusa valenza su due versanti: tutela degli utenti e responsabilità delle piattaforme.

b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa

La libertà dell’informazione- quale punto di contatto tra le libertà costituzionalmente contenute nell’articolo 15 e 21 della Costituzione- ha conosciuto nella prima età della rete la sua massima ed estesa espressione. In tale formula comunicativa le due libertà (manifestazione del pensiero e forma di comunicazione) si sono, per la prima volta, unite in maniera indistinta a differenza del passato, in cui a ciascun mezzo di comunicazione corrispondeva ad un servizio ben indentificato. Ciò è reso possibile grazie al processo di convergenza crossmediale, che ha abilitato ciascuno di noi a utilizzare un unico mezzo (la rete) per la realizzazione di infiniti servizi (posta elettronica, chiamate, messaggi, video, condivisione di contenuti).

Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno di svolta di tale processo, a causa del forzato isolamento domestico dettato dalla pandemia. I dati di utilizzo di internet in Italia rilevano che, nel mese di settembre 2020, ben 42 milioni di utenti medi giornalieri hanno navigato in rete per un totale di 59 ore mensili a persona (cfr. il documento “Le infrastrutture di comunicazione mobile e la banda ultralarga” realizzato dal Servizio Studi della Camera dei deputati in data 27 gennaio 2021[24]).

Qualcosa in questi ultimi anni è stato compito per consentire lo sviluppo della banda ultralarga: nuove previsioni per la semplificazione delle procedure relative al dispiegamento delle reti regole (ad opera del d.l. 135/18 che ha modificato il d. lgs. 33/16), maggiori poteri attribuiti ad Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) sulla separazione funzionale e volontaria relativamente alla fornitura all'ingrosso di determinati prodotti di accesso, con specifico riferimento alle infrastrutture di rete, specifiche misure di semplificazione per il dispiegamento delle reti (d.l. 76/20)- come ad esempio la previsione della SCIA per effettuare gli interventi di scavo, installazione e manutenzione di reti di comunicazione in fibra ottica– e della fibra in particolare presso gli istituti scolastici e ospedali (d.l. 183/20).

Al contempo, resta indubbiamente alto il tasso di divario digitale “infrastrutturale” del nostro paese rispetto agli obiettivi prefissati dall’Unione europea nella Strategia nazionale per la banda ultralarga. La percentuale italiana di connettività ad almeno 100Mbp/s per il 2020 è ben al di sotto dell’obiettivo prefissato dell’85% (siamo ancora al 25% contro una media UE del 60%); così come siamo ancora lontani dal garantire a tutti i cittadini, sempre nel 2020, una connessione a banda larga garantita a 30Mbp/s (al 60% contro il 77% della media europea).[25] Come ha ricordato il Commissario Antonello Giacomelli «per l’Italia e il governo è l’ora di un nuovo Piano Bul, perché siamo fermi a quello del 2015, risorse comprese, e nel frattempo molto è cambiato. C’è una risposta da dare sul modello per le aree grigie, ci sono novità straordinarie come il 5G, dove l’Italia è stata la prima sulla sperimentazione della rete legata al posizionamento dei servizi in collaborazione con università e imprese. Ora la strategia complessiva va tarata sul futuro. Il Recovery Plan è un’occasione come base di partenza, ma non è una strategia sulla banda ultralarga»[26]

Nell’annus horribilis la Commissione europea ha pubblicato Comunicazione "Bussola digitale 2030: la via europea per il decennio digitale", che ha definito, tra gli altri, anche gli obiettivi di connettività per l'anno 2030, prevedendo due importanti obiettivi: da un lato garantire una connettività di almeno 1 Gbps per tutte le famiglie europee e dall’altro realizzare una piena copertura 5G in tutte le aree popolate. A distanza di appena un anno, la Commissione ha adottato una nuova versione della comunicazione, per conseguire una trasformazione digitale dell’Europea entro il 2030 strutturata su quattro punti cardinali: (1) cittadini dotati di competenze digitali e professionisti altamente qualificati nel settore digitale[27], (2) infrastrutture digitali sostenibili, sicure e performanti[28], (3) trasformazione digitale delle imprese[29] e (4) digitalizzazione dei servizi pubblici[30].

Dall’analisi degli ultimi dati dell’Osservatorio sulle Comunicazioni dell’Agcom[31]emerge che, a fine settembre 2020, nella rete fissa, gli accessi complessivi si siano ridotti di circa 130 mila unità rispetto al trimestre precedente e di 390 mila unità a confronto del settembre 2019. Parallelamente, è stato riscontrato un cambiamento delle tecnologie utilizzate: gli accessi alla rete fissa in rame sono passati dall’85% del settembre 2016 al 39% del settembre 2020% (con una flessione di 9,6 milioni di linee); nello stesso periodo c’è stato un importante aumento degli accessi tramite tecnologie qualitativamente superiori: FTTC +7,06 milioni di unità, FTTH +1,16 milioni e FWA (+ 610 mila).

Per quanto concerne la comunicazione mobile. L’Autorità ha certificato la presenza di 104 milioni di sim attive a settembre 2020 (con una flessione su base annua di circa 220mila unità), con una crescita di 2,8 milioni di sim M2M e una riduzione di 3 milioni di sim “solo voce” e “voce+dati”.

Dunque, da un punto di vista strettamente tecnologico la connessione attualmente utilizzata degli italiani è in gran parte fibra misto rame, per la linea fissa, e 4G per quella mobile. Se l’Italia ha attraversato il lock-down con tali dotazioni infrastrutturali potrà continuare così fino al 2030 “anno obiettivo” della connessione unica ad 1 G/bit al sec per il fisso e del 5G per tutti?

c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale

Si ricordi, al riguardo, che tra un anno esatto (30 giugno 2022) il nostro paese, contestualmente al resto d’Europea, avrà il suo secondo switch off (il primo, come molti di voi ricorderanno avvenne tra il 2010 e il 2012 con il passaggio dalle trasmissioni televiste analogiche a quelle digitali), ossia il 50% delle attuali risorse frequenziali attualmente impiegate dagli operatori di rete televisivi passerà agli operatori di comunicazioni elettroniche per “allargare” lo spazio del 5G[32].

La ragione risiede dal cambiamento delle abitudini e dell’uso degli utenti dello smartphone: terzi del consumo di traffico su reti mobili è infatti rappresentato da video, quota destinata ad ampliarsi al 77% entro il 2026; se oggi il consumo medio di ogni utente è di 10 GB al mese, tra cinque anni dovrebbe più che triplicarsi, a 35 GB. A distanza di tre anni dal primo lancio sperimentale del 5G. le stime del report annuale della GSMA prevedono che raggiungerà il 20% delle connessioni globali nel 2025, a fronte del 4% di oggi. Il nuovo standard di comunicazione mobile è ormai presente in tutti i continenti del globo; in alcuni paesi più avanzati come Usa, Corea del Sud e Cina il 4G ha già raggiunto il suo picco di diffusione e comincia il suo declino a vantaggio del 5G, tuttavia un terzo dei consumatori mondiali preferisce ancora attendere i veri vantaggi del 5G prima di migrare, ma altro terzo per ora è deluso, sebbene, occorre ribadire, che il vero 5G stand alone sarà implementato solo nella seconda parte del 2023 (sia a seguito, dello switch off, che dalla massiva penetrazione di devices abilitati alla sua ricezione).

Ma, come noto, il 5G non è destinato solo alle comunicazioni interpersonali ma anche ad una moltitudine di altri utilizzi tipici dell’Internet of Things (IoT); in questo campo le previsioni sono che entro il 2030 più di 50 miliardi di dispositivi saranno connessi con tale tecnologia e nel 2023 la spesa mondiale crescerà fino a  superare 1.100 miliardi di dollari[33]. Interessante al riguardo la recente dichiarazione della commissaria europea Margrethe Vestager, Vicepresidente esecutiva, responsabile della politica di concorrenza illustrando i risultati preliminari della indagine settoriale sulla concorrenza nei mercati dei prodotti e servizi relativi all’Internet degli oggetti (IoT) di consumo nell’Unione europea: “un gran numero di intervistati ha sottolineato che il principale ostacolo allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi è la capacità di competere efficacemente con i principali attori del settore consumer IoT, ovvero Google, Amazon e Apple”.

Altro tema abilitante dal 5G e dalla crescita della rete consiste nell’intelligenza artificiale ossia la tecnologia informatica che sta rivoluzionando il modo con cui l'uomo interagisce con la macchina, e le macchine tra di loro (M2M). L’intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, e agire verso un obiettivo specifico; il computer riceve i dati, processandoli e rispondendo[34]. Certo siamo ancora lontani dal mondo immaginario di Steven Spielberg esattamente vent’anni fa quando realizzò un progetto di Stanley Kubrick “A.I. Artificial Intelligence” la cui locandina recitava: “David ha 11 anni. Pesa 27 chili. E' alto 137 centimetri. Ha i capelli castani. I suoi sentimenti sono veri. Ma lui non lo è.

Secondo previsioni di ABI Research[35] il numero di device di tracking IoT raggiungerà quota 68 milioni di unità fra 5 anni: si tratta di un gran numero di prodotti consumer per la casa e il controllo di elettrodomestici o altri sistemi indoor, ma anche apparecchi per il monitoraggio delle condizioni di salute e di controllo personale, soprattutto bambini, anziani e animali domestici che stanno diventando sempre più diffusi.

Grandi passi in avanti sono stati fatti, specie dopo la pandemia e l’esplosione dell’uso dei dati da parte di tutti noi. «L'intelligenza artificiale è un must per l'adozione e la gestione di successo del 5G»: ha affermati Peter Laurin, Senior Vice President e capo di una delle 4 aree globali (Managed Services) di Ericsson aggiungendo “grazie all'Intelligenza Artificiale, ci assicuriamo che le reti funzionino al meglio delle loro capacità, garantendo le migliori esperienze per gli utenti finali. L'Intelligenza Artificiale ci consente di prevedere un calo delle prestazioni di rete prima che questo si verifichi e di intraprendere le azioni necessarie prima che ciò generi un impatto sugli utenti finali.”, Ma bastano le sue rassicurazioni? Non per la Commissione europea che 21 aprile 2021 ha proposto un regolamento sull’Intelligenza Artificiale intitolato “il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce norme armonizzate in materia di intelligenza artificiale e che modifica alcuni atti legislativi dell'Unione" ma che di fatto istituisce un quadro di riferimento legale volto a normare il mercato dell’Unione Europea dell’IA. Ma non solo. Nel medesimo giorno, la Commissione ha anche proposto un "Piano coordinato di revisione dell'intelligenza artificiale 2021", che pone le basi affinché la Commissione e gli Stati membri collaborino nell'attuazione di azioni congiunte ed eliminino la frammentazione dei programmi di finanziamento, delle iniziative e delle azioni intraprese a livello dell'UE e dei singoli Stati membri nonché il "Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relative alle macchine", che dovrebbe sostituire la direttiva 2006/42/CE del 17 maggio 2006 relativa alle macchine, che garantisce la libera circolazione delle macchine all'interno del mercato UE ed assicura un alto livello di protezione per gli utenti e altre persone esposte. In particolare, la proposta di regolamento classifica i prodotti che utilizzano completamente o parzialmente il software AI in base al rischio di impatto negativo su diritti fondamentali quali la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, il diritto alla non discriminazione, la protezione dei dati ed, in particolare, la salute e la sicurezza. Più il prodotto è suscettibile di mettere in pericolo questi diritti, più severe sono le misure adottate per eliminare o mitigare l'impatto negativo sui diritti fondamentali, fino a vietare quei prodotti che sono completamente incompatibili con questi diritti.

Poiché  i dati sono alla base dell’intelligenza artificiale diversi sono i punti in comune con il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati – RGPD): da un lato, infatti, vi sono le restrizioni per gli operatori economici non-UE nella circolazione dei loro beni e servizi nell'UE dall’altro l’applicazione delle regole a prescindere dal fatto che gli operatori siano stabiliti nell'UE. Proprio quest’ultimo aspetto – di cui si parlerà più diffusamente nella seconda parte dell’articolo – è uno dei nuovi parametri verso cui la Commissione europea ma anche gli stati membri (si pensi alla normativa italiana in tema di secondary ticketing o divieto di giochi d’azzardo) stanno virando: dal country of origin al country of destination.

 

d) L’improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale

Il vero problema risiede nel digital divide sociale. Come ha puntualmente descritto Martin Angioni[36] nel suo “Amazon dietro le quinte”, il successo di piattaforme digitali come Amazon, decretato dalla continua crescita del numero di clienti, “è dovuto solo in parte residuale ai prezzi praticati. Molto di più è riconducibile al servizio, alla comodità e soprattutto all’assortimento senza pari”.

È da tale considerazione che occorre approcciarsi per ridurre il divario sempre più marcato tra nord e sud, tra over 50 e under 30, tra genitori e figli, tra pubblico e privato.

Le quattro categorie rappresentano il cuore del problema digitale sotto il primo versante di cui si discute, ossia quello del rapporto tra piattaforme e utenti.

Il tema centrale non è, dunque, solo garantire una rete (fissa e mobile) ultra veloce, bensì pure quello di prendere consapevolezza dell’aumento di disuguaglianze digitali sociali sempre più marcato specie dopo la pandemia.

Si pensi allo SPID. Nato nel marzo del 2013 da una proposta del deputato Stefano Quintarelli, presidente del comitato di indirizzo dell'AgID. Per ben 7 anni non è riuscito ad avere una vera diffusione presso la popolazione; si è dovuto attendere il cashback di Stato per vederlo decollare istantaneamente: da 6 milioni del marzo 2020 agli oltre 18 milioni del marzo 2021[37].

Eppure, l’idea di dotare il cittadino di un sistema di credenziali unico per “loggarsi” nei siti (o app) delle diverse amministrazioni pubbliche, invece di essere costretti ad attivare un account per ciascuna era straordinariamente rivoluzionaria e innovativa, era giusta. Tuttavia, mancava di appeal. Si badi bene, non che oggi i cittadini abbiano maturato improvvisa fiducia nello Spid, ma lo si possiede semplicemente per un uso (il cashback) ritenuto appetibile. Paradossalmente, la postura che lo Stato dovrebbe assumere nei confronti dell’utenza dovrebbe assomigliare – rovesciandone le finalità- a quello seguito dai GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), ovvero semplicità e funzionalità del servizio offerto[38].

Sempre per restare sul tema del pubblico, pensiamo all’app IMMUNI. Da giugno 2020 ad oggi è stato scaricato da circa 10.400.000 di utenti (circa il 19% della popolazione). I download dell’app, dopo una buona crescita in autunno, all’inizio della seconda ondata, si sono praticamente fermati - dalla fine di ottobre 2020 a metà marzo 2021 sono passati da 9,3 a 10,3 milioni – risultando praticamente inutile nella seconda e terza ondata della pandemia. Il problema vero è che, dei milioni di utenti che l’hanno scaricata, pochissimi l’hanno usata per caricare i loro dati, se positivi, e pochissimi hanno ricevuto notifiche di esposizione. Ecco che ritorna il divario digitale sociale. Se l’utente non è messo in condizioni di utilizzare una app o un servizio digitale non lo usa e basta.

Passando all’ambito didattico, si è tanto dibattuto e si continua a confrontarsi sulla didattica a distanza: la DAD. Da una recente indagine condotta da Ipsos per conto di Save the Children[39], associazione che più di tutte, dall’inizio della pandemia, segue da vicino la questione, circa il 30% degli studenti arriva a disertare le lezioni virtuali. Si tratta di un dato drammatico. Le cause della dispersione sono legate a una questione economica e classista, i giga e tablet forniti dal Ministro per i meno abbienti si sono dimostrati poco funzionali, perché non hanno retto la mole di lavoro. Dall’indagine emerge che la DAD ha peggiorato enormemente la didattica: circa un alunno su due ritiene di aver “sprecato” l’anno, oltre uno studente su tre (35%) si sente più impreparato di quando andava a scuola in presenza e il 35% quest’anno deve recuperare un maggior numero di materie rispetto all’anno scorso. Quasi quattro studenti su dieci sostengono di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare (37%). Gli adolescenti dicono di sentirsi stanchi (31%), incerti (17%), preoccupati (17%), irritabili (16%), ansiosi (15%), disorientati (14%), nervosi (14%), apatici (13%), scoraggiati (13%), in un caleidoscopio di sensazioni negative di cui parlano prevalentemente con la famiglia (59%) e gli amici (38%), ma che per più di 1 su 5 rimangono un pesante fardello da tenersi dentro, senza condividerlo con nessuno (22%). A distanza di un anno dal suo ingresso sono innegabilmente aumentate le disuguaglianze tra gli studenti, con un aumento dei NEET[40] e una diminuzione della qualità di coloro che riusciranno ad arrivare ugualmente all’università. Su tale questione le responsabilità sono molteplici. In primis legate alla mancanza di una preparazione da parte degli insegnanti nei confronti di una lezione a distanza che richiede un approccio diverso rispetto a quello in aula. Inoltre, vi è pure la responsabilità dei genitori, che si sono trovati impreparati a gestire i propri figli in casa come a scuola, trascurandoli da un lato o aiutandoli oltremodo dall’altro. Infine, c’è una responsabilità dei ragazzi, che sino all’inizio della pandemia associavano spesso il digitale solo allo svago (chat, visione di film, social) e non come strumento di studio.

Come ci ricorda Wolfgang Goethe  in Wilhelm Meister “non c’è nulla di più ragionevole al mondo che saper cavare un vantaggio dalla follia altrui. La domanda non deve essere solo quando riaprire,  bensì come e con quali nuovi strumenti atti a ridurre il divario tra gli studenti.

Un esempio potrebbe essere quello di predisporre un patentino digitale, nipote, ad esempio, del ECDL, European Computer Drive License, che certifichi l’abilitazione dell’uso al digitale da parte dell’utente (professore, genitore e studente). Ma soprattutto che renda obbligatorio il passaggio della formazione, della lettura delle istruzioni per l’uso della consapevolezza della macchina che stiamo “pericolosamente” guidando senza una meta.

 

e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti

Insieme all’accelerazione della comunicazione (e delle reti), stiamo assistendo alla sua contrazione racchiusa addirittura in un tweet di 120 (allargati, poi, a 240) caratteri. Anzi. Il crescente utilizzo dei nuovi social network (Instagram, Periscope e Tik-Tok) ha da un lato abbassato l’età media degli utenti social –allargando ai più giovani (spesso giovanissimi) l’accesso a tali mezzi di comunicazione - e dall’altro spostato l’asse della comunicazione dalla scrittura (seppur concisa) di un post o di un commento in favore di un video o di una foto. Chissà cosa avrebbe pensato il padre della lingua italiana di questo processo. Di certo torna quanto mai attuale l’incipit di “Le due città” di Charles Dickens “era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi”. L’umanità non ha mai vissuto una stagione della conoscenza così florida e parallelamente tanto piena di costante disinformazione. Il nodo centrale è avere la capacità di gestire tale immenso magazzino di informazioni; la repentina diffusione della rete e dei social non ha permesso una (necessaria) fase di decantazione da parte dello Stato e soprattutto da parte di ciascuno di noi. In questo contesto svolge un ruolo chiave l’alfabetizzazione digitale[41] (media literacy) che deve partire sin dalla giovane età all’interno della famiglia e trovare un costante processo formativo scolastico ed universitario.

Per usare ancora una volta le parole di Italo Calvino, che  aveva intuito tale processo già nel 1984, “alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”[42].

In tempi più moderni, Gabriella Paolucci, durante un convegno[43]svolto a Fiesole presso la European University Institute sull’attenzione alla contrazione spazio-temporale del mondo contemporaneo, aveva diagnosticato le cause e gli effetti di tale processo: “L’odierna compressione spazio-temporale ricade – a grande velocità!– sulle forme del pensiero e del linguaggio, sui modi della comunicazione, sugli aspetti essenziali della vita sociale e su tutto ciò che concorre alla riproduzione individuale”.

Se la sociologia e la letteratura avevano sapientemente anticipato i tempi, profetizzando le ricadute del processo di accelerazione e contrazione del tempo e dello spazio nella comunicazione massmediale, il diritto e la legge non sono stato altrettanto veloci.

Si pensi, per un attimo, ai giornali prima e alla radio e alla televisione in seguito: dietro ogni articolo, trasmissione o programma c’è sempre una “responsabilità editoriale”. E’ su simile grande responsabilità che si è, sino ad oggi, basato il successo o l’insuccesso di un giornale o di un canale televisivo. Ma soprattutto è in virtù di essa che si è concretizzata l’altra faccia della libertà di informazione dell’art. 21 della Costituzione: la libertà di ricevere l’informazione[44]. Come ci ricorda il Prof. Roberto Zaccaria nel suo manuale “Diretto dell’informazione e della comunica   zione «(i)l profilo passivo della libertà di informazione è da tempo evidenziato nei testi costituzionali ed anche in molte Carte internazionali […]. In tutti questi testi si mette in primis in risalto, accanto alla libertà di informazione, anche il diritto, strumentale ed essenziale rispetto alla prima, di ricercare le fonti e di accedere alle stesse». Siamo arrivati ad avere una mancanza comune dei pesi specifici delle fonti di informazioni. La ricerca delle fonti e soprattutto del fact-checking - sia da parte di chi fruisce delle notizie che, non di raro, da parte di chi le produce - è passato in subordine rispetto alla incessante produzione delle stesse. Anzi, spesso ci fidiamo più di uno dei primi risultati di una ricerca su Google (alzi la mano chi è riuscito ad andare oltre la seconda/terza pagina) di una qualche di un articolo del Corriere della Sera o di Repubblica. Abbiamo in gran parte perso il desidero di approfondire qualunque notizia, sopraffatti dall’irresistibile voglia di essere protagonisti della scena, con immediati commenti su tutti i temi, assettati da una costante voglia di arricchire il nostro palinsesto a portata di pollice.

Inizia tuttavia a vedersi gli effetti (spesso perversi) di questo divario digitale sociale presso gli utenti anche nei giovani. “Avevamo cominciato bene, eravamo felici. E poi. [...] Poi la gente ha cominciato ad aver paura”: questa citazione – di William Golding, Premio Nobel per la letteratura 1983 tratta dal suo romanzo d’esordio “Il signore delle Mosche” – è perfettamente calzante al momento di maturità che stiamo vivendo nei confronti della rete. Ne “Il signore delle Mosche” venivano narrate le vicende di un gruppo di ragazzi britannici bloccati su un'isola disabitata e il loro disastroso tentativo di autogovernarsi.

Mutatis mutandis, finita l’età dell’oro del far web è giunta l’improcrastinabile urgenza di una seria e concreta presa di coscienza della rete.  Usiamo spesso la frase navigare in rete; non c’è metafora più azzeccata per rendere questo concetto. Per navigare occorre saperlo fare. Occorre che qualcuno ci abiliti a farlo. Ci fornisca la bussola, le mappe, l’imbarcazione. e quale migliore posto dell’ambiente domestico e della scuola per poterlo fare. Si tratta di un binomio inscindibile dal quale è fondamentale partire. Il vero problema è che i primi ad essere vittime siamo spesso noi adulti che a differenza dei giovani abbiamo la responsabilità, la maturità e la postura per poter correggere ai nostri errori.

Ma se la predetta condizio ne sociale riguarda tutti noi, è altresì vero che la mancanza di una responsabilità ex ante delle piattaforme digitali è il tabù da sfatare.

La seconda parte del contributo è, quindi, incentrato sulle piattaforme digitali ed intende proprio approfondire il tema della loro responsabilità, partendo dalla normativa attuale (Direttiva e-commerce), la sua evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e di Cassazione sino ad arrivare alle recenti proposte della Commissione europea (DSA e DMA) nel nuovo approccio proposto.

 

f) L’irresponsabilità delle piattaforme digitali nell’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale.

Analizzato il versante dell’utente finale della rete passiamo ad esplorare le piattaforme digitali, partendo dal regime di responsabilità in ragione della diversa tipologia di attività svolta.

Un primo intervento normativo è rappresentato dalla Direttiva E-Commerce risalente al 2000 (recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 70/03), che ha introdotto una distinzione tra le categorie di soggetti operanti su reti di comunicazione elettronica che, a diverso titolo, prestano un servizio della società dell’informazione.

Grazie a tale Direttiva si è iniziato a prendere in considerazione la (ir)responsabilità delle piattaforme digitali. Si tratta in particolare dei c.d. “intermediari di rete distinti in tre tipologie in funzione delle diverse caratteristiche di attività: semplice trasporto (mere conduit), memorizzazione temporanea (caching), o memorizzazione (hosting) delle informazioni.

Per ognuno di essi è previsto un regime di irresponsabilità, a date condizioni giustificato dal fatto che si tratta di attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo: il che implicherebbe che il prestatore di servizi non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate (Considerando 42 della direttiva).

In un siffatto scenario è lecito, ed anzi doveroso, domandarsi se ha ancora senso parlare di rete libera.

Il limite sino ad oggi riscontrato risiede nella mancanza di una responsabilità editoriale (diversamente dai contenuti radiotelevisivi) da una parte e dalla infinita accessibilità alle risorse dall’altra (contrariamente alle risorse scarse delle frequenze, ad esempio).

Le attuali regole del gioco che conosciamo – tutte di matrice europee – sono frutto dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione della comunicazione tipici degli anni 80/90 del secolo scorso, che a cascata sono entrate nel nostro ordinamento (si pensi al Testo unico dei servizi di media e al codice delle comunicazioni elettroniche).

Lo stesso legislatore europeo in realtà si pose il problema delle piattaforme digitali agli albori del nuovo millennio, adottando proprio la Direttiva E-Commerce 200/31/CE recepita nel nostro ordinamento dal D.lgs n. 70/03. In tale disposizione aveva infatti previsto una generale esenzione di responsabilità ex ante da parte del prestatore intermediario (provider), ossia “il soggetto che esercita un’attività imprenditoriale di prestatore di servizi della società dell’informazione offrendo servizi di connessione, trasmissione ed immagazzinamento dei dati, ovvero ospitando un sito sulle proprie apparecchiature”. Tale figura è stata in tale contesto suddivisa a sua volta in (1) fornitore di accesso (access provider), ossia il soggetto che offre al pubblico l’accesso ad una rete (2), fornitore di servizi (service provider) quale soggetto che offre al pubblico servizi di comunicazione e/o di trattamento delle informazioni destinati al pubblico, oppure ad utenti e abbonati e fornitore di contenuti (content provider), ovvero il soggetto che offre al pubblico informazioni che transitano sulla rete telematica e destinate al pubblico, oppure ad utenti e abbonati.

Più in particolare, l’art. 17 della predetta Direttiva ha introdotto, in favore dei provider, l’assenza dell’obbligo generale di sorveglianza che si traduce in una esenzione di responsabilità per i fornitori di servizi, a condizione che non intervengano in alcun modo sui contenuti.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha dato, nel corso degli anni, una chiara attuazione a tali principi, come ad esempio nella nota sentenza Scarlet/Sabam del 2011[45] in cui è stato affermato che la direttiva E-commerce osta ad un’ingiunzione rivolta ad un fornitore di servizio di accesso alla rete Internet di predisporre un sistema di filtraggio di tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi ai sensi dell’art. 15, il quale vieta l’imposizione di obbligo di sorveglianza attiva generalizzata. Così come, in tema di motori di ricerca, la Corte di Giustizia si è pronunciata nel 2010, affermando l’irresponsabilità di Google nell’offrire un servizio di posizionamento connesso al proprio motore di ricerca, rilevando che il suo ruolo fosse meramente tecnico, automatico e passivo.

Un decisivo passo in avanti è stato compiuto dalla sentenza EBay L’Oréal[46]nel 2011, in cui la Corte ha precisato come non possa considerarsi meramente tecnica, automatica e passiva l’attività dell’intermediario di rete che abbia prestato un’assistenza consistente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e nel promuovere tali offerte.

In altri termini, la Corte, precisando che la verifica più stringente circa il suo attivo dell’ISP spetti in concreto al Giudice di rinvio, ha riscontrato comunque che poiché Ebay non fornisce ai suoi utenti un servizio “neutro” bensì una vera e propria assistenza nelle vendite, “consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte“, esso “non ha una posizione neutra tra il cliente venditore e i potenziali acquirenti, ma svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte“. Ma l’aspetto forse più rilevante di tale pronuncia consiste nell’invio della Corte agli Stati membri affinché i propri organi giurisdizionali competenti in materia di proprietà intellettuale possano ordinare agli ISP di adottare provvedimenti che contribuiscano sia a far cessare le violazioni di tali diritti ad opera degli utenti, sia a prevenire nuove violazioni.

Più di recente la Corte ha compiuto un altro importante cambio di passo con la sentenza del 3 ottobre 2019 Facebook c/ Eva Glawischnig-Piesczek[47]adottata nella causa C-18/18, affermando che il divieto per gli Stati, ai sensi della direttiva sul commercio elettronico, di imporre agli intermediari di rete un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, non riguarda obblighi di sorveglianza in casi specifici come quello di porre fine ad una violazione o di impedire una violazione, in particolare cancellando le informazioni illecite o disabilitando l’accesso alle medesime.

Su tale linea, la Corte di Cassazione[48], da ultimo, ha compiuto un’ulteriore, e fondamentale, passo in avanti, individuando specifici elementi che permettono di qualificare l’hosting provider “attivo” e dunque privo dell’esenzione da responsabilità riconosciutagli in principio dalla legge per i contenuti illeciti “ospitati” sui propri siti: le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione dei contenuti operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio e, in ogni caso, tutte le condotte volte a completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti. Ma soprattutto la Corte ha chiarito che il regime di esenzione di responsabilità ex ante previsto dall’art. 16 del D. Lgs. 70/2003 - che attua l’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE - soggiace al rispetto di due condizioni: (I) che non sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione veicolata e (II) che agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti. Se una o entrambe le condizioni non vengono rispettate l’hosting provider, a prescindere dalla specifica qualificazione tra attivo o passivo – non può invocare il regime di esenzione di responsabilità.

 

g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B)

Sulla scia della richiamata giurisprudenza europea e nazionale, in tema di responsabilità degli intermediari di Rete, e per far fronte ai crescenti illeciti amministrativi attraverso la rete Internet, il legislatore italiano ha dotato l’ordinamento nazionale di nuovi strumenti di contrasto del fenomeno del secondary ticketing e del gambling con vincite in danaro.

  1. A) Secondary ticketing: L’art. 1, comma 545 della legge 2016/232 “al fine di  contrastare  l'elusione  e  l'evasione  fiscale, nonche' di assicurare la tutela dei consumatori e garantire  l'ordine pubblico” ha introdotto una nuova fattispecie di illecito amministrativo, consistente nella “vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione”. 

L’obiettivo che si è prefissato il legislatore consiste nel contrastare il crescente fenomeno del bagarinaggio di biglietti per eventi di spettacolo, cresciuto a dismisura grazie ad Internet. L’unica eccezione consentita è la vendita di biglietti ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale, effettuata da una persona fisica ed in modo occasionale, purché senza finalità commerciali.

La disciplina del secondary ticketing è stata modificata con la l. 145/18, n. 145, che ha introdotto i commi da 545-bis a 545-quinquies alla legge n. 232/2016. Con tali modifiche è stato disposto da un lato che, a partire dal 1° luglio 2019, i titoli di accesso ad attività di spettacolo in impianti con capienza superiore a 5.000 spettatori debbano essere nominali e dall’altro è stata disciplinata la procedura di intermediazione, svolta solo dai soggetti autorizzati (e cioè siti Internet di rivendita primari, box office autorizzati e siti Internet ufficiali dell’evento), attraverso la quale gli acquirenti dei biglietti possono rivendere a terze persone fisiche i titoli acquistati.

Nei casi di violazione dei predetti divieti il legislatore ha previsto (I) l’inibizione della condotta, (II) una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché (III), ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, l’oscuramento del sito attraverso il quale la violazione è stata posta in essere.

La competenza a vigilare sul rispetto dei predetti divieti è stata attributi all’Agcom, che nel 2020 ha adottato diverse sanzioni pecuniarie[49] (per un importo di oltre 5.000.000 di euro) ed inibendo la prosecuzione della condotta lesiva.

Il Tar del Lazio ha recentemente confermato l’operato dell’Autorità con le sentenze nn. 3955/2021 e 4335/2021 rispingendo i ricorsi promossi da Viagogo e da StubHub, i più grossi operatori digitali del secondary ticketing. Il Tar, accogliendo integralmente le difese dell'Autorità esposte dall'Avvocatura generale dello Stato, ha rigettato tutti gli argomenti difensivi affermando “la gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite l'articolata gestione imprenditoriale evidenziata nella motivazione del provvedimento, servizi finalizzati – per stessa ammissione della ricorrente – a favorire la conclusione di negozi giuridici che la legge qualifica in linea generale illeciti, escluse le limitate ipotesi sopra indicate, non possa essere considerata neutrale rispetto al disposto normativo, non potendo essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata, come infondatamente argomentato da parte ricorrente” (enfasi aggiunta).

Si tratta di due pronunce di rilevante importanza in quanto, da un lato confermano la costante impostazione giurisprudenziale in tema di hosting provider sancita più di recente dalla Corte di cassazione (Cass. Civ. Sez. I, 19 marzo 2019, n. 770) sulla scia di quella europea (Corte Ue, C-324/09, L'Orèal c. eBay e C-236/08, Google c. Louis Vuitton) e, dall'altro, supera l'arresto del Consiglio di Stato (sentenze nn. 4359/19 e 1217/20) sull'identificazione del ruolo delle piattaforme di intermediazione - tra i quali Viagogo e StubHub – quali hosting provider passivi, in considerazione dell'attività effettivamente svolta dalla piattaforma non «consistente nella mera “memorizzazione di informazioni”».

  1. B) Divieto di pubblicità del gioco con vincite in danaro. L’articolo 9, comma 1, del decreto-legge 87/18 convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 ha introdotto un divieto generalizzato di pubblicità concernente il gioco a pagamento effettuata su qualsiasi mezzo di comunicazione. Inoltre, a partire dal 1° gennaio 2019 detto divieto è stato esteso anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti la cui pubblicità. Restano lecite, invece, le pubblicità afferenti le lotterie nazionali a estrazione differita, le manifestazioni locali e i loghi sul gioco sicuro e responsabile dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

In caso di inosservanza a tali divieti è stato previsto a carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari al 20% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a euro 50.000. Anche in questo caso, la competenza a monitorare sul rispetto di tale norma è stata attribuita all’Agcom, che nel 2020 ha avviato la propria attività irrogando svariate sanzioni ai diversi soggetti sopra individuati, tra cui Google[50] .

Anche il gioco con vincitore in danaro ha subito dei cambiamenti importanti durante il lockdown: «La chiusura delle sale fisiche per il gioco d'azzardo legale durante il lockdown ha dato luogo ad un parziale spostamento dei consumi verso altri canali non soggetti alle restrizioni, in particolare verso l'offerta a distanza e l'online vero e proprio". E "non può escludersi che una parte del maggior consumo online possa essere intercettata - attraverso siti clandestini - dall'offerta illegale che in questo settore era già presente e in ascesa». Si tratta di un piccolo estratto della relazione presentata il 15 giugno 2021 dal comitato della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle mafie[51] che ha monitorato le attività delle organizzazioni criminali nel periodo dell'emergenza sanitaria[52].

Sul tema, il Senato ha di recente deciso di costituire una specifica Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico composta da venti senatori, nominati dal Presidente del Senato su proposta dei Gruppi parlamentari. Tra i diversi compiti della Commissione si segnala, in questa sede: (1) l’analisi delle condizioni complessive del settore del gioco pubblico; (2) l’efficacia della disciplina pubblica in relazione alla tutela dei soggetti più deboli, al contrasto della diffusione del disturbo da gioco d’azzardo (DGA), alla gestione delle concessioni nonché alla tutela della correttezza dell’offerta di gioco e del rispetto della concorrenza tra gli operatori; (3) l’individuazione delle dimensioni del gettito erariale e le dimensioni complessive del comparto, con particolare attenzione ai settori produttivi impegnati nella produzione, nella commercializzazione e nella gestione degli apparecchi da intrattenimento, nonché nella produzione e gestione del settore delle scommesse e delle lotterie istantanee; (4) l’efficacia del sistema di regolazione e di controllo con particolare riferimento al contrasto del gioco illecito e illegale.

  1. C) La responsabilità ex ante degli hosting provider. Le due nuove discipline di illeciti amministrativi sopra descritti rivestono un rilevante impatto proprio nei confronti dei soggetti intermediari della rete. Per la prima volta, infatti, viene prevista una responsabilità ex ante piena da parte degli hosting provider a prescindere dalla propria qualificazione quelle attivo o passivo. Come abbiamo visto, infatti, una delle (due) condizioni per poter invocare l’esenzione di responsabilità da parte delle piattaforme consiste nel fatto che l’hosting provider non venga effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione fornite da un destinatario del servizio. La conoscenza di tale illiceità implica che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di responsabilità del prestatore del servizio per fatto proprio colpevole mediante omissione, ovvero per non aver impedito la protrazione dell’illecito (rimuovendo le informazioni o disabilitando l’accesso). Infine, è interessante notare che sia le sanzioni irrogate in materia di secondary ticketing (Viagogo e StubHub) che quella irrogata a Google su pubblicità online del gioco con vincite in danaro hanno riguardato soggetti non italiani ma stranieri.
  2. D) Le nuove regole per i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online. Il Regolamento Platform to business[53] ha introdotto delle nuove ed importanti misure di garanzia a favore degli utenti commerciali[54] nella fruizione dei servizi di intermediazione online e dei motori di ricerca online. Si tratta del primo passo verso una nuova frontiera della regolamentazione dell’attività delle piattaforme contenuta nella strategia legislativa europea.

In concreto, il Regolamento ha previsto una serie di nuove regole nei confronti (I) per i fornitori di servizi di intermediazione online[55] (categoria molto ampia, in cui rientrano i mercati di commercio elettronico per conto di terzi, come Amazon, eBay o Zalando, gli app store come Google Play, Apple App Store, Microsoft Store, i social media usati a scopi professionali quali ad esempio account Facebook o Instagram utilizzati con finalità professionali da artigiani, e gli strumenti di comparazione dei prezzi come Skyscanner, Trivago o Google Shopping) e per (II) i motori di ricerca online[56] (categoria che ricomprende sia quelli generalisti come Google sia tematici come TripAdvisor).

A tali soggetti il regolamento vieta specifiche pratiche nocive per lo sviluppo dell’economia digitale come la sospensione degli account, impone l’adozione di termini e condizioni semplici e chiare, l’indicazione dei parametri utilizzati per il ranking, la predisposizione di facili sistemi di reclamo e l’introduzione di una procedura di risoluzione delle controversie.

Dunque, il rapporto che il regolamento P2B disciplina riguarda da un lato i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online e dall’altro gli utenti commerciali. Da notare che in tale definizione il legislatore ha inteso includere non solo le persone giuridiche, bensì anche quelle fisiche che agiscono nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali (si pensi ad esempio agli influencer). Restano fuori pertanto i consumatori[57] , ossia gli utenti finali tutelati, invece, dal codice del consumo (la cui competenza è attribuita all’Agcm).

Il legislatore italiano per garantire l’adeguata ed efficace applicazione del Regolamento ha attribuito, con la legge 178/20 (commi 515-517), all’Agcom le nuove competenze attribuendole il potere di regolazione, vigilanza, composizione delle controversie e sanzionatorio nell’ambito della cornice edittale più grave già prevista per le violazioni in materia di posizioni dominanti all’art. 1, comma 31 della l. 249/97 (sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore al 2% e non superiore  al  5% del fatturato).

Anche in questo caso è estremamente interessante notare che il legislatore ha inteso confermare il principio del country of destination: la responsabilità delle piattaforme prescinde dalla sua ubicazione fisica, in quanto si guarda alla residenza o allo stabilimento dell’utente commerciale.

Ciò che conta non è pertanto il luogo entro cui si conclude la transazione, ma il momento nel quale avviene l’incontro: qualora la piattaforma svolga ruolo di effettivo intermediario, allora le sue responsabilità ricadranno nel perimetro della nuova regolamentazione.

 

h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA)

Merita, infine, un breve ma importante richiamo al recente pacchetto di riforme presentato dalla Commissione europea a fine 2020, a valle di una lunga consultazione pubblica con tutti gli stati membri, volto a introdurre una serie di nuove proposte legislative tali da proteggere in modo più efficace i consumatori e i loro diritti fondamentali online e rendere più equilibrato il mercato digitale rispetto a quello reale.

Si tratta di due proposte di regolamento, che si rivolgono tanto ai servizi quanto ai mercati digitali diversificando gli obblighi e le tutele in ragione delle diversioni di tali soggetti. L’obiettivo che si pone il legislatore europeo è, infatti, quello di garantire un accesso sicuro alla rete per tutti gli attori e un reale affidamento alle notizie che leggiamo al fine di eliminare l’attuale squilibrio tra la doppia realtà online e offline.

Gli strumenti previsti sono particolarmente innovativi rispetto a quelli attuali poiché introducono un processo di armonizzazione massima e puntali obblighi ex ante, sorveglianza più attenta e delle sanzioni espresse e rilevanti.

DSA e DMA costituiscono, pertanto, la risposta europea ai radicali cambiamenti globali derivati delle piattaforme digitali: motori di ricerca, piattaforme di intermediazione digitali, social network e così via. L’’obiettivo sarebbe quello di arrivare ad una adozione dei due Regolamenti nella primavera del 2023. Tutto dipenderà dal ruolo che il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea svolgeranno durante le fasi del cosiddetto trilogo.

A distanza di un ventennio dall’emanazione della direttiva e-commerce, la Commissione europea ha finalmente adottato una proposta di Regolamento relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la predetta direttiva 2000/31/CE (Digital Services Act DSA)[58] .

Come ha recentemente affermato il Presidente dell’AGCOM, Giacomo Lasorella[59]Il Digital Service Act dell’Ue punto di partenza del nostro operato” con il chiaro obiettivo di realizzare quella convergenza per la quale l’Autorità è stata istituita ossia la regolazione del digitale che può attuarsi solo in un quadro europeo.

La proposta mira a migliorare la sicurezza degli utenti online e la protezione dei loro diritti fondamentali in tutta l’Unione. In altre parole, il nuovo approccio proposto dalla Commissione non guarda, come in passato, soltanto al mercato unico e alla circolazione dei servizi digitali, ma anche alle nuove sfide per la tutela dei diritti fondamentali e della democrazia nella società dell’informazione.

Le piattaforme online nel corso degli ultimi vent’anni hanno, infatti, definitivamente rivoluzionato il mondo delle comunicazioni e degli scambi commerciali, aprendo nuove prospettive ad una sterminata platea di soggetti; tuttavia, esse sono state e continuano ad essere parallelamente pericolosi canali di diffusione di contenuti illeciti (tra tutti i siti pirata) e di vendita di beni o servizi illegali.

L’obiettivo che la Commissione si è prefissata di raggiungere nel corso del trilogo consiste in un riequilibrio delle parti (piattaforme e utenti), introducendo una serie di nuovi obblighi armonizzati (ragione per cui si è scelto di procedere con un Regolamento e non con una Direttiva) per i servizi digitali a livello dell’UE tra cui segnaliamo: norme per la rimozione di beni, servizi o contenuti illegali online, strumenti di tutela per gli utenti che si vedono cancellati i propri contenuti,  specifiche previsioni per consentire il tracciamento degli utenti commerciali nei mercati online, rilevanti e puntuali poteri di verifica sul funzionamento delle piattaforme digitali, una più efficace procedura di cooperazione tra autorità di settore all’interno dell’Unione, una maggiore trasparenza specie per la pubblicità online e i relativi strumenti di posizionamento, nonché obblighi calibrati in funzione delle dimensioni delle piattaforme.

Insieme al DSA la Commissione ha, altresì, adottato un’altra proposta di regolamento relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali nota anche Digital Markets Act o DMA)[60] .

Tale proposta mira più specificatamente ad introdurre una serie di criteri oggettivi per definire le piattaforme online di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell'accesso. Si tratta di quei soggetti che, grazie alla loro attività di intermediazione, detengono una posizione economica rilevante nel mercato nazionale e in quello paneuropeo. 

In questo caso l’obiettivo dell’Unione è quello di introdurre nei vari ordinamenti una armonizzazione massima, fornendo chiare definizioni e vietando le pratiche sleali ivi presenti. Dunque, non si rivolge a tutti i soggetti della rete, ma solo a quei soggetti i quali  in ragione del proprio bacino di utenti sono più soventi a ospitare, non di rado, illeciti (basti pensare ai motori di ricerca come Google, social network come Facebook o Instagram, fornitori di servizi di intermediazione online come Amazon o EBay). Altro aspetto non meno rilevante consiste nell’importante presidio sanzionatorio pecuniario previsto, che potrebbe portare ad irrogare multe sino al 10% del fatturato mondiale o, nei casi di recidiva, all’obbligo di adottare misure strutturali, fino all’eventuale cessione di determinate attività nei casi in cui non siano disponibili altre misure alternative altrettanto efficaci per garantire il rispetto delle norme.

Diverso è l’approccio seguito sino ad ora dalla Commissione relativo ai soggetti dominati della rete che in virtù delle loro dimensioni e della loro potenza economica. Come sappiamo, gli attuali strumenti sono solo di natura pecuniaria pur rilevante e tuttavia di certo non così forti da scarnire davvero i poteri dei GAFAM. Ecco, allora, il nuovo approccio seguito: evitare che si arrivi ad una sanzione, smontando le varie posizioni dominati da parte dei big della rete.

In questo scenario un ruolo centrale sarà svolto dalla cd co-regolamentazione che, come ci ricorda il Commissario Laura Aria[61] «fornisce un collegamento giuridico tra l’autoregolamentazione e il legislatore nazionale, in conformità delle tradizioni giuridiche degli Stati membri. Nella co-regolamentazione le parti interessate e il governo o le autorità o gli organismi nazionali di regolamentazione condividono il ruolo di regolamentazione. Il ruolo delle autorità pubbliche competenti comprende il riconoscimento del regime di co-regolamentazione, l’audit dei suoi processi e il suo finanziamento. Ciò dovrebbe consentire l’intervento statale qualora i suoi obiettivi non siano conseguiti».

 

i) Conclusioni

Per ipotizzare qualche sommaria conclusione è necessario fare un prequel.

Prima che l’era digitale prendesse il sopravvento, molti interventi normativi tentarono di dare ordine al sistema comunicativo analogico. Con sorti assai alterne.

Mentre nel comparto della carta stampata la legge n. 416 del 1981(variamente novellata, ma rimasta intatta nelle sue fondamenta) mise dei contorni piuttosto significativi al settore, sia in termini di trasparenza proprietaria sia nei confini imposti alle concentrazioni, il campo radiotelevisivo non ha mai assunto una vera fisionomia democratica.

Purtroppo, la non breve stagione del Far West dell’etere (divenuta oggi Far Web) iniziata dopo la sentenza n. 202 della Corte Costituzionale segnò per sempre la fisiologia del sistema. Quella sentenza, peraltro giusta e storicamente matura, fu emanata nel luglio del 1976. Solo un anno prima la legge n.103 aveva riformato la Rai, spostandone l’indirizzo e la vigilanza dal potere esecutivo al Parlamento (la legge n.220 “Renzi” del 2015 ribalterà la situazione).. La Corte accolse la spinta verso la parziale rottura del monopolio statale, letti mando l’accesso dei soggetti privati solo nell’ambito locale. La stessa Corte, come ribadì anche nel 1988 e nel 1994, evocava l’urgenza di una disciplina organica, che condizionasse la cosiddetta libertà di antenna al varo di un adeguato corpo di regole.

L’assenza di un quadro di certezze fondato su rigorosi diritti e doveri, limiti antitrust e tutele adeguate del pluralismo portò all’anomalia italiana. A quello che taluni commentatori chiamarono il principale disastro latino nel campo. Da simile situazione nacque il fenomeno berlusconiano. Da una televisione via cavo – Telemilano – partì la conquista da parte del tycoon di Arcore dell’universo della televisione generalista, Provarono a fermarne la (ir)resistibile ascesa tre pretori nel 1984, i quali rilevarono l’illiceità della interconnessione nazionale tra le diverse stazioni locali che componevano il mosaico di Fininvest, arrivando a chiudere le trasmissioni. Si sollevò una reazione durissima, al grido “I Puffi, i Puffi”, che portò il governo allora presieduto da Bettino Craxi a provvedere rapidamente con decreti legge reiterati, diventati la legge n.10 del 1985. Caso unico (salvo il Messico e la Turchia) l’Italia rese possibile ad un unico soggetto di possedere ben tre reti nazionali. La legge n.223 del 1990 (l.Mammì) fotografò infine la situazione, rendendola permanente.

Provò senza successo il centrosinistra dell’epoca dell’Ulivo a limitare il numero delle reti. Fu la legge n.249 del 1997 a metterci mano, subendo – però- una controffensiva ancora una volta demagogica e segnata dal populismo mediatico. Finì con la scialba scelta di immaginare che, a certe condizioni, una rete potesse essere trasmessa via satellite, liberando così risorse terrestri. Persino quell’esile filo fu spezzato dalla grande “controriforma” varata dall’allora ministro Gasparri con la legge n.112 del 2004, recepita poi nel Testo Unico delle Radiodiffusioni del 2005 (decreto legislativo n.177).

Insomma, si determinò una situazione di oligopolio assoluto, declinata nel rapporto tra pubblico e privato come “duopolio” di Rai e Mediaset.

Neppure fu regolato adeguatamente il conflitto di interessi, pervasivo e diffuso. Il testo approvato nel 2004 (l. Frattini, n.215) non risolveva pressoché nulla.

Le novità interessanti da ricordare sono, forse, almeno tre: la costituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la legge n. 249 del 1997; la legge n.122 del 1998 sull’obbligo di investimento da parte delle emittenti in opere audiovisive italiane ed europee; la legge n.28 del 2000 sulla “par condicio”. Quest’ultima è stata pressoché l’unica medicina rispetto alla frequente lesione delle pari opportunità tra le parti politiche nel mondo radiotelevisivo. Insomma, in assenza di una moderna ed adeguata struttura antitrust, per lo meno si sono limitati i danni. Purtroppo, l’Agcom si è via via indebolita, anche per ragioni ultronee rispetto ai suoi stessi limiti.  Che ne è degli anni analogici nel discorso mediatico? Vi è stata la vittoria sul campo del vecchio schermo generalista, onnivoro e arretrato. La comunicazione si fece direttamente politica.

La nascita del cavo fu impedita dall’antico accordo di potere sui rispettivi comparti di egemonia tra Rai e Sip e il progetto del 1994 messo in campo dalla Stet di portare la fibra ottica nell’intero territorio italiano fu spenta dall’enfasi data alle culture della concorrenza. Fu il frutto di un momento di riassetto del quadro degli indirizzi dell’Europa. Ora verosimilmente, di fronte alla conclamata crisi del liberismo, non accadrebbe.

Tutto ciò per segnalare come i problemi della modernità digitale abbiano tristi prolegomeni.

C’è tanto da fare e la stagione che si sta affacciando porta con sé tutte le possibilità per cambiare rotta. La Legge di delegazione europea 2019/2020 finalmente varata un primo ed importante e punto di partenza. Al suo interno vengono recepite ben 38 direttive europee e inserito l'adeguamento della normativa nazionale a 17 regolamenti europei. Tra le più rilevanti normative europee vi è la nuova Direttiva sui servizi digitali (Direttiva 2018/1808), le due Direttive sul diritto d’autore (Direttive nn. 789/19 e 790/19) nonché la Direttiva che istituisce il codice delle comunicazioni elettroniche (Direttiva 2018/1972). Una vera e propria rivoluzione digitale sta per arrivare.

E’ presumibile pensare che entro la fine dell’estate i testi fondamentali (SMAV, CCE e COPYRIGHT) saranno emendati, consentendo dunque all’AGCOM di avviare le relative consultazioni pubbliche prodromiche all’adozione dei singoli interventi normativi previsti. In questo scenario cruciale sarà il ruolo dell’Autorità italiana per le comunicazioni che - come ci ha ricordato la Commissari Prof.ssa Elisa Giomi[62] – dovrà creare “le condizioni per la messa a punto di un sistema regolatorio per i nuovi modelli di business digitale che garantisca – lato consumatori e utenti – maggiore controllo sui propri dati e – lato imprese – un trattamento equo e non discriminatorio nei rapporti contrattuali con le piattaforme online”.

Certo molto dipenderà da quanto riuscì il Governo ad innovare attraverso i decreti legislativi: ossia se si limiterà ad un intervento chirurgico che recepisca pedissequamente le principali novità contenuti nelle direttive di settore oppure se coglierà l’occasione per introdurre nuovi strumenti regolatori tanto per i players tradizionali quanto per i big della rete.

Con specifico riferimento al settore dei media cruciale importanza riveste la media literacy/education ovvero l’alfabetizzazione digitale, vero e proprio fulcro centrale del divario digitale sociale.

Solo attraverso una competenza diffusa e condivisa tra i vari attori pubblici (istituti scolastici, università MISE. MIC, AGCOM, Garante Privacy solo per citarne alcuni). Fa sperare, al riguardo che l’articolo 4 della legge di delegazione europea (che attribuisce il mandato al Governo per il recepimento della Direttiva SMAV) contenga al suo interno un comma dedicato e che impone “la promozione dell'alfabetizzazione digitale da parte dei fornitori di servizi di media e dei fornitori di piattaforme di video-sharing”. Ecco, tuttavia, a parere di chi scrive, l’alfabetizzazione digitale non è solo un compito da attribuire ai fornitori di media (lineari e non) ma soprattutto dei GAFAM; è con loro che bisognerebbe avviare un percorso, di formazione costante dei propri utenti. Necessario in questo percorso è la parallela formazione da parte della stessa PA, a partire dagli insegnanti - che, come detto, non sono stati preparati, a causa dell’assenza della formazione, a gestire la DAD - dagli impiegati degli enti pubblici locali (dipendenti comunali, delle ASP, della regione etc.) e nazionali. Infatti, se dal recovery plan arriveranno importanti fondi per il digitale è davvero fondamentale che essi siano spesi nella formazione dei soggetti (partendo da pubblici per arrivare ai privati) prima ancora che accrescere la connessione e i servizi digitali. Come ci ricordò il Presidente Pertini nel suo messaggio di fine anno del 1982[63]Il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere.” Si badi bene, è qui che si gioca la vera partita, specie della questione meridionale; è dal mezzogiorno che bisogna puntare la lente di ingrandimento ma non solo nelle modalità di spesa dei danari pubblici quanto, lo si ripete, nella formazione all’utilizzo del digitale.

Occorre, quindi, prendere le mosse dalla “burrasca di distruzione creativa” ipotizzata dall’economista Joseph Schumpeter che sviluppo nel suo volume “Capitalismo, socialismo e democrazia” per regolare con lenti nuove e diverse il fenomeno delle piattaforme digitali che non guardi quindi agi strumenti tradizionali sin qui seguiti ma anzi li distrugga in maniera creativa fornendone dei nuovi: «Il punto essenziale da afferrare è che chi studia il capitalismo studia un processo essenzialmente evolutivo. Gli economisti stanno uscendo dallo stadio in cui non vedevano che una forma di concorrenza: quella nei prezzi è […] ma la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo, condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità e incide non sui margini del profitto e sulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro spesse fondamenta, sulla loro vita» (tratto da pag. 78 de “Capitalismo, socialismo e democrazia”).

Per regolare le piattaforme occorre pertanto non pensare solo ai principi tipi della concorrenza, basati essenzialmente, sui prezzi praticati dei big player, ma sulla nuova valuta di scambio divenuta pregiatissima i dati, i nostri dati. In concreto, per fare ciò è indispensabile partire da una visione per così dire glocal: guardare ai fenomeni della globalizzazione per regolare il locale. La recente sentenza del Consiglio di Stato (sentenza n. 2631/2021) ha sancito la “non gratuità di Facebook”, chiarendo, per la prima volta, che i servizi offerti dalle piattaforme (le ricerche che facciamo, le mail che inviamo, i video che guardiamo etc.) fruibili senza richiedere alcun denaro non sono affatto gratuiti. Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che «le informazioni rese all’utente al primo contatto, lungi dal contenere gli elementi essenziali per comprendere le condizioni e i limiti delle conseguenze che, a fronte della gratuità dei servizi offerti, deriveranno dalla profilazione in termini di indefinibilità dei soggetti che utilizzeranno i dati personali messi a disposizione e del tipo di utilizzo commerciale connesso, lasciano supporre che sia possibile ottenere immediatamente e facilmente, ma soprattutto “gratuitamente” (e per tutto il periodo in cui l’utente manterrà l’iscrizione in piattaforma), il vantaggio collegato dal ricevimento dei servizi tipici di un social network senza oneri economici, omettendo di comunicare che, invece, ciò avverrà (e si manterrà) solo se (e fino a quando) i dati saranno resi disponibili a soggetti commerciali non definibili anticipatamente ed operanti in settori anch’essi non pre-indicati per finalità di uso commerciale e di diffusione pubblicitaria».

 

Scoperto il vaso di pandora per cui è ormai sempre più noto che “If You Are Not Paying for the Product, You Are the Product![64], diventa impellente rispondere alle seguenti domande: Quando vale un mio dato? Quanto riesce a cubare un’azienda dai miei movimenti? Quali nuove regole imporre alle piattaforme digitali?

In realtà, come ci ha ricordato Jaron Lanier, informatico, compositore e saggista statunitense, noto per aver reso popolare la locuzione virtual reality (realtà virtuale, di cui è peraltro considerato un pioniere): “il prodotto non siamo noi. E’ la possibilità che le piattaforme hanno di cambiare il nostro comportamento”. Occorre pertanto prevedere, ed in questo i nuovi testi (DSA e DMA) stanno imboccando la corretta direzione, misure diversificate in funzione delle tipologie e delle dimensioni delle aziende OTT.

Dal punto di vista dell’informazione non è più sostenibile per un giornale seguire il nodello di Facebook o Google ma semmai quello di Le Monde. Il quotidiano francese anziché puntare ad una strategia commerciale di contenimento dei costi, anche tramite una riduzione dei giornalisti, ha puntato sulla qualità; il suo direttore, Luc Bronner, ha scritto al riguardo, attraverso Twitter, che fra il 2018 e il 2019 Le Monde ha ridotto del 14% il numero degli articoli (addirittura del 25 per cento nei due anni) e che nel frattempo i giornalisti sono aumentati - oggi sono più di 500 - e hanno più tempo per fare inchieste. Il risultato che è il numero di utenti sul web e sulla carta è aumentato, dell'11% in ciascun settore.

Più giornalisti meno articoli uguale più lettori. Sebbene sembri uno spot da prima Repubblica, sulla scia di "lavorare meno lavorare tutti", in realtà si tratta di una formula controintuitiva perché c'è una variabile nascosta che la rende comprensibile: la qualità del giornalismo. Più giornalisti, meno articoli uguale più qualità e quindi più lettori. Tale approccio, a ben pensare, è quello che ha seguito con successo,  dai grandi media player che specie negli ultimi anni hanno avuto un’enorme fortuna economica puntando proprio sulla qualità (contenuti originali, alta definizione, pluralità di lingue e sottotitoli).

Se errare è umano, perseverare sarebbe diabolico. Davvero. E un’altra stecca comprometterebbe definitivamente l’opera: L’informazione è la democrazia.

 

 

13.                     LO STATO SOCIALE DIGITALE

 

a) Premessa

Nel mese di ottobre del 2019 è stato presentato all’ONU il rapporto[65] del relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani, Philip Alston. Il rapporto è dedicato all’allarme per i diritti umani derivante dall’abuso della digitalizzazione nel campo della protezione sociale.

Lo stato sociale digitale è un complesso ed eterogeneo insieme di interventi totalmente o quasi interamente governati dal software e da sistemi automatizzati. Come riferisce il rapporto <<i sistemi di protezione sociale e di assistenza sono sempre più dipendenti dai dati digitali e dalle tecnologie che vengono utilizzate per automatizzare, prevedere, individuare, sorvegliare, rilevare il bersaglio e punire. I commentatori hanno predetto un futuro in cui le agenzie governative potrebbero effettivamente legiferare con i robot, ed è evidente che stanno emergendo nuove forme di governance che si basano in modo significativo sull’elaborazione di grandi quantità di dati digitali da tutte le fonti disponibili, utilizzano l’analisi predittiva per prevedere il rischio, automatizzare il processo decisionale e rimuovere la discrezionalità dalle decisioni umane. In un mondo del genere, i cittadini diventano sempre più visibili al loro governo, ma non il contrario>>.

Il rapporto osserva che nei paesi dove questi sistemi sono stati implementati, lo stato sociale digitale viene presentato come una creatura benigna, foriera di efficienza, riduzione dei costi e di un livello più alto dei servizi. In realtà la digitalizzazione dei sistemi di welfare è stata spesso <<accompagnata da profonde riduzioni di budget complessivo, un restringimento della platea di beneficiari, l’eliminazione di alcuni servizi, l’introduzione di forme esigenti e intrusive di valutazione dei requisiti di accesso ai benefici, il perseguimento di obiettivi di modifica dei modelli di comportamento, l’imposizione di regimi sanzionatori più forti e una completa inversione della nozione tradizionale secondo cui lo stato dovrebbe essere responsabile nei confronti dell’individuo>>.

Insomma, siamo in presenza di una sorta di neoliberismo strisciante mascherato da buon samaritano digitale con effetti fortemente regressivi che riflette valori e ipotesi che sono molto lontani dai principi dei diritti umani e che possono risultarvi addirittura antitetici.

La minaccia di un futuro distopico è particolarmente significativa rispetto al tema dello stato digitale. Il rapporto presenta un resoconto sistematico dei modi in cui le tecnologie digitali vengono utilizzate nello stato sociale e delle loro implicazioni per i diritti umani. Il documento si conclude chiedendo la regolamentazione delle tecnologie digitali, compresa l’intelligenza artificiale, per garantire il rispetto dei diritti umani e un ripensamento dei modi positivi in cui lo stato sociale digitale possa divenire uno strumento potente per il raggiungimento di un effettivo miglioramento dei sistemi di protezione sociale.

b) La verifica dell’identità

Quello della verifica dell’identità della popolazione è stato considerato uno dei fattori strategici e di sviluppo. In effetti in moltissime aree del mondo gran parte della popolazione non possiede un documento di identità e non sono stati adottati sistemi efficienti di registrazione delle nascite. La Banca Mondiale ha attivato dei programmi di finanziamento finalizzate alla promozione ed all’implementazione di tecnologie digitali per la registrazione anagrafica e l’identificazione. Pur essendo innegabili i benefici di tali interventi, esistono dei pericoli intrinseci al funzionamento di questi sistemi informatici, talvolta basati su tecnologie di riconoscimento biometrico, che possono mettere a repentaglio la sicurezza dei dati personali della popolazione oppure essere utilizzati come tecnologie di controllo di massa o, più semplicemente, possono funzionare male mettendo a repentaglio anche la vita di esseri umani. In India ad esempio è stato introdotto dal 2009 un gigantesco sistema di riconoscimento biometrico che ad oggi coinvolge oltre 1,2 miliardi di persone.

Raccolte di massa di dati biometrici e DNA si riscontrano in Kenia, Sudafrica, Argentina,  Bangladesh, Cile, Irlanda, Giamaica, Malesia, Filippine e Stati Uniti.

Nel nostro ordinamento l’art. 9 del GDPR riguarda proprio il trattamento dei dati biometrici, che è generalmente vietato ma risulta ammesso se si verificano i casi previsto al paragrafo 2 (vedi in particolare le lettere b), g), h), i)[66]).

c) La valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali

I sistemi automatici di valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali sono sempre più utilizzati. Nello stato canadese dell’Ontario l’accesso al sistema di assistenza sociale si basava su un software IBM denominato Curam. Il software è stato usato anche negli Stati Uniti, in Germania, Australia e Nuova Zelanda ed è personalizzabile. Ebbene, questo software, a causa di un errore di programmazione, ha letteralmente tagliato le prestazioni per una somma pari a 140 milioni di dollari a fronte di un totale di budget pari a 290 milioni. Prestazioni quindi dimezzate per un errore di programmazione con conseguente panico per i beneficiari e per i pochi operatori umani destinati a risolvere la faccenda.

Nello stato dell’Illinois, riporta il Guardian, il governo ha richiesto il rimborso di sussidi asseritamente pagati in eccesso, relativi in alcuni casi a 30 anni fa. Questi “rimborsi zombie”, decisi sinteticamente dai programmi per elaboratore, stanno mettendo nel panico gli strati più deboli della società. Nel Regno Unito si investono milioni di sterline in un progetto di “robot assistenziali” per sostituire gli umani nella cura delle persone bisognose. In Australia, si usa l’automazione per sospendere, senza preavviso, i sussidi sociali. In India  è stato introdotto un sistema di riconoscimento biometrico per l’erogazione delle razioni di sussistenza alimentare.

Questi sono solo alcuni esempi delle distorsioni derivanti da un uso sconsiderato delle tecnologie e dell’automazione governata da algoritmi e senza la supervisione dell’uomo.

d) Il primato del diritto sul codice informatico: code is not law

A tal riguardo è di particolare interesse la sentenza N. 10964/2019 del TAR Lazio. Secondo il TAR, sul solco già tracciato precedentemente dal Consiglio di Stato, in materia di procedimento amministrativo l’intervento umano è necessario e non potrà mai essere completamente sostituito dal sistema automatizzato.

Il meccanismo informatico o matematico è infatti del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa.

Alle procedure informatiche va riservato quindi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo, alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale.

Le decisioni della giustizia amministrativa italiana sono di fondamentale importanza perché riaffermano il primato dell’uomo e di una delle sue più sofisticate ed evolute creazioni, il diritto. Se ne sentiva il bisogno ma bisogna restare vigili.

e) Proposta

Occorre una regolamentazione dell’uso delle tecnologie digitali, compresi i sistemi esperti digitali - impropriamente definiti come intelligenza artificiale – da intendersi esclusivamente come ausilio all’intervento dell’uomo, per garantire il rispetto dei diritti fondamentali e un ripensamento dei modi positivi in cui lo stato sociale digitale possa divenire uno strumento potente per il raggiungimento di un effettivo miglioramento dei sistemi di protezione.

 

f) Azioni concrete per una evoluzione digitale

La stragrande maggioranza delle connessioni in rete avviene tra macchine. In Internet l’umanità è ormai minoranza. Con l’introduzione delle tecnologie 5g questo fenomeno si manifesterà in maniera ancor più evidente. Oggi le macchine acquisiscono dati sulle nostre abitudini, sui nostri gusti, sulle nostre attività e suggeriscono ciò che secondo i propri algoritmi informatici dovrebbe piacerci. Se acquisti un libro in una piattaforma online poi la macchina te ne suggerirà altri che potrebbero interessarti; lo stesso accade se guardi un film su un sito di streaming, subito dopo, senza soluzione di continuità te ne verrà proposto un altro che potrebbe piacerti. Questi sistemi, sebbene apparentemente utili, possono limitare l’autonomia e la libertà di scelta da parte dell’uomo. Quella su come dovrà l’essere umano rapportarsi a questi cambiamenti rappresenta una sfida evolutiva. Come vivere nell’infosfera senza subire limitazioni al proprio agire ed al proprio pensare ? Potrà l’essere umano ancora governare la macchina o ne diventerà dipendente e schiavo ?

La risposta a questi quesiti passa attraverso il nodo della centralizzazione delle piattaforme informatiche.

Il fenomeno al quale assistiamo oggi è la presenza di grandi piattaforme informatiche monopolistiche o semi monopolistiche con enormi poteri di influenza su cosa vediamo, con chi interagiamo, quali sono i nostri gusti, qual è il nostro orientamento politico e religioso. Questo potere di influenza può trasformarsi in un perverso e pericolosissimo sistema di manipolazione di massa del quale - chi più, chi meno – siamo tutti vittime.

Siamo soggetti a processi decisionali automatizzati, erroneamente definiti dai comunicatori come “intelligenza artificiale”, che funzionano come una scatola nera senza alcuna trasparenza nei meccanismi di funzionamento.

Il controllo delle grandi piattaforme è in mano a pochi soggetti privati che acquisiscono e conservano tutti i dati che passano attraverso le proprie reti, producendo profitti immensi e con una bassa responsabilità sociale. Quello che è stato creato negli ultimi trent’anni è un ecosistema orientato al profitto, al monopolio ed all’omologazione, dove passano ormai tutte le interazioni tra gli esseri umani.

Una via progressista per cambiare questo stato di fatto e per consentire a tutti di usufruire degli indubbi e grandissimi vantaggi delle tecnologie avanzate digitali è quella della trasparenza dei protocolli informatici, della conoscibilità del codice informatico e degli algoritmi, della decentralizzazione delle piattaforme utilizzando sistemi federati che siano orizzontali e non verticali.

E’ necessario promuovere le innovazioni per il bene comune in un ecosistema possibilmente autogestito o gestito da piccole collettività che si trovino in rapporto paritario e mai verticistico tra loro. Un sistema in cui anche l’iniziativa imprenditoriale sia distribuita e socialmente responsabile attraverso l’uso di tecnologie ed energia il più possibile pulite.

E’ di strategica importanza una governance positiva e forte del settore pubblico nella creazione e condivisione di conoscenza, creatività, ricerca, sviluppo e innovazione, a beneficio di tutta la società. Le tecnologie digitali avanzate possono creare grandi opportunità se orientate alla promozione di iniziative che abbiano un approccio comunitario e cooperativo.

Il cittadino da utente, consumatore o prodotto, deve diventare agente consapevole. Le persone devono riacquistare il potere ed affermare il proprio imprescindibile ruolo di soggetti attivi e mai passivi nella progettazione, nella costruzione e nella fruizione della tecnologia. Solo in questa maniera l’essere umano potrà evitare di soccombere nella grande lotta con la macchina dalla quale risulterebbe sopraffatto ed infine inesorabilmente schiavo, come nei peggiori scenari della fantascienza distopica.

Il ruolo dell’Unione Europea in questo processo è fondamentale.

In primo luogo occorre rafforzare la tutela dei dati personali correttamente elevati dal GDPR ben al di sopra del mero concetto di riservatezza. Il dato personale attiene all’essere umano. Nell’infosfera il dato è paragonabile ad una porzione del corpo umano e la sua tutela ed inviolabilità appartiene al rango più elevato del complesso dei diritti fondamentali.

Occorre limitare l’impatto negativo dei monopoli delle piattaforme e dell’automazione, utilizzando anche la lotta all’evasione ed all’elusione fiscale dei grandi operatori internazionali.

Le piattaforme informatiche e i formati elettronici devono essere interoperabili; i dati devono poter essere esportati da una piattaforma all’altra senza limitazioni.

I processi decisionali automatizzati attraverso l’uso di algoritmi informatici devono essere democratizzati, intellegibili ed a codice aperto.

Occorre potenziare e rendere più facilmente fruibili le basi comuni di dati acquisiti e trattati dalla pubblica amministrazione, che devono diventare vero e proprio bene comune di tutti i cittadini.

Devono essere incentivate e sviluppate le piattaforme cooperative decentralizzate che abbiano sin dalla progettazione una distribuzione orizzontale e non verticistica, attraverso protocolli che consentano l’interconnessione federata.

L’uso della crittografia nello scambio di informazioni sulle reti telematiche deve essere incentivato e non ostacolato sulla base di presunte esigenze securitarie.

Lo Stato deve utilizzare e contribuire fattivamente con i propri mezzi e ed il proprio personale allo sviluppo di software a codice aperto, restituendo in questo modo alla collettività programmi per elaboratore più sicuri e trasparenti, liberandosi dai vincoli delle multinazionali con ovvi ritorni positivi anche in termini di sicurezza nazionale.

La tecnologia deve essere utilizzata per consentire la più ampia partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli, anche quelli delle decisioni economiche, affiancando e coadiuvando ma senza sostituire la rappresentanza parlamentare nelle assemblee legislative.

 

g) L’uso degli algoritmi nel procedimento amministrativo ed open source nella PA

Il Consiglio di Stato sez. VI, con sentenza n.2270 dell’8 aprile 2019 ha affermato il principio secondo il quale in primo luogo, come già messo in luce dalla dottrina più autorevole, il meccanismo attraverso cui si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. In secondo luogo, la regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo.

L’utilizzo di procedure “robotizzate” non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa.

Difatti, la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva.

Questa regola algoritmica, quindi:

  • possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale, come si è detto, deve soggiacere ai principi generali dell’attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza (art. 1 l. 241/90), di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.;
  • non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l’elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili (e ciò la rende in parte diversa da molte regole amministrative generali); la discrezionalità amministrativa, se senz’altro non può essere demandata al software, è quindi da rintracciarsi al momento dell’elaborazione dello strumento digitale;
  • vede sempre la necessità che sia l’amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell’algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning);
  • deve contemplare la possibilità che – come è stato autorevolmente affermato – sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano’, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”.

In definitiva, dunque, l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico“.

Successivamente, la Sezione Terza bis del TAR Lazio con sentenza in forma breve N. 10964/2019, ha fissato un ulteriore importante principio di diritto in materia di uso dell’algoritmo informatico all’interno del procedimento amministrativo, affermando che non si può demandare allo strumento informatico lo svolgimento dell’intero procedimento amministrativo. In mancanza dell’intervento dell’uomo nel procedimento amministrativo, viene a mancare secondo il TAR una vera e propria attività amministrativa. Il meccanismo informatico o matematico è infatti del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa. Un algoritmo, motiva la il TAR, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6,7,8,9,10 della legge 7.8.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario. Ed ancora, gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost.

E’ pertanto necessario ed insostituibile l’intervento umano che non potrà mai essere completamente sostituito dal sistema automatizzato. Alle procedure informatiche va riservato un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

Demandare ad un impersonale algoritmo lo svolgimento dell’intero procedimento amministrativo (esempio tipico è quello delle procedure di assegnazione dei docenti alle sedi disponibili nell’organico dell’autonomia della scuola) rappresenta una fattispecie in cui manca una vera e propria attività amministrativa.

<<Un algoritmo, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6,7,8,9,10 della legge 7.8.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario>>.

Secondo il TAR <<gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale>>.

Le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento, deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

Con sentenza recentissima il TAR Lazio ha ribadito il concetto riconoscendo il diritto di accesso al codice sorgente del software relativo allo svolgimento della prova scritta del concorso per il reclutamento dei dirigenti scolastici bandito nel 2017 (sentenza n. 7372 del 30 giugno 2020). Il Ministero dell’Istruzione (che ha bandito la procedura) e il Cineca (che ha realizzato il software) devono ora consentire l’accesso all’algoritmo, attraverso la lettura del codice sorgente del software, in modo che alcuni dei soggetti che hanno partecipato alla procedura possano verificarlo.

L’affermazione di questi principi sacrosanti da parte della giustizia amministrativa richiederà alla pubblica amministrazione un miglioramento delle competenze informatiche da parte dei funzionari della pubblica amministrazione in un paese che purtroppo si trova in coda tra i paesi dell’Unione Europea nella classifica delle competenze digitali. Non sarà infatti più sufficiente attingere semplicemente ed acriticamente i dati elaborati dal programma informatico ma il funzionario pubblico  responsabile del procedimento, dovrà partecipare attivamente alla sua stesura e quindi alla definizione dell’algoritmo, inteso procedimento informatico che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui.

h) Proposta

In un contesto in cui è sempre più diffuso l’uso di software che gestiscono il procedimento amministrativo o alcune delle sue fasi in maniera automatizzata, è necessario vigilare affinché risultino rispettati i principi delineati dalla più avveduta giurisprudenza amministrativa (trasparenza dell’algoritmo e partecipazione umana al procedimento che non deve essere quindi totalmente automatizzato); di pari passo è necessario migliorare il livello di competenza informatica dei dipendenti della pubblica amministrazione - attraverso il ricorso a risorse interne ed organiche all’amministrazione stessa - nonché incentivare ed estendere l’uso di applicativi informatici a codice aperto.  

A tal riguardo si evidenzia che la pubblica amministrazione italiana è tenuta per legge a preferire software libero e/o a codice sorgente aperto, valutando i possibili benefici derivanti dall'azione di formati aperti. La direttiva Stanca del 2003, affermò esplicitamente l'adozione di soluzioni informatiche in grado di gestire almeno un formato aperto. Ai sensi dell’art. art. 68 della del Codice dell’Amministrazione Digitale esiste l'obbligo di effettuare "analisi comparativa di soluzioni" ad es. tra programmi a codice aperto ed a codice chiuso. Le Pubbliche amministrazioni hanno inoltre l’obbligo di pubblicare in open source tutto il proprio codice e di valutare software già esistente prima di realizzarne di nuovo (art. 69 CAD). In tale contesto normativo appare di difficile comprensione la recente decisione del Ministero dell’Istruzione di adottare la suite proprietaria ed a codice chiuso Office 365 della Microsoft come piattaforma di lavoro; allo stesso modo non si comprende il motivo per cui i programmi prescelti per le udienze da remoto nel processo civile e penale siano sempre a codice chiuso di proprietà della Microsoft. È necessario quindi richiedere l’accesso agli atti del procedimento amministrativo di adozione degli applicativi informatici della pubblica amministrazione al fine di verificare l’effettivo espletamento delle analisi comparative. Tali procedure comparative, ad esempio nel caso specifico della scuola e della giustizia, non possono fare a meno di considerare costi e benefici nonché i rischi potenziali in termini di trattamento dei dati personali.

 

14.                     DIRITTO PENALE

a) Premessa

L'esordio del nuovo governo Meloni non poteva essere più preoccupante.

A fronte delle vere e varie urgenze sociali, i primi provvedimenti del governo sono dedicati al diritto e alla procedura penale. Per di più si tratta di interventi dedicati a introdurre un nuovo reato, punito con pene sconsiderate; a ritardare l’entrata in vigore di una riforma, con il malcelato intento di rivederne le parti più garantiste; e a tentare di mantenere in vita, sotto sembianze dissimulate, l'ergastolo ostativo che da tempo la Corte Costituzionale ha chiesto al legislatore di abrogare. A dispetto delle prime dichiarazioni del Ministro della Giustizia il governo percorre, come sempre la destra ha fatto, la strada della criminalizzazione e della repressione come risposta ad ogni problema.

Certamente l’introduzione del reato di invasione arbitraria di edifici e terreni finalizzata a "raduni pericolosi" (dizione giuridicamente inedita, contemplando il nostro codice, fin qui, unicamente il reato contravvenzionale di "radunata sediziosa") è la previsione più pericolosa. Il diritto a riunirsi —in più di cinquanta persone, diritto fondamentale, individuale e sociale sancito dall'articolo 17 della Costituzione viene violentato, con la scusa dei rave party, e si prevedono fino a sei anni di carcere per chi lo promuove con diminuzione di pena, non quantificata, per chi vi partecipa.

Si stabilisce un minimo della pena così alto (tre anni) al solo fine di evitare che siano applicabili, non solo ai promotori del raduno, ma anche ai partecipanti, misure come la dichiarazione di tenuità del fatto. Si prevede addirittura la misura della sorveglianza speciale anche per il semplice partecipante al raduno. Non solo: la misura non necessita di una previa condanna definitiva, ma può essere proposta anche solamente sulla base di denunce e segnalazioni di PS, dal momento che la nuova fattispecie va ad ampliare il numero di quelle per cui è possibile l'applicazione delle misure di prevenzione personale, il cui abuso abbiamo più volte denunciato. E lo si fa quando il raduno «può» mettere in pericolo l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica, demandando prima alle forze di polizia e poi alla magistratura una inammissibile discrezionalità, che può agevolmente sfociare nell'arbitrio.

La norma, peraltro, consente la configurazione del reato e la relativa irrogazione della pena anche in caso di occupazione di scuole, università o fabbriche.

Anche il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia desta preoccupazione. Se il problema era quello di permettere una più ordinata transizione fra la vecchia e la nuova normativa, tutto si poteva risolvere con l’introduzione di qualche norma transitoria ad hoc. La riforma Cartabia contiene luci e ombre, ma il rinvio sembra preordinato a spegnere le luci e a mantenere in vita e aumentare le ombre.

Infine il governo, con vivo accanimento, cerca di prolungare l'esistenza dell’ergastolo ostativo con una normativa che nominalmente lo abroga, ma lo rende di fatto inevitabile, vista la quantità di ostacoli che vengono posti al suo superamento nel concreto. Il giusto e auspicabile contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa non può tradursi nell’inumanità della pena.

Se questo è l'inizio, cosa ci riserverà il prosieguo?

Come Giuristi Democratici non possiamo che confermare la nostra netta contrarietà all'introduzione di nuove norme penal-repressive, palesemente incostituzionali, e il nostro impegno a demistificarle e contrastarle in ogni sede, insieme a tutte le associazioni progressiste e democratiche, alle attiviste ed attivisti, alla società civile.

 

15.                     CRIMINI DI SISTEMA

Sono le violazioni dei diritti umani degli immigrati e i morti per fame causati dai poteri politici, economici e finanziari e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Leggi e pratiche sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti. Ottocento milioni non hanno né cibo né acqua, due miliardi non possono curarsi

Si propone di adottare una nozione di crimine assai più estesa di quella di crimini penali, qualificabili come tali solo se consistenti in offese e in eventi dannosi esattamente determinati e imputabili alla responsabilità di persone altrettanto determinate. Si tratta di colmare una lacuna presente nel nostro lessico teorico-giuridico, cioè di dare un nome a quell’altra classe di violazioni massicce di diritti e beni fondamentali stabiliti da carte costituzionali o internazionali e tuttavia non consistenti in atti individuali.

La proposta consiste nell’includere, nella nozione di «crimine», questa classe di violazioni giuridiche, non meno e anzi, di solito, assai più gravi: quelli che possiamo chiamare crimini di sistema, consistenti in aggressioni e violazioni dei diritti umani messe in atto, come si è detto, dall’esercizio incontrollato dei poteri globali – politici, economici e finanziari – e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Non si tratta, si badi, dei crimini dei potenti, che sono pur sempre crimini penali e la cui gravità e la cui frequente impunità sono state fatte oggetto d’indagine da un’ormai ampia letteratura di criminologia critica. E neppure si tratta dei crimini di Stato o dei crimini contro l’umanità, parimenti trattati dal diritto penale internazionale a seguito di quella grande conquista che è stata l’istituzione della Corte penale internazionale.

I crimini di sistema, consistendo in violazioni massicce dei diritti umani costituzionalmente stabiliti, sono sicuramente riconducibili alla fenomenologia dell’illecito giuridico. Non sono tuttavia illeciti penali, difettando di tutti gli elementi costitutivi del reato. I loro tratti distintivi, quelli che, volendo usare il linguaggio penalistico, possiamo chiamare i loro elementi costitutivi, sono due: il carattere indeterminato e indeterminabile sia dell’azione che dell’evento, di solito catastrofico, e il carattere pluri-soggettivo sia dei loro autori che delle loro vittime, consistenti di solito in popoli interi o, peggio, nell’intera umanità.

Prendiamo le leggi e le pratiche adottate in Italia, come in molti altri paesi, contro l’immigrazione clandestina. Ovviamente il diritto penale non potrà mai configurarle come delitti. Eppure leggi e pratiche di questo tipo sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti alle frontiere degli immigrati clandestini. Si tratta di molte migliaia di vittime, interamente rimosse dalla nostra coscienza: più di 30 mila persone negli ultimi 15 anni. È chiaro che questi eccidi non possono essere considerati come disastri naturali, bensì come crimini di sistema, benché non siano punibili come reati le politiche e le leggi che li hanno provocati. Solo così può svilupparsi la consapevolezza della loro contraddizione con tutti i nostri conclamati valori di civiltà e può maturare, nel senso comune e nel dibattito pubblico, la necessità di impedirne come illecita la commissione.
Lo stesso discorso può farsi per i milioni di morti ogni anno per fame, sete e malattie non curate e per le devastazioni ambientali. Oggi più di 800 milioni di persone soffrono la fame e la sete e circa 2 miliardi si ammalano senza la possibilità di curarsi. La conseguenza è che ogni anno muoiono circa 8 milioni di persone – 24 mila al giorno – in gran parte bambini, per la mancanza dell’acqua potabile e dell’alimentazione di base provocata da inquinamenti e carestie. Ancor più drammatica è la situazione della salute.

Alla base di questi crimini di sistema c’è un vuoto di diritto, ben più che di diritto penale, dovuto a molteplici fattori, tutti legati all’odierna globalizzazione della sola economia e al carattere ancora locale della politica e del diritto: l’assenza di una sfera pubblica all’altezza dei poteri economici e finanziari in grado di limitarne e controllarne l’esercizio; il conseguente ribaltamento del rapporto tra economia e politica, in forza del quale non è più la politica che governa l’economia, ma è l’economia che governa la politica, ovviamente a vantaggio dei soggetti economicamente più forti; il nesso infine tra l’impotenza della politica nei confronti dei poteri economici globali e la sua rinnovata onnipotenza, da questi imposta, nei confronti delle persone e in danno dei loro diritti costituzionalmente stabiliti.

Si è così prodotta un’abdicazione della politica al suo ruolo di governo dell’economia e di garanzia dei diritti sociali, che peraltro è stata favorita anche da talune aporie della democrazia, emerse anch’esse con l’odierna globalizzazione. Le democrazie rappresentative dei nostri paesi sono nate e restano tuttora ancorate agli Stati nazionali. Sono perciò vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali politiche all’altezza delle sfide e dei problemi globali.

C’è poi un’altra aporia che investe le nostre democrazie. Simultaneamente alla perdita di sovranità degli Stati, sostituita dalla sovranità di quei nuovi sovrani assoluti, invisibili e irresponsabili che sono i mercati, stanno prendendo il sopravvento, nei nostri paesi, movimenti populisti – euroscettici, xenofobi, sovranisti e nazionalisti – che mentre contestano demagogicamente quei nuovi sovrani globali, ne risultano di fatto i principali alleati dato che si oppongono alla sola politica che sarebbe in grado di fronteggiarli: la costruzione di una sfera pubblica alla loro altezza, quanto meno europea e in prospettiva globale, in grado di imporre loro regole, limiti e controlli. È invece precisamente questa la sola risposta razionale che la politica e il diritto possono offrire ai crimini di sistema e alla conseguente crisi delle nostre democrazie: lo sviluppo di una dimensione nuova e ormai inderogabile della sfera pubblica, del costituzionalismo e del garantismo, al di là dell’angusto localismo della politica delle democrazie nazionali: in primo luogo un costituzionalismo di diritto privato, cioè un sistema costituzionale di limiti, vincoli e controlli sopraordinato ai poteri privati, oltre che a quelli pubblici; in secondo luogo un costituzionalismo di diritto internazionale, all’altezza delle aggressioni planetarie all’ambiente – il riscaldamento climatico, l’inquinamento dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità – che richiedono l’introduzione di norme, controlli, funzioni e istituzioni di garanzia anch’esse di livello planetario.

È difficile prevedere se una simile espansione del costituzionalismo e della democrazia riuscirà a svilupparsi o se continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono però certe. La prima riguarda l’alternativa di fronte alla quale è posta l’umanità. Oggi o si va avanti nel processo costituente, dapprima europeo e poi globale, basato sulla garanzia della pace e dei diritti vitali di tutti, oppure si va indietro, ma indietro in maniera brutale e radicale. O si perviene all’integrazione costituzionale e all’unificazione politica dell’Europa, magari ad opera di un’Assemblea costituente europea, oppure si produce una disgregazione dell’Unione e un crollo delle nostre economie e delle nostre democrazie, a vantaggio dei tanti populismi che stanno crescendo in tutti i paesi europei.

La seconda cosa certa riguarda il carattere niente affatto utopistico, ma al contrario razionale e realistico del progetto costituzionale disegnato dalle tante carte dei diritti prodotte dal costituzionalismo novecentesco. C’è infatti una grande, positiva novità che è stata generata dalla necessità di proteggere i diritti e i beni fondamentali dai crimini di sistema e che consente una nota di ottimismo: l’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra, idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica come politica interna del mondo, basata sull’esistenza, per la prima volta nella storia, di un interesse pubblico e generale ben più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato.

 

16.                     CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

a)     Premessa

Anche in materia di violenza maschile contro le donne la legislazione italiana ha assunto da tempo il paradigma securitario quale orizzonte di intervento privilegiato non fosse altro che per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza e la retorica emergenzialista che oramai accompagna sistematicamente non solo le novelle che il legislatore sempre più frequentemente introduce in questo ambito, ma anche più ampiamente il corredo di politiche che fa da cornice al sistema degli interventi in materia di contrasto e prevenzione della violenza nonché protezione delle vittime.

È indubbio che in questi anni la “issue” della violenza contro le donne sia entrato a pieno titolo nell’agenda politica. Tale circostanza in buona misura attribuibile alla domanda politica che le donne a livello globale avanzano da decenni, è però in realtà anche l’esito di indefettibili obblighi internazionali che ci derivano dalla sottoscrizione di norme di più ampio respiro che riguardano specificamente la lotta alle discriminazioni nei confronti delle donne[67], ma anche più estesamente il codice internazionale dei diritti umani, e in particolare il diritto alla vita, il diritto a non subire tortura e/o trattamenti inumani, crudeli e degradanti, il diritto alla libertà personale e al rispetto della propria vita privata e familiare, cosi come a quello non essere ridotte in schiavitù e ovviamente ad un giusto processo[68]. Proprio all'inquadramento offerto dal diritto internazionale dei diritti umani già nel 1993 con l’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne si deve il riconoscimento della violenza come “manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Tale riconoscimento, nel tempo ripreso estesamente in una pluralità di atti, ha imposto al nostro decisore politico di non limitare l’intervento legislativo in materia di contrasto alla violenza degli uomini contro le donne alla previsione di fatti di reati più o meno severamente sanzionati bensì di operare per rimuovere le condizioni che sono sottese alla violenza ovvero le discriminazioni contro le donne basate sul genere. Ciò ha implicato la messa a punto di un corredo di dispositivi e di policies che sono culminate nella previsione all’art. 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» il quale prevede l'adozione di un «Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», al comma 2, lett. d) stabilisce di «potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza» e all'art. 5-bis tratta delle azioni per i centri antiviolenza e le case rifugio. 

Tale decreto inaugura perciò una stagione che avrebbe dovuto essere segnata da un impegno in materia di lotta alla violenza certamente caratterizzata da un’attenzione in chiave criminalizzante verso i reati di cui sono vittime le donne accompagnata però dalla previsione di misure e risorse atte da un lato a “liberarle” autenticamente dal flagello della violenza, dall’altro a sostanziare sul piano della retributività le stesse norme penali, poiché è chiaro che un fenomeno sociale di questa portata non lo si può sconfiggere lavorando su quella porzione di situazioni che emerge rispetto ad un sommerso che continua ad alimentarsi proprio sulla maggior esposizione alla vulnerabilità situazionale che molte donne vivono nel nostro contesto sociale segnato dalla persistenza di evidente situazioni discriminatorie.

Di fatto sulla scorta di quanto previsto dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 oggi il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023” presentato in Consiglio dei ministri nel novembre 2021, previo parere espresso dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni che, in continuità con il precedente 2017-2020 costituisce la cornice di riferimento per il sistema degli interventi in materia di violenza e si articola in 4 assi (Prevenzione, Protezione e sostegno, Perseguire e punire, assistenza e Promozione) in analogia alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica adottata a Istanbul l'11 maggio 2011di Istanbul e ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77. Il Piano è a sua volta integrato dall’Intesa Stato-Regioni, che modifica la precedente n. 146/CU del 27 novembre 2014, relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio determinando criteri stringenti in merito al livello di specializzazione di tutti i soggetti (siano essi associazioni o enti pubblici e locali) che concretamente erogano i servizi, uniformando a livello nazionale i requisiti minimi per accedere alle risorse finanziarie e valorizzando il “lavoro in rete” svolto dai Centri antiviolenza all’interno di un sistema di risposta alla violenza coordinato a livello territoriale.

In realtà i vari interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni, a partire dalla normativa sul “femminicidio” introdotta-significativamente- nel decreto sicurezza omnibus del 2013 (Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119), che, ricordiamolo, conteneva anche norme penali in materia di cantieri (Tav), protezione civile ed altro, ci si è prioritariamente (se non esclusivamente) preoccupati di agire in termini di inasprimento delle pene.

Siamo giunti, nel 2019, al cosiddetto “Codice Rosso” (Legge 19 luglio 2019, n. 69), dispositivo sostanzialmente caratterizzato dalla previsione di criteri di priorità di intervento e trattazione dei procedimenti in materia di violenza sulle donne, di nuove fattispecie di reato, aggravanti e aggravamenti di pena, integrate da una serie di modifiche in materia di misure cautelari, di prevenzione ed esecuzione pena .

Il tutto stando a quanto previsto nelle norme apparentemente a costo zero: l’art. 21 (clausola di invarianza finanziaria) dispone espressamente che l’attuazione delle norme non deve comportare alcun onere aggiuntivo per la finanza pubblica, e che “Le amministrazioni interessate provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”. In sostanza, pene più severe, ed è noto a tutti il fatto che il sistema sanzionatorio comporti dei costi rilevanti in realtà, senza che a queste corrispondano servizi di sostegno per le donne più adeguatamente supportati sul piano economico, anche in considerazione del fatto che, proteggere le donne significa tra le tante cose prevenire reiterazioni delle condotte violente e perciò comunque oneri ulteriori a carico del sistema della giustizia e che in questi anni il numero di vittime che a diverso titolo chiede aiuto ai Centri antiviolenza e alle istituzioni è notevolmente aumentato.

I risultati sono assolutamente evidenti. I dati statistici sui reati violenti in Italia attestano “l’invarianza” numerica di quelli commessi contro le donne in ambito domestico-affettivo, a fronte di un calo complessivo dei restanti. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero dell’Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza- gli omicidi volontari, anche nel 2022, confermano la tendenza già rilevata gli anni immediatamente precedenti (309 complessivi, numero che attesta una netta e costante discesa- dagli oltre 600 del 2007, 536 del 2012 e tenendo conto che nel 1990 se ne contavano 3012); il numero degli assassinii con vittime di sesso femminile resta tuttavia invariato (122), anzi leggermente superiore a quello degli anni precedenti, con prevalente collocazione in ambito familiare-affettivo (100 su 122). In altre parole, più di 1/3 degli omicidi volontari commessi in Italia avviene al di fuori di “contesti criminali”, nei confronti di donne, prevalentemente in famiglia o comunque ad opera di mariti, fidanzati ed ex partner.

Nell’analisi annuale del Ministero dell’Interno viene registrata una diminuzione percentuale di due dei cd. reati spia sulla violenza contro le donne, ovvero lo stalking (- 10,3%) ed i maltrattamenti in famiglia (-3,9%), dato che certamente risente del confronto con le percentuali vertiginose di aumento del 2021 (in periodo “lockdown”, che aveva visto aumenti dell’11,8% per il reato di atti persecutori e del 9,3% per quello di maltrattamenti). E’ invece aumentato, rispetto al 2021, il numero dei reati di violenza sessuale denunciati.

C’è un ulteriore elemento che attesta, se necessario, la particolarità, in negativo, della sottoposizione alla violenza in base al genere: anche i reati commessi in danno dei minori vedono ragazze e bambine come vittime in percentuale maggioritaria per quasi tutte le tipologie considerate.

Non solo: le relazioni in materia di applicazione giudiziale delle normative introdotte su “violenza di genere e domestica”[69] danno atto di un grave deficit di preparazione, in termini sia iniziativa che di concreto supporto in sede giudiziaria nella maggior parte delle Procure e dei Tribunali.

Nel rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta leggiamo, quanto ai magistrati inquirenti: “Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare nel 2018 la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22 per cento del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati”.

Quanto ai CTU (sempre in sede penale): “Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori e, in primis, il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica. Il 25 per cento delle procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso”.

Ancor peggio il rapporto descrive la situazione in essere nel settore civile: “Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.”

Nel 95 per cento dei tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il giudice dispone una CTU nella materia”. “Il 95 per cento (124 su 130) dei tribunali non è in condizione di indicare in quante cause il giudice abbia disposto una CTU. Solo nel 29 per cento (38 su 130) dei tribunali i giudici civili fanno ricorso a un quesito standard nella nomina del CTU e solo un terzo dei pochi che ne fanno uso lo ha elaborato con il contributo di figure professionali competenti in materia[70]

Ci soffermiamo sul tema CTU, perché, come notorio, le decisioni giudiziali in materia di famiglia, ed in particolare di affidamento dei minori, si fondano spesso sui pareri espressi dalle relazioni dei consulenti o dei Servizi incaricati di investigare sulle “capacità genitoriali” dei coniugi separandi/divorziandi.

Questi mezzi di prova, che notoriamente quasi sempre sono decisivi sull’esito del procedimento (se non direttamente trascritti in sentenza), scontano un’impostazione “familistica” che troppo spesso prescinde ed allontana il tema della violenza riducendolo frequentemente a normale conflittualità di coppia e cosi occultando la dimensione di potere che invece connota la violenza degli uomini sulle donne. L’assunto di partenza, quello della bigenitorialità, continua ad avere assoluta prevalenza su ogni tipo di diversa esigenza e rappresentazione, violenza domestica inclusa. Così non è raro trovare casi in cui placidamente il CTU (o i Servizi Sociali) affermano la necessità che il padre violento-maltrattante mantenga (o addirittura stabilisca-ristabilisca, ove interrotto da misure cautelari di allontanamento dalla casa familiare e/o divieto di avvicinamento) il rapporto con i figli minori, persino in casi di cd. “violenza assistita”.  È evidente che tale orientamento sottende la non volontà di assumere il disvalore che connota queste condotte come scriminante rispetto alla relazione con i figli. Peraltro sul piano pratico si traduce nella non interruzione dei rapporti tra la donna maltrattata e l’autore di reato. Si tratta di una condizione, che anche nelle circostanze in cui non si traduca in pericolo per la madre dei figli, è comunque dolorosa e pesante da affrontare e spesso viene vissuta come l’assenza di riconoscimento del torto subito.

Non si tratta di casi isolati e sporadici, ma di una prassi purtroppo abbastanza consolidata nei Tribunali civili e minorili  di tutto il paese, come attestano recenti studi sul tema. Per tutti, citiamo la recente pubblicazione del testo “Senza madre- storie di figli sottratti dallo Stato”, autrici varie, che affronta il tema del distacco forzato dalla figura materna “colpevole” spesso solo di non essere in grado di imporre al figlio o alla figlia la frequentazione di un padre da loro rifiutato.  Per un certo periodo, è invalsa persino la teoria della cd. “Sindrome da alienazione genitoriale” (Pas), e della “madre malevola” (MMS) fortunatamente non accolte nel novero delle “patologie scientificamente riconosciute”; ne hanno fatto le spese però moltissime donne (anche vittime di violenza) a cui i figli/le figlie sono stati sottratti, a volte con veri e propri interventi militari, ed affidati per lo più a case-famiglia (ma in alcuni casi persino all’altro genitore o a suoi familiari). 

Sul punto, la Cassazione è intervenuta negli ultimi anni con provvedimenti significativi, placando il ricorso straripante a dette teorie che ha però purtroppo dilagato e convinto buona parte dei magistrati e delle magistrate per svariati anni (e tuttora residua manifestamente nel retropensiero di molte decisioni in materia di famiglia), quasi come contraltare alla politica di risposta penalistica alla violenza domestica. Non sono mancati casi incredibili, in cui al padre condannato per maltrattamenti in famiglia è stato addirittura affidato il figlio minore, preferendolo alla collocazione presso la madre. Ma, al di là delle decisioni veramente fuori norma, il punto è che il criterio della perfetta bigenitorialità comunque viene generalmente adottato e considerato prevalente nella maggior parte delle CTU, delle relazioni dei Servizi Sociali e conseguentemente nelle sentenze civili in materia di affidamento dei minori, indipendentemente e nonostante la violenza imperante nel nucleo familiare. Il padre è il padre “a prescindere” è il principio con cui si devono purtroppo confrontare le donne in sede giudiziale. Ma è un principio che è necessario superare e ribaltare, laddove non corrisponda ad alcuna esigenza del minore, o peggio, vi contrasti. E su questo punto si gioca un pezzo importante della relazione tra le donne vittime di violenza e l’accesso concreto ai percorsi di giustiziabilità dei diritti umani posti gravemente a pregiudizio in queste circostanze.

In questo senso, l’ordinanza 9691/22 della Corte di Cassazione (che ha annullato la revoca della postestà genitoriale a Laura Massaro, ritenuta da CTU e magistrati madre abusante-alienante) ha affermato che “…che il diritto alla bigenitorialità disciplinato dalle norme codicistiche è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore: il diritto  del singolo  genitore  a realizzare  e consolidare  relazioni e rapporti continuativi e significativi con il figlio minore presuppone il suo perseguimento nel miglior interesse di quest'ultimo, e assume carattere recessivo se ciò non sia garantito nella fattispecie concreta”. Non si tratta, nel caso, di una vicenda caratterizzata da violenza domestica, ed ovviamente la decisione riafferma e ripercorre la giurisprudenza interna ed europea in materia di diritto del minore ad un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, condividendola in toto.

Laddove il principio sopra richiamato venga correttamente applicato in procedimenti contenziosi in sede civile in cui la violenza in famiglia è elemento serio e abituale le conseguenze potrebbero e dovrebbero essere ben diverse da quelle a cui le Sezioni Famiglia dei Tribunali ci hanno abituato.

In altre parole, il principio della bigenitorialità, in sé corretto ed auspicabile, non può diventare una spada di Damocle tesa sulla testa donne vittime di violenza, costrette ad affrontare percorsi di mediazione o ancor peggio a frequentare in ragione della presenza di figli minori padri-mariti-compagni violenti.

Soprattutto, è necessario ragionare e proporre un sistema articolato e non giudicante che riesca a garantire alle donne, nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, di non essere condannate a relazionarsi con il marito/compagno violento, in ragione della presenza di figli minori.

Un primo passaggio potrebbe essere garantito da un’integrazione alla normativa sulle misure cautelari (allontanamento dalla casa familiare e divieto di avvicinamento, ed, a maggior ragione, in caso di adozione di misure più gravi e restrittive della libertà personale) che autorizzi la donna persona offesa ad esercitare la responsabilità genitoriale sui figli minori indipendentemente dal consenso dell’altro genitore, senza dover ricorrere al procedimento civile per farsi autorizzare all’iscrizione/trasferimento scolastico (problema molto frequente nei casi di donne accolte in protezione che ovviamente hanno necessità di non far conoscere al maltrattante la loro posizione e quella dei figli).

 

Tornando alla risposta penalistica sul tema, come si diceva sopra, il problema più rilevante e sostanziale rimane quello dello squilibrio di potere, che permane, tra donne e uomini e che non sembra essere contrastato in alcun modo in questo momento se si osservano alcune tendenze che la società esprime sia sul piano degli interventi in direzione di un’affermazione più concreta del paradigma dell’eguaglianza, sia sul versante del riconoscimento del disvalore di tutta una serie di condotte abusanti non di rado intrise di razzismo e xenofobia oltre che di marcato sessismo.

È infatti sotto questo profilo che il sistema di tutela delle donne dalla violenza resta indubbiamente ed estremamente carente, garantendo (nei limiti dei bilanci assai contenuti di cui possono disporre i centri antiviolenza) al massimo (e non sempre) la risposta emergenziale.

Le difficoltà in cui opera chiunque si occupi di violenza nelle relazioni intime sono soprattutto legate alla mancanza di risorse, soprattutto nella parte di intervento che spetta ai Servizi Sociali, che è poi fondamentalmente quella che attiene alla possibilità per le donne di avviare un percorso di autonomia, a partire dalla possibilità alloggiativa indipendente (e, nei casi più importanti, possibilmente distante dal partner violento) per proseguire con la tematica più generale del lavoro e del reddito.

E queste difficoltà diventano sempre più significative ed irrisolvibili in conseguenza delle “restrizioni” imposte ai bilanci degli enti locali, le cui risorse diventano sempre più scarse proprio in relazione agli interventi sociali in generale. Non vogliamo neanche pensare a cosa comporterà l’applicazione della cd. “autonomia differenziata”.

Aggiungiamo che alla ristrettezza degli stanziamenti economici ai Centri Anti Violenza vanno aggiunti gli oneri ulteriori posti a carico delle strutture nel recente “protocollo Stato Regioni”

b)    Incentivare l’autonomia

Quanto sin qui esposto ha un’incidenza ben più rilevante nei casi in cui la donna che chiede supporto giudiziale e non nel percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica sia straniera, e tanto più se proveniente da nucleo familiare composto da stranieri (extra Ue).

In ambito giudiziale, ed in particolare sull’azionabilità dei diritti, rinviamo integralmente a un testo recentemente elaborato in collaborazione tra l’Università di Padova- Centro per i Diritti Umani Antonio Papisca e l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione, “Donne straniere diritti umani e questioni di genere”, liberamente scaricabile e reperibile al link https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2022/10/Volume-Completo-Donne-straniere -e, in particolare, per quanto attiene all’azionabilità dei diritti, alla seconda parte del volume.

 Le difficoltà che si manifestano quotidianamente nell’attività di supporto alle donne vittime di violenza (con maggiore difficoltà se straniere) riguardano ovviamente il tema abitativo e reddituale. Le poche misure di sostegno che sono state sin qui adottate (il cd. “reddito di libertà” di cui al DPCM del 17 dicembre 2020, consistente nell’erogazione di € 400 mensili per un massimo di 12 mensilità) ha ricevuto per il periodo 2020-2022 un finanziamento complessivo di 12 milioni di euro, con il risultato che, nel primo anno di applicazione, ne hanno potuto fruire 600 donne (su un totale di oltre 3200 domande presentate). Per il 2023 lo stanziamento statale contenuto nella legge di bilancio è di 1.850.000 euro (sic!)

In ambito lavorativo- di supporto alla ricerca di occupazione- dal 2015 al 2022 l’importo complessivamente erogato da Stato e Regioni è stimato in 157 milioni di euro, di cui 20 milioni per sostegno al reddito (“reddito di libertà” -inclusi i finanziamenti aggiuntivi stanziati dalle Regioni Sardegna, Puglia e Lazio), 124 milioni per il supporto occupazionale (congedi indennizzati, orientamento e tutoraggio, misure inserimento-tirocini, borse lavoro, formazione, incentivi all’assunzione, crediti per autoimprenditorialità), 12 milioni di euro (tra Stato e Regioni) per autonomia abitativa (sussidi per caparre, fitti, utenze). Il che corrisponde, sostanzialmente, ad un sostegno economico calcolato in € 54 al mese per ogni donna assistita dai centri antiviolenza in condizione di non autonomia economica.

È un dato estremamente crudo e significativo, che fa comprendere la necessità ineludibile di un cambio di passo. Vien da dire: meno norme penali e più soldi per uscire dalla violenza.

c)     Misure cautelari: proposte

In attesa del prossimo “inasprimento pene” anticipato nel discorso pubblico come necessario a seguito degli ultimi femminicidi avvenuti prima dell’estate 2023 e più ampiamente degli adattamenti che a breve il legislatore interno dovrà apportare per dare spazio al recepimento dell’attuale dratf di Direttiva[71] in materia rispetto alla quale il Consiglio ha recentemente avviato i negoziati con il Parlamento europeo, dopo che quest’ultimo ha approvato la relazione senza votazione, in linea con il suo regolamento interno[72], ci permettiamo qualche appunto sulla normativa esistente e qualche suggerimento-proposta.

Le disposizioni in materia di allontanamento dalla casa familiare (art 282 bis c.p.p.) consentono al PM, nel caso che l’esecuzione della misura venga a privare le persone conviventi (NB, la disposizione parla di conviventi, indipendentemente dallo stato di coniugio o meno, e non solo in caso di presenza di figli) dei mezzi di sostentamento, di richiedere l’imposizione di un assegno di mantenimento a carico del maltrattante. È una disposizione importante, come immediatamente comprensibile, per garantire alle vittime di violenza in famiglia l’indispensabile alla sopravvivenza propria e dei figli; statisticamente parlando, però, è una disposizione sottoutilizzata, e che ovviamente importa un carico aggiuntivo di indagini e valutazioni (sulla situazione economica delle parti) che le Procure spesso omettono se non esplicitamente sollecitate. Il suggerimento, sul punto, è quello di fornire, ove possibile, in sede di querela o con istanza ad hoc anche successiva, i dati reddituali che consentano la comparazione. La proposta è quella di lavorare ad una modifica dell’art. 282 bis c.p.p. che renda obbligatoria-e non eventuale - l’indagine patrimoniale e la valutazione sulla necessità di stabilire un contributo al mantenimento del nucleo familiare a carico del maltrattante sottoposto alla misura dell’allontanamento dalla casa familiare, anche non contestualmente all’esecuzione della misura (che ovviamente ha carattere di urgenza ed indifferibilità a tutela della vita e della salute delle donne) e che estenda esplicitamente la disposizione in esame alle diverse misure eventualmente adottabili (essendo purtroppo diffusa l’opinione che tale possibilità non sia data, ad esempio, in caso di divieto di avvicinamento ex art 283 ter cpp).

Sempre in tema di misure cautelari, va ancora registrata una carenza che può comportare, in relazione alla particolarità delle situazioni delle violenze in famiglia, gravi rischi per le donne: la normativa non prevede espressamente che la p.o. venga notiziata (e conseguentemente che possa intervenire) dell’eventuale richiesta di riesame avverso l’ordinanza cautelare. Spesso, quindi, le donne p.o. non ne vengono affatto notiziate. Ebbene, se al limite si può discutere sulla possibilità dell’intervento della persona offesa (ex art 299 cpp) in sede di riesame, certamente la non conoscibilità della richiesta di riesame e dei provvedimenti e modifiche che eventualmente ne derivino è intuitivamente un rischio a cui una donna vittima di violenza nelle relazioni intime e familiari non può e non deve essere sottoposta. In questo senso è quindi indubbiamente necessaria un’integrazione normativa che imponga espressamente quanto meno la notifica alla p.o. dell’istanza di riesame e della decisione che ne deriva, analogamente a quanto disposto dai commi 3 e 4 bis dell’art. 299 cpp. La previsione di una misura in tal senso appare si essere urgente, in ragione di esigenze autentiche di tutela delle persone offese di reato, ovvero delle donne!!!

Aggiungiamo qui, rinviando alla lettura dell’elaborato “sull’azionabilità dei diritti umani delle donne straniere vittime di violenza. Criticità in ambito penale” (pubblicato nel testo “Donne straniere diritti umani questioni di genere” già sopra citato e liberamente scaricabile online), che il tema della traduzione dei provvedimenti- quanto meno per estratto- anche nei casi di persone offese straniere diventa sempre più importante, a fronte dell’incremento della popolazione straniera, e soprattutto in ragione della povertà culturale a cui moltissime donne sono condannate da usanze familiari segreganti/isolanti, che non consentono conoscenza delle procedure, dei propri diritti e spesso anche della lingua italiana. E’ anche una questione di democrazia!!!

Ed ancora, va ricordato che nel novero delle ipotesi di reato previste dall’art 76 comma 4 ter del DPR 115/02, che consente l’ammissione al patrocinio a spese dello stato indipendentemente dai limiti di reddito per tutta una serie di reati tipicamente commessi in danno delle donne  (maltrattamenti, stalking, violenza sessuale, mutilazione sessuale) non è ricompreso, per assurdo, il reato più grave, ovvero il femminicidio, se non in favore degli orfani. In altre parole, la donna che riesca a scampare al tentativo di ucciderla, non rientra tra i soggetti destinatari della disposizione di cui si è detto. Pare evidente la necessità di includere tra i reati previsti dall’art 76 comma 4 ter DPR 115/02 quanto meno il tentato omicidio, ove aggravato ai sensi dell’art 577 n. 1 c.p. (in realtà, in presenza di tale aggravante, il beneficio sarebbe logicamente estensibile anche alle ipotesi di reato meno gravi)

d)    I disegni di legge oggi in discussione

Concludiamo con brevissimi cenni sui disegni di legge oggi in discussione: il disegno di legge governativo (C.1294), quello dei deputati del PD (C. 1245), quello del Mov. 5 Stelle (Ascari e altri C.603), quello targato Italia Viva (Bonetti e altri C. 439).

Al di là dei proclami e inasprimenti delle misure “preventive” (in buona sostanza, l’incremento-forse- dell’utilizzo dei braccialetti elettronici e delle sanzioni conseguenti alla loro manomissione e distruzione, e l’introduzione di misure di prevenzione-sorveglianza speciale), e ferma restando la caratteristica di “invarianza finanziaria”= mancato investimento di risorse, l’aspetto che lascia più interdetti della disciplina “innovativa” (tra l’altro comune anche alla proposta dei deputati PD) è l’estensione del procedimento per ammonimento introdotto in relazione allo stalking al campo largo dei cd. “reati spia” della violenza. Davvero questa previsione è di difficile comprensione, per chi si occupa di violenza e ne conosce la ricorrenza delle dinamiche che la connotano sul piano fattuale.

Senza entrare specificamente nel merito delle singole disposizioni ancora in discussione, ci pare doveroso sottolineare che l’estensione del procedimento “monitorio” presenta (almeno) due evidenti problematicità: l’una, rappresentata dalla procedibilità indipendentemente dalla volontà/segnalazione/querela della donna (e ciò che questo può comportare in una situazione di convivenza o comunque di relazione in corso, in termini di sicurezza e protezione); l’altra, la realistica possibilità che tale procedura venga utilizzata “in sostituzione” dell’azione giudiziale, stante la natura delle condotte indicate (lesioni, violenza privata, minaccia, stalking, revenge porn, violazione di domicilio, danneggiamento), che sono poi quelle abitualmente presenti nella fenomenologia della violenza contro le donne.

 

e)     I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia

 

I procedimenti che riguardano   la famiglia e le persone , il modo in cui vengono gestiti  dai Tribunale  ma anche dai Difensori  delle parti , il contenuto degli atti processuali , il linguaggio usato ed infine  le decisioni prese consentono di comprendere  non solo quali siano gli orientamenti  giurisprudenziali ma anche quale sia lo “stato” del nostro Paese , come vengano intese le relazioni personali e soprattutto  se vi sia una autentica sensibilità ed una efficace attenzione e rispetto alle differenza di genere ed a quelle situazioni  in cui vi debba  essere  tutela per  donne vittime di violenza .

In tal senso appare utile esaminare i “cd Protocolli” di cui molti Tribunali si sono dotati nel tempo. Va premesso che si deve criticare l’uso dei singoli magistrati di uniformarsi in un automatico a tali protocolli, semplificando ed appiattando le diverse situazioni, tanto da far ritenere che i protocolli stessi rappresentino ben più che una generale linea di indirizzo, e si trasformino nel pretesto per semplificare situazioni  molto  complesse,  imponendo    un modello regolamentativo  eccessivamente  schematico per definire relazioni intime,  rapporti personali e condizioni  economiche  e patrimoniali  che richiederebbero   maggior  tempo e una attenzione  più puntale  rispetto a quanto viene  loro purtroppo dedicato ordinariamente,

Tanto premesso il primo dato che emerge  è  che non tutti i Tribunali italiani  hanno deciso di dotarsi di un Protocollo  o di linee guida (come hanno  deciso  di qualificarla  taluni) , e che alcuni si limitano a trattare solo alcuni argomenti specifici  .

Si consideri ad esempio, in via del tutto esemplificativa,  che Frosinone , Rieti , Roma , Napoli, Benevento e Chieti si sono dotati di un Protocollo unicamente  in relazione alla determinazione del contributo nel mantenimento dei figli e analogamente  hanno fatto Pescara e Teramo. Matera ha invece linee guida che riguardano la classificazione   delle  spese  ordinarie e straordinarie e così pure Torino.

In Sardegna e nella intera Regione  non troviamo riferimento alla adozione  di Protocolli , Genova dispone di un suo protocollo che attiene però unicamente  alla individuazione delle spese extra. Questa prima disamina , di certo parziale seppure significativa, consente di affermare  che l’attenzione primaria viene dedicata alla complessa matassa delle questioni economiche   nei rapporti tra le parti .

Solo in via di osservazione generale va rilevato come non vi sia differenza nella loro regolamentazione  tra procedimenti di separazione e  giudizi di scioglimento del vincolo , tra giudizi già definiti ed altri invece da decidere.

Se un tempo si poteva forse ritenere che la conflittualità e ancor peggio che una relazione connotata da violenza, riguardassero  solo la prima fase, le prime iniziative  avanti la autorità  Giudiziaria (quindi correlata prevalentemente alla separazione), sappiamo oggi che purtroppo non è più così e che in  corso del procedimento non si assiste più ad un acquietamento nelle relazioni ma che al contrario  ad una distorsione dei rapporti continuano ad essere, non bilanciati o ancor  peggio molesti, violenti o maltrattanti, non definiti neppure dalla conclusione  del giudizio, di certo non bonificati.

Possiamo allora ipotizzare che a mantenere questa condizione di costante patologia   concorra in modo più o meno determinante la procedura ed il modo in cui viene applicata, prima ancora del suo esito?

Un procedimento  semplice nelle sue scansioni, ma approfondito nelle sue indagini, rapido nelle decisioni e comprensibile per i suoi destinatari, non difficoltoso da illustrare a chi non è tenuto ( come lo sono i difensori ) ad avere competenze  specifiche,  può certo concorrere a dare sicurezza e serenità personale a chi decide di porre fine alla propria relazione , a rassicurarla anche sotto un profilo personale ed economico e a far comprendere all’autore del comportamento contra jus le possibili conseguenze, con un auspicabile effetto  deflattivo. 

Senza dimenticare che anche sotto un profilo puramente economico patrimoniale, quello per intenderci che interessa tanto i Protocolli,  scontiamo la impossibilità  di definire in via anticipata  i rapporti economici.

Viene da pensare che talvolta l’apporre alcuni correttivi , in forma  pattizia o anticipatoria alla separazione prima ed al divorzio  poi, potrebbe costituire elemento di attenuazione  delle dispute economiche[73]  .

Ritornando alla lettura dei Protocolli  si può  di certo affermare, valutando come vi sia una differente declinazione  di molti temi e come appaiono diversi  gli orientamenti   a seconda del contesto sociale , territoriale ed economico che si possa giungere a concrete applicazioni ed indicazioni non solo divergenti  ma spesso anche contrastanti tra i differenti Tribunali costituente  elemento  che  supporta il cd forum shopping[74].

In via esemplificativa di queste diversità si possono citare in via esemplificativa  alcuni tra i molti, collocandoli anche  temporalmente e valutando prioritariamente quali siano i soggetti che li hanno sottoscritti : oggetto di esame specifico quindi il protocollo del Tribunale  di  Perugia , Bari, Pordenone , Verona , Ancona , Forli,  Firenze , Milano.

Emerge immediatamente  leggendone i firmatari come non si esca nella maggior parte  dei casi da una   diade di soggetti (salvo  alcune eccezioni ).

** Anno 2011 Firenze : il Protocollo viene sottoscritto dal Tribunale , dalla Procura della Repubblica , dal Consiglio  dell’ordine degli avvocati , Aiaf Toscana , Camera Minorile , IDIMI, Osservatorio  del diritto di famiglia. 

** Anno 2013 Ancona :  il Protocollo viene sottoscritto  dal Presidente  dell’Ordine degli avvocati e dal Presidente del Tribunale .

** Anno 2013 Pordenone : il Protocollo viene sottoscritto dal Presidente del Tribunale , dal Presidente del Laboratorio Forense , dal Presidente del Consiglio dell’Ordine , dal Direttore generale ASS 6 , dal Direttore Generale dall Auls,  dal Presidente dei Consultori  famigliari di Pordenone - Portogruaro .

** Anno  2016 Alessandria : sottoscrive il Presidente del Tribunale  e  del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati .

** Anno 2017 Forli: sottoscrivono il Presidente del Tribunale   , il Presidente del’Ordine degli avvocati ed in Presidente  del Comitato pari opportunità

**Anno 2018 Bari:  sottoscrivono  il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati ,il Presidente del Tribunale,  il Presidente  della Prima sezione civile ( sezione che si occupa evidentemente  di qustioni di diritto di famiglia ) , il Presidente della Commissione famiglia , ed il presidente della sezione di Bari dell’ Osservatorio del diritto di famiglia

** Anno 2018 Verona sottoscrive il Presidente del Tribunale e quello  dell’Ordine degli avvocati con l’adesione di AIAF , ONDIF , Camera Minorile ,Cammino , Unione giuristi  cattolici e Valore prassi.

**  Anno 2019 Milano vengano qualificate solo come linee guida e sono sottoscritte dalla Corte di Appello ( Presidente e Presidente della sezione famiglia ), dal Tribunal di Milano , dal Consiglio dell’Ordine e dall’Osservatoio  sulla giustizia civile)

** anno 2019 Perugia il Protocollo è stato sottoscritto dal Presidente del Tribunale ,dall’Ordine degli avvocati ,dalla associazione italiana avvocati famiglia e minori , dal Forum delle Associazioni famiglia dell’Umbria , dall’Osservatorio  nazionale sul diritto di famiglia, dalla camera Civile , dall’ass.avvocati matrimonialisti  italiani.

** anno 2019 Venezia  il Protocollo è sottoscritto dal Presidente dell’ordine degli Avvocati  e dal Presidente del Tribunale.

Scorrendo rapidamente questo gruppo esemplificativo di Protocolli, ma anche dopo aver esaminato gli altri, si può facilmente evincere che, eccezion fatta che per Pordenone, nessun altro ha ritenuto di coinvolgere le Aziende sanitarie locali, i consultori, l’Ordine degli Psicologi e degli assistenti sociali.

Solo Forlì ha inserito tra i sottoscrittori il comitato pari opportunità, molto pochi (Firenze , Milano , Verona  e Perugia ) altre associazioni , nessuno il Tribunale dei Minorenni , pochi la Procura  della  Repubbica e nessuno i Centri Antiviolenza.

Si differenziano  tra tutti Aosta  e Verona che hanno adottato dei Protocolli di intesa  per la prevenzione ed il contrasto della violenza nei confronti della persona e della comunità famigliare, ma solo Aosta ha collaborato con il Centro Antiviolenza mentre Verona si è limitata ad redigere linee  guida per il Tribunale .

La mancata  presenza dei Centri Antiviolenza  ai tavoli di discussione ed elaborazione di linee guida e/o protocolli è significativa. Nei fatti ne limita l’efficacia ma si pone anche in contrasto  con specifiche norme da tempo in vigore .

Si consideri ad esempio il recente art.473 bis-15 c.p.c. e l’art. 342 ter c.c (sebbene norma risalente nel tempo) che si riferisce agli ordini di protezione contro la violenza al suo secondo comma stabilisce che il Tribunale “possa disporre  l’intervento  dei Servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione famigliare anche delle associazioni che abbiano come fine statutario  il sostegno e l’accoglienza di donne  e minori o di altri soggetti vittime di abusi  o maltrattamenti”. Ora, se è vero che tale ultima norma  non è attuale ed andrà sicuramente adeguata  ai cambiamenti  intervenuti, (si consideri  tra tutti la contradditorietà  tra il riferimento  all’invito alla  mediazione  famigliare e l’art. 48 della Convenzione di Istanbul che  prevede il divieto  di metodi alternativi di risoluzione  del conflitto o di misure alternative alle pene obbligatorie), va invece sottolineato che di questo interlocutori (i centri Antiviolenza) operativi , attivi sul territorio, riconosciuti   normativamente, non si  si rinviene traccia nella  elaborazione  dei cd Protocolli.

Eppure il ruolo che i Centri Antiviolenza hanno avuto e ricoprono tutt’ora è sempre più riconosciuto e valorizzato,  non solo per il lavoro che da anni li lega al territorio ( se e quando  riescano a sopravvivere con gli inesistenti contributi che vengono dati loro) ma anche  alle leggi nazionali e regionali  che riconoscono  competenza , attribuendo loro anche un ruolo preciso[75].

Non va dimenticato inoltre  che le sedi giudiziarie rappresentano spesso il  faticoso punto di arrivo per le donne in situazioni in cui i rapporti con il partner era stato caratterizzato da prevaricazione, da maltrattamenti, da  violenza talvolta anche nella forma della  violenza assistita  e che proprio per questo le donne  si sono  rivolte ai Tribunali , dopo un percorso al Cav (centro antiviolenza) che può iniziare anche in pendenza di giudizio.

E quindi va considerato che la presenza dei centri antiviolenza al tavolo di discussione e di concertazione di un protocollo in materia di diritto di famiglia apparirebbe non solo opportuno  ma  indispensabile .

Ciò non solo per la sicura esperienza maturata sul campo da chi con le donne vittime di violenza lavora quotidianamente  , ma anche perchè l’ottica di lettura, di interpretazione  e di azione dei Centri antiviolenza costituisce un utile correttivo ad un approccio che non può essere neutro quando  si incorra in una situazione di violenze contro  le donne.

Peraltro è da sottolineare che detti Protocolli  non vengono neppure inviati per conoscenza  ai Centri antiviolenza  del territorio   con la richiesta di eventuali integrazioni e/O osservazioni  o anche di mera presa di atto .

E ciò rappresenta l’ennesimo esempio di quella mancanza di coordinamento e di comunicazione   tra i diversi interlocutori in ambito istituzionale ed giudiziario.

E consente di introdurre un altro rilievo critico che riguarda la frammentarietà  degli interventi istituzionali ,  il loro mancato collegamento  , anzi per essere più chiari l’evidente scollamento che esiste tra le varie istituzioni , gli Organi giudiziari  stessi e ancor prima tra i vari interlocutori  che sono interessati e dovrebbero essere coinvolti nel contrasto alla violenza in senso più generale e in senso più specifico nella elaborazione di linee guida/protocolli

Questa frammentarietà diventa, a sua volta,  causa di poca tempestività, incisività ed efficacia degli interventi  e rappresenta un dato di macroscopica evidenza, malamente  vissuta dalle parti coinvolte  in un procedimento  di famiglia , dai loro difensori e anche dallo stesso  Giudicante.

Si dovrebbe in realtà avere uno strettissimo   legame tra i vari organi giudiziari tra il Tribunale civile quello dei minorenni, la Procura  ed il Tribunale  penale .

E non si ritiene che il comma 8 dell’art. 473 bis – 12 di nuova formulazione vi ovvi laddove prevede che il ricorso introduttivo (onerando la parte quindi) debba indicare la esistenza di altri procedimenti, aventi ad oggetto in tutto o in parte le medesime domande o domande ad esse connesse, laddove sarebbe stato  più semplice prevedere un meccanismo di circolazione  delle informazioni onerando gli organi giudiziari  . 

Per far comprendere  in via esemplificativa ciò che questo di fatto ha comportato e potrebbe comunque  ancora comportare , “calato” nei protocolli che si stanno esaminando basta valutare  che  in gran parte di essi si fa riferimento “all’obbligo” del legale che assiste una parte in un procedimento di famiglia di dare comunicazione della pendenza di altro procedimenti avanti il Tribunale dei Minorenni.

E tale esigenza di circolarità non viene neppure recepita da tutti i Tribunali.

Oltre a ciò manca qualsivoglia raccordo tra procedimento penale e procedimento  civile, limitata la comunicazione  penale alla procura minorile  ex art. 609  decies c.p.p .

Eppure, da tempo, il  Consiglio superiore della Magistratura ( già con propria risoluzione del 2018) segnalava la necessità di cooperazione delle magistrature ordinarie , civili , penali e minorili   quando sia pendente un procedimento di separazione  personale o di divorzio o comunque  relative alla separazione delle parti ,per evitare la possibilità di vittimizzazione secondaria del coniuge e dei minori vittime e loro volta di violenza diretta  o assistita .

Questo in quanto donne e minori sarebbero  costretti in difetto di una doverosa  acquisizione di ufficio degli elementi di prova che fondano l’apertura  di un procedimento  penale o avanti il Tribunale   minorile a ripercorrere e ripetere più  e più volte le loro vicende personali, con possibilita’- non così remota-  che vengano pronunciati provvedimenti  tra loro contradditori o del tutto inconciliabili .

Proprio a tal riguardo il Consiglio superiore della Magistratura aveva  sottolineato la necessità di un intervento legislativo al riguardo, sollecitando gli Uffici delle Procure e dei Tribunali a formalizzare accordi al riguardo.

Inviti che non risultano essere  stati colti in modo organico , coerente e conforme neppure in una sede  che potrebbe aprire la strada  alle “cd buone pratiche” e cioè nella formulazione  dei Protocolli che non dovrebbero  considerare la acquisizione  degli atti e provvedimenti emessi da diverse  autorità  solo come un obbligo in capo ai Difensori .

Che la mancanza di comunicazione  e trasmissione tra le varie Autorità costituisca un grave elemento di debolezza è dimostrato  dalla necessità avvertita dal legislatore  di inserire nel testo normativo penale l’art.64 bis disp.att.c.p. introdotto dal cd Codice rosso (legge 69/2019) .

Norma che prevede che ai fini della decisione nei procedimenti   di separazione  personale dei coniugi e dei procedimenti relativi a figli minori di età ed all’esercizio della  responsabilità genitoriale , copia dell’ordinanza  di applicazione delle misure cautelari personali o che ne dispongano la sostituzione  o la revoca, l’avviso  di conclusione  delle indagini preliminari, del procedimento  di archiviazione per i reati di cui agli art. 572, 609 bis , 612 bis e ter , 582, 583 quinquies  nella ipotesi aggravata  ai sensi  dell’ art.576 , primo comma numero 2 e 5 e 577 primo comma n.1 secondo  comma  siano trasmessi  al Giudice competente.

 

La trasmissione è d’obbligo anche nella diversità delle posizioni  processuali e di certo  il dato fattuale può agevolare la valutazione  del Giudicante.

 Solo con l’introduzione dell’art. 64 bis disp.att quindi ci si troverebbe di fronte ad una regolamentazione che introduce  un rapporto di comunicazione  tra due differenti autorità Giudiziarie   e che si pone come tassativo .

Va verificato poi nella  pratica quanto questo avvenga effettivamente.

Andrebbe  probabilmente alla luce  di questo riconsiderato  con attenzione  il rapporto tra procedimento  penale e procedimento  civile chiedendosi anche  se sia opportuno (ma non confligga con l’art. 27,  2 comma della Costituzione)  anche l’acquisizione  della semplice  notizia  di reato  al fascicolo del procedimento  civilistico .

Sotto tale profilo prevedere proprio nei Protocolli una forma di trasmissione automatica  e quindi di conoscenza  tra le differenti autorità giudiziarie  appare non solo utile ma doverosa.

 

f)      La formulazione  degli atti 

Merita un riferimento anche il contenuto dei cd protocolli laddove prevede dei criteri per la stesura degli atti processuali, proprio perché esso può andare ad orientare, permeare e condizionare   lo stesso andamento del giudizio .

Va evidenziato come alcuni giungano addirittura, in loro parti specifiche  a dare indicazioni  su come debbano essere formulati e redatti gli atti .

Si possono distinguere   due diversa tipologie: 

a=) Un primo gruppo di Protocolli richiede addirittura una sorta di astensione  nel riferire aspetti più strettamente  personali , eventualmente riferibili  alle ragioni della separazione, riservando la narrazione degli stessi al deposito della Cd Memoria Integrativa ( art.709 c.p.c)[76].

Bari invece, sul presupposto della natura bifasica del procedimento ritiene che la udienza  presidenziale richieda unicamente   la deduzione di fatti e la allegazione  di documenti funzionali all’emissione dei provvedimenti  presidenziali   essendo l’udienza stessa di fatto mirata ad una funzione principalmente  conciliativa, volta quindi alla consensualizzione  .

Tanto da richiedere che le vicende personali (come se vi possa esser altro !) non vengano portate all’attenzione del Presidente  come  le vicende separatizie , e l’atto sia inoltre limitato nella sua lunghezza.

 

Verona invece chiede che siano indicate sinteticamente le cause .

 

  1. b) Un secondo gruppo di Tribunali (e di protocolli) ritiene utile al contrario ed opportuno che siano indicate le cause della separazione e nei procedimenti divorzili anche gli eventuali inadempimenti alle statuizioni giudiziarie  .

Tutti indistintamente i Tribunali  sono molto rigidi nel richiedere che in allegato agli atti sia acquisita la documentazione che consenta  di individuare  le disponibilità  economiche  delle parti  e quindi i redditi, siano essi annuali o mensili, e le eventuali  rendite di cui le parti siano titolari .

Alcuni addirittura (come Perugia) chiede il deposito degli atti di acquisto dei beni, la precisazione se vi siano titoli di godimento su altri immobili ,ma anche se la famiglia si doti di collaboratori  famigliari, se vi siano componenti iscritti a circoli ricreativi o associativi (sempre Perugia).

Forlì invece  si limita a richiedere  che venga fornito ogni  elemento utile per stabilire il tenore di vita .

Appare di sicuro singolare questa diversità di metodo di costruzione della udienza presidenziale e degli atti che in essa vengono  depositati  e scambiati , anche in ragione del fatto che oramai la prima udienza rappresenta una sorta di anticipazione della decisione finale, seppure mirata alla pronuncia dei provvedimenti temporanei  ed urgenti che  comunque consolidano, spesso  per lungo tempo  se non sino alla  sentenza,  la regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali .

 Ma ciò che pare piuttosto singolare è che l’aspetto personale , quello delle relazioni tra le parti e  spesso tra loro quali genitori, cosi pregnanti nei procedimenti   di famiglia,  venga posto in secondo piano  rispetto alla disclosure  economica.

Volendo trarre delle conclusioni  dalla disamina di questi protocollo non si può che andare a rilevare  l’applicazione   delle norme di diritto in  una ottica riduttiva, mirata  alla  risoluzione del conflitto,  limitata alla sola  definizione   degli aspetti economici.

Altre prescrizioni riguardano invece la richiesta  di utilizzare  nella stesura degli atti i principi di sinteticità  e chiarezza.

 Se è pur vero che state introdotte modifiche legislative volte alla semplificazione del momento decisorio: si pensi alla  sostituzione   della ordinanza alla sentenza , alla decisione  immediata  ex art.281 sexies c.p.c , alla motivazione  concisa e che  successivamente  l’interesse del legislatore  si è esteso  introducendo e richiedendo principi di sinteticità e chiarezza negli atti processuali siano essi utilizzati da parte del Giudice  che dalle parti.

Tali principi già in vigore  nel processo amministrativo e contabile  in realtà appaiono molto vaghi : è chiaro  che la sinteticità va rapportata  al contenuto  dell’atto  prevedendo   l’esclusione  di ripetizioni  e ridondanze ,e  si riferisce anche alla dimensione dell’atto e quindi alla sua proporzione al numero delle questioni trattate  e  alla loro complessità .

Mentre  la chiarezza fa riferimento alla impostazione ordinata dello scritto  ed alla sua comprensibilità .

Ora se questi criteri sono di certo elementi apprezzabili nella lettura dell’atto , va però tenuto conto che gli atti in un processo in cui sono coinvolte le relazioni personali , in cui anche la materia giuridica è spesso intrisa di dolore e sofferenza, in cui le aspettative delle donne di essere credute ed ascoltate ed avere giustizia  non devono essere ridotti solo a meri modelli da compilare o nei quali  riportare unicamente  i dati da cui  poter evincere quale fosse il bilancio famigliare  tra entrate ed uscite .

Ben sappiamo che di frequente  non tutto quello che  le donne ritengono importante debba per ciò stesso essere portato a conoscenza  del Giudice o abbia un rilievo fondante per una eventuale decisione ma comunque offre la cornice entro la quale si è svolta la vita delle parti.

Limitare anche la possibilità di parlare attraverso gli atti ma anche in sede di loro audizione, togliere voce a chi faticosamente  l’ha ritrovata  appare un ulteriore atto di prevaricazione e di violenza . 

Piuttosto che limitare gli atti si dovrebbe   invece prevedere di inserire all’interno di protocolli degli obblighi di rispetto nei riguardi delle donne quali ad esempio quello di non incorrere nella narrazione degli atti nell’uso di stereotipi di genere .

 

g)      Le fonti internazionali 

Nessuno dei Protocolli contiene riferimenti diretti ma neppure richiami generici a principi enucleati in fonti internazionali che nel tempo si sono più direttamente occupati delle tematiche della violenza  contro le donne, fonti che ai sensi  dell’art.117 della Costituzione  hanno pari dignità  di quelle nazionali e dovrebbero trovare altrettanta esecuzione  ed applicazione  delle norme interne.

Manca, ad esempio, ogni riferimento al contenuto della CEDAW  (definita   Carta internazionale dei diritti delle donne che impegna gli stati firmatari ad avviare misure  che siano utili a porre fine alle discriminazione  contre le donne e che è stata ratificata dalla Italia il 10 giugno 1985 ed entrata in vigore un mese dopo).

Ma ciò che è peggio è che risulta del tutto ignorata la Convenzione di Istanbul del 2011.

 

Eppure la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 29 gennaio 2016 al n. 10959 si è chiaramente  espressa affermando:  “ Come  è stato osservato la direttiva 2012/29/UE , con il suo pendant  di provvedimenti-satelliti  ( le direttive sulla tratta di esseri umani , sulla  violenza sessuale , sull’ordine di protezione penale, tra le altre)  e di  accordi internazionali ( la Convenzione di Lanzarote e Istanbul  in particolare) rappresenta un vero e proprio snodo per le politiche criminali , di matrice sostanziale  e processuale  ,dei legislatori europei .Non tanto per le singole indicazioni da attuare a livello  nazionale ( diritti di informazione , assistenza  linguistica , accesso alla giustizia,  garanzie di protezione e via discorrendo ) quanto per la necessità , imposta dal testo europeo di definire  una chiara posizione sistemica dell’offeso .

In tale contesto si è inserita l’attività del legislatore interno che , a fronte dell’ emersione del fenomeno della violenza in ambito famigliare e domestico  e in presenza di una pluralità di atti internazionali  di cui tener conto  ha provveduto a modificare in larga parte la normativa sostanziale  e specialmente  processuale  con interventi  settoriali , spesso attuati con lo strumento del decreto legge , anche reintervenendo  con successivi  adattamenti degli stessi istituti :  un vero e proprio “arcipelago”  normativo  nel quale  non sempre è facile orientarsi. Di tale quadro di riferimento complesso e frammentario si deve tener  conto al fine di risolvere la questione di cui trattasi , che richiede di essere inquadrata nell’ambito  delle fonti normative interne ed internazionali .”

Ciò nonostante di tali fonti sovranazionali non troviamo traccia nei Protocolli e tantomeno  nella motivazione dei provvedimenti  temporanei  ed urgenti ,non certo nelle  sentenza , non nelle motivazioni di ordinanze ,  non nella emissione di eventuali provvedimenti  cautelari o di modifica di sentenze o provvedimenti  provvisori.

E sarebbe  di certo molto interessante verificare in quante sentenze di primo o secondo grado siano  contenuti riferimenti alle fonti internazionali.

Eppure se alla Convenzione di Istanbul  bisogna guardare come ad una fonte di legge ,allora di essa dovrà tenersi conto in tutti  i gradi  ed in tutti gli ambiti  in cui essa potrebbe o dovrebbe trovare applicazione .

Quale miglior ambito allora di quello  attuativo -pratico  proprio dei giudizi  e delle procedure  in cui si debba procedere ad attuare forme di tutela  per donne vittime  di violenza ?

Non va dimenticati che l’art.5 della  Convenzione di Istanbul (intitolata obblighi degli Stati e dovuta diligenza) al punto 2 prevede espressamente che : “Le parti adottino le misure legislative e di altro tipo per esercitare la debita diligenza nel prevenire , indagare , punire i responsabili ( e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali)”.

Ma anche al capitolo IV intitolato “protezione e sostegno “all’art. 18 II comma prevede che le parti adottino misure legislative e di altro tipo necessarie con riferimento al loro diritto interno per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficaci tra tutti gli organismi statali competenti , comprese  le autorità giurisdizionali , pubblici ministeri , le autorità incaricate delle applicazioni della legge , autorità locali e regionali ed organizzazioni non governative e le altre organizzazioni o entità competenti  per proteggere e sostenere le vittime”.

Ma si consideri anche il capitolo V “Diritto sostanziale”  , all’art.29  procedimenti e vie di ricorso in materia civile  o l’art. 48 divieto di metodi  alternativi di risoluzione dei conflitti , anche nel corpo di detto articolo troviamo la medesima formula che prevede sia l’adozione di misure legislative ma anche l’assunzione di  iniziative di “altro tipo”.

 

Se lo Stato Italiano che ha ratificato la Convenzione  e ad essa deve attenersi , allora gli si richiede coraggio , trasparenza , coerenza e iniziativa.

Viene da chiedersi se non si possa trovare un  buon ambito di applicazione od almeno un buon banco di prova della Convenzione di Istanbul proprio nella predisposizione di Protocolli (così amati dai nostri Tribunali !)o di linee guida relative  alla trattazione dei giudizi di separazione, divorzio, regolamentazione di questioni relative a figli minorenni o maggiorenni  non economicamente autonomi  misure cautelari , che recepiscano   questi principi ed agli stessi diano applicazione.

Indispensabile e condizione indeffettibile però è prendere consapevolezza da parte di magistrati  , CTU, servizi sociali , servizi sanitari che non tutte le relazioni intime sono  conflittuali, il che presuppone  un piano di parità  e di confronto anche se spinto e  di dialettica seppure estrema, ma che alcune trascendono diventando relazioni violente e maltrattanti in cui una delle parti è vittima dell’altra .

E che come tali vanno nominate e che questo tipo di violenza deve essere riconosciuta   come avente natura strutturale, connaturata alla manifestazione di potere di un soggetto su di un altro.

Questo approccio costituisce l’asse portante del metodo e del pensiero di chi lavora con le donne vittime di violenza e che delle stesse cerca di far sentire  la voce .

Ma purtroppo queste competenze  non vengono adeguatamente  valorizzate e considerato come patrimonio comune il loro lavoro, come dovrebbe essere per tutti i soggetti  istituzionali che di tali situazioni hanno modo o dovere di occuparsi.

Ed allora vi è necessità che le competenze si intreccino non solo per favorire un utile imprescindibile scambio di differenti punti di attenzione ma anche per formulare criteri di  indagine e di verifica mirati ad esempio in sede di Ctu  alla valutazione del rischio ed in generale alla assunzione di elementi probatori  utili che con un differente approccio non verrebbero colti .

Se ad esempio si facilitasse la richiesta di misure cautelari ancora poco utilizzate in sede civile prevedendo anche nei Protocolli l’inserimento di alcuni elementi o prerequisiti  in modo da supportare la richiesta finalizzandola  al  suo accoglimento.

Ciò potrebbe avvenire,  ad esempio, acquisendo specifiche  relazioni dei  centri antiviolenza  che hanno avuto modo di incontrato la donna a protezione della quale si richiede un particolare provvedimento   ( misure cautelari , ma anche visite protette per i figli)    cosi da poter offrire al meglio ed in tempi veloci ,  evitando gli usuali ritardi conseguenti alla  richiesta di acquisizione che sconta i tempi biblici dei Servizi così da raccogliere tutti gli elementi probatori  necessari.

Ma andrebbe anche potenziata la figura del Pubblico Ministero al quale comunque competono  i compiti di cui allo art.70 c.p.c che dispone di  una facoltà ( ed un obbligo ) ma al tempo stesso di poteri di indagine e di intervento di certo superiori a quelli  che spettano alla parte.

Cosicchè i provvedimenti sia se emessi “inaudita altera parte” ma anche se venisse disposta la comparizione delle parti,  sarebbero completi pur nelle loro sommarietà di indagine costituendo  il frutto della acquisizione  del maggior numero di elementi  .

Non si ritiene che l’utilizzo di un potere di disclosure da parte del Giudicante ecceda quelli che gli sono propri, travalicando l’onere probatorio che grava sulla parte, sia perché potrebbe sempre essere  indicato come prerequisito da inserire  nel Ricorso  ma anche in ragione  di effettuabili  plurimi richiami   a norme costituzionali  art. 31 e 32  ma anche 29 e 39  sotto il profilo della eliminazione  di condizioni  di discriminazione. 

Ed a maggior ragione laddove  vi fosse necessità di protezione di donne vittime di violenza o di minori,  questi ultimi  soggetti privi di propria capacità di agire e quindi di essere loro stessi  soggetti autonomi nel processo con autonoma difesa .

Vanno analizzate le modifiche che a tale impostazione potrebbero derivare dalla recente  riforma e dalla introduzione  della nuova figura del curatore dei minori  .

A ciò si potrebbe  ovviare potenziando la presenza obbligatoria del PM ex art.70 c.p.c ed il suo conseguente intervento  obbligatoria  a pena di nullità nei procedimenti  indicati nel predetto articolo , ma anche l’art.72 c.p.c  che regolamenta  i poteri del Pubblico Ministero e lo riconosce alla stessa stregua  di quelli  che competono  alle parti , richiamando l’art. 267 c.p.c , norma che fa riferimento  allo intervento del terzo nel processo ,con possibilità conseguente di produrre documenti e dedurre prove.

Quindi non un ruolo di mero supporto ed integrazione che gli viene riconosciuto al punto 3) del medesimo articolo 70 in tutti i procedimenti  in cui si ravvisa  un pubblico interesse .

Sussiste conseguentemente la possibilità teorica che sia il pubblico Ministero   con i propri poteri di impulso   non appena notiziato della pendenza di un procedimento ad avere modo  di assumere  ed ottenere informazioni utili e necessarie e di farle acquisire al Giudicante.

 Sempre con riferimento alle norme  di cui all’art.342 ter c.c va segnalato che andrebbe soppresso , o almeno si dovrebbe  dar atto che  vi è contrasto con l’art.48 della Convenzione  di Istanbul nella parte in cui si prevede la possibilità di disporre l’intervento di un centro di mediazione famigliare .

Comunque  considerando che vi possano essere situazioni   gravi ma non non tali  da far sussistere le condizioni  per  la richiesta di misure  cautelari,  le soluzioni per creare una condizione  di protezione potrebbero  essere altre e tutte facilmente praticabili: prevedere ad esempio  una corsia preferenziale  per la trattazione dei procedimenti   di famiglia che si presentini caratterizzate  da comprovate condizioni  di violenza .

Lo farà il nuovo 473 bis .15 c.p.c ?

Pur non riconoscendo   alla funzione dei protocolli  alcun effetto salvifico e tantomeno diretto all’ottimizzazione della procedura , pur tuttavia considerando l’evidente  tendenza dei Tribunali ad adottarli si chiede almeno che essi diano applicazione alle norme  ed ai principi enunciati  nelle Convenzioni internazionali ed in quella di Istanbul   che per completezza ed esaustività si pone come una vera e propria guida e sicuro criterio di orientamento .

E’ necessario,  pertanto,  che i Tribunali abbiano il coraggio di distinguere  tra situazioni  di conflitto e situazioni  di violenza e la affrontino in modi e con strumenti diversi .

E’ solo nel primo caso infatti che si potrà pensare ad un invito ad una consensualizzazione del procedimento come risultato  di una riflessione di entrambe le parti, non certo  come  modo per negare o ancor peggio mistificare una situazione relazionale violenta .

La mancanza  di coordinamento tra le istituzioni  i in principalità ma anche tra tutti i soggetti che si occupano  del contrasto alla violenza di genere è un elemento che è stato ripetutamente  sottolineata già nel 2012 ( esattamente  11 anni)  fa da Radshida Manjoo che in qualità di   Special Rapporteur ONU  aveva visitata l’Italia e nella sua relazione  conclusiva aveva dichiarato  che : “Il Governo italiano ha fatto molti sforzi per affrontare  la questione della violenza contro le donne anche attraverso l’adozione di leggi e politiche rivolte alla promozione e alla tutela dei diritti delle donne. Tuttavia queste iniziative non hanno portato alla riduzione  del fenomeno del femminicidio o al miglioramento delle condizioni di vita di molte donne soprattutto straniere o disabili

Tra le varie raccomandazioni   valide ancor oggi anche nella successiva e richiamate  nel più recente rapporto del Grevio l’invito , tra i molti , alla creazione di una struttura governativa dedicata alla parità di genere ed alla lotta contro la violenza con funzioni di coordinamento tra tutte le varie istituzioni coinvolte , a promulgare una legge specifica che consenta di superare la frammentazione ed i ritardi  spesso conseguenti proprio  a questa manca di unitarietà e difetto di collegamento tramite un costante scambio di informazioni  .

Ritornando al tema ed ai Protocolli quello che verrebbe richiesto è uno sforzo minimo non solo per una efficace ed ritengo obbligatoria   applicazione delle norme ma anche per  dare realizzazione a quegli interventi che le norme  stesse richiedono siano esse nazionali che sovranazionali ed ai principi che esse contengono .

Questo non tanto e non solo al fine di creare un comune sentire o semplicemente e riduttivamente una maggiore sensibilità ma una comune cultura giuridica ed uno stile professionale per magistrati e avvocati attento, sensibile e rispettoso del genere.

 

h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71

 

la Legge per gli Orfani di crimini domestici  deve essere letta anche quale assunzione  di responsabilità  da parte dello Stato per la sua incapacità di essere riuscito a evitare  l’evento luttuoso   che ha reso poi questi figli “Orfani” .

Sempre di più i femminicidi  infatti  vengono  assimilati  a reati di tipo mafioso in cui  erano emersi segnali di pericolo, registrate  minacce , comportamenti violenti e/o aggressivi : si erano cioè evidenziati anche in tempi ristretti  tutti quegli  elmenti dai quali poter desumere   che “potesse succedere qualcosa d’altro “ e che l’epilogo  “avrebbe  potuto essere tragico ed irrimediabile”.

Non si può disconoscere che molto è stato fatto e che vi sia una maggiore attenzione ,  ma la sensibilità personale e la stessa formazione  specifica  viene vanificata se non  vi sono risorse economiche adeguate e  se la formazione  stessa non viene estesa  ,ma anche  costantemente rinnovata  e ridiscussa ,  a tutti coloro che hanno modo per lavoro o per  impegno  politico e di militanza di entrare in contatto con situazioni   di violenza  contro le donne.

Non possiamo avere delle eccellenze e poi nella quotidianeità e cosa ben più grave  nelle aule di giustizia,  scontrarci   con la costante  mancata “valutazione del rischio”  anche nelle Ctu o ancor peggio nelle Relazioni dei Servizi sociali , con il continuo invito alla mediazione tra le parti,  con la  evidente difficoltà di molte istituzioni  di riconoscere e poi nominare la violenza come tale .

E ovviamente cercare di porvi rimedio. 

Lo Stato ha quindi cercato di ovviare ad un sua inefficienza e talvolta inerzia , andando a tutelare coloro che sono a tutti gli effetti esse stesse vittime dirette di  quanto accaduto.  

Ma c’è un altro aspetto che va tenuto  presente per le conseguenze  che  viene ad avere  nella stessa applicazione  della legge e del suo regolamento  attuativo ( di due anni successivo peraltro ) e riguarda invece più specificatamente  l’attenzione da porre agli autori dei fatti.

Essa attiene alla circostanza che i femminicidi  non possono essere riportati ad atti compiuti da uomini disturbati mentalmente  o affetti da malattia.

Talvolta, ma in casi rari, è accaduto che si presentasse un profilo depressivo, dei  disturbi paranoidi o di ansia , ma raramente ci si è trovati in presenza  di un vera forma di schizofrenia  o di psicosi  tali da inibire il contatto dell’autore di reato  con la realtà o di un disturbo talmente grave da incidere  sulle capacità di discernimento  così da far ritenere che il soggetto non avesse capacità  di intendere e volere.

Ricordiamo che la Cassazione a Sezioni unite con sua sentenza n.9163/2005 ha affermato espressamente che non hanno rilievo ai fini della imputabilità anomalie caratteriali, disarmonie  della personalità , alterazioni di tipo caratteriale, deviazioni  del carattere  che non abbiano rilievo  sulla capacità di autodeterminazione   dell’ agente.

Né tantomeno hanno rilievo gli stati emotivi e passionali per la espressa disposizione  di cui all’art.90 c.p.

Abbiamo quindi l’autore di un femminicido che è stato il compagno , il fidanzato, il  marito  ed è un padre sano di mente .

E questo se da un lato rende più difficoltoso per coloro che hanno perso un genitore per mano di un altro , comprendere perchè proprio quello violento  sia il sopravissuto costringe a confrontarsi , anche sul  piano giuridico  con colui  che può farsi portatore di proprie autonome richieste  nei riguardi  di quei figli che abbia reso orfani. 

La Legge n. 4/2018 rappresenta una conquista recente  di civiltà  giuridica  nel nostro panorama  e nel nostro Paese che deve comunque prendere atto delle normative internazionali e della loro pari efficacia ex art.117 della Costituzione  alle norme  interne.

Tra tutte la Convenzione di Istanbul. 

Ma lo fa subendo anche quello che è stato un passato recente  ma non certo giuridicamente  accettabile in una Società democratica   di cui non possiamo non tenere  conto ,anche con riferimento  alla Legge 4/2018.

E’ sufficiente  riflettere ad esempio  che nel caso di delitto  d’onore - abrogato solo nel 1981 - gli orfani di madre , che potrebbero  ancora essere viventi data la distanza  temporale modesta e di cui il padre   si era reso colpevole  del fatto-reato erano stati costretti a prendere atto  che il loro congiunto  godeva , per legge dello Stato , di un trattamento privilegiato   riconosciutogli proprio  dalla attenuante specifica dell’ art.587 c.p che comportava   una consistente diminuzione  di pena .

Anche la legge 4/2018 presenta comunque ancora imprecisioni e carenze.   

Già confrontando   il titolo delle due disposizioni si nota tra loro  una difformità :la legge  4/2018 é intitolato “Modifiche al codice penale e di procedura penale ad altre disposizioni”  individuando quali destinatari  gli orfani di crimini domestici , norma poi estesa dall’art.8 della Legge 19 luglio 2019 n.69 che reca modifiche al codice penale e di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela  di vittime di violenza domestica e/o di genere  .

La intestazione  del Regolamento  usa invece  invece parole differenti, identificando in “orfani  di crimini  domestici e di reati di genere” ( oltrechè di famiglia affidataria )  coloro in favore dei quali vengono erogate le misure di sostegno .

Rimane quindi un vuoto nella intestazione  letterale delle della legge e  del decreto ma  al tempo stesso una notevole indeterminatezza (che genera confusione)   nell’utilizzo delle parole,  oscillando il legislatore  indistintamente tra violenza domestica e violenza di genere,  che non possono esser usate come sinonimi .

Non è inutile ricordare  differenze che tendono poi a sparire nei testi normativi,  che la violenza di genere  è un termine usato prevalentemente  in letteratura  sociologica per  individuare  la  violenza manifestata ed agita, quando essa è  legata ad stereotipi e a ruoli che la società attribuisce e assegna a uomini e donne.

E’ d’uso invece in queste materie usare il termine di “Gender based violence “ corrispondendo   tale espressione a quella   che presente  in normative  internazionali , tra tutte la Convenzione di Istanbul,  che sottolinea come la violenza e la vittimizzazione avvengano appunto  sulla “base” ed “a causa” del genere .

E’ anche vero però che questa espressione può aprire la strada ad una diversa interpretazione e cioè a far considerare vittime di violenza non soltanto  le donne , ma anche  gli uomini e per entrambi i generi , i minori,   e potrebbe  essere adeguata  per  riferirsi anche alla violenza omo e transofobica  .

Non si dovrebbe quindi  usare indistintamente il termine di violenza di genere e violenza domestica :  solo nel decreto 71/2020 troviamo all’art. 2 comma 1 lett.a) la distinzione tra i soggetti beneficiari individuati come  orfani di crimini domestici e sempre al  comma 1 lett a n.2) orfani figli minorenni  e maggiorenni  ( non autonomi) di madre vittima  di omicidio  ( art.576 comma 1 n.5.1  c.p.  ) e comma 1 lett. a.n 3) orfani, figli minorenni  e maggiorenni economicamente  non autonomi di madre vittima di omicidio a seguito dei reati di cui agli art. 609 bis e octies c.p.

Quindi con un passaggio ed una specificazione ulteriore data dalla circostanza che è in  queste norme che per la prima volta si  parla di “orfano di madre”.

Ed è questa precisazione  che a mio avviso ci offre la possibilità di orientare la ricerca esclusivamente verso “coloro che abbiano  perso la madre perchè uccisa ”. 

L’assetto normativo in generale però  presenta purtroppo alcune altre discrasie : ad esempio l’art. 1 lett. a n.1) non ricomprende tra le vittime le persone  che fossero legate solo da relazione  affettiva , poichè richiede anche la stabile convivenza, individuata la stessa  secondo alcuni specifici  criteri e venendo  ad escludere quindi dalla applicazione della normativa  quelle coppie che non avevano al momento dell’evento morte, la medesima e comune residenza .

Una mancata comune residenza  che potrebbe esser ascrivibile  a molteplici ragioni , anche del tutto indipendenti  dalla loro volontà   oppure discendere  da loro precise scelte di vita, a mio parere comunque insindacabili .

Il riferimento tra l’altro ai criteri di identificazione delle residenza comune   è  di tipo squisitamente  formale , e prescinde da fondate e spesso condivisibili   ragioni siano esse  di lavoro , di ordine  fiscale o  personale  per le quali la coppia non abbia inteso  avere  la medesima residenza ma invece mantenerne  due distinte .

A ciò aggiungasi  che la stabile convivenza viene  individuata solo dimostrando la sussistenza di  requisiti richiesti per la costituzione  di una nuova famiglia.

 

Si possono  portare comunque più esempi per chiarire anche la confusione  delle norme e nell’uso dei termini .

Consideriamo l’art.10 legge  4/2018 ove il riferimento  è sempre a persona unicamente  legata in passato da relazione affettiva, senza alcuna previsione  della stabile convivenza : quindi parrebbe che  tale problematica si possa   trovare solo nell’art.1  ove  si parla sempre di relazione affettiva e stabile convivenza, nello    l’art. 3 in tema di sequestro conservativo, nell’art.4 in tema di provvisionale e cosi ogni qualvolta si proceda all’individuazione   di quale   sia stato   il rapporto tra vittima ed autore del reato .

Altre note : il sequestro conservativo può avvenire sui beni che siano effettivamente solo dell’autore  del reato e l’art. 316 c.p.p parla di beni mobili ed immobili in proprietà , somme o cose a Lui ( all’imputato ) dovute.

Quindi è da ritenere siano comprese    anche   la  quota di partecipazione ad una società da  considerarsi   bene immateriale equiparabile a bene mobile non iscritto in pubblici  registri poichè essa va a  costituire la frazione  del patrimonio che rappresenta.

E comunque poichè si parla solo di beni  pare  evidente che siano esclusi i diritti.

Quindi in che modo andrebbe ad esempio considerato   l’usufrutto , diritto reale che pure ha un valore economico e di cui l’autore del reato sia titolare ?

Andrebbero verificati  e forse potenziati al riguardo i poteri di indagine  e di investigazione del Pubblico MInistero con attenzione anche ad eventuali intestazioni fittizie e/ o apertamente simulate  .

Va segnalata  poi anche l’ anomalia dell’ art. 12 relativa alla decadenza  della assegnazione  di alloggio  residenziale  solo per autori  di violenza domestica che abbiano  condanna anche non definitiva o definizione  del giudizio ex e art. 444 cpp.

Quindi paradossalmente abbiamo una decadenza dalla assegnazione  precedente  al giudicato : e viene da chiedere con che ricadute .

 Va anche valutata la esistenza  di una sorta  di norma di chiusura  costituita dallo art. 28 del decreto  71/2020 laddove  si stabilisce al suo secondo comma che laddove con sentenza non definitiva venga dichiarato la non ricorrenza  del crimini domestici o del  reato di genere “l’aiuto economico” non è soggetto a ripetizione  .

È singolare  però nel testo di legge ( e del decreto ) si  usino termini differenti   quali “aiuti economici” , “benefici” o ancora  “incentivi”.

Infatti al capo II  sostegno al diritto  allo studio  all’art. 4 si parla di benefici e sempre di benefici all’art. 5 e 6 , 7 al capo II invece si modifica la parola  facendo riferimento   invece ad “incentivi”, probabilmente  termine più adatto alla materia lavoristica . 

Va segnalato anche la contraddittorietà con l’art. 13 legge 15 luglio 1966 n.604  i cui si parla di licenziamento per giustificati  motivo oggettivo prevendendo   però che il datore di lavoro, in questo caso incolpevole , perda i benefici già fruiti .

Proprio l’uso indistinto dei termini crea confusione: andrebbe forse precisato quindi se per aiuto economico si debba  intendere  solo quello che viene erogato direttamente   agli orfani o  anche gli incentivi ed i benefici .

Altre problematiche che ho rilevato  riguardano  l’art.5 delle Legge n.4/2018 ove il termine  usato è di “sospensione dalla successione”  e non di capacità a succedere.

Il successivo riferimento poi all’art. 463 c.c ( casi di indegnità ) fa  interrogare   se vi sia automatismo tra la condanna o la richiesta di applicazione  ex art. 444 c.p.p e la prevista indegnità  o se non si debba invece applicare  la procedura  ordinaria,  che richiede  una sentenza  costitutiva da emettere su domanda dello interessato.

Non è di poco conto ricordare che la giurisprudenza ha comunque esteso anche ai legati la indegnità a succedere .

Altri problemi  che potrebbero insorgere riguardano invece l’art.9 intitolato “disposizioni  in tema di assistenza medico psicologica” .

E’intuibile infatti che la condizione degli orfani  ed ancora più di quelli il cui padre si sia reso autore del fatto  ( i cd Orfani speciali  secondo la definizione  di Maria Costanza  Baldry ) possono solo in parte essere paragonabili a  coloro che hanno perso un genitore in seguito ad eventi luttuosi ( catastrofi  naturali , incidenti stradali tra gli altri ) .

Senza dimenticare che ,  come si era anticipato  molto spesso l’evento luttuoso costituisce l’esito di altri comportamenti  violenti e criminali di cui l’autore  si è reso responsabile in passato e ai quali anche i figli hanno assistito , casi in cui quindi il lutto recente si aggiunge   ai ricordi.

Nè va trascurata la ipotesi non così infrequente,  che l’autore del femminicidio si suicidi o comunque sia ristretto in carcere .

Si tratta quindi  di situazioni complesse per le quali si fa fatica a comprendere cosi si intenda  per “ il tempo occorrente  a garantire il pieno recupero dello equilibrio psicologico “ come limite per garantire il sostegno psicologico e gli altri benefici sanitari.  

 Un ultimo rilievo infine riguarda la mancanza di automatismo nella  decadenza dalla  responsabilità genitoriale  .

L’art. 34 c.p.infatti prevede che la stessa sia però subordinata alla condanna ed in alcune specifiche ipotesi di reato .

Ma non  ritroviamo nella Legge n.4/2018 una norma specifica al riguardo : il che non significa ovviamente  che il genitore autore del reato possa esercitare detta responsabilità  ma che comunque  vi sia necessità di un intervento di sollecitazione  da parte dei famigliari o del Pubblico Ministero.

 

In via di conclusione  va purtroppo evidenziato come detta Legge sia poco conosciuta  e per nulla   applicata.

Per renderla attiva ed operativa si potrebbero adottare alcuni correttivi e iniziative

1)Contattare i Tribunali ordinari in illustrando il progetto e chiedendo loro quanti procedimenti di separazione  , divorzi, regolamentazione di figli non nati in costanza di matrimonio   nel quadriennio  2018/2021 si siano conclusi  con la formula di “non luogo a provvedere “a seguito del decesso di una parte, 

2)contattare gli uffici di volontaria giurisdizione per avere  indicazioni sulla nomina di tutori per minori orfani di vittime di femminicidio ,

3)sempre in volontaria giuridizione e verificare se ci siano accettazioni beneficiate in favore di minori figli di vittime di femminicidio, 

4) verificare presso il Tribunale dei minorenni se vi si siano procedimenti  “de poteste” aperti nei riguardi dell’altro  genitore colpevole di  femminicidio ,

5)  richiedere   di verificare presso il Miur  o presso Atenei se vi siano richiesta di borse di studio per le ragioni di cui all’art.4 e previsione di benefici per struttura pubbliche o anche per istituti pubblici , o se siano state stipulate  apposite convenzioni.

6) Contattare l’Inps per la verifica  di quanto abbiano ricorso / richiesto gli incentivi per le assunzioni.

7) Contattare i CAAF di zona ugualmente per ricevere  tali informazioni.

8) Contattare l’associazione   industriali  ed artigiani per sensibilizzare  ma anche per informare.

9) Contattare     anche l’Inail per accertare se vi siano state richieste ,ed eventuali concessioni di indennità , per ” morte in itinere “ della vittima di femminicidio .      

A latere andrebbe poi  valutata la necessità di una formazione obbligatoria e congiunta ,  per avvocati e magistrati , la creazione  di una banca dati a fini statistici nei vari Tribunali civili e penali e dei minorenni, i cui dati di rilievo e criterio di classificazione siano unici per tutta Italia così da avere una lettura  integrata,   coerente e conforme degli stessi.

 

 

 

17.                     L’USO DI NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI NELLE INDAGINI PENALI

 

a) Introduzione.

Il panorama tecnologico odierno fornisce nuove importanti possibilità investigative per le autorità requirenti. In particolare, i dati contenuti nei dispositivi elettronici appartenenti a una persona sottoposta ad indagini possono rivelarsi elementi probatori essenziali per l’accertamento di un reato.

Al contempo, nuove tecnologie sviluppatesi in particolar modo nello scorso decennio possono rappresentare un limite all’azione di indagine. Tra esse, in particolare, la crittografia. Tale tecnica nasconde il contenuto del dato, non permettendo la sua comprensione laddove esso sia captato posteriormente alla sua criptazione attraverso metodi tradizionali di ricerca della prova.

Nell’evidente interesse ad accedere a tali dati, le autorità requirenti utilizzano da tempo metodi d’indagine tecnologicamente innovativi, volti alla captazione diretta dei dati all’interno dei dispositivi attraverso un accesso surrettizio al sistema informatico.

Questi nuovi strumenti di indagine vengono chiamati in gergo “captatori informatici” o “trojan”.[77] Una volta inoculati nel dispositivo bersaglio, questi software permettono di operare un’ampia gamma di operazioni intrusive. Le operazioni possibili comprendono: l’accesso ai dati memorizzati nel dispositivo (con facoltà di copia), la registrazione del traffico dati in arrivo o in partenza (incluso quanto digitato sulla tastiera), la registrazione delle telefonate e delle videochiamate, e l’attivazione delle funzioni microfono e/o telecamera da remoto (con registrazione) indipendentemente dalla volontà dell’utente.

b) Le Sezioni Unite nel 2016.

Per vero, l’utilizzo dei captatori informatici come mezzo di ricerca della prova è in uso da parecchi anni (in alcuni sistemi giuridici, quali gli Stati Uniti, sin dai primi anni 2000), pur nell’assenza di una normativa in merito. L’uso dei captatori assurge a più generale attenzione nel nostro ordinamento solo nel 2016, quando le Sezioni Unite della Cassazione vengono chiamate a pronunciarsi sul tema. Nello specifico, l’oggetto del pronunciamento del Supremo Consesso verteva sull’utilizzo dei captatori per l’attivazione da remoto del microfono (o della videocamera) del sistema bersaglio. Tale utilizzo mira pertanto ad apprendere “ambientalmente” i colloqui che si svolgono nello spazio circostante, ovunque si trovi il soggetto che ha il possesso del dispositivo.

E’ noto che il comma 2 dell’art. 266 cpp esclude la possibilità di effettuare intercettazioni di conversazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora, a meno che vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, o quantomeno, ex art.13 della l.12 luglio 1991 n.203, che le indagini siano svolte in relazione a delitti di criminalità organizzata.

Secondo le Sezioni Unite del 2016 non può derivarsi a priori l’illegittimità̀ delle intercettazioni svolte con dispositivi di captazione in grado di seguire il soggetto ovunque esso si trovi, e tecnicamente impossibilitati ad interrompere la registrazione in base al luogo in cui sono posti. L’utilizzo di un dispositivo informatico con captazione “itinerante” – sulla base di un provvedimento di autorizzazione adeguatamente motivato e nel rispetto delle disposizioni generali in materia di intercettazione – costituisce, secondo la Corte, “una delle naturali modalità̀ di attuazione delle intercettazioni al pari della collocazione di microspie”. Ancora, la Corte rileva come la necessità di indicare con precisione il luogo di svolgimento delle intercettazioni tra presenti non è richiesta né dalla legge, né dalla giurisprudenza nazionale o sovranazionale, salvo quando esse debbano avvenire in un domicilio privato; nel caso in cui si proceda per i delitti di cui all’art. 13 d.l. 152/1991, tale presupposto non è mai necessario.

Tuttavia, la possibilità di porre in essere tale tipo di intercettazioni «al di fuori della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 della legge n. 203 del 1991» viene radicalmente esclusa, poiché in questo caso non si riuscirebbe a dare attuazione alla clausola prevista dall’art. 266 comma 2 c.p.p. a tutela del domicilio.

 

c) La richiesta di intervento del legislatore.

A seguito della sentenza delle Sezioni Unite, si rilevava da più parti, compresa autorevolissima dottrina[78], come tale metodo d’indagine incida fortemente sulla vita privata degli individui (intimità del domicilio, libertà e segretezza delle comunicazioni, diritto alla c.d. “privacy”), e come l’uso di tali strumenti non trovasse autorizzazione positiva in alcuna legge – come richiesto per converso dagli artt. 14 e 15 della Costituzione e dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (che contengono una riserva di legge per ogni intromissione nella vita privata, nell'intimità domiciliare e nelle comunicazioni del cittadino)[79] – basandosi esclusivamente su interpretazioni estensive operate in sede giurisprudenziale in una materia governata da un rigido principio di tassatività.

Si chiedeva pertanto di chiarire con una specifica regolamentazione legislativa come e quando potesse essere utilizzato il captatore informatico.

Venivano presentati alcuni disegni di legge, tra cui quello dell’allora deputato Stefano Quintarelli e intitolato «Disciplina dell’uso dei Captatori legali nel rispetto delle garanzie individuali», considerato anche da commentatori internazionali una delle normative più all’avanguardia d’Europa, anche dal punto di vista tecnico.[80] 

d) L’attuale regolamentazione normativa.

Sarà tuttavia solo la legge delega prevista dalla c.d. Riforma Orlando a fornire una prima regolamentazione dell’uso dei captatori (Legge n. 216 del 2017), affinata poi dal Decreto Legge n. 161/2019 e dalla Legge n. 3 del 2020 (c.d. “spazzacorrotti”), ad oggi in vigore.

La normativa delineata da tali interventi legislativi regolamenta l’utilizzo del captatore come “comando” di attivazione da remoto di microfono e videocamera del dispositivo, al fine di intercettare le conversazioni tra presenti: fuori dal domicilio; o interne al domicilio se vi è fondato motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l'attività criminosa (comma 2 dell’art. 266 c.p.p.), se si procede per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater (sostanzialmente, reati di criminalità organizzata), o se si procede per un delitto dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la p.a. con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni (ma solo “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l'utilizzo anche nei luoghi indicati dall'articolo 614 del codice penale”).

e) La situazione odierna e le correlate problematiche.

L’intervento legislativo riprende sostanzialmente i principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle Sezioni Unite del 2016 e sopra richiamati. La riforma, pertanto, appare incentrata sull’inviolabilità del domicilio fisico dei soggetti intercettati.

Non è dato rilevare considerazioni più generali sulla straordinaria potenza lesiva espressa dai captatori nei confronti della riservatezza nella vita privata e nelle conversazioni, posta la costanza dell’ascolto effettuato attraverso un microfono “itinerante”, ossia che si muove con il soggetto, e capace di intercettare sia lui sia persone terze “in scia” (ossia entranti nel raggio di ascolto del dispositivo). Altresì, mancano considerazioni relative alla proporzionalità tra tali lesioni e l’interesse di prevenzione e repressione dei reati (elemento necessario a livello sia interno sia internazionale), che dovrebbero quantomeno portare ad una limitazione qualitativa della possibilità di utilizzo dello strumento ai soli reati di particolare gravità, come d’altra parte previsto in altri Stati europei.[81]

Inoltre, continua a non essere regolamentato l’utilizzo dei captatori per perquisizioni e sequestri “digitali”, che ad oggi viene attuato attraverso un’interpretazione estensiva della normativa sui mezzi di ricerca della prova tradizionali operata per via giurisprudenziale. E’ pertanto permesso un ampio utilizzo di tali strumenti per accedere ai dati contenuti nella memoria di un dispositivo, o per intercettazione telematica – seguendo i limitati requisiti in materia (es. Cass., sez. V, 16556/09 “È legittimo il decreto del pubblico ministero di acquisizione in copia, attraverso l'installazione di un captatore informatico, della documentazione informatica memorizzata nel "personal computer" in uso all'imputato e installato presso un ufficio pubblico, qualora il provvedimento abbia riguardato l'estrapolazione di dati, non aventi ad oggetto un flusso di comunicazioni, già formati e contenuti nella memoria del "personal computer" o che in futuro sarebbero stati memorizzati”,  o ancora la Sentenza 48370/17 della quinta Sezione della Cassazione, nel famoso caso Occhionero, in cui si precisa che la pronuncia delle Sezioni Unite “Scurato” si riferiva solo a una funzione specifica del captatore, ovverosia l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti, e che per converso non riguardava affatto, limitandola, l’intercettazione telematica).

Si pensi alla quantità e alla qualità dei dati ad oggi rinvenibili all’interno di uno smartphone – es. di tipo sanitario o finanziario – apprensibili con un accesso informatico al sistema attraverso malware, senza limitazioni altre di quelle previste dalla normativa ordinaria su perquisizione e sequestro. Peraltro, si consideri come, a differenza della loro controparte “fisica”, tali attività siano occulte, permanenti, e funzionali all’acquisizione indiscriminata di beni (dati).

Ulteriore problematica attiene alle caratteristiche tecniche dei software utilizzati. Anche per una necessità di controllo di integrità e ammissibilità della prova, il codice del software utilizzato deve essere controllabile ex ante o quantomeno ex post (dal difensore), così come il metodo di inoculazione del software, le concrete operazioni effettuate nel dispositivo colpito, e la “catena di custodia” dei dati, al fine di garantirne l’aderenza ai dati originali.  Il mezzo di ricerca della prova deve poi evitare eccessive compressioni del diritto alla privacy sia del soggetto indagato, sia di soggetti terzi coinvolti nelle operazioni, i cui dati devono essere debitamente cancellati se non di interesse per le indagini. Infine, si consideri come l’uso di captatori possa portare ad una compromissione del sistema target che può essere indebitamente sfruttata da soggetti terzi per la commissione di reati informatici. L’indagato attinto da captatore deve pertanto poter conoscere – con una tempistica parametrata all’interesse d’indagine – della misura, al fine di proteggere il proprio sistema e ripristinarne la piena efficacia.

Sul punto, come previsto dalla normativa sui captatori informatici, il Ministero della Giustizia ha emanato un (piuttosto scarno) provvedimento,[82] principalmente incentrato sulle misure atte ad assicurare la permanenza e l’efficacia del captatore sul dispositivo ed impedire la rilevazione del software da parte del soggetto bersaglio. Le problematiche poc’anzi menzionate, correlate alla tutela dell’integrità del dato e dei diritti fondamentali della persona sottoposta ad indagine, sono insufficientemente condensate nell’espressione “i programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile sono elaborati in modo da assicurare integrità, sicurezza e autenticità dei dati captati su tutti i canali di trasmissione riferibili al captatore.”

f) Le proposte.

L’uso dei captatori informatici è contestabile sotto vari aspetti (proporzionalità della misura alla gravità del reato, violazione della riserva di legge ex artt. 14 e 15 cost. e art. 8 CEDU, in particolare riguardo alle funzioni non specificate dalla normativa in vigore e rimesse ad un’indebita sussunzione nei mezzi di ricerca tradizionali). A latere di questo, e delle considerazioni sopra svolte, anche a riguardo delle caratteristiche tecniche del captatore, le principali proposte di carattere “evolutivo” possono essere così condensate:

a livello di normativa ordinaria – aggredire l’articolo 189 del codice di procedura penale sulle prove atipiche, nella parte in cui non esclude prove in violazione di diritti fondamentali (nello specifico, ottenute attraverso interferenze illecite nella sfera personale del soggetto)[83];

a livello di evoluzione dei diritti fondamentali – stimolare lo sviluppo del concetto di domicilio informatico[84], già utilizzato dalla giurisprudenza per ipostatizzare il bene giuridico tutelato dall’art. 615 ter cp, riconducendolo sotto l’ombrello dell’art. 14 della Costituzione (si noti: la giurisprudenza e la normativa sul tema rimangono per contra incardinate su un principio di tutela del domicilio fisico – limitando l’uso dei captatori nel caso essi vengano utilizzati come spie ambientali all’interno della privata dimora); sviluppare un nuovo diritto fondamentale alla riservatezza informatica, e all’integrità dei dispositivi digitali, sulla scorta di quanto già operato in alcuni sistemi giuridici esteri (in particolare, si veda l’esempio tedesco)[85].

f) Considerazioni finali.

A molti anni dal primo uso dei captatori informatici, tali mezzi di indagini non appaiono ancora compiutamente normati. In alcuni casi, l’ordinamento permette agli organi requirenti di dotarsi di mezzi altamente lesivi della privacy dell’individuo sulla base di mere interpretazioni giurisprudenziali. La scarna legislazione in merito appare fortemente lacunosa: lentamente, si prendono in considerazione limitati aspetti di tale utilizzo, ignorando (volutamente?) un dovuto approccio olistico al tema.

Intanto, nuovi strumenti digitali di indagine prendono piede. Anche in Italia, vengono implementati sistemi di riconoscimento facciale che permettono, dopo una “schedatura” d’immagine (sia con fotografie dirette del viso operate in sede di identificazione, sia con l’utilizzo dei dati pubblici raccolti sul web, e in particolar modo sui social media), di identificare gli individui attraverso telecamere installate nei luoghi pubblici. Anche in questo caso, manca qualsiasi normazione del fenomeno, a latere dei timidi tentativi del diritto unionale di porre limiti alla volontà statale di controllo tecnologico.[86]

Il ritorno entro dei confini positivi, determinati dal legislatore con un’attenta disamina della questione, anche attraverso le lenti dei diritti fondamentali dell’individuo, appare oggi una necessità impellente, come argine alla creazione di un sistema di controllo orwelliano. A noi rimane il compito della sensibilizzazione pubblica, della pressione politica, e della sollevazione della questione nelle aule giudiziarie, come singoli cittadini, come professionisti, come associazioni che si battono per il rispetto dei diritti fondamentali all’interno di uno Stato di Diritto che limiti l’arbitrarietà dell’azione statale.

 

18.                     LA PARTE OFFESA

La figura della parte offesa del reato è delineata nel libro I, parte I del C.p.p., titolo VI persona offesa dal reato, all’art.90, dove vengono indicati i diritti e le facoltà della stessa nel procedimento penale: può indicare elementi di prova, presentare memorie, se minore può essere assistita dalle figure di cui agli artt.120e 121 del C.P. e, se deceduta a seguito della commissione del reato, i diritti e le facoltà sono esercitabili dai congiunti.

All’art.90 bis sono destinati l’indicazione delle informazioni sui diritti che deve disporre l’Autorità giudiziaria.

Nei codici penali e di procedura penale vigenti prima del 1989, data di pubblicazione del Nuovo Codice , la figura della parte offesa godeva di una serie di prerogative, ormai dimenticate e scomparse con la redazione del Nuovo codice di p.p.:

La p.o. dal reato, poteva partecipare a tutta la fase delle indagini condotte dal Giudice Istruttore, fin dall’inizio del procedimento, partecipava all’interrogatorio successivo all’arresto dell’ indiziato, si poteva costituire parte civile in quella fase e seguiva, in pratica, tutte le fasi del procedimento.

Oggi, nonostante le numerose innovazioni introdotte nella nuova procedura, la posizione processuale della parte offesa ha visto restringersi il campo delle facoltà e dei diritti in capo alla stessa e alla sua difesa.

Durante tutto il corso delle indagini, dalla denuncia alla richiesta di rinvio a giudizio, non ha alcuna informazione in ordine alle stesse, salvo avvisi per atti irripetibili;

nell’incidente probatorio il suo avvocato non può porre domande, ma solo memorie o precisazioni;

In caso di vittima di violenza di genere, è esposta a quella che può essere esercitata dall’imputato o indagato, che viene avvisato, anche in sede di colloquio con la PG, della denuncia subita, con contestuale diffida spesso richiesta dalle vittime. Non sono pochi i casi di ritorsione pericolose per le denuncianti.

Il progetto di riforma della Ministra della giustizia non presenta novità rilevanti, né adiuvanti alla piena partecipazione attiva della parte offesa, soprattutto nella fase cautelare, disciplinata dall’art.293 e commi collegati, che dispongono il diritto ad avere informazione delle modalità di denuncia o querela, diritto a conoscere la data e il luogo del rinvio a giudizio e di avere copia o estratto dell’eventuale sentenza di condanna , nonché il diritto ad avere la richiesta di archiviazione del PM, di poter usufruire del patrocinio a spese dello Stato, la traduzione degli atti, anche se all’estero, e di avere notizia delle eventuali misure di protezione se richieste dal PM (Art.90 bis lett.a)b)c)d)e)f) g) ). Quest’ultima comunicazione, importante per le vittime di violenza di genere, non sufficiente alla piena partecipazione della vittima al processo, per le successive osservazioni.

L’ art. 90 ter dispone l’obbligo di comunicare, alla p.o. o al suo difensore, le variazioni delle condizioni delle misure che si dispongono nei confronti dell’indagato e/o dell’imputato, per rendere edotta la parte delle circostanze che potrebbero incidere sulle vicende della parte offesa, ad esempio, in caso di pericolo alla persona, se l’indagato è a conoscenza della persona del denunciante, a lui indicato nell’esecuzione di una misura cautelare.

Ma ciò non è sufficiente alla completa cognizione degli eventi che avvengono durante le indagini, come l’avere avviso dell’esecuzione delle misure coercitive, dell’interrogatorio e dell’esito della convalida, così come il deposito degli atti che spetta al difensore e all’indagato, ma non alla parte offesa o al suo difensore.

Nè la parte offesa, fino alla possibilità di costituzione di parte civile, al Giudice dell’udienza preliminare, quando è previsto, o al dibattimento, prima dell’esplicarsi di tutte le formalità di apertura dello stesso, è messa in condizione di partecipare, dopo averne avuto avviso, all’udienza del tribunale della Libertà , se adito dall’arrestato, o all’appello contro il diniego della libertà espresso dal Gip, o al ricorso in Cassazione sulla revoca o modifica dello status proposta dall’indagato/imputato.

Pertanto, al fine di conciliare tutti i diritti e le prerogative delle parti partecipanti al processo penale, è importante modificare gli articoli che disciplinano le prerogative della parte offesa, adeguandone la partecipazione egualitaria con quella dell’indagato/imputato e si propone:

1) All’art.293 ter si aggiunga l’obbligo di comunicazione alla parte offesa dell’esecuzione delle misure cautelari, del diritto a consultare e estrarre copia della richiesta di misura del PM, del diritto ad avere copia del verbale di arresto e della comunicazione, contemporaneamente al Gip e al PM.

2) Che la parte offesa sia avvisata, o il suo avvocato, dell’interrogatorio dell’indagato, per assistervi e, come nel passato, permettere di evitare, con il confronto immediato, la negazione della partecipazione al reato, a causa del deterrente della presenza della parte offesa.

3) Così come all’art.293 c.2, disporre che le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare siano notificate all’imputato e alla parte offesa.

4) Anche in caso di trasgressione agli obblighi di PG, qualora sia fermato l’imputato, obbligo di avviso anche alla parte offesa e obbligo di comunicazione dell’esito della convalida. (art.307 C.p.p.)

 

19.                     ARTICOLI 613 E 97 CPP

 

a) Premessa

Come noto, l'originaria formulazione dell'art. 613, comma 1, cod. proc. pen. prevedeva che il ricorso per cassazione potesse essere presentato dalla parte personalmente ovvero da un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione.

La riforma Orlando (L.103/17) ha espunto dal 613 cpp le parole “salvo che la parte non vi provveda personalmente…”.

La novella legislativa ha, quindi, eliminato la possibilità per la parte di presentare il ricorso personalmente stabilendo che «l'atto di ricorso, le memorie e i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell'albo speciale della Corte di cassazione»; ha invece lasciato immutata per le impugnazioni diverse dal ricorso per cassazione, la legittimazione personale dell'imputato a proporle, non modificando  l'originaria previsione dell'art. 571 cod. proc. pen.

La norma ha chiaramente finalità deflattive, è vero che il numero dei ricorsi in cassazione era alto- a volte erano strumentali per prolungare il periodo di misura cautelare successivamente da scontare alla pena definitiva- ma va anche detto che è stata formata una sezione ad hoc – settima- che in camera di consiglio senza la presenza delle parti dichiara l’inammissibilità dei ricorsi, censurandone un 70/80 percento senza quindi un grande dispendio di energie.

La riforma è stata analizzata più volte dalla Corte di cassazione, un orientamento restrittivo applicava il 613 novellato solo ai ricorsi in Cassazione “ordinari”, un diverso orientamento a tutti ricorsi in cassazione, la questione è andata alle Sezioni Unite, le quali con sentenza n. 8914 del 23 febbraio 2018 [87] hanno aderito all’ultimo orientamento.   

Secondo il supremo collegio la riforma non inciderebbe sulla legittimazione a proporre ricorso da parte dell’imputato, cioè sulla titolarità del diritto ad impugnare, ma atterrebbe esclusivamente al profilo dinamico del suo esercizio concreto che l’art. 613 c.1 riserva esclusivamente al difensore iscritto nell’albo speciale. La riforma non avrebbe determinato l’abrogazione delle norme che contemplano il ricorso per cassazione dell’imputato, ma avrebbe solo ricondotto tali fonti di attribuzione della mera legittimazione soggettiva nell’alveo del principio di rappresentanza tecnica nel giudizio di cassazione. Non vi sarebbe alcun profilo di incompatibilità con i principi sanciti dagli artt. 13,24 e 111 c.7 Cost, e con le previsioni dell’art.6 par.3 lett.b e c), della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, poiché l'esercizio del fondamentale diritto di difesa deve essere differenziato in relazione alle varie fasi e tipologie di processo in modo tale da assicurare un livello di professionalità, adeguato all'importanza e alle difficoltà del giudizio. Il 613 sarebbe una norma di esclusione, espressa e generalizzata, della possibilità di sottoscrizione personale del ricorso per cassazione da parte dell’imputato e dei soggetti a lui equiparati, così eliminando qualsiasi deroga alla regola generale che richiede la rappresentanza tecnica da parte di un difensore abilitato.

Le SSUU, consapevoli che di fatto ad un’amplia fetta di condannati viene automaticamente precluso il sindacato di legittimità, arrivano a sostenere che il difensore d’ufficio, non iscritto all’albo speciale può nominare -ai sensi dell’art.102 cpp- un sostituto cassazionista.

Chi conosce gli importi, i tempi di liquidazione delle difese d’ufficio, il numero di ricorsi che in cassazione vengono dichiarati inammissibili e quindi ai quali è precluso il p.s.s., il fatto che la liquidazione verrebbe corrisposta al titolare e non al sostituto, si rende perfettamente conto che l’ipotesi ventilata è puramente teorica: il sostituto dovrebbe accollarsi un corposo lavoro, con la speranza che se il ricorso fosse dichiarato ammissibile, il titolare liquidato, a distanza di anni, a volte di lustri, forse potrebbe essere  retribuito dal titolare della difesa.

Mi permetto di citare due nostri referenti: Domenico Gallo che ha parlato di “sistema penale  a ferro di cavallo, nemico- amico”, Livio Pepino  “teoria penale per tipo di autore”.

Ebbene la riforma Orlando sulla ricorribilità in Cassazione consente il sindacato di legittimità solo per determinati autori o amici, i benestanti che si pagano il difensore di fiducia o perlomeno i ben integrati che hanno collegamenti con difensori fuori dal carcere. Gli emarginati, tra cui molti stranieri che spesso non conoscono bene la nostra lingua, sono sostanzialmente esclusi dalla dal terzo grado di giudizio se non hanno avuto la fortuna di trovare un difensore d’ufficio cassazionista.

Si è creato nel nostro ordinamento una sorta di terra di nessuno, una zona d’ombra, un limbo, l’imputato indigente è sostanzialmente escluso dalla possibilità di ricorrere in cassazione.

b) de iure condendo

La via maestra: una ulteriore riforma del 613 cpp sarebbe sicuramente la più semplice, ma anche la più improbabile: vedrebbe la netta ostilità di una parte dell’opinione pubblica e della Magistratura, assillata dal numero dei ricorsi in Cassazione che fino al 2018 hanno provocato una quasi paralisi dell’Ufficio e dal costo degli stessi. 

L’orientamento assunto dalle SSUU, anche alla luce della Carta Costituzionale e della CEDU, sembra difficilmente demolibile, fosse solo per l’autorevolezza dell’autore, però si rinviene uno spiraglio nell’art.97 cpp ove dispone:” l’imputato che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore d’ufficio”.

c) proposta

Il difensore d’ufficio inabilitato al ricorso in Cassazione non è un difensore con i poteri necessari a svolgere il suo ufficio, non può nulla contro l’atto, anche se lo ritiene illegittimo. Di fronte ad una sentenza della corte di appello di condanna, o ad un provvedimento ricorribile in Cassazione, ove vi sia l’assistenza di un difensore d’ufficio non cassazionista, la magistratura dovrebbe nominare un difensore d’ufficio iscritto nell’albo speciale, legittimato al ricorso, per consentire che effettivamente il diritto di difesa sia esercitato in ogni grado del giudizio anche per gli imputati più deboli.

Senza tendere ad una riforma legislativa, che appare oggi improbabile, una lettura estensiva e garantista dell’art.97 cpp eliminerebbe gli ostacoli suddetti alla difesa, garantirebbe anche in cassazione ai soggetti deboli la possibilità di ricorrere avverso un provvedimento ritenuto illegittimo.

La ricostituita integrità del diritto di difesa contemporaneamente darebbe lavoro agli avvocati- categoria particolarmente sofferente in questo periodo- e non comporterebbe alcun ingolfamento alla Cassazione, che vedrebbe un modesto incremento dei ricorsi, questa volta formulati da soggetti qualificati, solo nei casi di altamente probabile illegittimità.

La possibilità di aumentare il lavoro potrebbe incontrare il favore di molti colleghi e delle istituzioni rappresentative.

Potremmo redigere un elaborato difensivo che proponga l’applicazione “estensiva” dell’art. 97 cpp, nei termini suddetti, da utilizzare in tutti i casi in cui le corti d’appello non nominino un difensore d’ufficio abilitato in cassazione, quale memoria, nella quale proporre la nuova interpretazione del codice o in subordine sollevare la questione di legittimità costituzionale. Lo strumento potrebbe essere l’art.175 cpp restituzione nel termine. 

Pubblicizzare l’iniziativa presso i colleghi, i magistrati e i consigli dell’Ordine darebbe lustro alla nostra associazione e ci consentirebbe di individuare rapidamente un di ricorso nel quale proporre la nostra lettura dell’art. 97 cpp.

 

20.                     CARCERE

a)     Premessa

L’analisi delle condizioni di vita nelle carceri italiane e del rapporto intercorrente tra custodia cautelare e pena rappresenta la cartina di tornasole di un sistema penale sempre più inosservante il principio di uguaglianza e quello della funzione rieducativa della pena, che appare, negli ultimi anni, sempre più connotarsi per essere inutilmente afflittiva. È ormai noto che l’attuale condizione degli istituti di pena nazionali contraddice radicalmente l’intento delineato dalla Costituzione. Si è, infatti, in presenza di un sistema che ha decisamente spostato l’asse dalla prevenzione alla penalizzazione, tanto è che, da più parti, si parla di funzione pan-carceraria della pena.

Il carcere si configura sempre di più come contenitore del conflitto, come discarica sociale e strumento atto a confinare donne e uomini delle classi sociali meno abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa l’80 per cento della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate.

Le cause principali di tale situazione discendono, in sintesi, da due fattori che si snodano lungo due differenti direttrici.

Il primo è quello normativo, laddove alcune novelle legislative adottate in ambito penale hanno cominciato a dare frutti a pieno regime, in particolare, la c.d. Bossi–Fini, in materia di immigrazione (particolarmente dopo le modifiche introdotte dalla L. n. 94/2009), la Fini–Giovanardi (L. n. 49/2006) in materia di contrasto al traffico di stupefacenti e la c.d. ex Cirielli (L. n. 251/2005) che inasprisce sensibilmente le sanzioni penali e rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi, che costituiscono la grande maggioranza dei detenuti nelle carceri, detenzioni, queste ultime, molto spesso legate alla piccola e piccolissima criminalità, di cui la recidiva è fattore caratterizzante.

Il secondo fattore è quello culturale, che vede competere alcune forze politiche nel chi grida più forte alla sicurezza pubblica ed alla tolleranza zero. Si è, in definitiva, smarrito il senso del risolvere i problemi dei cittadini con strumenti diversi da quello carcerario. Se questo è il messaggio che viene dalla politica è evidente la ricaduta che ciò può avere sull’operato delle forze di polizia e della magistratura. Con ciò si spiega anche il dato relativo al numero di soggetti sottoposti alla misura cautelare massima.

D’altronde è evidente che il tema della sicurezza rappresenta un leitmotiv utilizzato da una parte della politica nazionale e locale quotidianamente ed ossessivamente, attraverso la costruzione dell’ideologia della paura dell’altro e del diverso, che si traduce in scelte politiche che, ispirate da pure ragioni demagogiche e di consenso, prendono a pretesto un supposto bisogno di sicurezza dei cittadini, artificialmente creato ed amplificato dagli organi di stampa, per introdurre nel nostro ordinamento norme palesemente antidemocratiche – così determinandone un arretramento intollerabile del livello di civiltà – rivelatrici di un atteggiamento discriminatorio, selettivamente orientato a colpire soprattutto i migranti e le persone che versano in situazioni sociali ed economiche disagiate.

In questo contesto, si segnala negativamente l’abbandono definitivo dei principali progetti di riforma del codice penale, per inseguire rimaneggiamenti legislativi settoriali tutti orientati all’inasprimento delle pene ed alla creazione di nuove fattispecie di reato, così mandando in soffitta ogni tendenza, da un trentennio, in più occasioni, caldeggiata da magistratura ed avvocatura, volta alla creazione di un diritto penale «minimo», volto ad individuare proposte tese alla decarcerizzazione, alla introduzione di sanzioni sostitutive, alla elaborazione di progetti di mediazione penale, alla instaurazione di prassi avanzate all’interno delle carceri.

Gli istituti di pena nazionali sono così pervenuti ad una situazione non più sostenibile.

I Giuristi democratici intendono mantenere l’orizzonte di una riforma sostanziale del codice penale che promuova una drastica riduzione dei reati e delle pene e la riconduzione del carcere ad extrema ratio attraverso la tutela del principio della riserva di codice, la concessione più equilibrata e diffusa del beneficio della pena sospesa. La previsione di misure extrapenali e la riduzione dei minimi e dei massimi edittali possono rappresentare soluzioni ben migliori se affiancate alla disponibilità a rivedere normative altamente criminogene.

Una politica criminale lungimirante dovrebbe guardare alle cause del sovraffollamento ed intervenire sulle disposizioni che creano un incremento dei detenuti, senza, peraltro, far accrescere la sicurezza pubblica. La riforma del codice penale rappresenta, in questo quadro, la strada maestra per eliminare la centralità della pena detentiva, per introdurre pene alternative e sostitutive alla detenzione e valorizzare l’utilizzo delle misure alternative, in una prospettiva di lungo periodo in cui si pervenga alla definitiva abolizione dell’istituto carcerario.

È, in definitiva, indispensabile cambiare approccio, abrogare le leggi che hanno, di fatto, creato criminalizzazione e carcerazione crescenti, per delineare il ritorno ad una nuova stagione del «diritto penale minimo», capace di comprendere e incidere sulle effettive ragioni sociali della devianza e del crimine.

 

b)    Proposte

In disparte dalle più articolate proposte di riforma della intera materia, a titolo di urgenza, i Giuristi Democratici hanno sottoscritto alcune proposte minime di riduzione del danno da sovraffollamento carcerario, sia per i detenuti che per le loro famiglie, indirizzate ai Provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria, ai direttori delle carceri, ai magistrati di Sorveglianza.

In via preliminare, in termini generali, ove non sia rispettato lo spazio che per legge deve essere garantito ad ogni detenuto ridotto dietro le sbarre, devono essere concesse le misure alternative al carcere. Non è infatti consentito che, a quella restrittiva della libertà personale, sia illecitamente aggiunta la pena delle sofferenze provocate dal vivere in un ambiente molto ristretto, con spazio insufficiente.

A ciò si aggiungono le proposte elaborate dalla redazione di Ristretti Orizzonti e dall’associazione Antigone Padova, molto semplici (attuabili da subito e a costo zero) già in parte presenti nella lettera circolare del 24/04/2010 (Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire i fenomeni auto aggressivi) e in quella del 7/7/2010 (Ulteriori iniziative per fronteggiare il sovraffollamento), che non dovrebbero però costituire un “invito alle Direzioni” a metterle in pratica, ma essere recepite come misure fondamentali per riportare un minimo di legalità nelle carceri.

Chiediamo quindi che le indicazioni presenti nelle circolari diventino disposizioni vincolanti per le Direzioni e non suggerimenti da attuare a discrezione. · Apertura 24 ore su 24 dei blindi per favorire la ventilazione e il ricambio di aria nelle celle sovraffollate; · apertura delle celle nel corso di tutta la giornata con libero accesso alle docce; · utilizzo più ampio possibile dell’area verde per i colloqui; · concessione dell’aria estiva: un’ora aggiuntiva di passeggi dalle 17:00 alle 18:00; · aumento delle ore di attività sportive (campo e palestra) e predisposizione di attrezzi nelle aree dei passeggi per permettere alle persone, compresse per ore nelle celle in spazi ridottissimi, di fare almeno un minimo di esercizio fisico; · utilizzo di tutti gli spazi comuni nelle sezioni per attività che coinvolgano i detenuti, che non lavorano e non sono impegnati in nessuna attività; · accesso del volontariato nelle carceri almeno fino alle 18; · autorizzazione all’acquisto di frigoriferi per conservare i generi alimentari acquistati o portati dalle famiglie, da installare all’interno delle celle (come già avviene nella Casa di reclusione di Padova e nella Casa circondariale di Trieste); Piccole proposte per non distruggere anche le famiglie, oltre che le persone detenute: · in considerazione del sovraffollamento in strutture, pensate e attrezzate per ospitare meno della metà dei detenuti presenti, per cercare di “salvare” almeno le famiglie sarebbe opportuno portare a otto le ore mensili previste per i colloqui; · dovrebbero essere migliorati i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani o i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici); · sarebbe importante predisporre nelle sale colloqui ventilatori o condizionatori in numero sufficiente per rendere sopportabile alle famiglie, e soprattutto ai bambini, la permanenza in tali aree; · dovrebbero essere concessi con maggior rapidità i colloqui con le terze persone; · dovrebbero essere concesse a tutti i detenuti due telefonate supplementari, in considerazione delle condizioni disumane in cui stanno vivendo: E forse telefonare più liberamente ai propri cari, mantenere contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, ma anche quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire una forma di prevenzione dei suicidi; · dovrebbero essere rese più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile.

 

21.                     ERGASTOLO OSTATIVO

I Giuristi Democratici propongono una riforma dell’istituto dell’ergastolo ostativo, in una prospettiva di un «adattamento costituzionale» della disciplina dell’art. 4 bis o.p.. Il regime ostativo applicato all’ergastolo ha come fine (inteso come scopo) quello di indurre il reo alla collaborazione con la giustizia.

L’ergastolo ostativo, a differenza del comune ergastolo, non consente benefici penitenziari. Negati quindi benefici come: i permessi premio, la liberazione condizionale, il lavoro esterno, la semilibertà e qualsiasi misura alternativa alla detenzione. Non è un assoluto, in quanto i detenuti potrebbero beneficiarne a condizione che, ai sensi dell’art. 58-ter o.p., collaborino con la giustizia.  La Corte costituzionale con un comunicato emesso il 15 aprile 2021, dichiara che l’ergastolo ostativo è anticostituzionale e rimanda la questione alle delibere in merito del Parlamento.

Si né quindi ulteriormente sviluppato il dibattito sulla possibile riforma dell’istituto. Fermi restando, ovviamente, i normali requisiti legislativi (sia di ordine temporale, sia legati alla progressione trattamentale del condannato) per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative, tutte le proposte mirano a rimuovere le attuali preclusioni, seguendo però strategie normative differenti e alternative: [1] eliminare l’obbligo della condotta collaborante, condizionando l’accesso ai benefici penitenziari esclusivamente all’accertata mancanza di legami con la criminalità organizzata; [2] mantenere l’attuale funzione premiale della condotta collaborante, prevedendo nell’ipotesi di mancata collaborazione quote aggiuntive dei periodi di pena da scontare prima di poter chiedere l’ammissione alle misure alternative; [3] trasformare le attuali presunzioni legali da assolute a relative, consentendo la concessione dei benefici nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere degli altri presupposti di legge, diversi dalla collaborazione medesima; [4] escludere dalle preclusioni penitenziarie l’istituto della liberazione condizionale, quale misura estintiva dell’ergastolo.

Quanto alla dimostrazione dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, si invoca un mutamento di paradigma: dall’attuale prova negativa (spesso diabolica), alla prova in positivo a seguito di attività istruttoria svolta dalla magistratura di sorveglianza.

Occorre, in sostanza ammettere ai benefici il soggetto che, avendo portato avanti un proficuo percorso trattamentale e di autentica critica verso il proprio passato, pur senza poter fornire elementi investigativi utili (magari, a distanza di 15-20 anni dai fatti), attualmente non può accedere a misure alternative alla reclusione e vede come unico destino quello di una pena perpetua.

Simili modifiche, ridefinendo nel complesso il regime ostativo di cui all’art. 4-bis, avrebbero conseguenze dirette anche sotto il profilo della «neutralizzazione» dell’ergastolo ostativo, che non sarebbe più senza scampo per il condannato: se oggi la pena dell’ergastolo ostativo «non finisce mai, salvo che…», domani si vorrebbe che quella pena «finisse sempre, salvo che…».

 

22.                     IL REGIME DETENTIVO SPECIALE EX ART. 41-BIS O.P.

All’inizio di febbraio 2019, il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha pubblicato un “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario”, contenente le risultanze delle quattordici visite effettuate da tale organo collegiale, tra il 2016 e il 2018, presso le dodici Sezioni per detenuti in regime speciale previste dal predetto art. 41-bis.

In tali Sezioni risultavano detenuti 738 uomini e 10 donne; al 19 gennaio del 2019, solo 363 su 748 di essi – di cui quattro donne - avevano una posizione giuridica definitiva (erano cioè stati condannati con una sentenza penale passata in giudicato); 51 di esse risultavano detenute in “Aree riservate”.

Il Rapporto reca diciotto Raccomandazioni in ordine ad altrettanti profili di criticità riscontrati; esse tengono conto, fra l’altro, delle pronunce della Corte costituzionale che hanno riguardato l’art. 41-bis e delle prescrizioni impartite in materia dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), della quale lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, Mauro Palma, ha fatto parte fino al 2011.

È bene ricordare che la Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, ha ritenuto il regime detentivo speciale ex art. 41-bis non incompatibile con i principi costituzionali in materia di diritti fondamentali della persona (art. 2), di inviolabilità della libertà personale (art. 13) e di finalità rieducativa della pena (art. 27) a due precise condizioni

  1. che nessuna misura sospensiva dell’ordinario trattamento penitenziario (quale l’art. 41-bis) comporti restrizioni della libertà ulteriori rispetto a quelle derivanti dalla detenzione;
  2. che, in ogni caso, la relativa applicazione non determini mai la violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti, ovvero vanifichi la finalità rieducativa della pena.

 È importante tener presenti tali presupposti perché è proprio l’eventuale conflitto con gli stessi, empiricamente verificato, a chiarire se ed in quali casi una misura cui è assegnata una funzione asseritamente cautelare assolva, in realtà, ad una finalità ulteriormente —ed illegittimamente— afflittiva nei confronti del detenuto.

 

Il regime detentivo speciale noto come “41-bis” nasce nel 1995 come misura emergenziale e provvisoria, al fine dichiarato di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, ancorché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione rispetto ad attività criminali poste in essere da altri criminali in libertà.

Nella formulazione originaria, pertanto, era prevista la sospensione temporanea del trattamento detentivo ordinario “quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza”; tuttavia, dopo una serie di proroghe, nel 2002 il 41-bis è entrato a regime nell’Ordinamento penitenziario, trasformandosi pertanto da misura straordinaria in istituto ordinario.

Tale normalizzazione ha trovato uno straordinario —e probabilmente calcolato— supporto nella valenza simbolica assunta presso l’opinione pubblica dal c.d. “carcere duro”, quasi che dichiararsi a favore o contro di esso implicasse, per ciò solo, lo schierarsi contro la criminalità organizzata ovvero il non prenderne sufficientemente le distanze. Plausibilmente, è proprio la difficoltà di ricondurre la trattazione del tema su un piano razionale a rendere arduo e impopolare ogni tentativo di affrontarne le ricadute sul versante della legittimità: ne ha fatto le spese lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, il quale, a seguito della pubblicazione sulla pagina Facebook “Polizia penitenziaria – Società, Giustizia e Sicurezza” di un articolo che richiamava alcune criticità da lui evidenziate nel Rapporto sul regime detentivo speciale del 41-bis, è divenuto bersaglio di minacce e intimidazioni.

Tra le prassi carcerarie rispetto alle quali l’Autorità Garante ha formulato specifiche Raccomandazioni troviamo, a titolo esemplificativo: la presenza di sezioni o raggruppamenti costituiti da meno di tre persone detenute (n. 3); la ritardata esecuzione dei provvedimenti della Magistratura di sorveglianza (n. 7); l’apposizione di schermature stratificate alle finestre, sì da ridurre al minimo il passaggio di luce e aria fresca (n. 8); l’irrogazione di misure disciplinari ai detenuti che salutino un’altra persona ristretta chiamandola per nome (n. 12); il ricorso eccessivo alla misura dell’isolamento (n. 13); la concorrenza fra il tempo destinato alla lettura per mezzo del computer fisso e quello riservato ad attività esterne, sì da renderli alternativi fra loro (n. 15); l’imposizione di preclusioni eccessivamente rigorose alla fruizione dei canali televisivi (n. 6) e all’acquisto e alla disponibilità di organi di stampa e pubblicazioni (n. 16).

Nessuna, fra le predette prassi, risulta funzionale all’esigenza cautelare che costituisce presupposto e limite all’applicazione del regime detentivo speciale del 41-bis; molte di esse, al contrario, interferiscono con il percorso di recupero cui la Riforma del 1975 finalizza la detenzione, di fatto precludendo la rieducazione del condannato.

Il contrasto stridente tra la finalità dichiarata e quella effettivamente perseguita dal c.d. “carcere duro” (di fatto, indurre il detenuto alla collaborazione, fungendo altresì da deterrente nei confronti di coloro che operano nell’ambito della stessa o di altre associazioni criminali) impone pertanto, se non la totale espunzione dall’ordinamento del regime detentivo speciale ex art. 41-bis, quantomeno una significativa rivisitazione delle sue concrete modalità applicative, affinché le stesse non si traducano in una afflizione aggiuntiva e lesiva della dignità umana, oltre che confliggente con i principi costituzionali in materia di responsabilità penale e finalità rieducativa della pena.

Non sfugge, difatti, che una simile modalità di espiazione della pena (estesa, ricordiamolo, anche a soggetti la cui posizione giuridica non è ancora definitiva) prescinde da ogni valutazione in concreto circa il percorso di recupero più idoneo alla rieducazione del detenuto: giungendo addirittura a vanificarla quando, come spesso avviene, la cessazione del 41-bis e quella della pena detentiva avvengono contestualmente o a breve distanza l’una dall’altra. In tale ottica, ogni automatismo che correli la pena al reato anziché al reo, impedendo la sua individualizzazione, la priva, per ciò stesso, della sua finalità rieducativa, finendo per assolvere a una funzione meramente retributiva.

Ammesso, poi, che possa stilarsi una graduatoria delle pratiche degradanti, è la prassi richiamata dalla Raccomandazione n. 1 a suscitare la maggiore esecrazione: la previsione di apposite sezioni di “Area riservata” all’interno degli Istituti che ospitano Sezioni di regime detentivo speciale.

Tali Aree sono separate dalle altre che accolgono detenuti sottoposti al 41-bis, e sono destinate alle persone ritenute “apicali” dell’organizzazione criminale di appartenenza; vi si applica un regime detentivo ancora più rigoroso e al limite della tollerabilità, con limitazioni che talora comportano il quasi sostanziale isolamento della persona detenuta.

Proprio per evitare di incorrere nella violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’Area riservata anche un altro detenuto che non avrebbe titolo a starvi, ma che —nel crudo e spietato gergo carcerario— assolve alla funzione di “Dama di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi.

La legittimazione formale di tale segregazione risiederebbe, secondo il Governo italiano (interpellato al riguardo dal CPT), nell’art. 32 del dPR 230/2000, che tuttavia concerne “la collocazione più idonea di quei detenuti e internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni”. Tale esigenza cautelare, tuttavia, non risulta allegata né comprovata rispetto ai detenuti collocati nelle Aree riservate; e, men che meno, nei confronti dei detenuti loro assegnati per compagnia, i quali si trovano pertanto assoggettati a un regime detentivo di estremo rigore in modo del tutto ingiustificato (oltre che lesivo del principio di personalità della responsabilità penale).

Come ricordato dall’insigne giurista Andrea Pugiotto, Cesare Beccaria ebbe ad affermare che “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Se ciò è vero, un sistema detentivo incentrato solo sul contenimento delle persone in uno spazio e nella loro sottoposizione a limiti e obblighi (aggiuntivi alla pena detentiva e non giustificati da esigenze concrete) riduce le persone a cose, ed è offensivo della dignità umana tanto nella sua accezione statica quanto nella sua proiezione dinamica, come meta da riconquistare. È un sistema, dunque, di per sé destinato a inverare quel “trattamento disumano e degradante” che l’art. 27 della Costituzione e l’art. 3 della CEDU espressamente vietano. 

 

23.                     RIPORTARE LA COSTITUZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO

 

 

L’obiettivo che si propone questo lavoro è quello di suggerire soluzioni migliorative nel campo del diritto del lavoro e del suo sviluppo processuale.

Per fare ciò appare necessario, peraltro, partire dalle leggi fondamentali che hanno interessato il settore negli anni ’70 e che hanno costituito il fiore all’occhiello del welfare italiano, realizzando, quanto meno in parte, il dettame della nostra Costituzione secondo cui il diritto al lavoro è il diritto fondante della nostra Repubblica.

Le norme-cardine di quella costruzione sono state, e lo sono in parte anche oggi, lo Statuto dei Lavoratori e la legge 533/73 sul processo del lavoro.

Con queste due norme, una di diritto in buona parte sostanziale ed una di diritto processuale, si era realizzata una situazione di favore per i lavoratori, considerati l’anello debole e dunque da tutelare, del rapporto di lavoro.

Creazione di specifici diritti, loro tutela, rapidità nel loro accertamento, favor lavoratoris nel processo, pubblicità dello stesso, oralità del processo erano tutti elementi che miravano a garantire il lavoratore circa il rispetto dei suoi diritti che sarebbe stato accertato in maniera pubblica, rapidamente e tenendo conto, appunto, della sua posizione di tendenziale inferiorità rispetto al datore di lavoro.

 Il 20 maggio sono decorsi cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, non a caso, si intitolava “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. L’oggetto principale della legge riguardava proprio la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà dell’attività sindacale. Con esso, la Costituzione riuscì a superare lo steccato dei poteri privati e a penetrare in territori dai quali era stata lungamente e tenacemente esclusa.

Lo Statuto si rivolgeva al settore principale dell’universo del lavoro, quello del lavoro subordinato, però poneva dei principi che superavano tale ambito, costituiva un punto di orientamento nei rapporti economico sociali mirante al riconoscimento della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art.35Cost), quale espressione della centralità della persona umana. Insomma il valore insuperabile dell’elemento umano che rende il lavoro un fattore di produzione non assimilabile ad una merce.

Non si trattò di una riforma indolore: essa incise con il bisturi sul bubbone di pratiche discriminatrici dure a morire e segnò l’avvento di una stagione di maggiori diritti, maggiori protezioni, migliori condizioni di vita per l’homofaber.

Da molto tempo questa stagione si è rovesciata per vicende relative alle modalità di sviluppo della globalizzazione, incentrata su un insensato modello di competizione al ribasso fra gli ordinamenti. La libertà di circolazione dei capitali, la delocalizzazione delle attività produttive alla ricerca delle condizioni ambientali di miglior favore per gli investitori, l’utilizzo esasperato della tecnologia per sostituire il lavoro umano, l’eliminazione progressiva dei vincoli che la politica utilizzava per mediare il conflitto economico-sociale, le privatizzazioni e l’affermazione della incontestabile egemonia del mercato sulla società, hanno portato ad una progressiva mortificazione dell’elemento umano.

 

Analoga controriforma si è, nei fatti, verificata sotto il profilo processuale, e per assurdo in un momento in cui si è riconosciuto ormai universalmente al processo del lavoro una validità che ha imposto l’applicazione di quel rito anche ad altre fattispecie: peccato, però, che nel frattempo siano  andati perduti i caratteri principali di quel processo, costituiti non solo dalla sua celerità, ma anche dall’oralità, dalla pubblicità e dal favor lavoratoris, come già sopra affermato.

La responsabilità di ciò è da addebitarsi, da un lato, alla magistratura che non è stata in grado in molti distretti, di garantire la corretta applicazione del rito, dall’altra, alle forze  imprenditoriali che hanno abilmente svolto una funzione di progressivo sgretolamento del sistema di garanzie fondato sulle due leggi fondamentali sopra richiamate, sgretolamento cui le forze sindacali e del centro-sinistra non sono state in grado di opporsi, alcune volte, addirittura, appoggiando quasi inconsciamente le iniziative padronali (ma altre volte facendolo consciamente!).

Si è giunti, così, all’entrata in vigore di norme che hanno indebolito la posizione dei lavoratori, che oggi si trovano privati tendenzialmente di molti dei loro diritti; ciò è avvenuto principalmente con l’approvazione  del Collegato Lavoro, della Legge Fornero e del Jobs Act e di molte altre innovazioni normative.

La sostanziale modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, invocata da anni dal centro-destra e dal mondo dell’imprenditoria e respinta in passato dalla dura opposizione dell’opinione pubblica, si è infine realizzata proprio grazie all’azione di un governo di centro-sinistra.

A poco a poco la tutela del lavoro umano incentrato sul modello del lavoro subordinato è stata ridimensionata svuotando il contenitore del lavoro a tempo indeterminato attraverso l’invenzione di una miriade di forme contrattuali a titolo precario, fino alla quasi totale liberalizzazione del lavoro a tempo determinato. Alla fine, grazie al Job’sAct di Renzi, è stata rimossa anche la garanzia che teneva in piedi tutto l’impianto dei diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori attraverso la sostanziale cancellazione dell’art. 18, la norma che reprimeva il licenziamento illegittimo, assicurando un regime di cosiddetta stabilità reale.

A questo progressivo degrado della tutela dei diritti dei lavoratori hanno, a volte, posto un argine la Magistratura del Lavoro e la Corte Costituzionale che hanno impedito il totale crollo dell’impianto delle garanzie per i lavoratori.

Ma la situazione resta gravissima, al punto di portare molti studiosi della materia ad affermare che il diritto e processo del lavoro sono morti!

Non possiamo e non dobbiamo arrenderci di fronte a questa situazione.

Occorre recuperare un’iniziativa che, da un lato, ribadisca la centralità del rapporto di lavoro e della sua tutela nella realizzazione di uno Stato di diritto e del suo welfare; dall’altro, proponga iniziative sul piano legislativo e giurisprudenziale che consentano di rimettere in piedi e di migliorare quella tutela che il legislatore degli anni ’70 aveva introdotto.

Per fare ciò, è indispensabile un’operazione culturale e politica, volta a ricostruire  una alleanza di quella parte della cultura giuridica che crede nel  ruolo di demercificazione del diritto ed in particolare dei valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore, con quella parte organizzata dei lavoratori che crede nel ruolo della democrazia sindacale e del conflitto così come disegnato nella Carta costituzionale.

Le «controriforme» del lavoro degli ultimi anni hanno abrogato le normative a tutela dei lavoratori faticosamente conquistate negli anni 60 e 70 e che davano attuazione ai principi e diritti di cui agli artt. 1, 2, 3, 4 e 41, 2º comma della Costituzione.

Con la legge più importante di quegli anni, lo Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300/70), finalmente «la Costituzione varcava i cancelli delle fabbriche», come significativamente affermò l’allora Ministro socialista del lavoro On. Brodolini.

Con la eliminazione delle norme fondamentali dello Statuto (art.18, reintegrazione nel posto di lavoro; art. 13, divieto di demansionamento; art. 4, divieto di controllo a distanza della attività lavorativa) operata con gli otto decreti legislativi attuativi del c.d. «Jobs Act», la Costituzione è stata di nuovo estromessa dai luoghi di lavoro.

E noi vogliamo lì riportarla.

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Facciamo precedere le considerazioni sull’opera dei nostri tardi epigoni del neoliberismo con il lucido giudizio dello storico inglese David Kynaston sulla più duratura, drastica (e fallimentare) applicazione governativa del neoliberismo:

«…se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’uguaglianza…».

 

a) Tutela reale contro ogni licenziamento illegittimo

Considerazioni preliminari circa “la civiltà giuridica di questo paese”

La stabilità del rapporto di lavoro come principio fondamentale del nostro ordinamento è così descritta da uno dei più grandi giuristi  del dopoguerra,  Massimo D’Antona.

 Nel libro di insuperata lucidità, rigore scientifico e afflato etico-sociale, «La reintegrazione nel posto di lavoro» (Padova – Cedam 1979) a pagina 13 così argomenta:

“… E’ lecito affermare che la tutela reintegratoria costituisce l’unica risposta possibile  ai bisogni di tutela che l’abuso del potere di licenziamento mette in evidenza; l’unica coerente sia con l’ampia ridefinizione del potere organizzativo dell’imprenditore che l’evoluzione della legislazione e della contrattazione collettiva ha portato con sé, …sia con la più generale esigenza di una rigorosa effettività degli interventi legislativi sul mercato del lavoro. Retrocedere, anche surrettiziamente, verso un sistema di garanzia risarcitoria, restituendo all’imprenditore l’ultima parola nella vicenda del licenziamento…costituirebbe un sintomo grave. Ripercorrendo il lungo cammino che ha portato l’ordinamento italiano a realizzare – con più di ventanni di ritardo sulla costituzione – un dignitoso livello di tutela giuridica contro i licenziamenti arbitrari, non si può fare a meno di aggiungere …che ogni passo indietro sarebbe certo una sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor più, una sconfitta per la civiltà giuridica di questo paese”.

In queste parole si esprime la esemplare sintesi del significato e del valore della tutela reale del posto di lavoro introdotta con l’art. 18 l. 300/70: quello che ci occuperà di seguito è la ricognizione sul livello di barbarie giuridica in cui è stata precipitata l’Italia con le controriforme della legislazione del lavoro.

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b) I principi di diritto comune

Il nostro ordinamento giuridico si fonda sulla tendenziale stabilità del contratto: l’art. 1372 del codice civile stabilisce infatti che “il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.

Per quanto attiene, in particolare, i contratti a prestazioni corrispettive è la legge a regolare le ipotesi scioglimento dei vincoli contrattuali: per “rescissione”, collegata ad anomalie all’atto della loro formazione (artt. 1447 – 1452 c.c.), per “risoluzione per inadempimento” (artt. 1453 – 1462 c.c.), per impossibilità sopravvenuta” (artt. 1463 – 1466 c.c.) e, infine, per “eccessiva onerosità”, con ciò confermandosi sia il principio generale di stabilità del contratto che di tassatività delle  ipotesi del suo scioglimento.

Una sola vistosa eccezione era rappresentata nel vigente codice civile emanato nel 1942: il c.d. “recesso ad nutum” dell’art. 2118 c.c. secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato poteva essere liberamente risolto in ogni momento.

Tale norma riproduceva il contenuto dell’art. 1628 del codice civile del 1865 che vietava la perpetuità della locazione di “operae”. A metà del novecento dunque si attua la tendenziale stabilità dei vincoli contrattuali ma si mantiene la sola sua deroga rappresentata dalla libera recedibilità del contatto di lavoro di origine ottocentesca.

L’ulteriore, significativo corollario della stabilità dei contratti a prestazioni corrispettive deriva sia dall’art. 1453 c.c., secondo il quale la parte  adempiente “può a sua scelta chiedere l’adempimento …salvo in ogni caso, il risarcimento del danno”, sia dall’art. 2058 c.c. che consente al danneggiato di richiedere «la reintegrazione in forma specifica, qualora  sia in tutto in parte possibile». Insomma la illegittima risoluzione del contratto non consentiva la estinzione del rapporto.

Decisivo risulta essere il passaggio che il codice civile propone dall’art. 1218 all’art. 1453 c.c. E’ opportuno notare come il legislatore   ha volontariamente ampliato lo spettro rimediale nel passaggio dall’“inadempimento dell’obbligazione” all’“inadempimento del contratto”, riconoscendo l’adempimento in forma specifica quale strumento rimediale alternativo soltanto nell’ultima fattispecie. Tale rilievo conferito alla struttura contrattuale, la quale viene elevata rispetto alla semplice obbligazione, conferisce carattere vincolante alla stessa in maniera superiore rispetto alla semplice obbligazione.  Negare tale distinzione, attraverso la comparazione tra contratto e obbligazione, significa ridurre ad una metonimia quelle che dogmaticamente rappresentano autonome e differenziate fattispecie. 

Ecco quindi che il “ripristino” del rapporto e la “reintegrazione” sono considerati come normale conseguenza nel diritto comune, per la illegittima privazione di un bene, di una servizio o di una utilità previste nel contratto. Lo stesso codice civile, prevede la azione di “reintegrazione” di chi sia stato privato del possesso di una cosa contro la sua volontà o che sia impedito nella pacifica attività di godimento del bene (artt. 1168 e 1169 c.c.).

In ambito comparativo, è attuale l’introduzione di istituti a carattere compulsorio, tanto di natura indennitaria come l’astreinte di derivazione francese, tanto di matrice penalistica come il Contempt of Court in ambito anglosassone, ovvero la Geldstrafe di matrice austro-tedesca.

Tale approccio consente di concepire l’obbligazione succedanea di ripristino come un ordinario vincolo obbligatorio, la cui precettività deve essere affidata al mezzo di tutela in forma specifica, prima ancora del rimedio risarcitorio. Nell’ambito del credito, che per relationem può essere facilmente esteso a tutta la materia contrattualistica, l’esclusione della tutela reintegratoria condurrebbe alla mancata vincolatività per il contraente inadempiente dell’obbligazione primaria come dedotta all’interno del contratto, con la remissione in favore dello stesso inadempiente circa l’esatta esecuzione di ripristino.

La natura coercitiva del ripristino e della reintegrazione assumono caratteri dogmatici imprescindibili nell’applicazione pratica dell’apparato sanzionatorio dell’inadempimento: difatti, contravvenendo a tale principi, il rischio sarebbe quello di delegittimare il grado di effettività dei rimedi a disposizione nell’ambito della disciplina contrattualistica.

In definitiva, il diritto al ripristino del rapporto contrattuale rientra in maniera ineludibile tra i rimedi contro l’inadempimento, rappresentando un caso di adempimento successivo che si atteggia quale naturale sviluppo, in forma rimediale, dell’originaria pretesa alla corretta esecuzione del contratto.

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E’ ancora il caso di rilevare che da millenni la “restitutio in integrum” (da cui deriva la “reintegrazione”) è la principale e generale conseguenza della privazione illegittima di un qualunque bene.

Nel diritto romano la “in integrum restitutio” era il provvedimento del magistrato mediante il quale si poneva nel nulla un effetto giuridico pregiudizievole, reintegrando il preesistente stato di diritto.

Con essa, insomma, si attua la giustizia come riconoscimento e attuazione dei principi millenari su cui si fonda la nostra civiltà.

  1. KANT affermava che: “……se la giustizia scompare non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra……”.

E così si evoca la scoperta fondamentale di PLATONE: nessuna vita umana ha più valore se “normale” diventa la ingiustizia, nel senso che il torto fatto a qualcuno non appare come torto fatto a ciascuno, un’offesa a quei basilari rapporti di valore su cui si fonda l’esercizio di una vita degna del nome di umana.

E il concetto di giustizia si sostanzia, nella affermazione di Platone, nel rispetto del “dovuto” a ciascuno. Il “dovuto” come sinonimo del giusto compare continuamente nel 1° libro della “Repubblica”: si potrebbe ricostruire da questa nozione così pervasiva della nostra storia intellettuale e civile, il concetto di norma o di obbligazione, a partire dalle sue umili origini.

Compare, sempre nel 1° libro della “Repubblica”, nelle parole del vecchio Cefalo, in relazione ai depositi ricevuti o ai debiti: giusto è restituire il “dovuto”.

Ecco dunque la formula più fortunata della meditazione occidentale sulla giustizia, che Platone attribuisce ad un poeta, Simonide: giusto è “……dare a ciascuno ciò che gli è dovuto……” (Platone, Repubblica, I, 331).

SOCRATE  parte  da   qui per   attuare   il passaggio   dalle   relazioni debitorie   a  tutti   gli ambiti   della vita. Così la riflessione  greca   si  trasmette al mondo romano: CICERONE nel 3° libro del “De re pubblica” affronta il tema della giustizia nella città e con diretto richiamo a Platone ed Aristotele, al loro elogio della giustizia, arriva alla sintesi: giustizia come virtù che “……dà a ciascuno il suo perché conserva l’eguaglianza fra tutti……” e che è l’unica virtù a non starsene “isolata di per sé né nascosta” perché “tutta emerge all’esterno”, si manifesta cioè pubblicamente, socialmente fra gli altri: è virtù sociale (De re pubblica, II, 43, 69).

Osserva al riguardo R. De Monticelli nel saggio “La questione civile”: “……Questa virtù risulta costitutiva dell’associazione che dà luogo a una res publica: il popolo di cui uno Stato è la “res” non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi”. Così la sintesi della lezione ciceroniana compare nei tre principi che sono secondo Ulpiano (III secolo d.C.) alla base dell’intero diritto romano, dove i tre principi sembrano seguire le specificazioni della giustizia da virtù sovrana a virtù “completa” a equità: “Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere”. E che sono poi ripresi nel Corpus iuris civilis o nel Digesto giustinianeo, in particolare il terzo, per la definizione della giustizia: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi……”.

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c) La equiparazione del contratto di lavoro a tutti gli altri

Con la Costituzione Repubblicana il «lavoro» viene posto tra i principi fondamentali (artt. 1 – 12) e all’art. 4 è espressamente riconosciuto per tutti il “diritto al lavoro” e stabilito il compito della Repubblica: “promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”.

Anche laddove si pongono i principi regolatori dei “rapporti economici” (artt. 35 – 47) si prevede che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost.) e che l’iniziativa economica privata è si libera ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana” (art. 41 Cost.).

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È apparso subito evidente a tutti i giuristi il contrasto frontale con la Costituzione della libera ed incondizionata recedibilità del contratto di lavoro e la insostenibilità, in uno stato di diritto, della sopravvivenza della unica eccezione alla generale stabilità dei contratti.

Già autorevoli giuristi (Cessari, Mancini, Natoli) avevano sostenuto la tesi della necessaria “causalità” anche del licenziamento argomentando che la ampia autonomia è riconosciuta alle parti nella conclusione dei contratti (e le norme sui contratti si applicano anche ai negozi unilaterali - tra i quali la risoluzione del rapporto di lavoro) «…purchè siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (art. 1322 c.c.).

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Ecco dunque la legge 604 del 1966  che, puramente e semplicemente, estende la previsione dell’art. 1372 c.c. anche al contratto di lavoro, con la previsione che può essere sciolto solo per colpa grave costituente giusta causa ovvero per giustificato  motivo oggettivo e soggettivo.

Con il successivo art. 18 della l. 300/70 si completa la fine della eccezione e si attua l’uguaglianza: il licenziamento illegittimo non estingue il rapporto di lavoro e ad esso consegue la “restitutio ad integrum”.

Viene dunque, con più di 20 anni di ritardo sulla Costituzione, stabilito “un dignitoso livello di tutela giuridica contro i licenziamenti arbitrarti”.

E’ appena di aggiungere che l’ordinamento di diritto comune consente solo alle parti la possibilità di scioglimento del vincolo contrattuale (ex art. 1372 c.c.”per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”)  e solo le parti sono in via generale legittimate ex art. 1321 c.c. a “costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”: ai Giudici spetta solo il controllo di legalità sull’operato negoziale delle parti.

Tale aspetto è suffragato dal fatto che il mutuo dissenso di cui tratta l’art. 1372 c.c., nei fatti, conferma il valore del vincolo contrattuale intercorso tra le parti, accentuando l’esclusività vincolante per i contraenti. Difatti, lo stesso mutuo consenso deve essere qualificato alla stregua di un contratto autonomo mediante il quale le stesse parti ne estinguono uno precedente, mutando il vincolo contrattuale originario attraverso una traslazione obbligatoria e affermando, al pari, la liberazione dal relativo vincolo negoziale. D’altronde l’esistenza stessa del sinallagma a fondamento del rapporto negoziale e la necessità che lo stesso debba essere attuale e privo di vizi in tutta la fase esecutiva del contratto, rende ancora più forte quanto sostenuto all’interno del citato art. 1372 c.c.: sinallagma significa mutualità, anche nella fase risolutoria del contratto nella quale la volontà delle parti modifica in maniera bilaterale il negozio, dando vita ad un nuovo contratto di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale, ma contrario, a quello del contratto originario. L’argomentazione è tanto più forte se si prende a mente che, dopo lo scioglimento, le parti (e solo le parti) potranno invocare la risoluzione per inadempimento relativamente al contratto solutorio e non per quello estinto. Da tali argomentazioni risulta evidente che solo le parti hanno la facoltà (rectius diritto) di gestire il negozio nelle diverse fasi, financo quella patologica o estintiva.

Il potere del  Giudice  rimane   esclusivamente di accertamento della condotta   delle  parti e  dichiarativo sotto il profilo sostanziale. Basti pensare che gli effetti   della   risoluzione,   una   volta intervenuta la sentenza di accoglimento della domanda giudiziale, decorrono sin dal momento della proposizione della   domanda  stessa   e   non   dalla   data   della   pubblicazione    della sentenza (art. 1458 c.c.).
Questo in quanto la sentenza di risoluzione per inadempimento di un contratto di durata, ove l'azione di risoluzione sia esercitata ai sensi dell'art. 1453, vede verificarsi i suoi effetti in punto di accertamento della cessazione degli effetti negoziali fin dal momento della proposizione della domanda giudiziale, una volta che sia accolta la domanda di risoluzione non essendo l'azione stessa, pur costitutiva, espressione di una giurisdizione costitutiva necessaria.

Ciò per evidenziare, da subito, la vera e propria aberrazione giuridica, in frontale contrasto con i principi dello stato di diritto liberale, introdotta con la c.d. riforma Fornero e riprodotta nel c.d. contratto a tutele crescenti secondo cui “il Giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro” (art. 3 e 4 D.Lgs.). e ciò nel solo caso in cui lo stesso Giudice abbia accertato e dichiarato illegittimo il licenziamento intimato

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E’ bene ancora aggiungere che mentre ogni inadempimento contrattuale e la illegittima risoluzione comporta anche l’integrale risarcimento del danno, sia patrimoniale – che comprende il lucro cessante ed il danno emergente, ai sensi dell’art. 1223 c.c. e nei casi di cui agli artt. 1479, 1480, 1489, 1492, 1497 c.c. – che non patrimoniale ex art. 2059 c.c.; di contro al lavoratore che  subisce un licenziamento illegittimo spetta il solo risibile “indennizzo” stabilito in qualche mensilità di retribuzione.

Anche qui una odiosa disparità ed un trattamento discriminatorio (che si può definire classista) per il contratto di lavoro.

Tale limitazione del diritto al pieno risarcimento nell’ambito giuslavoristico, come conosciuto in termini civilistici dall’art. 1223 c.c., concretizza nei fatti un’inversione della logica di sistema della disciplina generale in tema di contratti che non ha precedenti nel diritto civile.

Difatti, la logica sistematica del Codice Civile, così come quella della normativa ad esso complementare, è da sempre stata quella di riallineare gli squilibri sinallagmatici congeniti alla formazione del contratto, la maggior parte delle volte dovuti alla posizione di maggiore o minore capacità economico/cognitiva delle parti negoziali. Soltanto sotto il profilo esemplificativo occorre ricordare la tutela introdotta con il Codice del Consumo che si pregia di rinvenire un ambito applicativo speciale, superando il principio dell'unitarietà dei rapporti e pariteticità degli stessi, dettando una normativa specificamente applicabile ai contratti tra figure squilibrate sotto il profilo dell’accesso alla contrattazione, ossia il consumatore (parte debole) a fronte del professionista (parte privilegiata). Nella stessa direzione volgono gli artt. 1341 e 1342 del c.c., l’introduzione della Class Action a tutela di interessi collettivi, il T.U. in materia bancaria e creditizia (D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), la legge antitrust italiana n. 287 del 1990, il Codice degli Appalti, il quale predispone una serrata tutela dell’imprenditore a scapito della libertà negoziale della Pubblica Amministrazione, nonché lo stesso istituto della rescissione contrattuale.

Il Codice Civile norma il rilievo dello status contrattuale dei contraenti, nonché la loro qualifica soggettiva, attraverso la stesura del secondo comma dell’art. 1176 c.c., il quale, nel disciplinare il livello di diligenza esigibile nell’adempimento dell’obbligazione, fa implicito riferimento alla figura del professionista, con se veicolando il pregio assunto dalla natura del contraente, prima ancora del negozio stesso.

Un intervento illuminato nella determinazione dell’importanza che riveste il diritto nella ortopedia contrattuale dei disequilibri socio-economici viene offerta da Lorenzo Delli Priscoli, il quale afferma che la libertà contrattuale “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41, secondo e terzo comma): e tali vincoli sono fatalmente scavalcati o elusi in un ordinamento che consente l'acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo. L'utilità ed i fini sociali sono in tal modo pretermessi, giacché non solo può essere vanificata o distorta la libertà di concorrenza - che pure è valore basilare della libertà di iniziativa economica, ed è funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori (sentenza Corte Costituzionale n. 223 del 1982) - ma rischiano di essere pregiudicate le esigenze di costoro e dei contraenti più deboli, che di quei fini sono parte essenziale. Ciò ostacola, inoltre, il programma di eliminazione delle diseguaglianze di fatto additato dall'art. 3, secondo comma, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l'altro controlli sull'autonomia privata finalizzati ad evitare discriminazioni arbitrarie”.

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La traslazione dal risarcimento al mero indennizzo, in caso di licenziamento illegittimo, comporta un’eccezione riduttiva che non può trovare accoglimento nel sistema normativo dei contratti, in tema di principi regolatori e di applicazione pratica. Tale impostazione porta all’assurdo secondo il quale la tutela risarcitoria, in termini di danno emergente e lucro cessante, viene accordata tanto in tema di inadempimento contrattuale (artt. 1218, 1223, 1453 c.c.), quanto, soprattutto, in tema di responsabilità extracontrattuale (art. 2056 c.c.), senza essere estesa ad una particolare categoria di contratti, quali quelli di lavoro subordinato. Tralasciando l’impossibilità di escludere l’applicazione di un principio direttivo dei contratti, quale è il risarcimento nel campo dell’inadempimento, ad uno specifico negozio (rectius lavoro), accettando tale impostazione si arriverebbe all’aberrazione giuridica di accordare una tutela risarcitoria maggiore alla responsabilità extracontrattuale rispetto a quella contrattuale in materia di lavoro. L’assurdità di tale discriminazione è evidente comparando il maggiore valore che il legislatore in realtà conferisce al vincolo contrattuale rispetto a quello extracontrattuale: in tal senso basti pensare ai più favorevoli termini prescrizionali per far valere un diritto in ambito contrattuale ovvero l’onere probatorio semplificato della parte in bonis del contratto rispetto al soggetto leso da un fatto illecito.

In definitiva, accettare la limitazione del risarcimento nella completezza delle sue voci (danno emergente e lucro cessante) nelle ipotesi di licenziamento illegittimo, quale fattispecie pratica dell’inadempimento contrattuale, significa negare la stessa natura contrattuale del contratto di lavoro (di per sé impossibile per evidenti ragioni tautologiche), ma soprattutto di confinare tale tipologia negoziale in un alveo di tutele rimediali minori rispetto a qualsiasi altro istituto civilistico. Viene pertanto ribaltata l’eccezione rappresentata dalla disciplina, sostenuta negli anni passati da leggi speciali, del contratto di lavoro subordinato di cui agli artt. 2096 ss. c.c., in virtù della quale al lavoratore (e solo a lui), in virtù della sua particolare condizione soggettiva ritenuta particolarmente meritevole di tutela, venivano riconosciute particolari garanzie.

La parte tutelata diviene quella “forte” (il datore), alla quale viene riconosciuta la facoltà ad libitum di interrompere un rapporto contrattuale attraverso la semplice corresponsione di un irrisorio “indennizzo” predeterminato: si ribaltano i principi costituzionali e di diritto comune.

E’ evidente che, di fronte a situazioni di squilibrio di potere contrattuale, lasciare alle parti la completa libertà di determinare autonomamente il contenuto del contratto significa non tanto consentire alle parti di raggiungere il miglior assetto di interessi possibile, quanto, soprattutto, agevolare il contraente forte: tanto più nel caso di licenziamento illegittimo, in cui l’assetto rimediale invece di essere rafforzato in favore della parte debole, viene svilito a mero indennizzo, derubricando il rapporto (non potendosi chiamare contratto) di lavoro in un terzo genus di responsabilità, più debole rispetto a quella contrattuale ed extracontrattuale.

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In definitiva, la reintegrazione del lavoratore deve essere inquadrata alla stregua di un’ordinaria tutela rimediale da riconoscersi al contratto di lavoro, esattamente nei stessi termini in cui si permette la manutenzione del contratto, ossia l’esecuzione in forma specifica, nelle ipotesi di inadempimento (art. 1453 c.c.). Non si è alla ricerca di una maggiore tutela, seppure da ritenersi dovuta alla luce dei  principi costituzionali e della normativa vigente in settori similari viziati ontologicamente da uno squilibrio contrattuale, bensì semplicemente alla applicazione della normativa generale in tema di contratti.

In questo ordine di idee si è giunti a sperare che venga concesso ciò che invece spetterebbe di diritto quale tutela minima, in una società in cui (ormai) ci si rassegna a non avventarsi in richieste dovute, ma ad accontentarsi di quanto (non) ci viene concesso, dimenticandosi che è la parte debole che deve essere sostenuta nella fase patologica (contrattuale e non) e non certo il contraente forte.   

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Massimo D’Antona conclude, nel libro citato, il capitolo “Limiti dell’attività  economica e diritto al lavoro. Interpretazioni dell’art. 41 Cost.: il nesso tra diritto al lavoro e legislazione limitativa del licenziamento” (pag. 82 – 92), con una originalità di concetti che ben descrivono il livello di civiltà giuridica raggiunto con la normativa statutaria del 1970.

“L’ordine di reintegrazione tende visibilmente a riportare il lavoratore nelle specifiche condizioni materiali e giuridiche dalle quali l’atto illegittimo di estromissione l’aveva escluso. Tuttavia questa particolare tutela non rispecchia né un diritto di tipo reale al posto di lavoro né un diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa. Di più. Essa non rispecchia neppure un interesse propriamente contrattuale del lavoratore, nel senso che il bene protetto non fa parte dello scambio che sta alla base del rapporto di lavoro. Il bene tutelato dalla reintegrazione non è oggetto di scambio perché esso è già nel patrimonio di ciascun lavoratore; e il datore di lavoro deve solo astenersi da atti che, configurando esercizio illecito dei suoi poteri, ne producono la lesione.

L’estromissione dal posto di lavoro, quando ne sia stata accertata la illegittimità, configura una violazione dell’obbligo di comportamento che l’art. 41 Cost. impone all’imprenditore, ed è perciò un illecito che ha tutte le caratteristiche del «danno»  di cui parla l’art. 41 cpv.: per questo esso non va soltanto risarcito, prima di tutto deve cessare… .

La tutela dell’art. 18 include dunque un’articolazione di obblighi. Il ripristino integrale della situazione preesistente dipende dalla rimozione degli effetti materiali della estromissione, attraverso un conveniente, adeguamento della struttura organizzativa dell’impresa, ma dipende poi a maggior ragione dalla ripresa della corretta amministrazione del rapporto dal parte dell’imprenditore, dal «divenire in quiete» del rapporto stesso, e quindi dall’attuazione dell’obbligo negativo che l’art. 41 Cost. connette agli svolgimenti dell’attività d’impresa in funzione di una garanzia personalistica”.

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Per circa un trentennio, tra il 1970 e 1990 vi è stato nel paese notevole un sviluppo economico, benessere diffuso, attenuazione delle diseguaglianze, retribuzioni dignitose che hanno sostenuto  la domanda e quindi molta produzione e buona occupazione, uno stato sociale all’avanguardia nel mondo occidentale, un  complessivo progresso civile.

Tutto questo con una legislazione del lavoro che correggeva le asimmetrie del  rapporto sociale e le diseguaglianze di potere  nel contratto lavoro con norme dettate  dal senso civile e morale di una epoca democratica.

Si può senza enfasi sostenere che il diritto del lavoro ha salvato in Europa le  esangui democrazie liberali uscite da due guerre mondiali: gli ha dato nuovo impulso, con un ampio consenso e legittimazione  popolare.

E questo perché anche per la classe lavoratrice la democrazia ha previsto tutele e diritti, inserendoli nelle Costituzioni.

Insomma  per la uguaglianza e l’emancipazione sociale c’era una alternativa alla rivoluzione bolscevica: la democrazia costituzionale.

Lo Statuto dei lavoratori rappresenta il punto più alto della parabola garantista: secondo l’efficace affermazione di Brodolini, allora ministro del lavoro, con la Statuto la “Costituzione entra nei luoghi di lavoro”.

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d) L’opera di demolizione della civiltà giuridica

Dalla fine degli anni novanta inizia il lento ma progressivo smantellamento del diritto del lavoro, anche con la tecnica che nel bel  libro di due magistrate del lavoro, Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo “E lo chiamano lavoro…”, viene descritta come  «FRANCKING: frantumazione sotterranea delle regole poste in  attuazione della Costituzione, con la generale svalorizzazione del lavoro in tutte le sue forme: ennesima manifestazione delle tendenza radicata  nel paese a «lasciar soccombere il giusto sotto l’ambizione  di perseguire l’utile».

Inizia con il c.d. «pacchetto Treu», e l’introduzione del lavoro interinale (governo di centrosinistra), il primo attacco   ad uno dei pilastri del nostro ordinamento secondo cui è “datore di lavoro chi utilizza le prestazioni del lavoratore”.

«Si spezza il rapporto, diretto tra datore di lavoro e lavoratore l’oggetto del contratto è di fatto reso merce»: come tale può essere oggetto di compravendita e persino di scambio  (distacco, esternalizzazioni ecc.).

Gli esponenti delle stesse forze politiche, dopo aver legalizzato la “interposizione parassitaria nelle prestazioni di lavoro”(secondo l’efficace – e corretta - definizione della Corte di Cassazione) piangono oggi lacrime di coccodrillo di fronte al dilagare dello sfruttamento nel lavoro agricolo ed al ritorno, oggi, del lavoro servile che arriva persino ad uccidere di fatica nei campi lavoratori italiani ed extracomunitari.

Era scritto nella logica della “controriforma” tale esito: il profitto non pone limiti né al numero degli intermediari né al livello di sfruttamento della manodopera che con l’interposizione parassitaria può essere attuata.

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Il   successivo governo di centro destra con il D.Lgs. 276/2003 spalanca l’uscio socchiuso con il lavoro interinale: viene abrogata la l. 1369/60 (divieto di interposizione  nelle prestazioni di lavoro), istituita la somministrazione anche a tempo indeterminato,  previste nuove tipologie contrattuali tutte precarie, agevolate le esternalizzazioni    e internalizzazioni con la normativa sugli  appalti; viene attuato anche un insidioso tentativo di manomettere  l’art.  2112 c.c. trasformandolo da norma  «garantista» nel suo contrario: minaccia al posto  di lavoro  (con le cessioni di ramo di azienda “identificata come tale al  momento del trasferimento”)  invece che garanzia della sua prosecuzione! Ed infatti la maggior parte delle controversie promosse dai lavoratori in questi anni riguardano la insussistenza del fenomeno successorio regolato dall’art. 2112 c.c. con conseguente legittima negazione del consenso alla cessione del contratto ex art. 1406 c.c.. 

Si diffondono negli anni successivi i processi  di esternalizzazione e terziarizzazione con i quali si concretizza la scelta imprenditoriale di frammentare la organizzazione produttiva e di realizzare finalmente il sogno di una impresa senza dipendenti (propri) e quindi senza  la seccatura di dover rispettare i loro diritti.

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Inizia poi nel 2001 il progressivo scardinamento della normativa sui contratti a termine (la buona legge 230 del 62) con il pretesto di attuare la famosa direttiva CEE del 99.

Al riguardo è utile ricordare l’intervento molto rilevante della Corte Costituzionale (sent. 41/2000), i cui principi torneranno attuali quando  inevitabilmente il D.Lgs. 34/14 (c.d.Poletti) ci tornerà.  La Corte ammettendo per la prima volta la partecipazione al giudizio di associazioni e privati che contrastavano la richiesta referendaria, ha dichiarato “inammissibile” il referendum abrogativo della l. 230/62, essendo essa “conformazione anticipata” alla Direttiva comunitaria  sul contrasto agli abusi del contratto a termine: non si può abrogare  una normativa che il legislatore deve adottare per come obbligo comunitario.

Sentenza di portata enorme: se infatti alla sovranità popolare è sottratto il potere di abrogare una legge tantomeno ciò può essere consentito al legislatore, per di più con il pretesto di attuare la direttiva comunitaria contro gli abusi che la legislazione già vigente impediva e sanzionava; e ciò addirittura in contrasto con la clausola “di non regresso” posta dalla direttiva stessa.

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Con quel “supermarket della precarietà” rappresentato dal D.Lgs. 276/2003 si realizza anche “la fuga dalla subordinazione” come elusione delle tutele, soprattutto dalla tutela reale dal licenziamento vero e proprio “perno”, “diritto stipite”, che garantisce l’esercizio di tutti gli altri diritti (Giorgio Ghezzi affermava: «senza la tutela reale tutti i diritti del lavoro  sono scritti sulla sabbia»).

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L’opera di demolizione continua con il collegato lavoro (l. 183/2010), dove si attua (con l’art. 32) la generalizzazione delle “decadenze” per ostacolare l’esercizio dei diritti. Mentre nel diritto comune la decadenza è eccezione per ipotesi tassativamente previste alla prescrizione, nel diritto del lavoro  le decadenze diventano la regola; e poi sono poste norme “retroattive” e si penalizza il lavoratore vittima degli abusi del contratto a termine nel risarcimento assai limitato, con  sostanziale premio all’illecito datoriale.

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e) La norma dichiaratamente classista di cui all’art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare)

La legislazione discriminatoria a danno del lavoratore attinge a vertici inauditi anche in sede processuale, nel silenzio, quasi totale, della dottrina giuridica e delle parti sociali.

Con la legge 69/2009 viene introdotto l’art. 614-bis c.p.c., che prevede la possibilità per il giudice di fissare, con il provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Si tratta di una misura coercitiva indiretta che attinge all’istituto francese delle «astreintes» (dal latino “adstringere”, ossia costringere), e il cui scopo è quello di garantire l’attuazione degli obblighi di fare infungibili e degli obblighi di non fare da parte del debitore.

Il legislatore però sancisce espressamente l’inapplicabilità  della norma “alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”.

Tale limitazione, che toglie effettività alle sentenze di reintegrazione per i licenziamenti ma anche per l’ordine di adibizione alle mansioni nella dequalificazione, si presta a una duplice censura di incostituzionalità: innanzitutto, perché riservare un trattamento differenziato ad alcune controversie sulla base della qualifica soggettiva del destinatario del provvedimento di condanna appare contrario ai principi di ragionevolezza, nonché a quello di pienezza ed effettività della tutela; in secondo luogo, perché la esclusione comporta un indebito privilegio in favore del datore di lavoro, pubblico o privato, tanto da essere stata definita “una scelta tipicamente classista” (A. Proto Pisani, "La riforma del processo civile: ancora una riforma a costo zero (note a prima lettura)", in Foro Italiano V, 2009, pag. 221).

Ulteriori rilievi in ordine alla natura irragionevole e discriminatoria di tale esclusione erano stati altresì formulati dal C.S.M., in sede di redazione del Parere sulle disposizioni contenute nel corrispondente disegno di legge (delibera del 30 settembre 2008).

Inspiegabilmente, tuttavia,  la limitazione contenuta nell’art. 614-bis c.p.c. non ha mai costituito oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale, nonostante abbia introdotto un anomalo squilibrio nel sistema delle tutele, con  la conseguenza che la funzione deterrente cui la norma dovrebbe assolvere risulta sostanzialmente vanificata nei confronti del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro o nelle mansioni.

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Arriva quindi la legge 92/2012 (c.d. riforma Fornero) che riduce  la generale applicazione dell’art. 18 l. 300/70 ad ogni  ipotesi di licenziamento inefficace ed illegittimo limitandolo ai solo casi di «manifesta insussistenza» del giustificato motivo, alla inesistenza della mancanza disciplinare nel licenziamento per giusta causa ovvero alla sua non proporzionalità secondo le previsioni della contrattazione collettiva.

Sono dunque intaccati alcuni principi fondamentali di democrazia economica cui è ispirata la Costituzione.

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f) Il Jobs Act, ossia il trionfo del neoliberismo: dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti.

Con il governo Renzi sostenuto dal voto di fiducia di tutto il suo partito, l’estremismo neoliberista porta a compimento la distruzione del diritto del lavoro, minandone i suoi fondamenti.

Scompare per i nuovi assunti la tutela reale per licenziamenti illegittimi sostituita da un irrisorio indennizzo, viene consentita per tutti (nuovi e vecchi assunti) la dequalificazione professionale; viene abolito il divieto del controllo a distanza sullo svolgimento della prestazione lavorativa ed eliminata per 36 mesi la causale nei contratti a termine e nelle proroghe.

Un’opera dettagliata e feroce che non risparmia nemmeno gli invalidi: viene generalizzata la chiamata nominativa nel collocamento “obbligatorio” con eliminazione della modesta quota numerica nelle assunzioni per le aziende medio-grandi.

E’ bene anche qui evidenziare la totale alterazione delle regole dello stato costituzionale di diritto.

I decreti legislativi del c.d. Jobs Act non sono attuazione della legge delega del Parlamento; dov’è prevista l’abrogazione dell’art. 18 per i nuovi assunti e la possibilità di dequalificazione e di controllo a distanza per fini disciplinari?

È puramente e semplicemente l’attuazione del programma della Confindustria riportato nel documento “Proposte per il mercato del lavoro” del maggio 2014; alla pag. 7 sono precisate le tre richieste: abolizione della reintegrazione come conseguenza del licenziamento illegittimo, eliminazione del divieto di dequalificazione e del controllo a distanza.

Dunque: il governo legislatore delegato ex artt. 76 e 77 della Costituzione (con legge delega sostanzialmente «in bianco» e votata con la fiducia!) ignora il Parlamento e approva le norme dettate dalla Confindustria. Di più e di peggio: non degna di alcuna considerazione le osservazioni delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato che hanno mosso obiezioni sulla eliminazione dell’art. 18 per i licenziamenti collettivi illegittimi per i nuovi assunti e sulla sostanziale abrogazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori per tutti! Una tale umiliazione del Parlamento non si era mai vista nell’era repubblicana.

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g) “Sorvegliare e punire”: il panottico come modello e figura del potere  nella società contemporanea.

 

Il tratto emblematico delle riforme renziane si può cogliere dalla eliminazione del divieto di controllo a distanza anche ai fini disciplinari.

Nel 1791 il filosofo, giurista e imprenditore Jeremy Bentham progettò il «panottico» come carcere ideale: permettere ad un sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere loro di capire se in un determinato momento fossero  o no controllati.

L’idea del panottico ha avuto una grande risonanza successiva come metafora di un potere invisibile e permanente, ispirando pensatori e filosofi come Michel Foucault, Noan Chomky, Zygmund Bauman e  lo scrittore britannico George Orwell nell’opera “1984”.

Nell’anno 1794 Bentham decise di applicarlo alla sua fabbrica in cui lavoravano i carcerati poi sostituiti dagli operai (Gilbert’s Act).

I lavoratori, sapendo di poter essere tutti controllati e osservati in ogni momento da un preposto, avrebbero assunto comportamenti disciplinati ed eseguito con diligenza ogni direttiva datoriale.

Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il retto comportamento imposto sarebbe entrato nella mente degli operai come unico possibile modo di comportarsi, modificando così il loro carattere in modo definitivo. Lo stesso filosofo descrisse il panottico come “un nuovo modo per ottenere potere sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima”  (Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Focault e M. Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983).

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Ammettiamolo onestamente: nessun avrebbe mai immaginato una tale devastazione nella tutela dei lavoratori e dello stesso Stato di diritto costituzionale, con il maggior partito di sinistra in posizione dominante nel governo!

Ed infatti il fallimentare esito sul contrasto alla disoccupazione delle numerose contro-riforme del mercato del lavoro realizzate prevalentemente dai governi di centro - destra negli ultimi 15 anni, tutte improntate alla riduzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori, non faceva in alcun modo presagire ulteriori interventi di tale portata.

Il livello di disoccupazione è drammatica, la precarietà è dilagata divenendo ormai regola di gran lunga prevalente nei rapporti di lavoro.

Il fallimento è certificato da tutti gli economisti, (anche quelli “mainstream”) e che imputano alla austerità, alla precarietà nel lavoro e alla drastica riduzione del potere di acquisto delle retribuzioni non la soluzione alla crisi economica, bensì la sua causa principale, originata dal crollo della domanda e da una conseguente recessione ormai duratura.

Eppure i perdenti, e falliti, colgono ora il loro più grande e “storico” risultato: la eliminazione della reintegrazione nel posto di lavoro nel licenziamento illegittimo individuale e collettivo oltre alla abrogazione dei divieti di dequalificazione e di controllo a distanza a fini disciplinari della attività lavorativa: insomma i pilastri della legislazione del lavoro.

«Nel regime giuridico duale, cioè con la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali  di ricatto sul lavoro, diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’Ufficio legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al costituzionalismo della Repubblica…E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro è sconfitto ma non vinto»  (Michele Prospero, “Jobs Act: si spengono  i diritti. Un premier che marcia spedito verso l’800”,  Il  Manifesto 10.03.2015).

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h) La istituzionalizzazione della precarietà

La vicenda dei contratti a termine è anch’essa emblematica. Si parte da un assunto non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione generale che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la fase di inserimento nel mondo del lavoro. Non c'è più bisogno di fidelizzare, formare e inserire nella propria compagine aziendale proprio nessuno. Il “precario massa” entra ed esce dal mercato del lavoro con un bagaglio di competenze sempre più qualificato, aggiornato e competitivo. Altro non serve. Si passa continuamente da una situazione lavorativa a un'altra: questo comporta per le imprese la condizione ottimale per sfruttare il turn over continuo. Ed ecco dunque che la fonte del profitto passa per la possibilità di poter assumere liberamente e sbarazzarsi, altrettanto liberamente, dei prestatori di lavoro.

Il legislatore del 2001 (D.Lgs. 368/01) ha provato ad ampliare la possibilità di assunzione a termine, ritenendo la disciplina normativa previgente (L.n. 230/62) troppo rigida. Per una rara eterogenesi dei fini l'operazione non è andata in porto, in quanto la Direttiva 1999/70/CE, in strumentale applicazione della quale si è introdotta la norma, ha imposto delle interpretazioni giurisprudenziali restrittive tali da vanificare il tentativo di liberalizzazione. Il secondo assalto viene mosso con la Legge Fornero (L.n. 92/12) con la quale è per la prima volta introdotta la possibilità di stipulare il primo contratto di durata (per un massimo di un anno) come "acausale": vale a dire che non viene più richiesta alcuna occasione temporanea di lavoro in grado di giustificare la durata del termine, viene cioè scardinato il perno del vaglio di legittimità del contratto di durata, offrendo così l'occasione alle aziende di esercitare un profittevole turn over su base annua. L’acausalità implica la possibilità di stipulare un contratto di durata ed anche il più stabile dei lavori può dunque essere oggetto di un contratto a termine sottoponendo al ricatto della scadenza chi vi è inquadrato. Tutto ciò – ripetesi - andando in frontale conflitto con la Direttiva europea sopra richiamata, la quale ha espressamente previsto l’eccezionalità del contratto a termine (rispetto a quello a tempo indeterminato) e la necessità di disporre misure legislative contro l’abuso. La direzione intrapresa ha quindi l’evidente effetto di erodere segmenti di lavoro potenzialmente stabile e di incentivare dinamiche sostitutive dei lavoratori a tempo indeterminato.

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i) La disciplina dei licenziamenti

Nel decreto legislativo che introduce il contratto a tutele crescenti si attua il completo rovesciamento dei principi costituzionali: non si tutela più il diritto al lavoro ma quello al licenziamento «…trasformato da potere da limitare in privilegio da garantire anche con le risorse della collettività» (U. Romagnoli). Infatti, è previsto nell’art. 6 del Decreto Legislativo che instituisce il c.d.  contratto a tutele crescenti (è l’articolo più lungo e circostanziato con ben tre corposi commi) che venga eliminato l’onere fiscale nell’indennizzo offerto dal datore di lavoro ai fini conciliativi nella ipotesi di impugnativa del licenziamento.

A ciò vengono destinate imponenti e progressive risorse collettive (oltre 216 milioni di euro!) attinte dall’art. 1, comma 107 della legge 23 dicembre 2014 n. 190 che istituisce un fondo per le “politiche attive del lavoro… nonché per fare fronte agli oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti…”.

Non solo l’indennizzo per i licenziamenti illegittimi è irrisorio, ma incentivato con soldi pubblici.

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l) Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico.

 

In questi anni c’è stata la guerra all’art. 18 ed ecco la sua rappresentazione come un “tabù” che annulla la  libertà di licenziare i fannulloni, impone rigidità, sconsiglia gli investimenti in Italia e quindi genera disoccupazione, soprattutto giovanile, crisi economica e miseria.

I professionisti della disinformazione hanno fatto tesoro della lezione impartita dal ministro nazista.

Ed infatti (quasi tutti) coloro che discutono dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori non richiamano mai il tenore letterale della norma, esattamente come (quasi tutti) i giornalisti  e conduttori televisivi non ne illustrano mai il suo reale contenuto, esattamente come mai attuano un contraddittorio effettivo con i giuslavoristi che conoscono la materia.

Insomma l’estremismo neoliberista cancella i diritti costituzionali del lavoro accompagnandosi con il fascismo mediatico. Tutti i telegiornali, che oggi propagandano l’operato del governo sono uguali ai cinegiornali dell’Istituto Luce degli anni trenta.

Una gigantesca ipocrisia ha accompagnato l’assalto finale all’art. 18, indicandolo come ostacolo alla maggiore occupazione, soprattutto per i giovani: l’assioma secondo cui con più licenziamenti arbitrari (senza art. 18) – per quelli legittimi, ripetesi, il datore non ha niente da temere – si avrà più occupazione e meno precarietà, è chiaramente falso: anche la legge c.d. “Biagi” è stata approvata con questi fini e gli esiti disastrosi sono ora sotto gli occhi di tutti.

Gli slogan ossessivamente ripetuti in questi mesi: l’art. 18 non è “tabù intoccabile”; ovvero bisogna “riformare” contro il “conservatorismo”, appaiono privi di senso.

La vita, la salute, la libertà, la sicurezza, la dignità, il diritto al lavoro e ad una esistenza libera e dignitosa sono “tabù intoccabili”?.

No, semplicemente diritti costituzionali; volerli ora ripristinare non é bloccare le riforme o lo sviluppo economico: semplicemente realizzare un accettabile livello di civiltà, di coesione sociale,  di garanzie e di tutele anche per i lavoratori, attuando la Costituzione.

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Con il c.d. decreto Poletti (che elimina la causale oggettiva nel contratto a termine) e con il nuovo contratto a tutele crescenti (che elimina la tutela reale e che comporta sempre  la perdita del posto di lavoro anche a fronte del licenziamento illegittimo) si è puramente e semplicemente generalizzata e resa strutturale  la precarietà permanente lo stato di soggezione del dipendente.

L’imbroglio è addirittura semantico: quali sono le “tutele crescenti” nel nuovo contratto a tempo indeterminato?

La proposta originaria  (Boeri)  che aveva avuto il sostanziale consenso delle parti sociali e di quasi tutte le forze politiche,  prevedeva per un certo periodo  un salario  d’ingresso e un inquadramento inferiore rispetto al CCNL, la tutela solo   obbligatoria nei  licenziamenti illegittimi con un risarcimento che aumentava nel tempo, con l’approdo finale alle  tutele piene, al pari degli altri dipendenti già occupati: alla fine  tutti uguali nelle tutele.

E’ tutto sparito nel “contratto a tutele crescenti” che cristallizza, contrariamente alle premesse,  il “dualismo” delle tutele tra vecchi e nuovi assunti.

 

m) Ripristinare lo stato costituzionale di diritto

I grandi avanzamenti della tutela del lavoro sono avvenuti in un periodo di sovrarappresentanza del lavoro, così come i più disastrosi arretramenti si sono verificati nel punto più basso di connessione tra il lavoro e le organizzazioni tradizionalmente chiamate a rappresentarlo.

In altri termini, occorre coinvolgere forze sindacali e politiche in un lavoro di rivisitazione della legislazione del lavoro per riportarla  a quelle caratteristiche tali da consentirle di far prevalere il suo valore fondante, ai sensi dell’art. 1 della Costituzione, rispetto ad altri diritti eventualmente contrapposti.

Si potrà, così, puntare ad una pars destruens che elimini quelle norme che hanno portato all’attuale situazione di crisi e successivamente ad una pars construens che consenta di realizzare anche quelle parti della Costituzione rimaste inattuate.

Occorre, poi, ribaltare i ruoli tra parte costituzionale e parte promozionale. E’ necessario, infatti, ricostituzionalizzare la legislazione sulla rappresentanza sindacale e sullo sciopero quale diritto di ogni singolo lavoratore di aggregarsi, contrarre e confliggere collettivamente. Occorre cioè rovesciare l’impostazione: passare dalla cancellazione degli art. 39 e 40 Cost operata con lo Statuto, alla cancellazione dell’art. 19 e ricostituzionalizzazione del diritto sindacale basato, come ha detto sin dal 1974 la Consulta, sul «riscontro di  un’effettiva capacità di rappresentanza degli interessi sindacali “ e su  “una reale effettività rappresentativa”.  Ed occorre infine passare ad una legislazione “promozionale” nel rapporto di lavoro a partire  dal dramma del lavoro povero con l’applicazione coatta di un salario minimo, con regole stringenti sulla continuità del rapporto in caso di cambio appalto e di contrasto al ricorso al part time involontario.

Le modifiche sviluppatesi negli ultimi anni, con il prevalere del lavoro precario  e interinale sul rapporto di lavoro subordinato deve indurre, poi, a sviluppare un’azione che consenta l’estensione a quei lavoratori precari (il caso dei rider rappresenta il caso più eclatante) delle garanzie previste per i lavoratori subordinati, seguendo in ciò quanto meno ciò  la Suprema Corte ha recentemente statuito sul caso Uber: non è tanto importante qualificare quel rapporto come autonomo o subordinato, l’importante è che a quei lavoratori sia riservato lo stesso trattamento del rapporto di lavoro subordinato.

In questo senso, forse, può avere senso parlare di Statuto del Lavoro allargato a tutti i lavoratori, a condizione, però, che questa modifica non si trasformi in occasione per indebolire le garanzie già presenti.

 

Ecco dunque la proposta per la stabilità del contratto a tempo indeterminato, e, dunque, la tutela per licenziamenti ingiustificati.

Abbiamo preferito seguire la impostazione della Costituzione Europea (la Carta fondamentale dei diritti di Nizza oramai inserita nei trattati) che all’art. 30 prevede la tutela del lavoratore a fronte di ogni licenziamento ingiustificato.

Questa l’ipotesi normativa:

Art. 18: tutela contro il licenziamento invalido

1. A fronte di ogni licenziamento individuale o collettivo invalido (per nullità, illegittimità o inefficacia) il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento della retribuzione, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, dal recesso alla sentenza del Giudice del lavoro.

  1. Nel caso di inottemperanza all’ordine di reintegrazione nel  posto di lavoro, o del ritardo nella sua attuazione superiore a giorni dieci dalla sentenza, il datore di lavoro è tenuto a versare al fondo di cui all’art. 1, comma 107 legge 23 dicembre 2014 n. 190, o ad analoghi fondi per le politiche attive del lavoro e di sostegno alla disoccupazione istituiti presso l’INPS, la somma di euro cinquecento al  giorno.
  2. Il lavoratore e, nel solo caso di licenziamento annullabile, il datore di lavoro che occupi sino 8 dipendenti, hanno facoltà di optare, in sostituzione della reintegrazione, per il pagamento di una indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto; solo l’effettivo pagamento determina la risoluzione del rapporto di lavoro”.

(Ovviamente anche il ripristino dell’art. 18 del 1970, abbassando il limite della sua applicazione a 5 dipendenti, è proposta positiva).

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n) Proposte

 

  • Artt. 1, 3, 4 e 41, 2º comma Cost.: tutela reale per ogni licenziamento illegittimo.
  • Artt. 2, 3, 4  e 41, 2º comma Cost.: dignità, libertà  e stabilità per chi lavora.
  • tutela della professionalità e divieto di dequalificazione;
  • diritto alla riservatezza e divieto di controlli a distanza della attività lavorativa a fini disciplinari;
  • contrasto della precarietà con ipotesi tassative per le assunzioni a termine e somministrazione di manodopera.
  • Art. 24 Cost.: tutela giurisdizionale dei diritti.
  • eliminazione delle decadenze generalizzate per l’esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro.

Quanto, infine, al processo del lavoro, esso deve tornare, come detto, ad essere quello strumento agile ed incisivo, valido per tutti i lavoratori, caratterizzato da:

1)        Rapidità nello svolgimento del processo;

2)        Concentrazione nell’assunzione della prova;

3)        Ricerca della verità sostanziale, con recupero dei poteri istruttori d’ufficio del Giudice;

4)        Pubblicità del processo che deve svolgersi in pubblica udienza, come il processo penale, onde consentire la presenza di osservatori e parti interessate;

5)        Recupero del sostanziale favor lavoratoris, nella conduzione del processo;

6)        Oralità;

7)        Gratuità totale del processo per il lavoratore;

8)        Eliminazione del principio generalizzato di soccombenza nell’ipotesi di sconfitta del lavoratore.

 

24.                     TRASFERIMENTO E CESSIONE D’AZIENDA

 

Nel 1942, con la promulgazione del codice civile, all’art. 2112 c.c. si prevedeva che in caso di vendita di un’azienda ai lavoratori si poteva dare la “disdetta”.

Questa norma, in realtà, incarnava ed incarna tutt’ora il desiderio profondo dell’imprenditoria nazionale nonché il punto di equilibrio delle forze politiche che la sostengono.

 La Comunità Europea il giorno di San Valentino del 1977 promulgava la Direttiva 187 con cui affermava che in caso di cessione d’azienda o di suo ramo, il rapporto di lavoro deve passare dal venditore all’acquirente, sempre salva —si intende— la libertà dell’acquirente di licenziare se ne ricorrono i motivi.

 Insomma una previsione di puro buon senso ma talmente perturbante per la sindrome italiana che l’inconscio politico giuridico del paese la rimuoveva nella speranza che, ignorandola, scomparisse da sola. Ma ecco che 9 anni dopo, il 10 luglio 1986, la Corte di Giustizia condannava l’Italia per mancata attuazione della Direttiva. Beh e a questo punto cosa ha fatto l’Italia? Nulla per ben altri quattro anni, e cioè sino al 29 dicembre 1990 quando, schiacciata dal rischio della procedura di infrazione, capitolava riformulando con la Legge 428 l’art. 2112 c.c. ed affermando finalmente che in caso di cessione d’azienda il rapporto dei lavoratori prosegue con l’acquirente. Ma attenzione, si trattava solo di una ritirata strategica. E infatti i nostalgici della “disdetta” si acquartieravano sul fronte dell’azienda in crisi (che non hanno più mollato) aggiungendo all’art. 47 il co. 4-bis, con la previsione per cui in caso di vendita di un’azienda in stato di crisi (senza distinguere tra la più lieve e cioè quella accertata in sede ministeriale per la concessione della cassa integrazione sino alla più definitiva quale il fallimento) se è “stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'articolo 2112 del codice civile”.

La questione ovviamente tornava subito alla Corte di Giustizia che si pronunciava con svariate sentenze, tutte dello stesso tenore. La prima era la sentenza D’Urso (del 25 luglio 1991, Causa C-362/89), e si occupava proprio di un’azienda ceduta da una società in amministrazione straordinaria che continuava l’attività, esattamente come l’Alitalia oggi. E cosa dice la Corte in tale sentenza del 1991? Dice che la procedura di amministrazione straordinaria non implica necessariamente variazioni sul piano dell’occupazione e quindi permane il diritto del lavoratore a passare automaticamente alle dipendenze dell’acquirente fin quando (leggo testualmente) c’è “il proseguimento dell'attività dell'impresa[88]

L’Italia non si adegua. Tanto che la Commissione decideva che, se alcuni paesi membri proprio non volevano capire ciò che dice la giurisprudenza della Corte di Giustizia, era opportuno un suo intervento. Ed emanava la Direttiva n. 23 del 2001 affermando al punto 7 della premessa che "detta direttiva è stata …. modificata alla luce … della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee", in quanto “la sicurezza e la trasparenza giuridiche hanno richiesto un chiarimento”. Insomma hanno preso le sentenze e le hanno riportate al nuovo articolo 5 della Direttiva, che ribadisce come:

- o la società che vende l’azienda è in una “bankruptcy proceeding” è cioè in una procedura riservata alle società fallite, chiuse, morte, in bancarotta, allora chi compra può non assumere gli ex dipendenti di chi vende;

- oppure, se invece è un’attività che si trova in una “insolvency proceeding” ovverosia in una procedura aperta per una crisi più lieve che consente —pur sotto il controllo dell’autorità amministrativa o giudiziaria— di proseguire l’attività, allora si può, con l’accordo sindacale, modificare in peggio le condizioni di lavoro ma permane comunque il diritto dei lavoratori di proseguire l’attività alle dipendenze di chi acquista.

L’Italia si sarà adeguata, si sarà portati a pensare. E invece no. L’Italia continua a non fare nulla, tanto che la Commissione nuovamente, con lettera del 23 marzo 2007, invitava la Repubblica italiana ad ottemperare alla direttiva 2001/23 e ad adeguare il proprio diritto interno nel senso che nei casi di mera “insolvency”, come certamente è l’amministrazione straordinaria in continuità, fosse riconosciuto il diritto di tutti i lavoratori all’applicazione dell’art. 2112 c.c. con prosecuzione del rapporto. Ebbene, questa volta l’Italia decide di attivarsi con decreto legge e farlo a un mese dalla prima cessione di Alitalia. E cosa dice questo decreto, forse che si applica l’art. 2112 c.c.? No: il Governo (allora presieduto dall’On. Silvio Berlusconi), con il decreto legge 185 del 29 novembre 2008 prevedeva che per le aziende in amministrazione straordinaria (cito testualmente) le operazioni di “cessione dei complessi aziendali … non costituiscono comunque trasferimento di azienda ... agli effetti previsti dall’art. 2112 c.c.”. E oplà, la Cai si sceglieva chi assumere lasciando gli altri nella bad company da cui 4 anni dopo venivano licenziati in blocco. Intanto la Commissione perdeva ovviamente la pazienza rivolgendosi nuovamente alla Corte di Giustizia che con la sentenza, n. 561/07 dell’11 giugno 2009 condannava l’Italia proprio perché non applicava l’art. 2112 c.c. ai casi di crisi più lieve. Ma questa volta la sentenza era direttamente contro il nostro paese e la inottemperanza avrebbe portato a sanzioni pesanti e quindi finalmente con la legge 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare attuazione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee”, si introduceva un comma 4-bis al predetto articolo 47 della L. 428/90: la distinzione tra i casi di bankruptcy, e cioè di morte dell’azienda, in cui non si applica l’art. 2112 c.c., (quali il fallimento, l’omologazione di concordato preventivo con cessione dei beni, o anche l’amministrazione straordinaria senza continuazione dell’attività). E precisando come invece per tutte le altre crisi più lievi, anche e soprattutto per “l’amministrazione straordinaria …. in caso di continuazione … dell’attività … l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione”, aggiungendosi però poi: “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo sindacale”. Frasetta apparentemente innocua dato che —come detto— l’art. 5 della Direttiva 23 del 2001 prevedeva proprio che era possibile con accordo sindacale operare (testualmente) “modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali”. E però c’era un aspetto della sindrome italiana che avevamo sottovalutato, e cioè il gusto (oltre che per i decreti legge ad Alitaliam emessi a un mese dalla cessione) anche per lo sfottò, per il gioco di parole irridente insomma. Ed allora in occasione della seconda cessione da Cai ad Etihad, succedeva che compratore ed alienante facevano finta che con rinvio fatto dalla legge all'”accordo sindacale” con cui si dovevano applicare l’art.2112 e la Direttiva Europea, si poteva in realtà fare tutto, anche disapplicare l’art. 2112 e la Direttiva europea. E con accordo sindacale redigevano una lista di coloro che proseguivano e scartavano gli altri che venivano licenziati, come nella prima cessione. Ma questa volta non occorreva neanche andare a Bruxelles, era sufficiente andare a piazza Cavour, incaricandosi la Cassazione di precisare con molte sentenze del 2020 che “in caso di trasferimento che riguardi aziende … per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività … l'accordo sindacale … può prevedere deroghe all'art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”.

Finalmente dopo 43 anni si allineavano tutti i pianeti: legislazione comunitaria, giurisprudenza comunitaria, legislazione nazionale, giurisprudenza nazionale! Tutti d’accordo a dire che quando c’è una società in amministrazione straordinaria con continuazione si applica l’art. 2112 per quanto attiene al diritto di tutto il personale di proseguire il rapporto. E quindi, ingenuamente, pensavamo che nella terza cessione Alitalia almeno questo problema, dopo due direttive, due sentenze di condanna della Corte di Giustizia (e svariate altre interpretative), una novella di adeguamento alla legislazione comunitaria e alcune decine di pronunce della Cassazione, era smarcato. Ma avevamo nuovamente sottovalutato la sindrome italiana e i nostalgici della disdetta del 1942. E infatti, nel verbale di accordo non firmato da tutte le organizzazioni sindacali, alla lettera B si “esclude l’applicazione dell’art. 2112 c.c.”. Ancora? Sì, ancora. E come è possibile? Lo è grazie al gusto tutto italiano per Decreti legge ad Alitaliam ad un mese dalla cessione e per i giochi di parole irridenti. Ed ecco infatti che nel corso della trattativa con i sindacati, ad un mese dall’avvio dell’attività di Ita, giungeva puntuale il Decreto legge, in particolare il cd. Decreto infrastrutture del 2 settembre 2021, che all’art. 7 procede con il solito gioco di parole e cioè dice che quello che Ita comprerà e Alitalia venderà non si chiama più “azienda” ma si chiama da ora in poi “singoli beni” ancorché organizzati tra loro e acquisiti dallo stesso venditore nello stesso momento. E così è possibile il miracolo: fino al Decreto ciò che veniva venduto era un’azienda e si doveva applicare l’art.2112 c.c., dopo il 2 settembre ciò che viene venduto (che è ovviamente sempre lo stesso compendio) si chiama pluralità di “singoli beni” e così si può disapplicare ancora una volta il diritto alla prosecuzione del rapporto. C’è anche una sola possibilità che questo sia conforme al diritto nazionale e comunitario? La risposta viene da sola, la Corte di Giustizia ha già chiarito la distinzione tra singoli beni e azienda proprio nel trasporto aereo con la Sentenza Ferreira da Silva del 9 settembre 2015 (in Causa C-160/14). In quel caso c’era  “un’impresa attiva nel mercato dei voli charter” che è stata “liquidata” e un’altra compagnia aerea (e cioè la portoghese Tap) che ha provveduto a “riassume(re) i contratti di locazione di aerei e i contratti di voli charter in vigore, svolge(re) l’attività precedentemente svolta dalla società liquidata, riassume(re) alcuni dipendenti fino a quel momento operanti per tale società e riprende(re) piccole apparecchiature di detta società”.

Ebbene la CGE ha detto che non sono singoli beni ma è un’azienda, in quanto ciò che conta non è “il mantenimento … della struttura organizzativa specifica imposta (precedentemente) … ai diversi fattori di produzione trasferiti, bensì del nesso funzionale di interdipendenza e complementarità fra tali fattori a costituire l’elemento rilevante per determinare la conservazione dell’identità dell’entità trasferita”. Insomma in quel caso non è stato direttamente acquistato neppure un aereo (ma solo i contratti di leasing), non sono passati gli slot, non è passato il brand, ed il tutto è stato integrato in una compagnia già esistete ed assai più grande senza la quale il servizio non sarebbe stato reso; cionnondimeno, la Corte di Giustizia Europea ha rinvenuto la “continuità”.

In questo contesto la prima vera discontinuità che si chiedeva al Governo ed ai vertici di Ita, e che ad oggi è stata drammaticamente fallita, era di farla finita con la propensione italiana al trucchetto, all’elusione, alle leggi ad personam, alle scorciatoie, alla cultura dell’oggi facciamo così poi si vedrà tanto sarà qualcun altro a gestire il fallimento, e con lo scaricamento sulla magistratura di tutto il peso del rispetto delle normative nazionali e comunitarie. Anche se non si vuole dire (per motivi cabalistici) il numero 2112 è possibile attuare nei fatti l’art. 5 della direttiva europea 2001/23 con un buon accordo sindacale che preveda una ragionevole tempistica di assorbimento scaglionato del personale che nell’attesa del passaggio dovrà godere di adeguati ammortizzatori, e che preveda condizioni economiche e normative che consentano ad Ita un avvio più lieve per poi tornare progressivamente a regime in un tempo ragionevole. Questo consentirebbe una rinnovata alleanza tra lavoratori, cittadini e la loro ritrovata compagnia aerea nazionale, garantirebbe un avvio efficiente e con basso costo del lavoro, consentirebbe di evitare il disastro sociale e la disperazione di massa, blinderebbe giuridicamente l’avvio evitando migliaia di cause, e segnerebbe un possibile nuovo inizio di cui questo paese ha disperatamente bisogno.

 

25.                     DELOCALIZZAZIONI

 

Delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione. Ciò è tanto meno accettabile se avviene da parte di un’impresa che abbia fruito di interventi pubblici finalizzati alla ristrutturazione o riorganizzazione dell’impresa o al mantenimento dei livelli occupazionali Lo Stato, in adempimento al suo obbligo di garantire l’uguaglianza sostanziale dei lavoratori e delle lavoratrici e proteggerne la dignità, ha il mandato costituzionale di intervenire per arginare tentativi di abuso della libertà economica privata (art. 41, Cost.).

Alla luce di questo, i Giuristi Democratici hanno contestato i licenziamenti annunciati da GKN, i quali si pongono già oggi fuori dall’ordinamento e in contrasto con l’ordine costituzionale e con la nozione di lavoro e di iniziativa economica delineati dalla Costituzione.Tale palese violazione dei principi dell’ordinamento, impone che vengano approntati appositi strumenti normativi per rendere effettiva la tutela dei diritti in gioco. Per questo motivo è necessaria una normativa che contrasti lo smantellamento del tessuto produttivo, assicuri la continuità occupazionale e sanzioni compiutamente i comportamenti illeciti delle imprese, in particolare di quelle che hanno fruito di agevolazioni economiche pubbliche. Tale normativa deve essere efficace e non limitarsi ad una mera dichiarazione di intenti. Per questo motivo riteniamo insufficienti e non condivisibili le bozze di decreto governativo che sono state rese pubbliche: esse non contrastano con efficacia i fenomeni di delocalizzazione, sono prive di apparato sanzionatorio, non garantiscono i posti di lavoro e la continuità produttiva di aziende sane, non coinvolgono i lavoratori e le lavoratrici e le loro rappresentanze sindacali. Riteniamo che una norma che sia finalizzata a contrastare lo smantellamento del tessuto produttivo e a garantire il mantenimento dei livelli occupazionali non possa prescindere dai seguenti, irrinunciabili, principi.

  1. A fronte di condizioni oggettive e controllabili l’autorità pubblica deve essere legittimata a non autorizzare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.
  2. L’impresa che intenda chiudere un sito produttivo deve informare preventivamente l’autorità pubblica e le rappresentanze dei lavoratori presenti in azienda e nelle eventuali aziende dell’indotto, nonché le rispettive organizzazioni sindacali e quelle più rappresentative di settore.
  3. L’informazione deve permettere un controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, al fine di valutare la possibilità di una soluzione alternativa alla chiusura.
  4. La soluzione alternativa viene definita in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate.
  5. Il Piano viene approvato dall’autorità pubblica, con il parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori coinvolti, espressa attraverso le proprie rappresentanze. L’autorità pubblica garantisce e controlla il rispetto del Piano da parte dell’impresa.
  6. Nessuna procedura di licenziamento può essere avviata prima dell’attuazione del Piano.
  7. L’eventuale cessione dell’azienda deve prevedere un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali. In tutte le ipotesi di cessione deve essere garantita la continuità produttiva dell’azienda, la piena occupazione di lavoratrici e lavoratori e il mantenimento dei trattamenti economico-normativi. Nelle ipotesi in cui le cessioni non siano a favore dello Stato o della cooperativa deve essere previsto un controllo pubblico sulla solvibilità dei cessionari.
  8. Il mancato rispetto da parte dell’azienda delle procedure sopra descritte comporta l’illegittimità dei licenziamenti ed integra un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970

 

Riteniamo che una normativa fondata su questi otto punti e sull’individuazione di procedure oggettive costituisca l’unico modo per dare attuazione ai principi costituzionali e non contrasti con l’ordinamento europeo. Come espressamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia (C-201/2015 del 21.12.2016) infatti la “circostanza che uno Stato membro preveda, nella sua legislazione nazionale, che i piani di licenziamento collettivo debbano, prima di qualsiasi attuazione, essere notificati ad un’autorità nazionale, la quale è dotata di poteri di controllo che le consentono, in determinate circostanze, di opporsi ad un piano siffatto per motivi attinenti alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’articolo 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE

Riteniamo altresì che essa costituisca un primo passo per la ricostruzione di un sistema di garanzie e di diritti che restituisca centralità al lavoro e dignità alle lavoratrici e ai lavoratori.

 

26.                     PROCESSO DEL LAVORO SPESE DI GIUSTIZIA

 

Un tema che vale senz’altro la pena di affrontare è quello delle spese di giustizia nel processo del lavoro, per stimolare una riflessione della magistratura sull’argomento.

Sin dal 2009 è stato reintrodotto l’obbligo della condanna alle spese per il soccombente senza eccezioni, con l’obiettivo manifesto di deflazionare il contenzioso. Il legislatore del 2014 ha condizionato la compensazione delle spese alla sussistenza di due dati netti: la assoluta novità della questione trattata; la novità giurisprudenziale su una questione dirimente .

La sentenza della Consulta n. 77/2018 che ha reintrodotto la possibilità di compensare le spese per gravi ed eccezionali motivi non ha comportato alcun mutamento di rotta tra i giudici del lavoro che continuano, a condannare puntualmente i lavoratori soccombenti a rimborsare le spese ai datori di lavoro.

L’effetto empirico indiscutibile di tutto ciò è che dal 2014 non c’è una causa (tranne rarissime eccezioni) in cui il lavoratore soccombente non  viene condannato alle spese.

In questo contesto, è però evidente il differente impatto delle spese di soccombenza per il datore di lavoro, che può scaricarne il costo, e che 99% è assicurato per le vertenze legali, rispetto ad un lavoratore per il quale le spese di giustizia sono una perdita secca di un budget necessario alla sopravvivenza.

Un cambio di rotta non può che passare, in assenza di modifiche legislative, da una profonda riflessione ed una presa di coscienza dei magistrati in ordine alla effettività dell’accesso alla tutela giurisdizionale, ed alle conseguenze dei loro dispositivi, sempre più frequentemente sfavorevoli ai lavoratori, salvo cause temerarie, ritorsive, vendicative.

Il rischio di lite è peraltro gestibile dal datore ricorrendo ad una assicurazione legale, che rientra nella gestione del rischio di impresa, mentre sono insostenibili per un lavoratore che venga condannato a pagare l’equivalente di 10 mesi di retribuzione che gli serve per sopravvivere, tanto più se si tratta di causa di licenziamento.

I Giuristi Democratici sono quindi contrari ad abolire la possibilità di compensare completamente o parzialmente le spese del giudizio.

La proposta è di inserire un ulteriore comma all’art 152 delle disposizioni di attuazione al cpc del seguente tenore:

Nei giudizi promossi dal lavoratore ai sensi degli articoli 409 e ss del cpc,, ove questi goda delle condizioni di esenzione dal pagamento del contributo unificato, nel caso di sua soccombenza le spese sono di norma compensate fatti salvi i casi di cui all’art 96 comma 1 cpc.

Nel caso in cui il Giudice per motivate ragioni ritenga di non potersi discostare dal principio di soccombenza, sarà tenuto ad attenersi ai valori minimi di cui al dm 55/2014 e successive modificazioni

 

27.                     PRECARIATO NEL PUBBLICO IMPIEGO

a) Premessa

Il precariato nelle pubbliche amministrazioni è frutto di molteplici forme di lavoro flessibile i cui limiti e regole sono quasi sempre superati e sanati da successive procedure di stabilizzazione, in presenza di determinati requisiti.

  Le procedure di reclutamento del personale precario e le aspettative di stabilizzazione costituiscono rilevanti bacini clientelari e blocco di concorsi pubblici per l’accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato ex art. 97 Cost..

Sarebbero, pertanto, auspicabili riforme legislative volte ad espungere dall’ordinamento ogni tipologia contrattuale che non garantisca parità di accesso al pubblico impiego, in ossequio al principio di imparzialità della P.A. e diritto alla stabilità del posto di lavoro.

 Nel tempo si sono resi necessari interventi legislativi, anche su impulso della Magistratura contabile, per rendere quantomeno trasparenti e imparziali i criteri di selezione del personale precario nelle pubbliche amministrazioni (come l’obbligo di procedere a selezioni pubbliche anche per l’assunzione delle società partecipate e in house).

 

b)I contratti ex art 110 tuel

Permane nel Testo Unico Enti Locali (D. Lgs. 267/2000) una forma di contratto ex art. 110 con il quale gli enti locali possono conferire incarichi di responsabili dei servizi e uffici, qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione.

Secondo l’art. 110 D. Lgs. 267/2000 e succ. mod. e int. “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato. Per i posti di qualifica dirigenziale, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi definisce la quota degli stessi attribuibile mediante contratti a tempo determinato, (…). Fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire, gli incarichi a contratto di cui al presente comma sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico.

  1. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. (…). Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. (…)
  2. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. (…).
  3. (…). 5. (…).
  4. Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità.

L’incaricato di funzioni di alta specializzazione è stato configurato come una sorta di figura intermedia tra le posizioni organizzative e i dirigenti, ossia come una sorta di super posizione o sub dirigente. Molte amministrazioni locali hanno applicato ed applicano l’articolo 110 del Tuel non come norma assolutamente eccezionale, posta a rimediare in modo transeunte a mancanze di professionalità da acquisire, poi, stabilmente nel rispetto dell’articolo 97 della Costituzione, ma, al contrario per aggirare l’obbligo di concorso, ed assumere per chiamata diretta, intuitu personae, dirigenti a loro graditi.

In particolare, il ricorso al contratto ex art. 110 TUEL è spesso utilizzato, anche nei piccoli enti, laddove si manifesti un contrasto tra l’Amministrazione ed il dipendente, titolare di posizione organizzativa (quasi sempre dell’Area Tecnica), per cui, come una sorta di spoil system il dipendente viene sostituito da un dirigente esterno di esclusiva fiducia del Sindaco.

Detta sostituzione costituisce spesso l’inizio di percorsi mobbizzanti nei confronti di dipendenti, ai quali viene prima revocato l’incarico di posizione organizzativa e poi gradualmente le mansioni della propria qualifica ecc.  

La previsione, introdotta nel 2014, di un limite del 30% non ha certamente scalfito il modo di guardare all’articolo 110, mentre la previsione, sempre inserita nel 2014, di far precedere gli incarichi da una “selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico”, non trattandosi di vera e propria procedura concorsuale, si è sostanzialmente tradotta in acquisizione di curriculum in seguito a pubblicazione di avvisi per pochi giorni, con scelta della persona gradita dal Sindaco- (Le SS.UU. della Corte di Cassazione sent. 04/09/2018, n. 21600  hanno confermato che La controversia in materia di selezione per il conferimento di incarichi di natura direttiva ai sensi dell'art. 110 Tuel è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, difettando tale procedura dei requisiti del concorso e connotandosi, per contro, per il carattere fiduciario della scelta da parte del sindaco, nell'ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei sulla base dei requisiti di professionalità.)

Peraltro, in considerazione della natura prevalentemente “fiduciaria” degli incarichi che possono avere anche la durata del mandato sindacale, il legislatore ha escluso tali contratti dai percorsi di stabilizzazione, determinandosi un ulteriore genere di precariato.

E’ necessario, pertanto, nell’ambito di progetti di riforme contro ogni lavoro precario, ivi compreso quello maturato nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, il cui abuso non è assistito dalla garanzia della conversione del rapporto a tempo indeterminato, intervenire a livello normativo abrogando l’art. 110 TUEL, riportandolo nell’alveo della normativa dei contratti a tempo determinato preceduto da concorso pubblico.

 

c) Problemi di coordinamento del quadro normativo dopo il Decreto Dignità

Il testo del decreto-legge recante disposizioni urgenti <<per la dignità dei lavoratori e delle imprese>> prevede all’art. 1, comma 3, che la disciplina normativa di cui agli articoli 1, 2 e 3 non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali <<continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore>> del decreto “Dignità”. La disposizione introdotta con lo scopo di chiarire l’estensione del campo di applicazione della riforma non ha risolto i numerosi dubbi interpretativi determinati dalla stratificazione degli interventi legislativi con riguardo alla regolazione del rapporto di lavoro atipico/precario alle dipendenze della P.A..

 

d) Sulla causalità dei rapporti/contratti

Vi è un problema di coordinamento ed armonizzazione tra le disposizioni del Jobs Act, il Decreto Dignità e l’art. 36 TUPI.

Il Decreto Dignità ha inteso porre limitazioni, anche se molto parziali, nel settore privato al ricorso al contratto a termine (che resta atipico rispetto alla forma comune del contratto di lavoro di cui alla disposizione – preambolo dell’art. 1 D. Lgs. 368/2001) reintroducendo l’obbligo di specificazione della causale per i contratti di durata superiore ai dodici mesi e nelle ipotesi di rinnovo e proroghe che superino detta durata.  Intervento modificativo della precedente disciplina che, illogicamente, è escluso per gli stessi contratti atipici con le pubbliche amministrazioni.

 Non si comprende la ragione di tale scelta del Legislatore che, da un lato, pare intenda ridurre l’abusivo utilizzo di prestatori precari e, dall’altro, consente alle P.A. di farvi ancora incontrollato ricorso.  Opportuno, quindi, un intervento legislativo abrogativo del citato comma 3 art. 1 D.L. 87/2018 e introduttivo di una disposizione modificativa della disciplina dei contratti atipici / precari con le pubbliche amministrazioni, introducendo la causalità/ragioni giustificative del ricorso agli stessi contratti così da armonizzare il nuovo impianto normativo con i limiti e le condizioni/modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35 TUPI.

 

e) Sulla decadenza

Problema di coordinamento/armonizzazione vi è anche con riferimento alla disciplina della decadenza per le impugnazioni/contestazione dei contratti atipici nella pubblica amministrazione. Infatti, sempre il citato comma 3 dell’art. 1 D.L. 87/2018 nell’escludere l’applicazione delle disposizioni modificate ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni include anche quella apportata all’art. 28, comma 1 D. Lgs. 81/2015 (termine decadenziale da 120 giorni a 180 giorni) così ingenerando nell’interprete la possibile convinzione che anche i contratti con le PP.AA. soggiacciono a termine decadenziale nonostante la preclusione legislativa alla “conversione2 dei contratti di cui all’art. 97 Costituzione e all’art. 36 TUPI.

L’introduzione del termine decadenziale da parte del legislatore del 2010 rispondeva all’esigenza (più dal lato del datore/imprenditore) di ottenere in tempi ragionevoli la definizione di un contenzioso incidente (con l’eventuale conversione del rapporto/contratto a tempo indeterminato) sul proprio organico aziendale.

Alla luce di quanto sopra, una lettura finalistica delle norme in esame porterebbe ad escludere l’assoggettabilità al termine decadenziale dell’impugnazione del contratto atipico/precario stipulato con le PP. AA.. Di contro, una interpretazione letterale della succitata disposizione (comma 3 art. 1 D.L. “Dignità”) potrebbe condurre all’applicazione dei termini decadenziali anche ai contratti atipici nel settore pubblico.

Difficoltà interpretative evidenti, dunque, tra l’altro manifestatesi in giurisprudenza con divergenti orientamenti. Solo da ultimo, la Suprema Corte (con sent. n. 5740/2020) ha precisato che il risarcimento del danno in tema di pubblico impiego ha natura contrattuale ed in quanto tale non è assoggettabile a termini di decadenza soggiacendo all’ordinario termine prescrizionale. Anche sul punto sarebbe auspicabile un intervento normativo con la chiara esclusione di termini decadenziali in tema di impugnazione di contratti atipici / precari stipulati con le PP.AA.

 

28.                     IL RAPPORTO DI LAVORO NELLE COOPERATIVE

 

Ci sono alcuni datori di lavoro che hanno una veste formale “particolare” adottata con l’interesse primario di accedere a facilitazioni di tipo fiscale e tributario. Nascono da tradizioni sociali, storiche e geografiche del nostro Paese e hanno conservato nel tempo regimi peculiari e privilegiati.

Pensiamo alle Associazioni Sportive Dilettantistiche, da ultimo alle Società Sportive Dilettantistiche, a forme svariate di Associazioni anche di volontariato, al mondo delle Cooperative, dei loro Consorzi e in particolare le Cooperative di produzione lavoro.

Tutte forme astrattamente virtuose, fortemente volute e tutelate in Costituzione (non sempre realizzate),  tradite dalla voracità imprenditoriale.

Esimendoci da una analisi – di fatto e giuridica - sull’acritico favore legislativo ed economico a loro riservato, in questa sede preme evidenziare come, all’interno di queste forme di organizzazione economica, anche il rapporto di lavoro che si istaura con chiunque a qualunque titolo “si obbliga mediante retribuzione” e in diverse forme presta “il proprio lavoro intellettuale o manuale”, perde le originali e ormai residue forme di tutela, garantite al classico rapporto di lavoro di natura subordinata. Cooperative come forme, neanche tanto mascherate ma sicuramente impunite, di caporalato o come forme di intermediazione di manodopera scomposte dentro strutture di appalto e subappalto (il)lecito.

E’ necessario ripensare e individuare un nucleo indissolubile di diritti, garanzie e norme che garantiscano a chiunque lavori le medesime tutele. Invero l’esperienza anche professionale ci ha dimostrato come il sovrapporsi di normative non armoniose e l’incoerente applicazione giurisprudenziale, aggravino l’esercizio del diritto e dei diritti e pongano sempre il lavoratore in una posizione di sudditanza e fragilità giuridica come di sminuita tutela economica.

La legge 142/2001 aveva disegnato il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Cooperative distinto dal rapporto associativo che, in genere, si sommano e aveva tentato di valorizzare il ruolo del lavoratore. In realtà, il rapporto di lavoro rimane sempre assoggettato e condizionato a quello associativo come già indicava la circolare del Ministero del lavoro nr. 10/2004. Nella concretezza dei fatti e nell’evoluzione normativa (L. 30/2003) il lavoro alle dipendenze di una cooperativa è una delle forme più sottopagate di lavoro, quasi esclusiva di una manovalanza meno qualificata, priva di molti dei diritti riservati “agli altri lavoratori”. E’ un rapporto di lavoro più instabile perché risente del ricatto della condizione di socio e delle obbligazioni economiche nascenti dal rapporto associativo.

In genere il socio non partecipa all’attività associativa ma subisce le conseguenze delle scelte delle assemblee a cui di rado partecipa proprio per la mistificazione della vita sociale.

Si rende necessario, quindi, intervenire a livello normativo per ridimensionare il sistema di sfruttamento lavorativo che le Cooperative, anche sociali e di produzione e lavoro, hanno agevolato con una serie di correzioni volte ad assicurare:

1) Applicazione chiara e univoca dei regimi giuridici di socio e di lavoratore, eliminando l’interdipendenza ai fini dell’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro,

2) Solidarietà sicura tra committente e cooperativa per retribuzioni, contribuzioni, diritti del lavoratore;

3) Parità di trattamento retributivo e normativo tra lavoratori di cooperativa e lavoratori del committente;

4) Regole uniformi di sicurezza sul lavoro per tutti i soggetti che lavorano, in qualsiasi veste, in un medesimo ambiente di lavoro;

5) Possibile indagine di merito sulla genuinità delle esternalizzazioni e cessioni di rami d’azienda da parte dei lavoratori;

6) Sistemi di contenimento per il ribasso dei costi del lavoro

7) Forme di garanzia per gli accordi tombali con il lavoratore tra un cambio di appalto e l’altro.

8) Maggiore chiarezza sui CCNL applicabili

9) Rafforzamento dei diritti dei soci di controllo delle scelte dell’amministrazione sociale, anche su un piano processuale.

10) Possibilità rafforzate di controllo contabile e di nomina e/o variazione della compagine amministrativa in seno alle cooperative.

 

29.                     IL DIRITTO DI CITTADINANZA SOCIALE

DIRITTO AL LAVORO E REDDITO

 

a) Premessa

Il processo di trasformazione che è avvenuto negli ultimi trent’anni nel mondo del lavoro, a causa dell’introduzione delle nuove tecnologie, sembra produrre un preoccupante calo occupazionale.

Negli anni 'Novanta, Jeremy Rifkin affrontava il tema della terza rivoluzione industriale nel suo "La fine del lavoro"[89]. Da allora il lavoro ha continuato, progressivamente, a diminuire. L'introduzione delle nuove tecnologie ha radicalmente spazzato via una serie di lavori, ancora esistenti pochi anni fa.

Il processo è quello di desertificazione crescente, che interessa soprattutto i profili lavorativi meno qualificati.

Di recente, sul tema, sono state pubblicate, sul piano internazionale, talune ricerche di grande importanza.

Nel 2013 due ricercatori dell'Università di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne[90], hanno calcolato che il 47% dei posti di lavoro nel mercato americano rischiano di sparire nei prossimi vent'anni a causa dell'automazione. Secondo Mark Haefele[91] il dato va esteso a tutte le economie avanzate.

Secondo tesi più ottimistiche[92], nei paesi che investono maggiormente nella produzione tecnologica sarebbero ‘solo’ il 9% i lavoratori a rischio ‘sostituzione’.

E infatti, tali paesi generano posti di lavoro nel campo delle tecnologie informatiche, che, entro una misura ben determinata, sostituiscono i posti di lavoro perduti. In ogni caso, anche la tesi più ottimistica, restituisce uno scenario drammatico, soprattutto in paesi che già in partenza non godevano della piena occupazione.

Ad esempio, sino a pochi anni fa, tutti gli studi legali, anche quelli più piccoli, avevano un segretario che provvedeva a battere a macchina e a svolgere incombenze in tribunale. Oggi, con pc, email, Pec e processo telematico solo gli studi più grandi, di fatto, hanno il supporto di un segretario (e comunque ne hanno ridotto il numero rispetto a quindici anni fa). In Italia, quindi, il settore degli studi legali (e professionali in genere) ha espulso del lavoro non meno di 50.000 figure professionali, che non sono state rimpiazzate in nessun modo.

Si riduce drasticamente il lavoro nelle banche (soppiantato dall’home banking), nelle compagnie assicurative (le assicurazioni ormai sono pressoché tutte on line), nelle agenzie di viaggi, nei giornali, etc.

Il meccanismo prefigurato dagli economisti liberisti, nel contempo, mostra tutti i suoi limiti. Si riteneva che a un aumento della produttività, conseguisse un calo dei prezzi, e un conseguente aumento della produzione e vendita, che compensava la accresciuta produttività marginale. Non è stato così (o comunque è avvenuto in minima parte). Si pensava che si potesse agire sulla leva monetaria e del tasso di interesse; ma ciò non ha sortito i frutti sperati[93].

Occorre poi accennare a due fenomeni connessi: il calo delle ore lavorate, e l’aumento del part time[94] (spesso connesso a lavori non garantiti), e una sorta di esplosione del lavoro informale (si pensi ai ciclofattorini, anche detti rider, o a piattaforme come Uber)[95].

Per effetto di tutto questo, in Italia, il reddito medio delle famiglie (a prezzi costanti) nel 2016 era inferiore dell’11% rispetto al reddito medio del 2006[96]. Inoltre, è aumentata la quota di persone a rischio di povertà, ossia che dispongono di un reddito-equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano: si tratta del 23%[97].

Il tutto, in un quadro in cui il PIL italiano è in effetti, nel 2016, inferiore solo del 3% a quello del 2006[98].

Insomma, il reddito delle famiglie si abbatte e la povertà cresce notevolmente, anche se il PIL non è decresciuto in modo rilevante. Si è quindi verificato l’effetto prefigurato dall'economista francese Thomas Piketty ("Il capitalismo del XXI secolo"[99]): la ricchezza mondiale ed italiana si accumula sempre di più nelle fasce alte del reddito, schiacciando il ceto intermedio (in particolare quello a bassa qualificazione) e lasciando la fascia più povera della popolazione senza redditi e inesorabilmente senza lavoro[100]. Nel contempo si assiste alla diminuzione dei lavoratori permanenti, a vantaggio di forme lavorative sempre più precarie e volatili[101].

Per quanto attiene alle possibili contromisure, occorre in primo luogo confutare la tesi finora dominante. Quella per cui il sistema genererà nuove utilità tali da assorbire tutti i disoccupati, oppure che sia sufficiente agire sulla leva dei costi del lavoro.

In primo luogo occorre capire che oggi il costo del lavoro incide ben poco sugli utili. Google o Amazon non hanno alcun problema a pagare bene quei pochi lavoratori che impiegano, stanti gli enormi margini di utile. In un quadro in cui, per la grande parte dei beni, i costi del lavoro incidono in parte minima sui costi, la riduzione di un punto dei suddetti costi produce un effetto irrisorio[102].

Le analisi dei liberisti, che vantano una presunta modernità, sono ferme all’Ottocento.

Ma anche le analisi della scuola keynesiana mostrano i loro limiti. Per molti aspetti le analisi sono ferme a un tempo in cui i bisogni primari degli esseri umani erano virtualmente infiniti, insoddisfatti e l’ambiente sembrava senza limiti di sfruttamento.

Oggi si deve comprendere che la via d’uscita dalla crisi non può essere quella di un aumento indiscriminato della produzione di beni. Se la produttività del lavoro aumenta di dieci volte, per compensare i posti di lavoro sarebbe necessario aumentare (almeno) di dieci volte la produzione[103]. Ma ciò è impensabile per diverse ragioni. Il sistema non è in grado di assorbirli, l’ambiente naturale non lo sopporterebbe.

Ciò che va compreso è che il livello di servizi e prestiti bancari (da cui le banche traggono i loro utili) non dipende affatto dal costo dei servizi medesimi (bensì dal livello dell’economia, dal saggio di interesse etc.). Stesso dicasi per gli studi professionali: il numero di cause che patrocina un avvocato non dipende dalle tariffe (ma dall’indice di conflittualità giuridica, dalla chiarezza delle norme etc.), e lo stesso vale per i progetti che disegna un architetto (che sono funzione della necessità di costruire nuovi immobili).

Inoltre l’espulsione dei lavoratori casellanti autostradali, dovuta all’automazione, non solo non genera né una diminuzione dei prezzi, né un aumento dei viaggi autostradali, ma soprattutto —anche ove i viaggi stessi aumentassero— non genera in ogni caso un aumento di posti di lavoro, perché si arriva ad un punto di progresso tecnologico in cui anche l’aumento macroscopico di vendita del bene o del servizio non genera alcun posto di lavoro (in quel determinato comparto). Si arriva ad un punto di sviluppo tecnologico, in cui è la stessa tecnologia a far fronte a un aumento di produzione (ed, a monte, da un aumento della domanda aggregata). E dunque saranno sempre i caselli automatizzati, ad assorbire il maggiore traffico, e sarà sempre l’home banking a gestire le aumentate transazioni bancarie.

Possiamo definirla la trappola dell’automazione.

Solo in relazione a beni ad alta incidenza di manodopera (sempre meno), una diminuzione dei costi genera un corrispondente calo dei prezzi e un aumento della produzione sufficientemente compensativo in termini occupazionali. Se però la produzione è funzione della domanda (come dimostrato da Keynes), e la domanda di un medesimo bene non è infinita, ma giunge a saturazione, dall’aumento di produttività non può che derivarne una disoccupazione strutturale, come la recente storia si è incaricata di dimostrare.

Inoltre, anche le politiche di stampo keynesiano, di sostegno alla domanda, perdono parte della loro efficacia in un mondo globalizzato[104].

Occorre allora giungere a una conclusione.

Il liberismo funziona discretamente bene nella prima fase, di soddisfazione di alcuni bisogni materiali primari. Poi tende a iper soddisfare sempre i medesimi bisogni, consumando oltremisura l’ambiente. È un discorso che porterebbe lontano. Ciò che conta è che non si può moltiplicare per dieci la produzione di hamburger per assorbire l’impatto delle nuove tecnologie.

Quindi, l’iper-produzione di beni privati ad alto consumo ambientale deve essere sostituita dalla produzione di beni sociali compensativi.

 

b) Il nuovo patto sociale

 

Nei grandi momenti di crisi le risposte sono solo due, o accettare il declino civile, o rilanciare e provare ad evolversi. Il dramma che la storia insegna è proprio questo: non c’è una terza via, chi non si evolve, declina irrimediabilmente.

La nostra società ha drammaticamente cessato di credere nelle proprie possibilità di evoluzione.  Curiosamente, questo avviene proprio quando la tecnologia ci permetterebbe di fare un notevole salto.

Occorre dunque uno sforzo collettivo, che impegni tutte e tutti, nessuno escluso. Ciascuno deve conferire in misura maggiore alla collettività. L’incremento dei beni comuni, tornerà a giovamento di tutti.

L’obiettivo è un più alto punto di convergenza, un più elevato livello di civiltà ed un nuovo patto sociale.

Il principio guida è collettività contro egoismo sociale.

 

c) Il diritto al lavoro

Art. 4 Cost.: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

È giunto il momento di dare una lettura diversa di questo fondamentale principio costituzionale.

L’interpretazione tradizionale afferma che lo Stato deve limitarsi a favorire condizioni economiche e giuridiche generali che possano poi spontaneamente creare posti di lavoro.

Sotto questo profilo, la prima conclusione che deve trarsi, dall’analisi condotta in precedenza, è che è evidente che l’orario di lavoro va limitato, per consentire la generazione di nuovi posti di lavoro.

Questa proposta, tuttavia, vuole introdurre un elemento ulteriore, perché si basa sull’assunto per cui, se il mercato spontaneamente non crea sufficienti posti di lavoro, deve essere lo Stato ad intervenire in modo diretto, per combattere la disoccupazione strutturale.

Interessanti anche le tesi del BIN, Basic Income Network Italia, che sostiene la corresponsione a tutti di un reddito base, tale da liberare definitivamente le persone dallo stato di bisogno.

La presente proposta vuole rappresentare una sintesi e un passo in avanti. Oltre al diritto al reddito va, infatti, riconosciuto un diritto al lavoro.

Sotto il profilo del diritto, il lavoro è un modo fondamentale di esplicazione della personalità. Il lavoro è il contributo dell'individuo alla costruzione della società in cui vive. È una fondamentale modalità relazionale. Nel lavoro l'individuo cresce, si forma, si organizza. Hegel afferma che «L'uomo è l'essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso».

 

d) La proposta

Si tratta di una proposta radicale, con forte valenza simbolica: lavoro per tutte e per tutti[105].

Non come promessa generica, o come mero diritto politico, ma come diritto soggettivo. E dunque del diritto al lavoro come diritto di credito, nei confronti dello Stato, azionabile in giudizio.   

Chiunque deve potersi presentare e dire: «Io domani voglio lavorare». E lo Stato, per legge, deve dare un lavoro.

Come detto, l'articolo 4 della Costituzione afferma: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».

Occorre poi superare la contrapposizione tra lavoro e reddito.

Il reddito è temporaneo, nel tempo necessario per la riqualificazione e la ricerca del nuovo lavoro. Non solo. Si può senz’altro immaginare, nel quadro di un più elevato livello di civiltà, che alla persona sia conferito un reddito anche solo per godere di una pausa, per riposo, per un lungo viaggio, per occuparsi di qualcuno o per scrivere un romanzo o una sinfonia.  L’aumento di produttività, dovuto alla tecnologia, oggi ci permette tutto questo, e dobbiamo credere e volere fortemente una società che garantisca a tutti una vita più umana. 

Tuttavia il reddito resta una soluzione di passaggio, ma non appare una risposta al cambiamento epocale che abbiamo vissuto.

Il centro della proposta è il diritto al lavoro.

Occorre quindi superare la posizione tradizionale, che non vede nel diritto al lavoro attribuito dalla Costituzione un diritto “perfetto”, ossia, uno di quelli azionabili in sede giudiziaria. Secondo la lettura data finora, il diritto al lavoro, come gli altri diritti sociali è “azionabile in sede politica attraverso il processo democratico". Insomma, il cittadino ha solo la via elettorale per ottenere la speranza di un posto di lavoro. La responsabilità di un sistema pubblico che, alla prova dei fatti, non risolve il problema della disoccupazione, resta sempre solo politica.

A fronte del cambiamento epocale che stiamo vivendo, quella canonica è una risposta insufficiente, e va cambiato il paradigma.

Il lavoro è (diventa) un diritto soggettivo pieno - perfetto- azionabile in ogni sede. Debitore è lo Stato, creditore chi non lavora. 

Fondamento giuridico, peraltro, rinvenibile nella stessa Costituzione, non solo nel primo comma dell'art.4, ma soprattutto nel secondo, laddove è scritto 

"Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società"

Se come cittadino ho anche il dovere di svolgere una 'attività o funzione', vuol dire che lo Stato mi deve mettere in condizione di adempiere.   

Altro punto essenziale: il lavoro cessa di essere solo un mezzo per produrre altri beni sociali, ma è esso stesso bene sociale che deve essere prodotto dalla collettività.  

Si è constatato che il sistema capitalista, senza intervento pubblico, non produce spontaneamente sufficiente lavoro per tutte/i.

Lo Stato, quindi non si deve limitare ad usare lavoro come un mezzo di produzione, ma deve intraprendere iniziative volte, semplicemente, a crearlo. E’ questo il cambio di prospettiva. 

Anche il lavoro deve essere un servizio pubblico.  Garantire ai cittadini il benessere attraverso la possibilità di esplicare le loro potenzialità attraverso attività di contribuzione al bene pubblico.

Come conseguenza di questo processo lo Stato otterrà anche altri beni pubblici come effetto del lavoro È il cuore della proposta.

Il lavoro di cittadinanza è un lavoro di (almeno) 5/6 ore al giorno, pagato con una somma tale da permettere non solo la mera sopravvivenza, ma un relativo agio (e con importi, comunque, non inferiori a quelli da CCNL).

Nel momento in cui il lavoratore fa richiesta, sceglie il proprio percorso di lavoro, sulla base di aspirazioni, competenze e necessità. Le competenze possono essere acquisite anche nel percorso formativo che egli stesso sceglie. Questo significa che occorrerà tenere conto delle inclinazioni di ciascuno.

Facciamo degli esempi concreti per comprendere meglio. Il violinista suonerà nella stanza del museo, gli attori formeranno una compagnia teatrale che girerà per le scuole per far conoscere la tragedia greca e latina. Altri terranno aperte le scuole dopo l’ora di pranzo, permettendo agli studenti di fermarsi a studiare e ad altri lavoratori di dare delle ripetizioni.

Il nodo essenziale deve, però, essere: le prestazioni di lavoro non devono sostituire lavori o servizi esistenti, ma creare una nuova utilità sociale, che prima non esisteva. Un’utilità che andrà a beneficio dei cittadini, ma che favorirà anche il sistema produttivo. In modo partecipato e, per quanto possibile, autogestito, s‘individuano bisogni sociali ed ambientali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative. Un esempio potrebbe essere quello di proporre di tenere aperto un bene culturale, o ambientale, fino a quel momento non fruibile.

Ma va dimenticata la ricerca speculativa, la produzione artistica, musicale e culturale in genere. 

A questo punto, il lavoratore chiamato potrà rimanere nella condizione quanto vuole, anche per tutta la vita, se trova un equilibrio. Lui restituisce alla società più di quello che riceve.

Sia in fase iniziale, sia in fase successiva, il singolo lavoratore o un gruppo di soggetti può presentare progetti, in cui si individuano bisogni sociali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative.

In sostanza, i singoli o i gruppi di lavoratori, potrebbero redigere delle proposte (o delle controproposte) di lavoro, sviluppando quello che oggi viene costruito come il nuovo mutualismo.

Ad esempio: un gruppo di lavoratori sviluppa un progetto di recupero e visite guidate al parco della Marcigliana, fino a quel momento abbandonato a se stesso. O un progetto di apertura giornaliera delle case romane di S. Paolo alla Regola, fino a quel momento rimaste chiuse. O un progetto per rappresentazioni teatrali nelle scuole, o per recitare poesie sulla spiaggia di Ostia nelle notti d'estate.

Nel progetto vanno indicati anche costi, tariffe ed utili per il pubblico (biglietto che si può richiedere).

L'attività di organizzazione dei lavori, di approvazione e controllo dei progetti è rimessa ad altri lavoratori di pubblica utilità. Questi stessi lavoratori potrebbero aiutare gli altri a sviluppare progetti di lavoro.

 

e) Il campo di lavoro

 

Si è detto come si debba trattare della valorizzazione di beni e servizi attualmente improduttivi o sotto-utilizzati.

L'obiettivo è quello di generare utilità in attesa di realizzazione e concretizzazione. I beni pubblici "improduttivi" sono, evidentemente, la prima risorsa da sfruttare.

Alcuni esempi.  In primo luogo tutte le occupazioni artistiche, di cui si è detto.  Ci sono moltissimi beni culturali in attesa di valorizzazione e che necessitano di manutenzione. Beni ambientali: parchi, riserve naturali, spesso rimangono chiuse perché possono essere fruite solo con visite guidate. Piano per la formazione ed istruzione, di supporto alle famiglie. Le famiglie sono chiamate sempre più al supporto dei figli che studiano.  Assistenza ad anziani e invalidi; servizi per l'infanzia. Si pensi a un pulmino che prelevi bambine e bambini da casa, conducendoli a scuola e/o viceversa: riduce il traffico e l'inquinamento, aiuta le famiglie. O il classico servizio di "autobus a piedi". Ancora, un servizio di baby sitting collettivo, serale (sempre nelle scuole). Oppure l’istruzione a domicilio ed un grande piano di alfabetizzazione informatica. Formazione nel settore informatico. Realizzazione di Pec, per tutti i cittadini (promessa, ma mai attuata dallo Stato). Valorizzazione dell'usato. Grande servizio nazionale di ritiro e recupero di beni non più utili:  piano per i trasporti alternativi, per le biciclette (vigilanza e riparazione) e per la diffusione di ulteriori mezzi di trasporto sostenibili. Es.: istituzione presso ogni fermata metro e ferroviaria di servizio di custodia (di bici private) ed affitto biciclette. Settore turistico: utile impiegare lavoratori nel settore dell'accoglienza turistica. Informazioni, indicazioni, vigilanza sulle eventuali truffe ai turisti. Settore agricolo e del biologico: alcuni lavoratori potrebbero essere impiegati nel settore. Settore delle energie rinnovabili. Un piano per la residenzialità alternativa. Assistenza aiuto all’inserimento, formazione  per gli immigrati.

 È l’intera gestione del sistema che può essere affidata agli stessi lavoratori di cittadinanza

I campi di intervento sono comunque moltissimi. Sarà poi lo stesso sistema a selezionare ed immaginare altri campi di intervento.

 

f) Il diritto europeo di cittadinanza sociale

La dimensione europea è ineludibile. Solo un insieme politico ampio può garantire la pace nel continente che ha provocato ben due guerre mondiali e può essere in grado di correggere efficacemente le storture e le contraddizioni di cui è responsabile la globalizzazione.

L’Europa oggi è sostanzialmente un incontro tra Stati. Gli Stati nazionali hanno svolto un ruolo storico fondamentale per secoli, oggi non basta più, di fronte ai processi di globalizzazione occorre dare vita a sedi internazionali di governo dei processi finanziari ed economici, altrimenti gli Stati sono destinati a subire i ricatti dei gruppi finanziari ed economici che finirebbero con il dettare le regole.

Senza un deciso passo avanti, proseguendo nella strada attuale, l’Europa è destinata ad implodere. Solo una risposta politica democratica e progressista può ridare un futuro unitario credibile all’Europa, contrastando la svolta a destra e per essere tale deve innovare in profondità istituzioni, regole e politiche dell’Unione.

Occorre quindi democratizzare il progetto europeo, costruendo un sistema istituzionale realmente rappresentativo, che le attuali regole non garantiscono, mettendo il parlamento in grado di esercitare il potere legislativo e un reale controllo politico, finora appannaggio degli stati nazionali.

L’Unione, deve essere trasformata pienamente in una democrazia parlamentare.  L’Europa non può essere solo il luogo dell’incontro tra Stati, ma sede del confronto tra culture e politiche per realizzare un primo grado di reale unificazione. Occorre lavorare da subito per costruire un nuovo campo d’azione istituzionale, politico e sociale, costruendo insieme agli altri europei democratici un’azione per spingere l’Unione Europea ad una profonda inversione delle politiche economiche sociali che non solo abbandoni definitivamente le politiche di austerità ma ponga le necessarie garanzie per uno sviluppo equilibrato di tutto il continente, che abbia occupazione e coesione sociale e accoglienza come pilastri fondamentali.

Anzitutto occorre lavorare per una cittadinanza sociale europea. Occorre andare oltre la carta di Lisbona e l’individuazione dei pur indispensabili diritti fondamentali riconosciuti a tutti i cittadini europei per arrivare a concrete scelte politiche che riconoscano e garantiscano ai singoli cittadini europei i diritti fondamentali (reddito, fisco, lavoro, istruzione, salute, casa, assistenza e previdenza pubbliche, etc.) di cui la stessa Unione deve essere direttamente responsabile in modo unitario.

Dunque il finanziamento del progetto reddito/lavoro di cittadinanza deve gravare direttamente (e non attraverso il corpo intermedio Stato) sul bilancio dell’Unione.

In generale deve affermarsi che i livelli della sanità, dell’istruzione, del sostegno al lavoro e per il lavoro debbono essere obiettivi e traguardi europei, comuni a tutti i paesi. Di conseguenza il bilancio comunitario deve affrontare direttamente alcuni capitoli di entrata e di spesa,  finora lasciati a livello nazionale, in un’ottica di bilancio consolidato a livello europeo.

Il lavoro non può più rimanere un fatto esclusivamente privato, di cui lo Stato si disinteressa, ma bensì un diritto oltre che un dovere del cittadino[106].

 

30.                     REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE

 

a) Premessa

L’introduzione nel nostro ordinamento di un “reddito di cittadinanza”, in concreto destinato anzitutto, anche se non esclusivamente, a disoccupati e inoccupati apre una nuova e probabilmente insperata, o comunque non pienamente valutata, prospettiva di una lotta alla disoccupazione finalmente vittoriosa.

Invero, nella corrente opinione e considerazione, il reddito di cittadinanza costituisce essenzialmente una misura di redistribuzione del reddito con secondari, e per lo più solo sperati, effetti occupazionali laddove invece – ed è quanto cerchiamo di dimostrare con questa nota – consente di redistribuire insieme, e con la stessa intensità e certezza, reddito e occupazione, a patto di saper costruire nuove e positive correlazioni tra concetti ed istituti.

La redistribuzione dell’occupazione costituisce una via obbligata per rispondere in tempi brevi alla domanda: “cosa si può fare qui e subito per ridurre drasticamente la disoccupazione giovanile?” Si porrebbe così rimedio in tempi brevi, e non medio-lunghi o lunghissimi, al dramma sociale della mancanza di lavoro, continuativamente aggravata anche dal progresso tecnologico, senza peraltro negare in alcun modo la contemporanea, parallela necessità di investimenti e politiche economiche che comportino, in progresso di tempo, un aumento assoluto del fabbisogno di forza-lavoro.

La possibile sinergia tra reddito di cittadinanza ed incremento occupazionale sembra peraltro essere sfuggita, fino ad ora, sia ai detrattori che ai sostenitori e promotori dello stesso reddito di cittadinanza ed, invero, i “detrattori” li considerano addirittura concetti agli antipodi, vedendo nel reddito di cittadinanza un istituto essenzialmente assistenziale, di mero trasferimento di reddito verso strati della popolazione certamente poveri e disagiati, ma anche sospettati o indiziati di pigrizia, di tendenza al parassitismo sociale e addirittura di probabili comportamenti simulatori e truffaldini.

Questo ingiusto e pregiudiziale atteggiamento ha in qualche modo impressionato anche i proponenti e sostenitori del nuovo istituto che hanno assunto una posizione, per così dire, “difensiva”, condizionando la percezione del reddito di cittadinanza ad una lunga serie di requisiti ed anzitutto alla soggettiva disponibilità del disoccupato percettore ad accettare, a pena di perdita del beneficio, offerte di lavoro da parte degli uffici ed organismi pubblici operanti nel mercato del lavoro.

Ma il sistema pubblico di regolazione di questo mercato ha sempre dato pessima prova nel procurare ai disoccupati posti di lavoro con la conseguenza che, a parte le intenzioni, e le “grida” circa l’obbligo di accettare le eventuali offerte, resta altamente probabile che per mancanza in concreto di offerta non si vada al di là di una, comunque positiva, misura anti-povertà. Ed invece alla fine, a ben pensarci, con la stessa spesa pubblica si potrebbe ottenere molto ma molto di più, e cioè un lavoro vero per i disoccupati/inoccupati e inoltre parallela riduzione del “tempo di lavoro” con conseguente aumento del “tempo di vita”, per un numero di lavoratori già occupati quadruplo di quello dei disoccupati che verrebbero assunti. La via è essenzialmente quella dei contratti di solidarietà espansivi, che tra breve compiutamente illustreremo.

Occorre, a nostro avviso, adottare questo punto di vista: una volta introdotto nel nostro ordinamento il reddito di cittadinanza, con il conseguente stanziamento nel bilancio statale di una somma sicuramente ingente, il legislatore, senza accorgersene, o quasi, ha anche felicemente creato la provvista per finanziare, senza spese aggiuntive, un reale aumento del numero degli occupati.

Il punto è semplicissimo, addirittura lapalissiano, ma decisivo: ogni posto in più che venisse creato dalla volontaria riduzione di orario accettata da 4 lavoratori già in forza comporterebbe un reddito di cittadinanza in meno da pagare al disoccupato così assunto, il quale godrebbe non già di un sussidio ma di un lavoro vero e di un vero reddito da lavoro normalmente più alto del sussidio stesso.

Tutto il problema di politica sociale e legislativa si riduce, insomma, al riuscire a creare un nuovo posto di lavoro spendendo lo stesso importo che si spenderebbe per corrispondere il reddito di cittadinanza a quel soggetto se restasse disoccupato o inoccupato.

Onde evitare confusione, occorre anzitutto marcare la distanza tra la via che indichiamo della redistribuzione del lavoro e quella che il legislatore ha, invece, prospettato come relazione tra reddito di cittadinanza e crescita occupazionale: l’idea cioè di destinare la parte del reddito di cittadinanza, ipoteticamente in godimento ad un disoccupato, al datore di lavoro che lo assuma, così realizzando un aumento netto del monte ore lavorative della sua azienda.

Vedremo nel paragrafo seguente, spiegando in sintesi la formula (o ricetta) dell’operazione, come ciò sia perfettamente possibile.

 

b) Formule (o “ricette”) per l’occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva.

La via ora ricordata, attraverso cui il legislatore vorrebbe legare il reddito di cittadinanza alla crescita occupazionale, è quella di incentivare direttamente i datori di lavoro all’assunzione, promettendo loro l’importo mensile del reddito di cittadinanza per il tempo di residuo godimento da parte dell’ex-disoccupato ora neo-assunto. Tale via è certo apprezzabile, pur reiterando una tradizionale tipologia di incentivo occupazionale (“soldi pubblici a chi assume”), ma i suoi effetti non potranno che essere limitati. La ricordata misura, infatti, presuppone pur sempre che il datore di lavoro abbia bisogno di forza-lavoro “in più” ossia che sussista nell’azienda un fabbisogno occupazionale superiore rispetto al passato.

Invero, nessun datore di lavoro assume se non ha necessità di lavoro in più, ancorché il posto di lavoro sia in parte “pagato” da contributi pubblici.

La via che indichiamo è diversa, senza escludere quella ora ricordata, perché non presuppone un nuovo ulteriore fabbisogno di ore lavorative, in quanto misura di tipo redistributivo ed i nuovi posti di lavoro, per così dire, “si creano e si pagano da sé” utilizzando la stessa provvista di denaro pubblico stanziata per il reddito di cittadinanza.

L’incentivazione pubblica costituita dal reddito di cittadinanza, invero, va intelligentemente utilizzata in modo, per così dire, “indiretto” o “di sponda”: occorre destinare un importo equivalente a quello del reddito di cittadinanza - che quel disoccupato/inoccupato avrebbe percepito - a quattro lavoratori, già occupati, i quali volontariamente accettino di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giornate, così “aprendo uno spazio” per l’assunzione di quel disoccupato/inoccupato e guadagnando per sé un giorno libero in più alla settimana.

L’importo che sarebbe stato destinato all’erogazione di un singolo reddito di cittadinanza dovrebbe appunto compensare, invece, quei quattro lavoratori “riducenti orario” della ovvia perdita salariale (di 1/5) conseguente alla riduzione dell’orario lavorativo da 5 a 4 giorni settimanali.

Lo strumento negoziale da usare per questa operazione è il contratto di solidarietà espansiva, previsto oggi dall’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, che è un accordo sindacale aziendale nel quale tutta la vicenda può essere convenientemente negoziata e pattuita nei particolari e che è perfettamente invocabile in giudizio nel caso di inadempimenti.

Con il contratto di solidarietà, come è noto, si riduce l’orario di lavoro di un certo numero di dipendenti già in forza: in quelli cd. “difensivi” per fronteggiare crisi aziendali e temporanea mancanza di lavoro e in quelli “espansivi” (che ci interessano) per “creare spazio” all’assunzione di nuovi lavoratori. Tuttavia, la legge vigente (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) prevede compensazioni salariali ai lavoratori, i cui orari vengano ridotti solo con riguardo ai contratti di solidarietà “difensivi” e non a quelli “espansivi”. Senza un’adeguata compensazione salariale lo strumento da noi proposto non funzionerebbe, perché i lavoratori, pur desiderando certamente un giorno libero in più alla settimana e con tutta la simpatia per i disoccupati, non potrebbero permettersi una perdita salariale del 20% (1/5 dello stipendio).

Per converso, però, con una compensazione adeguata vicina al 100% o addirittura totale della perdita si avrebbe una vera e propria “corsa alla riduzione di orario”.

Ebbene, quella compensazione altamente adeguata può derivare proprio dalla finalizzazione al suo pagamento della risorsa finanziaria che sarebbe stata assorbita dal pagamento del reddito di cittadinanza, con la precisazione – che è meglio formulare fin d’ora – che l’attribuzione della risorsa economica ai lavoratori accettanti la riduzione di orario potrebbe avvenire, per motivi anzitutto di semplificazione burocratica, sotto forma di riduzione della trattenuta fiscale IRPEF in busta paga.

Si può, dunque delineare, in via di prima sintetica conclusione, una semplice ma originale formula: per non limitarsi ad alleviare la povertà del disoccupato/inoccupato, ma per garantirgli il lavoro e relativo reddito conviene “giocare di sponda” e destinare la stessa risorsa monetaria (€ 780,00 mensili) non a lui direttamente, bensì alla compensazione salariale di quattro neo-colleghi, i quali, riducendo la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni, creano praticamente ex novo, ed in modo certo, il posto di lavoro che serve.

Con vantaggio di tutti: dello (ex) disoccupato, dei lavoratori riducenti l’orario e dello stesso datore di lavoro, come più sotto si avrà agio di dimostrare.

 

c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta.

Abbiamo ritenuto opportuno, per semplicità ed efficacia di comunicazione, anticipare il nucleo essenziale della nostra proposta, ma nei paragrafi seguenti sarà opportuno o addirittura necessario scendere nei dettagli e nelle esemplificazioni, per meglio spiegarla e dimostrarne la pratica fattibilità.

Bisogna, però, formulare, in via ancora introduttiva, almeno le seguenti avvertenze:

1) quando si parla di destinare ai lavoratori che accettino di ridurre il loro orario settimanale, a titolo di compensazione, il beneficio monetario che sarebbe stato corrisposto al disoccupato come reddito di cittadinanza, ovviamente non si parla di rapporti o negozi giuridici tra soggetti individualmente considerati, ma solo di un confronto di contabilità generale tra diverse partite.

Si vuol dire che per lo Stato è lo stesso pagare al disoccupato Tizio € 780,00 mensili a titolo di reddito di cittadinanza, oppure praticare uno sconto fiscale di € 195,00 mensili a quattro lavoratori, Caio, Sempronio, Mevio e Saturnino, che, riducendo il loro orario settimanale, consentono l’assunzione di Tizio.

Per questo, comunque, non è affatto necessario che i cinque lavoratori si conoscano o siano entrati o entrino in contatto tra di loro.

2) L’unico atto giuridico concretamente necessario, secondo la nostra proposta, è la stipula a livello di singola azienda di un contratto di “solidarietà espansiva” (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) ovvero di un accordo sindacale con il quale viene pattuito, ad esempio, che l’Impresa assumerà cinque nuovi lavoratori, visto che 20 lavoratori già in forza hanno accettato di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni.

3) La proposta può applicarsi non solo alle imprese ma anche alle Pubbliche Amministrazioni, seppur alle condizioni e con le limitazioni che saranno illustrate.

4) Precedenti progetti, ispirati al meccanismo dei contratti di solidarietà espansiva - messi a punto da chi redige questa nota prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza, con l’utilizzo di diversi tipi di risorse economiche per ottenere una provvista da distribuire ai “riducenti orario” - restano in sé validi, ma ormai soprattutto come possibile strumento di completamento e arricchimento della provvista implicitamente creata con il decreto sul reddito di cittadinanza.

Se ne riparlerà, pertanto, nel paragrafo 6. di questa nota, onde formulare un progetto completo.

 

d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo.

Si può, dunque, iniziare l’illustrazione della proposta rammentando alcuni dati e parametri quantitativi necessari per apprezzarne il significato e la portata.

Il primo dato di interesse è costituito dal numero degli occupati e dei disoccupati, visto che gli occupati costituiscono, per così dire, “la provvista” per l’operazione di riassorbimento dei disoccupati tramite la riduzione dell’orario di lavoro settimanale del personale già in forza.

I disoccupati “ufficiali”, cioè i soggetti che si registrano dichiarando la loro disponibilità all’assunzione al lavoro presso i competenti uffici amministrativi, ammontano a circa 2,5 milioni cui va, però, aggiunto un numero difficilmente precisabile di “inattivi”, ossia di persone che non cercano o non cercano più lavoro (essenzialmente per sfiducia), ma lo accetterebbero se ne avessero l’occasione, ed il loro numero può essere stimato, almeno come ipotesi di lavoro, in 1,5 milioni di soggetti e forse di più.

Molti di questi quattro milioni di soggetti, di cui il 30-33% costituito da giovani, versano, ovviamente, in condizioni di povertà e sarebbero, dunque, in grado di candidarsi alla percezione del reddito di cittadinanza.

Passando all’altro fulcro del problema, ossia al numero degli occupati, essi sono calcolati ufficialmente in circa 23 milioni, ma di essi 5 milioni sono lavoratori autonomi, e dei 18 milioni di lavoratori dipendenti solo 15 milioni sono “permanenti”, ossia assunti a tempo indeterminato e quindi immediatamente utilizzabili per i nostri scopi.

Pur con tutte queste limitazioni ed altre diverse, i parametri quantitativi restano confortanti, perché anche nell’ipotesi che la “provvista” degli occupati utilizzabili per la riduzione d’orario scenda, per varie ragioni, all’atto pratico, da 15 a 8-10 milioni di lavoratori e la settimana lavorativa possa (sempre volontariamente) essere ridotta da cinque a quattro giorni, i nuovi posti di lavoro risultanti ammonterebbero a non meno di 2-2,5 milioni, più che sufficienti per riassorbire tutta la disoccupazione giovanile, che costituisce l’obiettivo assolutamente privilegiato dell’operazione proposta.

Altro profilo quantitativo di centrale importanza riguarda la perdita salariale da compensare ai lavoratori accettanti la più volte ricordata riduzione dell’orario settimanale.

Detta perdita sarebbe, in teoria, di 1/5 del salario sia lordo che netto, visto che l’orario viene ridotto da 5 a 4 giornate, e possiamo assumere l’ipotesi di doverla applicare ad un salario medio-minimo, che stando ai principali CCNL, è di circa € 1.300,00 mensili netti, ovvero circa € 1.600,00 lordi, importi i quali, dedotto quel 1/5, si ridurrebbero quindi ad € 1.040,00 netti ed € 1.280,00 lordi.

Si parla, comprensibilmente, di importi previsti per le fasce centrali, operaie ed impiegatizie, degli inquadramenti in qualifiche che contemplano, però, anche qualifiche più basse e più alte con relativi importi che, tuttavia, ben raramente superano i € 2.000,00 mensili, ed interessano solo marginalmente, per le ragioni che si diranno, il nostro problema.

Assumendo, quindi, un importo medio di riferimento di € 1.300,00 netti, la perdita di potere di acquisto da ripianare o da compensare dopo la riduzione di orario sarebbe di € 260,00 netti mensili (1.300/5=260).

La questione diventa, allora, di appurare in qual misura una tale perdita possa e debba essere ripianata o compensata, perché il lavoratore si proponga per la riduzionedi orario o, comunque, la accetti e poi, ovviamente, con quali risorse e modalità realizzarla.

Anche a seguito dei risultati di uno specifico studio demoscopico (realizzato in Emilia Romagna), si può affermare che con una compensazione al 100% l’adesione sarebbe totale, ma che anche con un indennizzo pari ai 2/3 della perdita salariale la netta maggioranza degli occupati interpellati accetterebbe di “passare” alle quattro giornate lavorative settimanali: va precisato che i 2/3 della perdita teorica del 20% del salario significano una riduzione del salario complessivo del 7% a fronte, però, di un giorno libero in più alla settimana.

Vedremo, allora, più sotto in dettaglio come la misura proposta di destinare ai quattro “riducenti orario” l’importo del reddito di cittadinanza (€ 780,00 mensili) che sarebbe andato al disoccupato/inoccupato realizzerebbe già di per sé, una compensazione del 75% della perdita ossia, a fronte della conquista di un giorno libero, una riduzione salariale complessiva solo del 5% dell’intero salario. Con la precisazione, però, che restino possibili e vengano proposte (cfr. paragrafo § 6) misure aggiuntive che potrebbero azzerare quella perdita.

 

e) L’utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell’incremento occupazionale.

Conviene, ora, entrare nel merito dell’operazione, in sé semplice ma richiedente un impegno assiduo delle forze sindacali e sociali, oltre che delle istituzioni: lo strumento operativo è costituito - come detto - dal contratto di solidarietà espansiva di cui all’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, ossia da un contratto collettivo aziendale nel quale il datore di lavoro, da un lato, e le OOSS dall’altro pattuiscono un certo numero di nuove assunzioni in determinate qualifiche (ad es. 10 assunzioni) a fronte di un numero quadruplo di riduzioni di orario da 5 a 4 giornate settimanali (quindi, nell’esempio, 40 riduzioni) volontariamente accettate da altrettanti lavoratori già in forza.

La preparazione, azienda per azienda, dei contratti di solidarietà sarebbe, dunque, per le organizzazioni sindacali un impegno organizzativo e operativo notevole, ma anche di grande soddisfazione, trattandosi di realizzare, in un solo atto, due obiettivi sindacalmente importantissimi, quali nuove assunzioni, da un lato, ed un sostanziale aumento del tempo libero per i riducenti orario dall’altro. Si tratterebbe, allora:

  1. A) di censire, in primo luogo, i lavoratori già in forza all’azienda disponibili alla riduzione di una giornata della loro settimana lavorativa, a fronte della compensazione della perdita salariale, contestualmente risultante da fonti normative e dallo stesso contratto di solidarietà.
  2. B) di censire, per converso ed in secondo luogo, in numero pari a ¼ di quello dei precedenti soggetti, i possibili neo assunti i quali appunto devono essere soggetti disoccupati/inoccupati già titolari o sicuri destinatari di un reddito di cittadinanza.

É poi altamente raccomandabile, per intuibili ragioni di ordine sindacale, economico, sociale ed umano che si tratti di giovani assumibili con contratto di apprendistato, così da fornire anche all’impresa una quanto mai vantaggiosa prospettiva di formazione mirata e di ringiovanimento degli organici.

Tuttavia non si tratta di una condizione esclusiva - saranno invero le parti sociali del contratto di solidarietà a decidere in concreto della tipologia delle nuove assunzioni - neanche sotto il profilo finanziario, dal momento che l’importantissima “decontribuzione” previdenziale dei neo-assunti è prevista sia dalle leggi sull’apprendistato dei giovani, sia comunque dalla normativa sui contratti di solidarietà espansiva per i neo assunti di qualsiasi età che trovino lavoro mediante tale strumento.

  1. C) Di prevedere il coordinamento temporale, in termini di immediatezza o, comunque, di certezza tra le due operazioni di riduzione di orario e di assunzione dei disoccupati/inoccupati già convenientemente selezionati. D) Di prevedere anche eventuali misure aggiuntive (oltre alle fondamentali detrazioni di imposta di cui subito sotto si dirà) per portare possibilmente al 100% la compensazione della perdita retributiva teoricamente subita dai lavoratori riducenti orario: pensiamo, in particolare, a benefici di “welfare” aziendale e ad un contributo regionale di importo finanziario moderato ma di grande valore politico, perché le Regioni dovrebbero essere i soggetti istituzionali promotori, garanti ed anche firmatari dei suddetti contratti di solidarietà espansiva.

Va da sé che al momento della stipula dei contratti di solidarietà dovrebbe essere già vigente la previsione normativa contemplata dalla nostra proposta e che ne costituisce “il motore”, consentendo quel “gioco di sponda” tra reddito di cittadinanza e incentivo occupazionale che, della proposta, è, a sua volta, l’anima.

La previsione, cioè, in sé semplicissima, di una detrazione di imposta, da aggiungere a quelle già elencate all’art. 13 ss. TUIR (Testo Unico Imposta sui Redditi) di € 200,00 mensili (arrotondando da € 780,00 /4=€ 195,00) per quei lavoratori che abbiano accettato la riduzione dell’orario settimanale in ragione e nell’ambito di un contratto di solidarietà espansiva.

Non vi è per il lavoratore alcuna pratica burocratica da espletare, perché sarà il datore di lavoro, avvertendo ovviamente l’Agenzia delle Entrate, a ridimensionare di € 200,00 la trattenuta fiscale mensile in busta-paga.

In questo modo, il lavoratore “recupera” € 200,00 (arrotondamento di € 780,00/4= € 195,00) sui 260,00 che ha perso (sempre su un salario netto di € 1.300,00 mensili) perché il netto corrisposto in busta-paga risalirebbe da € 1.040,00 ad € 1.240,00, ossia solo € 60,00 in meno rispetto al salario (€ 1.300,00) precedente la riduzione di orario, con una perdita salariale complessiva soltanto del 4,6%.

È assolutamente probabile e ragionevole che la grande maggioranza dei lavoratori ben volentieri pagherebbe € 60,00 mensili per avere un giorno libero in più alla settimana, ma anche questo piccolo sacrificio potrebbe essere evitato al “riducente orario” grazie alle “misure aggiuntive” di incentivazione inseribili nel contratto aziendale di solidarietà espansiva di cui tra breve diremo.

Ma il cuore dell’operazione e della proposta consiste nella misura principale ora descritta, la quale evidenzia come con la introduzione del reddito di cittadinanza e dei relativi stanziamenti di bilancio sia virtualmente già pagata la diversa, ma gigantesca e salvifica, operazione di reperire, da subito, l’occupazione per centinaia di migliaia di giovani.

Quei giovani, infatti, non riceverebbero il reddito di cittadinanza cui hanno diritto, bensì qualcosa di meglio, ossia un posto di lavoro con relativo stipendio, poiché con la risorsa finanziaria destinata all’erogazione del reddito verrebbe creato ex novo lo stesso posto di lavoro, finanziando la volontaria riduzione d’orario di quattro dipendenti già in forza all’impresa.

Non era questo il vantaggioso risultato cui pensavano coloro che hanno voluto l’introduzione nel nostro ordinamento del reddito di cittadinanza, ma è ben noto che, storicamente, molte importanti scoperte ed invenzioni sono avvenute “per caso”, a cominciare – potremmo dire - nell’industria farmaceutica…. dalla penicillina e dal Viagra.

 

f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario.

Quanto ora affermato non toglie che per garantire un pieno successo dell’operazione sia opportuno cercare di eliminare anche quel modesto differenziale di € 60,00 mensili calcolato sullo stipendio medio-minimo di riferimento di € 1.300,00 mensili e di estendere l’operazione complessiva anche ai percettori di uno stipendio netto superiore, ad esempio, fino a € 2.000,00 mensili netti. Sono questi lavoratori di alta qualifica che potrebbero essere interessati alla riduzione di orario la quale, però, sarebbe per loro alquanto costosa con conseguente effetto disincentivante: su uno stipendio netto di € 2.000,00 la riduzione stipendiale mensile sarebbe, infatti, di € 400,00 compensata solo per metà (€ 200,00) dalla ricordata detrazione di imposta.

Ovviamente, sopra gli € 2.000,00 di stipendio netto le cose peggiorerebbero ancora ma, a nostro avviso, per questi livelli superiori (impiegati di alto concetto e quadri) l’intera problematica non si porrebbe in concreto, trattandosi, per lo più, di soggetti “in carriera”, non interessati a maggior tempo libero.

Possono, allora, tornare utili per coinvolgere nella riduzione di orario settimanale anche i lavoratori con stipendio netto fino ad € 2.000,00 mensili, alcune misure che chiameremo ora “aggiuntive”, ma che prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza costituivano l’asse portante di una proposta sullo stesso oggetto della riduzione di orario con effetti occupazionali nel quadro di contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Entrando nel merito, va anzitutto sottolineato, con riguardo alle fonti di finanziamento di tali “misure aggiuntive”, che il datore di lavoro, nella vicenda del contratto aziendale di solidarietà espansiva, come sopra considerato, realizza comunque un notevole vantaggio economico-finanziario per diminuzione del costo del lavoro.

Infatti, la quantità delle ore complessivamente lavorate non cambierebbe, perché la riduzione di orario dei lavoratori che la accettano sarebbe perfettamente riequilibrata dalle ore lavorate dei nuovi assunti, ma questi ultimi all’impresa costerebbero di meno, perché sui loro salari non andrebbero pagati contributi previdenziali (ai sensi dell’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015 e/o ai sensi della normativa sull’apprendistato), ed in più essi subirebbero la temporanea decurtazione retributiva prevista dal CCNL sotto la denominazione di “salario di ingresso”. Il vantaggio economico del datore di lavoro è così in realtà notevole, trattandosi di € 300,00/400,00 mensili per ogni nuovo lavoratore assunto e sarebbe, allora, equo destinare almeno la metà di tale risorsa ad aumentare la compensazione per i “riducenti orario”: si tratterebbe, in pratica, di un beneficio aggiuntivo di circa € 50,00 pro capite (€ 200,00/4=€ 50,00) che, aggiunti agli € 200,00 di detrazione di imposta, colmerebbero totalmente nella sostanza la perdita stipendiale da riduzione di orario per i percettori di un salario netto di € 1.300,00.

Nel concreto, questo beneficio aggiuntivo potrebbe convenientemente assumere la forma di una voce di welfare aziendale da aggiungersi, normativamente, a quelle già previste ed elencate dall’art. 51 secondo comma, lettera i) del TUIR.

Queste “voci” costituiscono per i lavoratori beni o servizi che dovrebbero acquistare e pagare nel mercato (es.: asili per i figli, abbonamenti a mezzi pubblici, assistenza a parenti anziani ecc..) e che, invece, ricevono gratuitamente dall’Azienda, senza, inoltre, che costituiscano reddito imponibile a fini fiscali.

Il datore di lavoro, invece, può dedurle fiscalmente come costo di lavoro e proprio questa, come si comprende, è la potente molla del “welfare aziendale”: che ciò che per il lavoratore non costituisce reddito imponibile è, invece, per il datore di lavoro, costo deducibile, con evidente vantaggio di entrambi.

La misura incentivante aggiuntiva di “welfare aziendale” potrebbe così, ad esempio, assumere la forma di “voucher” ovvero “buoni acquisto” (ora consentiti dall’art. 51, comma 3 bis TUIR) presso catene convenzionate della Grande Distribuzione con valore, cadauno, di € 50,00 per lavoratori percettori di salario netto fino ad € 1.300,00 e con due “tagli” superiori di € 100,00 ed € 150,00 per stipendi netti rispettivamente fino ad € 1.800,00 e fino ad € 2.000,00, allo scopo di coinvolgere, se lo vogliono, nella riduzione di orario anche lavoratori di più alta qualifica.

Va notato che per i datori di lavoro tali “voucher” o “buoni acquisto” avrebbero un costo di parecchio inferiore rispetto al loro valore facciale, utilizzato e goduto dal lavoratore nell’acquisto di beni e servizi, perché ovviamente i datori e le loro associazioni potrebbero ottenere dei forti sconti dai fornitori, acquistandone ingenti quantità da distribuire poi ai lavoratori “riducenti orario”.

Vale, comunque, la pena di spendere ancora qualche parola sull’argomento, perché, come già detto, sarebbe possibile costruire un progetto o formula di riassorbimento della disoccupazione tramite contratti di solidarietà espansiva anche con l’utilizzo soltanto del “welfare aziendale” e dei risparmi dei costi contributivi e retributivi dei nuovi assunti: ed un progetto di questo tipo è stato anche predisposto prima dell’entrata in vigore del reddito di cittadinanza. Resta pertanto pienamente utile quando si trattasse di assumere disoccupati non destinatari, per vari motivi, del reddito di cittadinanza.

In tale situazione occorrerebbe “surdimensionare” l’utilizzo dei risparmi dei costi sui neoassunti e la corresponsione di parte della retribuzione (fino ad 1/3 della stessa), mediante “voucher” di welfare aziendale, avendo cura che l’importo dei voucher sia superiore a quello matematico della perdita retributiva da riduzione di orario.

Per riprendere il nostro esempio di stipendio netto di € 1.300,00, ridotto teoricamente ad € 1.040,00 per la riduzione di orario settimanale, possiamo immaginare che il contratto di solidarietà aziendale possa ridurre ancora questo netto monetario ad € 800,00, ma attribuendo al lavoratore anche un “voucher” di welfare aziendale del valore di € 450,00, in modo che egli recuperi un potere di acquisto pari ad € 1.250,00.

Quei voucher di € 450,00 non costituirebbero, però, un vero sacrificio per il datore di lavoro, perché di quegli € 450,00, una quota di € 240,00 era comunque dovuta (differenza tra € 1.040,00 ad € 800,00), una quota di € 100,00 corrisponde al risparmio di costo sul nuovo assunto ripartito sui quattro riducenti orario, mentre una quota di € 100,00 corrisponde al presumibile sconto che il datore di lavoro (o associazione sindacale) otterrebbe acquistando i “voucher” all’ingrosso dai fornitori, con l’aggiunta finale di € 10,00 di contributo da parte dell’Ente Regione.

Per il lavoratore “riducente orario” la compensazione del suo potere di acquisto sarebbe così quasi completa, mancando solo € 50,00 mensili, corrispondenti al 4% dell’intero salario, “scotto” del tutto sopportabile per un giorno libero in più alla settimana.

Tutto è molto più semplice, ovviamente, quando, come nella fortunata situazione attuale, le leve finanziarie per pagare o compensare la riduzione di orario sono due e non una: non soltanto, cioè, il “welfare aziendale”, ma anche, ed anzitutto, l’utilizzo “indiretto” o “di sponda”, del reddito di cittadinanza, che consente, tramite detrazione d’imposta di € 200,00 al lavoratore “riducente orario” del nostro esempio, di abbattere la sua perdita retributiva teorica da € 260,00 a solo € 60,00, con amplissima possibilità, poi, di esaminare anche questo residuo tramite una modesta misura di “welfare aziendale”.

Per le suddette ragioni si è voluto prevedere e regolamentare nell’articolato del progetto di legge ambedue le “leve” o strumenti, che prendono la forma delle due modifiche o integrazioni al TUIR (all’art.13 e all’art.51 secondo comma): perché la leva del “welfare aziendale”, che è marginale ed una sorta di “Cenerentola”, quando opera l’altra dell’utilizzo indiretto del reddito di cittadinanza, possa all’occorrenza, quando ciò non avvenga, funzionare anche da sola, seppur con modalità più impegnative e severe.

Occorre, infine, completare il quadro delle risorse finanziarie utilizzabili per la realizzazione delle proposte ricomprendendovi un contributo regionale alle imprese firmatarie di contratti di solidarietà espansiva.

Il suo importo finanziario potrebbe essere modesto, poniamo di € 10,00 mensili rimborsate al datore di lavoro per ogni riducente orario con stipendio netto di € 1.300,00, e di € 15,00 o € 20,00 per fasce superiori, lasciando, magari, al contratto aziendale di solidarietà espansiva di prevederne l’eventuale riversamento ai lavoratori.

Ciò costituirebbe per la Regione una sorta di “titolo legittimante” per sedersi ai tavoli dei contratti aziendali di solidarietà espansiva.

 

g) Una proposta vantaggiosa per tutti.

Ci si può chiedere, a questo punto, quali sarebbero i vantaggi che deriverebbero dalla descritta proposta alle parti protagoniste o comunque coinvolte nella sua realizzazione mediante contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Vediamo le singole categorie:

  1. A) Disoccupati/inoccupati neo-assunti.

Sono, ovviamente, i principali beneficiari, perché finalmente otterrebbero in termini di certezza un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al posto del reddito di cittadinanza cui avrebbero altrimenti diritto.

È importantissimo e fondamentale ribadire che, a stregua di questa proposta, non ci si limita a “sperare” che il datore di lavoro, attratto dall’incentivo economico, voglia dotarsi di un posto di lavoro “in più”, dal momento che invece riduzione di orario e nuove assunzioni costituiscono una sorta di sistema “a vasi comunicanti” disciplinato come evento certo e in termini di obbligo giuridico dal contratto di solidarietà, una volta sottoscritto.

Parliamo qui di assunzioni stabili a tempo indeterminato e questa affermazione non è contraddetta dall’indicazione del preferibile utilizzo, in sede assuntiva, del contratto di apprendistato che, come si sa, resta risolubile ad nutum alla fine dei 2-3 anni di sua durata se non interviene la trasformazione a tempo indeterminato. L’esperienza insegna infatti che quando vi è un “piano di apprendistato” seguito dalle OOSS che lo abbiano versato e sottoscritto in un contratto aziendale, le disdette e mancate trasformazioni sono rarissime, anche in considerazione dei costi di formazione già sopportati dall’impresa.

L’assunzione di giovani disoccupati con contratto di apprendistato sarebbe, naturalmente, vista con molto favore dagli imprenditori che, in sostanza, potrebbero ringiovanire gli organici, realizzando i piani formativi di cui avvertono la necessità.

  1. B) Lavoratori già occupati che riducono l’orario lavorativo da cinque a quattro giornate settimanali.

È la categoria “nuova” introdotta dalla proposta e che costituisce il “motore” o la “provvista” per l’effetto di incremento occupazionale e va subito chiarito che da detta proposta i lavoratori “riducenti orario” ricevono un vantaggio solo di poco inferiore a quello dei disoccupati neo-assunti.

Per la gran parte delle persone che lavorano – ad iniziare, ovviamente, dalle donne lavoratrici – la prospettiva di un giorno libero in più a settimana è tale, letteralmente, “da cambiare la vita”, consentendo al lavoratore ed alla lavoratrice di accedere ad una quantità quasi sconfinata di attività culturali, ludiche, di cura familiare, di volontariato ecc. ecc.

E ciò a fronte di una penalizzazione salariale del 5% soltanto o, meglio ancora, probabilmente senza alcuna penalizzazione.

Al vantaggio proprio dell’acquisto di maggior tempo libero non potrebbe non sommarsi, poi, l’intima soddisfazione di aver così contribuito all’eliminazione della piaga sociale dell’inoccupazione, soprattutto giovanile.

Conviene, però, soffermarsi ancora un poco sugli aspetti tecnico-normativi della proposta, che consentono a questi lavoratori una riduzione economicamente indolore dell’orario di lavoro settimanale.

Tutto quello che occorre, dal punto di vista delle modifiche normative, sono due laconiche, ma cruciali innovazioni ed “addizioni” a due norme del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) ed esattamente all’art. 13, in tema di detrazioni di imposta per i redditi di lavoro, e all’art. 51 secondo comma che elenca le prestazioni di “welfare aziendale”, ossia di beni e servizi erogati al lavoratore, ma che non costituiscono per lui reddito fiscalmente imponibile.

  1. C) Datori di lavoro.

Questa proposta si fa carico, naturalmente, dell’atteggiamento normalmente riottoso ed “allergico” dei datori di lavoro verso prospettive di aumento dell’occupazione e/o della riduzione dell’orario di lavoro nelle (proprie) aziende e lo fa escludendo, anzitutto, che possano essere fondate eventuali doglianze di aumento del costo del lavoro.

Infatti, secondo la proposta, il monte-ore complessivo lavorato e retribuito non varia, essendo il minor orario settimanale dei vecchi assunti che passano alle quattro giornate lavorative settimanali, perfettamente riequilibrato dal lavoro dei nuovi assunti.

Anzi, il costo del lavoro diminuirebbe perché le ore lavorate dai nuovi assunti sarebbero esenti da contribuzione previdenziale (per 3 anni) e temporaneamente retribuite con l’istituto del “salario di ingresso”, di qualche punto percentuale inferiore agli “standard” contrattuali collettivi.

Soprattutto, però, i datori di lavoro avrebbero l’occasione più unica che rara di procedere, in modo sostanzialmente gratuito, alla realizzazione di una strategia di ringiovanimento degli organici e di formazione professionale mirata dei nuovi assunti mediante piani di apprendistato. Certamente questo comporta l’instaurazione di un rapporto duraturo con le Organizzazioni Sindacali, al di là della sola messa a punto del contratto di solidarietà espansiva, ma questo è, secondo l’esperienza, un vantaggio, stante la costante buona riuscita, sia in Italia che all’estero, di piani formativi concordati e controllati d’intesa con le Organizzazioni Sindacali.

Quanto alle eventuali misure aggiuntive di “welfare aziendale”, sarebbero in parte finanziate dai risparmi sul costo del lavoro dei neo-assunti e sarebbe questa l’occasione per tanti imprenditori di avvicinarsi ad una modalità di gestione “fidelizzante” dei rapporti con il personale, ormai adottata con convinzione da molte moderne imprese di medie-grandi dimensioni.

 

31.                     CASSA FORENSE

 

Gli avvocati versano i contributi alla Cassa Forense, questi variano in base al fatturato, con un contributo minimo soggettivo-per il 2020 pari a €2.890,00- al quale si aggiunge il contributo maternità e una percentuale sul volume d’affari IVA dichiarato.

Com’è noto con la riforma del 2013 Cassa Forense ha introdotto il sistema retributivo misto sostenibile aumentando il livello di copertura delle pensioni; le pensioni retributive sono caratterizzate da uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute. In alcuni casi si si tratta di un vero e proprio regalo a carico della collettività, in altri casi la differenza in più tra quanto versato con la contribuzione e quanto incassato con la pensione diventa un vero e proprio intervento assistenziale; si pensi alle numerose pensioni integrate al minimo erogate dalla Cassa Forense.

Un sistema a ripartizione è finanziariamente sostenibile solo quando restituisce al lavoratore, sotto forma di pensione, i contributi versati, capitalizzati ad un tasso non superiore al tasso di crescita dell’economia e spalmati sull’arco di vita probabile desumibile dalle tavole di mortalità pubblicate dall’ISTAT. La differenza costituisce il famoso regalo offerto dal sistema retributivo di Cassa Forense che va ad implementare il già cospicuo debito previdenziale e che viene scaricato tout court sulle generazioni più giovani, molto criticato da più parti.

Ma oltre le critiche suddette, ampliamente trattate, ci preme rilevare un altro problema, di cui si parla poco ma che è destinato ad essere sempre più pressante, esso opera contro i colleghi più deboli che possono fatturare nulla, o che fatturano al di sotto dei €20.000 annui.

Se consideriamo che il reddito medio per il 2019 è stato inferiore ai € 40.000, che i redditi più bassi si sono registrati tra le donne ed i meridionali, che il blocco per l’infezione da covid19, provocherà una crisi economica – forse la più grave degli ultimi cento anni - quindi un’ulteriore flessione dei redditi degli avvocati, il problema si prospetta di notevoli dimensioni.     

Al netto della riduzione per i giovani colleghi, della possibilità di esonero, che per malattia può essere chiesto una sola volta, della possibilità (spesso non riconosciuta) di rientrare nella pensione al minimo, ci troviamo svariati casi in cui se per una grave malattia, per qualche accidente o disgrazia non si riesca a fatturare o si fattura meno di € 20.000 annui, il collega sarà tenuto a versare il contributo minimo soggettivo, magari proprio nel  momento di estrema difficoltà della sua vita, ma l’abominio è nel fatto che questo contributo- versato nella maggior parte dei casi, con grande sacrificio- non verrà considerato ai fini pensionistici.

La disfunzione che inverte i principi assistenziali, va sicuramente rettificata, perché particolarmente odiosa e perché in agguato proprio nei momenti più difficili della vita.

Proposta

 

Si potrebbe ipotizzare l’abolizione dei contributi minimi, anche del contributo integrativo minimo momentaneamente sospeso; tale manovra provocherebbe una modestissima flessione delle entrate della Cassa Forense, ma è intollerabile che una Cassa di previdenza ed assistenza pretenda dai soggetti più deboli, dei contributi che non verranno considerati ai fini pensionistici e favoriranno esclusivamente i soggetti più agiati.

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32.                     SECONDE GENERAZIONI

 

Quando parliamo di seconde generazioni, intendiamo generalmente i figli dei primi migranti nati nel paese in cui i genitori sono emigrati, anche se con questo termine vengono inclusi  anche i figli degli immigrati che sono arrivati nel periodo dell’adolescenza o durante la prima infanzia tramite ricongiungimento familiare. Una tipologia ormai classica è quella proposta dal sociologo Rubén Rumbaut (1997), che distingue i figli dei migranti a seconda della data di arrivo nel paese di immigrazione dei genitori. Egli definisce le seconde generazioni nate nel paese in cui attualmente vivono attraverso una distinzione  così ripartita

  • Generazione 1.75: popolazione che emigra in età prescolare ( 0-5 anni) e svolge l’intera carriera scolastica nel paese di destinazione
  • Generazione 1.50: è la generazione che ha cominciato il processo di socializzazione e la formazione primaria nel paese di origine ma ha completato l’educazione scolastica all’estero
  • Generazione 1.25 soggetti che emigrano dal paese di origine tra i 13 e i 17 anni

L’Italia che può definirsi un paese di recente immigrazione assiste nell’ultimo decennio alla formazione delle seconde generazioni in cui appare prevalente la posizione occupata dalla componente minorile. Secondo i dati forniti dal MIUR “nell’anno scolastico 2016/2017 gli studenti e le studentesse di origine migratoria presenti nelle scuole italiane sono circa 826mila con un aumento di oltre 11mila unità rispetto all’A.S. 2015/2016 (+1,38%). L’aumento è di entità leggermente superiore per i maschi (+5.994; +1.41%) rispetto alle femmine (+5.246; 1,34%) che nel complesso rappresentano il 48% degli studenti con cittadinanza non italiana” ( Fonte Dossier MIUR 2018).

Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, i bambini nell’età compresa tra i 3 e i 5 anni con cittadinanza non italiana residenti in Italia presenti nelle scuole, rappresentano il 77% dei bambini con cittadinanza non italiana residenti in Italia. La scuola primaria, che sembra assorbire il maggior numero di studenti con cittadinanza non italiana ha registrato nell’anno scolastico 2016/2017 l’aumento più̀ consistente di studenti, pari a circa 4.800 unità (+1,63%). Nella scuola secondaria di I grado, l’incremento degli studenti con cittadinanza non italiana è pari a circa 3.900 unità dopo un triennio di costante diminuzione e nella scuola secondaria di II grado gli studenti con cittadinanza non italiana presenti sono circa 192.000 unità, con un aumento del 2,21% (+4.138 unità) rispetto all’anno precedente.

Interessante a tal proposito è la distribuzione delle seconde generazioni che si rivela non uniforme nel territorio italiano e si evidenzia una concentrazione maggiore nell’area del centro-nord, dove il fenomeno migratorio ha assunto una dimensione di stabilità. Secondo un rapporto della Camera dei deputati del 5 luglio 2018  “La regione in cui gli studenti con cittadinanza non italiana incidono di più nel contesto scolastico locale è l'Emilia Romagna, dove quasi il 16% degli studenti non ha la cittadinanza italiana. Seguono Lombardia (14,7%), Umbria (13,8%) Toscana (13,1%), Veneto e Piemonte (13,0%), Liguria (12,3%) e viceversa, la Campania è la regione in cui l'incidenza degli studenti con cittadinanza non italiana è la più bassa a livello nazionale (2,4%) “. ( fonte rapporto Camera dei Deputati L'integrazione scolastica dei minori stranieri , 5 luglio 2018).

Un altro campo che richiede un’analisi approfondita è quello concernente il mondo del lavoro. Nell’ultimo decennio è emerso con chiarezza che l’integrazione socio-economica delle seconde generazioni fosse tutt’altro che un processo lineare e privo di ostacoli come ipotizzato dai primi approcci teorici assimilazionisti. L’approccio assimilazionista sosteneva che il processo di inserimento delle seconde generazioni a differenza dei primi-migranti fosse un processo “automatico” e lineare in virtù dell’acquisizione delle competenze linguistiche e della socializzazione ai valori e ai modelli comportamentali della società̀ ricevente. In realtà, per l’inserimento nel mercato del lavoro sono emersi orientamenti distinti che ci possono far comprendere al meglio questa complessità.

Un primo orientamento, che sembrerebbe a oggi prevalere per alcune specifiche nazionalità, può definirsi tradizionalista, nel quale ci si pone di proseguire la carriera lavorativa iniziata e sviluppata dai genitori una volta arrivati nel paese di destinazione. Un orientamento scelto dalle seconde generazioni che intendono continuare la tradizione lavorativa familiare realizzata dai propri genitori sfruttando il capitale economico, sociale e culturale familiare e le risorse derivanti dal network etnico di riferimento nel paese di residenza.

Un secondo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro è di tipo individualista in cui le seconde generazioni scelgono un percorso formativo e di carriera lavorativa che si discosta dalle scelte familiari e sentono il forte peso delle aspettative lavorative che i genitori si auspicano per i loro figli ovvero di intraprendere ambiziose carriere lavorative, quasi rappresentassero un riscatto sociale della loro condizione economica e sociale. È molto ricorrente in questi casi che i genitori occupano i posti meno prestigiosi e remunerati nella gerarchia occupazionale, e che spesso abbiano vissuto un percorso difficoltoso nel processo di inserimento nella società italiana. Spesso questi giovani sentono non solo di non potere soddisfare tali aspettative, ma anche di non volerle soddisfare perché́ le loro ambizioni sono differenti da quelle familiari in quanto cresciuti e socializzati in un altro contesto socio-culturale. Si tratta di seconde generazioni che intraprendono in opposizione ai genitori un percorso formativo diverso come ad esempio chi sceglie di continuare a studiare raggiungendo alti livelli di istruzione - laurea e dottorato di ricerca - che lasciano presupporre opportunità lavorative più elevate rispetto a quelle dei genitori.

Un terzo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro è quello transnazionalista. Si tratta di seconde generazioni di migranti che sfruttano il proprio capitale culturale che si differenzia dalla popolazione locale e, utilizzando le reti transnazionali, riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro sia nella società in cui risiedono sia in quella da cui sono emigrati i propri genitori..

Un ultimo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro italiano è quello con tendenza all’isolamento con downward assimilation. Si tratta di seconde generazioni di migranti con un minore capitale economico, sociale e culturale derivante dal background familiare. Generalmente provengono da istituti professionali o tecnici oppure non sono riusciti a conseguire il diploma delle superiori. Il rischio è, tuttavia, di rimanere intrappolati in lavori precari, mal pagati con poche o nulle prospettive di carriera (bad jobs). L’inserimento lavorativo diventa oltremodo difficoltoso per coloro che non possiedono ancora la cittadinanza italiana ma solo il permesso di soggiorno.

In questo quadro una delle maggiori barriere nell’inserimento del mercato del lavoro italiano risiede nella difficoltà di ottenere la cittadinanza italiana che, com’è noto, richiede procedure burocratiche molto lunghe ed estenuanti per chi non è nato in Italia. Va però aggiunto che anche le seconde generazioni nate in Italia (2G) ottengono con molta difficoltà la cittadinanza italiana visto che vale il principio dello ius sanguinis e non lo ius soli, e sempre che dimostrino di avere risieduto continuità sul territorio nazionale. Pertanto, le seconde generazioni che, sono in possesso del permesso soggiorno, risultano fortemente penalizzate sia nel momento dell’assunzione sia nella progressione di carriera.

 

 

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33.                     I Appendice giurisprudenza antifascismo

 

Allegato n. 1

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-03-2019) 16-05-2019, n. 21409

l'imputato L.G., in occasione della seduta pubblica della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano su sicurezza e coesione sociale, polizia locale, protezione civile e volontariato, politiche sociali e servizi per la salute, avente a oggetto il cosiddetto "(OMISSIS)" rom e svoltasi l'(OMISSIS), eseguiva il "saluto fascista", anche noto come "saluto romano"

Osserva il Collegio che risultano immuni da vizi logici o giuridici le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello di Milano, secondo cui il "saluto fascista" o "saluto romano" costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all'ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dal D.L. n. 122 del 1993, art.2, evidenziando che la fattispecie contestata a L. non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, che è quella propria dei reati di pericolo astratto (Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753; Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792).

Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il "saluto fascista" accompagnato dalla parola "presente" integra la fattispecie del D.L. n. 122 del 1993,art.2, per la connotazione di pubblicità che qualifica tale espressione gestuale, evocativa del disciolto partito fascista, che appare pregiudizievole dell'ordinamento democratico e dei valori che vi sono sottesi. Sul punto, è sufficiente richiamare il principio di diritto, secondo cui: "Il cosiddetto "saluto romano" o "saluto fascista" è una manifestazione esteriore propria o usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205 (misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) e inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge" (Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 3, n. 37390 del 10/07/2007, Sposato, Rv. 237311).

In questa cornice, deve rilevarsi che la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie delD.L. n. 122 del 1993,art.2 impone, per la sua configurazione, che sia accertata l'idoneità della condotta a offendere il bene giuridico, contestualizzando il comportamento dell'agente attraverso un giudizio ex ante. Tale contestualizzazione presuppone un accertamento finalizzato a verificare se la condotta dell'imputato è astrattamente idonea a essere percepita come manifestazione esteriore o come ostentazione simbolica ed emblematica "delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art.3(...)".

Sulla legittimità costituzionale dei reati di pericolo astratto, del resto, la Corte costituzionale si è ripetutamente pronunciata (Corte Cost., sent. n. 225 del 2008; Corte Cost., sent. n. 286 del 1974), ribadendo la loro compatibilità con le norme costituzionali, a condizione che nelle fattispecie di volta in volta considerate siano rinvenibili elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite. Occorre, pertanto, verificare se il fatto concreto possieda tali connotazioni di offensività, certamente riscontrabili nel caso di specie, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzava il comportamento criminoso di L., correttamente valutate dai Giudici di merito secondo una prospettiva ex ante.

 

Allegato n. 2

 

Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

Sezione II

Sentenza 18 aprile 2019, n. 447

Presidente: Testori - Estensore: Limongelli

FATTO

  1. Con deliberazione n. 125 del 30 novembre 2017, il consiglio comunale di Rivoli, preso atto del ripetersi sempre più frequente di "manifestazioni promosse da organizzazioni neofasciste, portatrici di idee e di valori che si collocano al di fuori del perimetro costituzionale", impegnava l'amministrazione "a non concedere spazi o suolo pubblici a coloro i quali non garantiscano di rispettare i valori sanciti dalla Costituzione, professando e/o praticando comportamenti fascisti, razzisti e omofobi", dando mandato di adeguare i regolamenti comunali a quanto espresso nell'atto di indirizzo, in particolare "subordinando la concessione di suolo pubblico, spazi e sale di proprietà del Comune, a dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall'ordinamento repubblicano".
  2. Con successiva deliberazione n. 164 del 15 maggio 2018, la giunta comunale di Rivoli dava mandato ai competenti uffici comunali di richiedere, a fronte di istanze di concessione del suolo pubblico o di utilizzo di spazi e sale di proprietà comunale, la presentazione da parte dei richiedenti di una dichiarazione espressa, redatta ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000, del seguente testuale tenore:

"Il sottoscritto (...) dichiara (...):

- "di ripudiare il fascismo e il nazismo;

- di aderire ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo; (...)".

  1. Con istanza dell'8 ottobre 2018, la signora Sara Novello, agendo "in nome e per conto di Casapound Italia", chiedeva al Comune di Rivoli l'autorizzazione ad occupare il suolo pubblico con un gazebo di mt 2x2 in via Fratelli Piol per tredici giorni non consecutivi, festivi e prefestivi, compresi tra il 1° dicembre 2018 e il 27 aprile 2019, al fine dichiarato di svolgere "propaganda politica e di promozione delle attività politiche e del pensiero politico della sig.ra Sara Novello".
  2. Alla propria istanza, la richiedente allegava la seguente dichiarazione: "La sottoscritta (...) dichiara di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all'odio", nonché "di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico".
  3. Con atto del 22 novembre 2018, gli uffici comunicavano alla richiedente che l'iter autorizzativo dell'istanza era stato "sospeso" dal momento che all'istanza era stata allegata una dichiarazione difforme dal modello-tipo approvato dall'amministrazione con le predette deliberazioni, invitando l'interessata a regolarizzare la dichiarazione e precisando che l'autorizzazione sarebbe stata rilasciata non appena fosse stata trasmessa la dichiarazione in questione.
  4. La ricorrente presentava proprie osservazioni, contestando la legittimità della richiesta dell'Amministrazione e rifiutando di rendere la dichiarazione nei termini pretesi dall'amministrazione.
  5. Alla luce di quanto sopra, con provvedimento notificato il 23 gennaio 2019 l'amministrazione dichiarava l'istanza "improcedibile", non essendo stato prodotto il documento richiesto.
  6. Con ricorso notificato il 15 marzo 2019 e depositato il 20 marzo successivo, l'interessata impugnava dinanzi a questo TAR il suddetto provvedimento di "improcedibilità", unitamente alle presupposte delibere del consiglio comunale n. 125/2017 e della giunta comunale n. 164/2018, e ne chiedeva l'annullamento, previa sospensione cautelare, sulla base di cinque motivi, con i quali deduceva vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto plurimi profili.
  7. Il Comune di Rivoli si costituiva in giudizio con articolata memoria difensiva, eccependo preliminarmente l'inammissibilità del ricorso in ragione della tardiva impugnazione degli atti presupposti, divenuti ormai inoppugnabili, e in subordine, nel merito, contestando il fondamento del ricorso e chiedendone il rigetto.
  8. All'udienza in camera di consiglio del 10 aprile 2019, dopo la discussione dei difensori delle parti, il collegio si riservava di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, sussistendone i presupposti di legge e sentite, sul punto, le parti costituite.

DIRITTO

Si può prescindere dall'esame dell'eccezione preliminare formulata dalla difesa comunale, dal momento che il ricorso è manifestamente infondato nel merito.

  1. Con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione degli artt. 2, 3, 17, 18 e 21 della Costituzione in materia di tutela dei diritti fondamentali, di eguaglianza, diritto di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero e di associazione in partiti politici; tali principi, secondo la ricorrente, non consentirebbero di subordinare l'esercizio dei diritti civili e politici a dichiarazioni di adesione ai valori dell'antifascismo, ai valori repubblicani e a quelli della Resistenza; la libera manifestazione del pensiero e il "foro interno" di ciascun cittadino non possono essere coartati attraverso l'obbligo di adesione a valori predeterminati, secondo modelli tipici dei regimi totalitari; all'atto della domanda di concessione del suolo pubblico, la ricorrente ha dichiarato di aderire ai valori della Costituzione italiana e di non avere intenzione di ricostituire il disciolto Partito Fascista, e tanto deve essere ritenuto sufficiente; secondo la ricorrente, l'amministrazione non potrebbe imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati "valori dell'antifascismo" che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a "ripudiare il fascismo e il nazismo", atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell'individuo, che non può essere coartata dall'amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali e con le leggi dello Stato.

La censura è infondata.

1.1. I valori dell'antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell'ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, non solo perché sottesi implicitamente all'affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo, ma anche perché affermati esplicitamente sia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, sia nell'art. 1 della legge "Scelba" n. 645 del 20 giugno 1952, che, nel dare attuazione alla predetta norma costituzionale, ha individuato come manifestazioni esteriori di ricostituzione del partito fascista il perseguire finalità antidemocratiche proprie del partito fascista attraverso, tra l'altro, la minaccia o l'uso della violenza quale metodo di lotta politica, il propugnare la soppressione delle libertà costituzionali, lo svolgere propaganda razzista, l'esaltare principi, fatti e metodi propri del predetto partito, il compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e il denigrare la democrazia, le sue istituzione o i "valori della Resistenza"; inoltre, l'art. 5 della stessa legge Scelba n. 645/1952 punisce le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quando siano compiute durante eventi pubblici.

1.2. I principi affermati nelle predette norme costituiscono un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui, le quali non possono esplicarsi in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del disciolto partito fascista.

1.3. Si tratta di principi che, per evidenti motivi, trovano precipua applicazione in materia di propaganda politica ed elettorale.

1.4. In tale contesto, allorquando si richieda di esercitare attività di propaganda politica ed elettorale in spazi pubblici, sottraendoli, sia pure temporaneamente, all'uso pubblico per destinarli all'utilizzo privato, non appare irragionevole che l'amministrazione richieda, al fine di valutare la meritevolezza dell'interesse dedotto, una dichiarazione di impegno al rispetto dei valori costituzionali e, in particolare, dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell'ideologia autoritaria fascista e all'adesione ai valori fondanti l'assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell'antifascismo e della Resistenza; e ciò anche al fine dell'eventuale revoca della concessione in caso di violazione dell'impegno assunto. E benché, nel caso di specie, il modello di dichiarazione predisposto dall'amministrazione comunale non appaia scevro da qualche ridondanza, non per questo è possibile rilevarne un profilo di illegittimità, tenuto conto anche della forte valenza simbolica, oltre che amministrativa, che l'amministrazione ha inteso riconnettervi e che giustifica qualche eccesso di enfasi.

1.5. Nel caso di specie la ricorrente ha richiesto all'amministrazione comunale, "quale attivista e delegata" dell'associazione "Casapound Italia", la concessione del suolo pubblico nella via Fratelli Piol - peraltro, una via pubblica di forte valenza evocativa, perché intestata a martiri della Resistenza e dell'antifascismo - per svolgere attività di propaganda politica; ma, alla richiesta dell'amministrazione di rendere la dichiarazione di impegno predisposta dalla giunta comunale, ne ha resa una diversa, nella quale ha sì dichiarato "di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostruire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all'odio", nonché "di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico", ma ha omesso, volutamente, la parte di dichiarazione relativa al "ripudio del fascismo e del nazismo" e all'adesione "ai valori dell'antifascismo".

1.6. Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell'adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica.

1.7. Non appare pertanto censurabile il comportamento del Comune che, a fronte dell'assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell'antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica.

La censura va quindi disattesa.

  1. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto vizi di violazione di legge e di eccesso di potere per sviamento; l'amministrazione avrebbe utilizzato in materia sviata i propri poteri in materia di occupazione del suolo pubblico, i quali sarebbero previsti dalla legge per finalità prettamente fiscali e di tutela della viabilità e della sicurezza pubblica; l'amministrazione avrebbe invece perseguito una finalità estranea al paradigma normativo, quella di estorcere ai cittadini dichiarazioni di adesione ideologica ad una "carta di valori" predeterminata.

Anche tale censura è infondata.

2.1. La disciplina dell'occupazione del suolo pubblico è demandata ai Comuni, sia in ordine alla individuazione dei presupposti che in ordine alla determinazione del canone. La legge, in particolare, non predetermina le finalità in vista delle quali può essere attribuito a privati l'uso esclusivo del suolo pubblico, ma rimette ai Comuni il potere di regolamentarle e valutarle caso per caso, in funzione della meritevolezza dell'interesse perseguito e della sua idoneità a giustificare la sottrazione temporanea del bene pubblico all'utilizzo collettivo.

2.2. È stato affermato, al riguardo, che la concessione di suolo pubblico "esige sempre e comunque una decisione ponderata in ordine al bilanciamento dell'interesse pubblico con quelli privati eventualmente confliggenti, di cui dare conto nella motivazione, stante il loro carattere discrezionale, con la conseguenza che la P.A., prima di concederla, deve, attraverso apposita istruttoria, effettuare una accurata ricognizione degli interessi coinvolti" (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 25 luglio 2017, n. 8934).

2.3. Nel caso di specie, la concessione del suolo pubblico è stata richiesta dalla ricorrente al fine dichiarato di effettuazione di attività di propaganda politica. L'amministrazione, nel richiedere, al fine di valutare l'assentibilità dell'istanza, una dichiarazione preventiva di adesione ai valori costituzionali dell'antifascismo e di ripudio del fascismo e del nazismo, ha bilanciato correttamente l'interesse privato della ricorrente a svolgere attività di propaganda politica con l'interesse pubblico a che ciò avvenga nel doveroso e consapevole rispetto dei valori costituzionali.

  1. Con il terzo motivo, la ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione del vigente regolamento comunale di Rivoli in materia di concessione di suolo pubblico; ha osservato la ricorrente che tale regolamento non è stato modificato a seguito degli atti impugnati, e, allo stato, non contiene alcuna norma che imponga la presentazione di una dichiarazione di adesione ai valori dell'antifascismo per poter ottenere uno spazio pubblico.

Anche tale censura è infondata.

Il diniego impugnato è stato adottato in ossequio a quanto previsto dal consiglio comunale con la deliberazione n. 125 del 30 novembre 2017.

Il consiglio comunale è l'organo competente ad approvare e modificare i regolamenti comunali.

Nel caso di specie, la delibera n. 125/2017 ha dettato un indirizzo di carattere generale ed astratto che, benché non inserito formalmente all'interno del testo regolamentare, è tuttavia idoneo ad integrarlo ab externo, sia in ragione della sua natura sostanzialmente regolamentare sia in considerazione dell'organo che l'ha adottato.

  1. Con il quarto motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000; tali norme, richiamate nella dichiarazione-tipo predisposta dalla giunta comunale, prevedono che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni possano attestare unicamente "stati e qualità", non opinioni politiche; l'amministrazione avrebbe quindi imposto una autocertificazione di carattere ideologico contraria ad ogni legge.

La censura non ha fondamento.

4.1. Benché il modello di dichiarazione predisposto dall'amministrazione richiami, in effetti, gli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000, la dichiarazione richiesta dall'amministrazione non è una vera dichiarazione sostitutiva di certificazione, ma una dichiarazione di impegno del privato al rispetto dei principi costituzionali e dei valori ad essi sottesi, in funzione della valutazione di meritevolezza dell'interesse perseguito dal richiedente attraverso l'utilizzo del suolo pubblico.

4.2. Il richiamo alle norme citate è quindi improprio, ma giuridicamente inconferente.

  1. Infine, con il quinto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 48, comma 2, del d.P.R. 445/2000, il quale prevede che, ai fini della redazione di dichiarazioni sostitutive, gli interessati hanno la facoltà, e non l'obbligo, di avvalersi dei moduli predisposti dall'amministrazione; la ricorrente ha reso effettivamente una dichiarazione sostitutiva di adesione ai valori della Costituzione, sia pure utilizzando un modulo diverso da quello predisposto dall'amministrazione, per cui l'amministrazione avrebbe dovuto ritenere assolto l'obbligo previsto dalle delibere di giunta e di consiglio.

Anche quest'ultima censura è infondata.

5.1. La ragione per la quale l'amministrazione ha respinto l'istanza della ricorrente non risiede nel fatto che la dichiarazione non sia stata resa utilizzando il modello predisposto dall'amministrazione, ma nella circostanza che il suo contenuto non corrispondeva a quanto richiesto dall'amministrazione, non contenendo, in particolare, né il ripudio del fascismo e del nazismo né l'adesione della richiedente ai valori dell'antifascismo.

  1. In conclusione, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso va respinto.
  2. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
  3. Attesa la manifesta infondatezza del ricorso, va respinta anche la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore del Comune di Rivoli, che liquida in Euro 2.000,00 (duemila/00), oltre oneri accessori.

Respinge la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

 

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Allegato 3

La sentenza della Cassazione n. 3806 del 2022

In una recente sentenza (n. 3806 del 2022 udienza 19/11/2021) 41 la Corte di Cassazione, in tema di manifestazioni usuali del partito fascista (saluto romano e intonazione della chiamata del presente) si è espressa per l’applicabilità della legge Mancino con una ampia ed esaustiva motivazione che analizza i precedenti giurisprudenziali, mette a fuoco i tratti comuni e differenziali delle due norme, applica il principio di specialità, evidenzia la presunzione insita nella legge Scelba circa il carattere discriminatorio e razzista della ideologia fascista e nazista. Nelle due norme comune è la condotta: ad esempio, in una pubblica riunione il saluto romano o la chiamata del “presente”; diverso (come si è più volte rilevato) è il pericolo paventato, in un caso la ricostituzione del partito fascista (o comunque l’adesione ad un progetto a ciò finalizzato), nell’altro raccogliere adesioni di un vasto pubblico in funzione di attività di propaganda e di istigazione per condotte discriminatorie razziali, etniche e religiose. Il pregio della sentenza in esame è che la Corte ha particolarmente evidenziato due aspetti di fondamentale importanza. Superando alcune ambiguità delle precedenti pronunce, è stata esplicita sul tipo di pericolo che in più punti della motivazione ha qualificato in termini di concretezza. Dunque, è necessario un pericolo concreto sia per la legge Scelba che per la Mancino. Ha rilevato la Corte che “ l'interpretazione degli elementi normativi presenti nella disposizione dianzi citata («propaganda di idee»; «odio razziale o etnico»; «discriminazione per motivi razziali») deve essere compiuta dal giudice tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, e da valorizzare perciò l'esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto”. Un altro punto significativo della motivazione attiene alla chiara esplicitazione del criterio di scelta tra le due norme individuato nel principio di specialità 42 di cui all’articolo 15 c.p. : “La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque, a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba, riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre, nel caso della legge n. 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicché, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione dell'art. 2 I. n. 203 del 1993”. Afferma inoltre la Corte, sempre invocando il concetto di concretezza: “una volta chiarito che, per entrambe le fattispecie, è necessaria una concreta idoneità della condotta, è utile precisare che sussiste una ipotesi di specialità ex art. 15 cod. pen. della seconda fattispecie (art. 5 I. n. 645 del 1952) rispetto alla prima (art. 2 I. n. 205 del 1993). Rileva, inoltre, la Cassazione che la legge Mancino del 1993 oltre ad introdurre l’art. 2 ha anche emendato la legge Scelba (in particolare l’art. 4) il che evidenzia che il legislatore, che ha mantenuto in vigore la menzionata legge Scelba, era ben consapevole del tenore letterale delle due norme (art. 2 legge Mancino e art. 5 legge Scelba) che evidentemente ha ritenuto soloapparentemente omogenee ma in realtà diverse atteso che solo la legge Scelba richiede il rischio di riorganizzazione del partito fascista che è invece assente nella legge Mancino. Un altro apprezzabile profilo di chiarezza della sentenza in esame è dato dalla considerazione relativa alla presunzione, per la legge Scelba, iuris et de iure che le organizzazioni e i movimenti neofascisti hanno una ideologia discriminatoria e razzista, finalità queste che quindi non devono essere provate contrariamente alle organizzazioni non nominate di cui alla legge n. 654 del 1975 (ora 604 bis c.p.). L’art. 4 comma 2, in riferimento alla apologia del fascismo, dispone infatti che “se il fatto riguarda idee e metodi razzisti la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni”. E’ stato giustamente rilevato 43 che il ricorso “”forse non proprio ortodosso”, alla legge Mancino, anziché alla Scelba, per sanzionare le manifestazioni usuali fasciste potrebbe essere stato determinato dal fatto che la legge Mancino consente l’applicazione del c.d. DASPO e non ha subito interventi manipolativi della Corte Costituzionale per cui l’accertamento del reato sarebbe più agevole. Dinanzi, quindi, al sospetto che il ricorso alla legge Mancino sia una sorta di escamotage (uguale e contrario all’interpretazione che di fatto rende ineffettiva la legge Scelba stante l’improbabile prova del pericolo concreto di riorganizzazione del partito fascista) per facilitare l’accertamento del reato sul presupposto che il pericolo richiesto sia astratto, bene ha fatto la Cassazione in quest’ultima sentenza a chiarire con fermezza che il pericolo richiesto anche dalla Mancino deve essere concreto.

 

[1] Laura Ronchetti, Il Nomos Infranto, Jovene editore 2007 pag.226.

[2] F. LAFFAILLE, Mythologie constitutionnelle : le chef de l’État, neutre gardien de la stabilité du régime parlementaire italien, Revue française de droit constitutionnel 2016/4 (N° 108).

  1. SILVESTRI, La separazione dei poteri, I, Milano, 1979, II, Milano, 1984.
  2. BARBERIS, Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso (1988. Il Mulino, Bologna)
  3. CECCHETTI, S. PAJNO, G. VERDE, Dibattito sul Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato nell’ordinamento costituzionale italiano, Due punti Edizioni, Palermo, 2012, spec. pp. 65 ss.

AA.VV. La Dittatura della Maggioranza (coautori: Aldo e Giuseppe Bozzi, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Pancho Pardi, Federica Resta), Chimienti editore, 2008

[3] Silia Gardini.  L’effettività del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nei piccoli comuni (nota a Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 62). www.giustiziainsieme.it/

 

[4] L. Ferrajoli Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, 2022.

[5] Corte Cost. sentenza n. 45 del 2005.

[6] Corte Cost. sentenza n. 15 del 2008.

[7]Su 193 costituzioni che si possono leggere, alla data odierna, 149 contemplano norme che definiscono i principi e i valori per la tutela dell’ambiente (ci sono delle gravi eccezioni, come gli USA, il Canada e l’Australia; non senza che nei singoli Stati che formano tali federazioni vi siano costituzioni regionali che riconoscono espressamente questi principi).

[8] 5 S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Riv. quad. dir. amb., 2017, p. 7

[9] Questo passaggio della sentenza della Corte cost. n. 126/2016 recita espressamente:  «L'espressa individuazione,  a  seguito  della  riforma  delTitolo V, e della materia  “tutela  dell'ambiente,  dell'ecosistema”,all'art. 117, secondo comma,  lettera  s),  Cost.,  quale  competenzaesclusiva  dello  Stato,  fotografa,   dunque,   una   realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come desumibile dal  complesso  deivalori e dei principi costituzionali».

 

[10] Corte cost n. 641 del 1987.

[11] Corte cost. n. 126 del 2016.

[12] Peculiare rilievo assume, in questo ambito, la Dichiarazione ONU sui diritti delle popolazioni indigene (2007) che all’art. 29 riconosce il diritto dei «popoli indigeni … alla conservazione e protezione dell’ambiente e della capacità produttiva delle loro terre o territori e risorse. Gli Stati devono avviare e realizzare programmi di assistenza ai popoli indigeni per assicurare tale conservazione e protezione, senza discriminazioni».

[13] S. Grassi, Ambiente e Costituzione, cit..

[14] Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza del 20 febbraio 2020, n. 6626.

[15]  Ossia 599 (fonte Ministero dell'Interno dal 2011 al 2016) con riferimento alle due sigle più famose di quella “galassia”, cioè Casa Pound Italia e Forza Nuova (altre sigle sono Comunità militante Avanguardia nazionale, Dora - comunità militante dei dodici raggi,  Fortezza Europa, Generazione identitaria, Hammerskin, Lealtà Azione , Movimento fasci italiani del Lavoro, Rivolta Nazionale, Skin4skin, Veneto fronte skinhead).

[16] Venendo poi alla previsione delle singole fattispecie di reato:

Art. 2. - Sanzioni penali.

Chiunque promuove, organizza o dirige le associazioni, i movimenti o i gruppi indicati nell'articolo 1, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 10.329 .

Chiunque partecipa a tali associazioni, movimenti o gruppi è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 516 a euro 5.

Se l'associazione, il movimento o il gruppo assume in tutto o in parte il carattere di organizzazione armata o paramilitare, ovvero fa uso della violenza, le pene indicate nei commi precedenti sono raddoppiate.

L'organizzazione si considera armata se i promotori e i partecipanti hanno comunque la disponibilità di armi o esplosivi ovunque custoditi.

(Fermo il disposto dell'art. 29, comma primo, del codice penale, la condanna dei promotori, degli organizzatori o dei dirigenti importa in ogni caso la privazione dei diritti e degli uffici indicati nell'art. 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del codice penale per un periodo di cinque anni. La condanna dei partecipanti importa per lo stesso periodo di cinque anni la privazione dei diritti previsti dall'art. 28, comma secondo, n. 1, del codice penale.)

[17] Alcuni corollari della disciplina penale sono:

Art. 3 - Scioglimento e confisca dei beni.

Qualora con sentenza risulti accertata la riorganizzazione del disciolto partito fascista, il Ministro per l'interno, sentito il Consiglio dei Ministri, ordina lo scioglimento e la confisca dei beni dell'associazione, del movimento o del gruppo.

Nei casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo, sempre che ricorra taluna delle ipotesi previste nell'art. 1, adotta il provvedimento di scioglimento e di confisca dei beni mediante decreto-legge ai sensi del secondo comma dell'art. 77 della Costituzione.

Art. 5 - Manifestazioni fasciste.

Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da euro 206 a euro 516.

Art. 4. - Apologia del fascismo

Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell'articolo 1 è punto con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da euro 206 a euro 516 .

Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da euro 516 a euro 1.032 .

La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da euro 516 a euro 2.065 se alcuno dei fatti previsti nei commi precedenti è commesso con il mezzo della stampa .

La condanna comporta la privazione dei diritti previsti nell'articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del c.p., per un periodo di cinque anni.

Art. 5 - Manifestazioni fasciste.

Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da euro 206 a euro 516.

 

[18] Si ricordano in particolare: 

Art. 2 - Disposizioni di prevenzione.

  1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 258.
  2. È vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno.

(3. Nel caso di persone denunciate o condannate per uno dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, o per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 del presente decreto, nonché di persone sottoposte a misure di prevenzione perché ritenute dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica, ovvero per i motivi di cui all'articolo 18, primo comma, n. 2-bis)  della legge 22 maggio 1975, n. 152 si applica la disposizione di cui all'articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e il divieto di accesso conserva efficacia per un periodo di cinque anni, salvo che venga emesso provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento o provvedimento di revoca della misura di prevenzione, ovvero se è concessa la riabilitazione ai sensi dell'articolo 178 del codice penale o dell'articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327)

Art. 5. - Perquisizioni e sequestri.

  1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , e dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, l'autorità giudiziaria dispone la perquisizione dell'immobile rispetto al quale sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, di deposito o di rifugio o per altre attività comunque connesse al reato. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l'autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore.
  2. È sempre disposto il sequestro dell'immobile di cui al comma 1 quando in esso siano rinvenuti armi, munizioni, esplosivi od ordigni esplosivi o incendiari, ovvero taluni degli oggetti indicati nell'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110. É sempre disposto, altresì, il sequestro degli oggetti e degli altri materiali sopra indicati nonché degli emblemi, simboli o materiali di propaganda propri o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alle leggi 9 ottobre 1967, n. 962 , e 13 ottobre 1975, n. 654 , rinvenuti nell'immobile. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 324 e 355 del codice di procedura penale. Qualora l'immobile sia in proprietà, in godimento o in uso esclusivo a persona estranea al reato, il sequestro non può protrarsi per oltre trenta giorni.
  3. Con la sentenza di condanna o con la sentenza di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale, il giudice, nei casi di particolare gravità, dispone la confisca dell'immobile di cui al comma 2 del presente articolo, salvo che lo stesso appartenga a persona estranea al reato. É sempre disposta la confisca degli oggetti e degli altri materiali indicati nel medesimo comma 2.

Art. 7 - Sospensione cautelativa e scioglimento.

  1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'attività di organizzazioni, di associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente, ai sensi dell'articolo 3 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, la sospensione di ogni attività associativa. La richiesta è presentata al giudice competente per il giudizio in ordine ai predetti reati. Avverso il provvedimento è ammesso ricorso ai sensi del quinto comma del medesimo articolo 3 della legge n. 17 del 1982.
  2. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengono meno i presupposti indicati al medesimo comma.
  3. Quando con sentenza irrevocabile sia accertato che l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi abbia favorito la commissione di taluno dei reati indicati nell'articolo 5, comma 1, il Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, ordina con decreto lo scioglimento dell'organizzazione, associazione, movimento o gruppo e dispone la confisca dei beni. Il provvedimento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

 

[19] Trovasi scritto in sentenza, infatti, che “secondo il radicato orientamento di questa corte di legittimità il confronto tra le fattispecie in apparente convergenza va realizzato con riferimento alla struttura delle medesimi tramite la comparazione dei rispettivi elementi costitutivi e non riguarda il modus interpretativo di ciascuna di esse o elementi esterni alla dimensione della tipicità.... si tratta di insegnamenti più volte ribaditi dalle sezioni unite di questa corte per cui in caso di concorso di disposizioni penali che reggono la stessa materia il criterio di specialità richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse alla cui verifica deve procedersi mediante confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (sezioni unite numero 1235 del 28 ottobre 2010);  ed ancora nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall'articolo 15 del codice penale che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme effettuata dalla legislatore ( sezioni unite numero 20664 del 23 febbraio 2017)... solo la esistenza di un rapporto di continenza derivante dal confronto strutturale tra le fattispecie nel cui ambito si individui in una delle due disposizioni un elemento specializzante impone dunque di applicare esclusivamente la disposizione speciale e non di scegliere se applicare la disposizione generale o quella speciale, salvo che sia altrimenti stabilito; negli altri casi la quaestio iuris va risolta applicando il generale principio di tipicità/tassatività dell'illecito e le norme in tema di concorso di reati (articolo 81 con la deroga di cui all'articolo 84 codice penale). Calando tali principi di diritto nel caso in esame va anzitutto precisato che la Corte di Appello di Milano fa ricorso, nella operazione di qualificazione giuridica del fatto secondo una “pretesa” specialità ... ad un criterio rappresentato dalla connotazione interpretativa di “pericolo concreto” (legge Scelba) o “pericolo presunto” (legge Mancino) del reato, che non rientra affatto nel perimetro di obbligatorio confronto di cui all'articolo 15 cod. pen. (la struttura astratta delle due fattispecie) perché attiene al profilo della interpretazione dei profili estrinseci della punibilità delle condotte.

In realtà le due disposizioni incriminatrici hanno possibile aspetti di convergenza fattuale ma non possono essere ritenute collocabili nella dimensione della specialità.

L'articolo 5 della legge scelba inquadra una condotta di rievocazione storica del <disciolto> partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico.

L'articolo 2 del d.l. numero 122 del 1993 incrimina a determinate condizioni l'utilizzo di emblemi o simboli “propri o usuali” di organizzazioni o gruppi che, all'attualità, incitino alla discriminazione o violenza per motivi razziali etnici nazionali o religiosi.

Dunque se da un lato vi è un aspetto di possibile interferenza (il fascismo ha promosso storicamente discriminazione e violenza anche per motivi razziali, fermi restando altri concorrenti disvalori),  dall'altro nel confronto tra le fattispecie astratte non vi è continenza, sia in ragione della maggiore ampiezza delle connotazioni ideologiche negative del fascismo sia per l'essenziale diversità di ambito applicativo rappresentata dalla correlazione tra l'uso dei simboli e la identificazione di un gruppo/movimento/associazione oggi esistente (secondo la legge dei 75) che persegua il particolare finalismo discriminatorio.

E' dunque ben possibile che un gruppo oggi esistente, strutturato in modo da risultare punibile ai sensi dell'attuale articolo 604 bis cod. pen., si richiami all'ideologia fascista,  utilizzi la medesima simbologia e ostenti in pubbliche riunioni la simbologia o le manifestazioni fasciste, facendole proprie. In tal caso ci si troverebbe di fronte alla possibile applicazione di entrambe le disposizioni incriminatrici (ove riscontrata, per la legge Scelba, la dimensione di idoneità della condotta a porsi come fattore causale di ricostituzione del partito fascista)  secondo quanto previsto dall'articolo 81, primo comma, cod. pen., ma lì dov'è la dimensione fattuale descritta nella contestazione risulti incentrata esclusivamente sulla manifestazione esteriore del disciolto partito fascista - in un contesto commemorativo - senza previa identificazione e connotazione del gruppo o della associazione esistente oggi, cui accedono le condotte (rientrante nel cono applicativo dell'art. 604 bis, secondo comma, cod. pen.), l'unica disposizione incriminatrice applicabili è proprio quella dell'articolo 5 l. n. 645 del 1952, in forza delle ricadute del principio di tipicità e tassatività delle norme penali descritte dall'illecito”.

 

[20] “Con questa interpretazione, continua il Collegio, coerente a quella che la Corte Costituzionale ha dato nella sentenza n. 1 del 1957 in merito all'art. 4 della l. Scelba, l'art. 5 l. n. 645 del 1952 si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, nè contravviene al principio dell'art. 21, primo comma, della Costituzione.

Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicchè quando questi requisiti sussistono l'ipotesi di cui all'art. 5 della legge citata è costituzionalmente legittima.

Questo principio è, d'altra parte fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sè ogni singola disposizioni di cui si compone la legge 20 giugno 1952, n. 645.

La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre nel caso della legge numero 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicché, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione dell'art. 2 l. n. 203 del 1993.

L'elemento selettivo introdotto dalla legge Scelba è costituito dal pericolo di ricostituzione del partito fascista e delle sue idee, pericolo che.... è accompagnato dalla presunzione di pericolosità delle organizzazioni fasciste e naziste che consente al giudice di operare una semplificazione del ragionamento probatorio. 

Così chiarito che la manifestazione esteriore osteggiata dall'art. 5 l. n. 645 del 1952 attenta allo Stato democratico attraverso il pericolo di ricostituzione del partito fascista, realizzato attraverso la pubblica diffusione delle sue idee e simboli, è utile sottolineare che la legge Scelba introduce altresì una presunzione iuris et de iure di illiceità di dette idee che trova un duplice fondamento: il primo, di natura normativa super primaria, nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione; il secondo, di origine storico sociale, che si poggia sulla condivisa esperienza della disumanità dell'ideologia fascista e nazista, consapevolezza storica che è stata acquisita dalla comunità internazionale nel corso di oltre vent'anni di regime tirannico e di guerra mondiale e che è stata specificamente sofferta dal popolo italiano e perciò trasfusa in un divieto espresso contenuto nella Carta costituzionale....viceversa la legge numero 205 del 1993 rimette all'accertamento del giudice la verifica della natura discriminatoria razzista negazionista delle organizzazioni vietate dalla legge numero 654 del 1975.

La presunzione introdotta dalla legge Scelba porta con sé quindi un elemento di specialità (la natura fascista e nazista delle ideologie)  che opera anche a livello di semplificazione probatoria, essendo indubbio che le ideologie fasciste naziste osteggiate dalla legge Scelba e da essa nominativamente individuate come vietate, rientrano ex se,  per i contenuti  ideologici  e le azioni materiali poste in essere nel periodo storico cui si è fatto riferimento, tra quelle indicate dalla legge numero 654 del 1975 (ora art. 604 bis cod. pen.);  viceversa, per le organizzazioni <non nominate> sarà compito del giudice di verificare dimostrare che sono ispirate da ideologie discriminatorie razziste ect.., e che compiono o invitano a compiere gli atti illeciti indicati nella norma.

Ne consegue che allorquando il giudice penale sia chiamato da applicare l'art. 2 l. n. 203 del 1993, con riguardo a un gruppo od organizzazione che si richiama alle ideologie fasciste naziste, sarà esonerato dalla necessità di procedere all'accertamento della natura vietata dell'organizzazione investigata - al quale deve invece dedicarsi alla luce delle disposizioni della legge Mancino che non evocano nominativamente le organizzazioni vietate - potendosi affidare alla presunzione legale introdotta dalla legge Scelba.

 

[21] Si veda l’intervista rilasciata al quotidiano “Libero” dal leader di CasaPound, Gianluca Iannone, il quale dichiara: “(Il fascismo è stato) un grande padre, severo e giusto. E responsabilizzante. Mussolini era troppo buono, ha dato una seconda chance a gente che non lo meritava. Per esempio a Badoglio, che poi lo tradì…Noi ai tempi del Duce non c’eravamo, non possiamo provarne nostalgia. Siamo fascisti perchè siamo convinti che avesse ragione lui ma siamo giovani. Nessuna nostalgia, lavoriamo al futuro” .

Dichiarazioni dello stesso tenore sono state rese nel mese di marzo di quest’anno dal candidato Sindaco di Lucca, che alla domanda: “Fabio Barsanti fascista doc. Come biglietto di presentazione le può andare bene?” risponde: “Sì, perché lo sono, però, sono anche sempre stato non nostalgico proprio perché la storia del fascismo insegna che bisogna andare avanti e incarnare un'avanguardia. Quindi lo sono come un liberale può essere liberale e un comunista può essere comunista. Rivendico il diritto, che per me è anche un dovere di italiano, potermi rifare a questa esperienza come ad altre esperienze italiane e quindi di vedere in quella dottrina e in quella idea di stato una stella polare. Io, però, vivo nel 2017 e guardo al futuro”.

I suoi sostenitori, come è prevedibile, si esprimono negli stessi termini: “Rossi: Noi ci reputiamo fascisti, ma lo facciamo contestualizzandolo al giorno d’oggi” .

Ancora, in un’intervista a Simone Laurenzi, responsabile di CasaPound nella regione Abruzzo, si legge: “Come CasaPound Italia non abbiamo mai fatto mistero di vedere nel Fascismo il nostro punto di riferimento ideale”.

In termini altrettanto chiari si è espresso anche il responsabile bergamasco dell'associazione, il quale nel 2012 ha dichiarato: “Siamo fascisti del terzo millennio, come un giornalista ha scritto pensando di darci un'etichetta negativa. Da quel che ne so nessuna legge ci vieta di dire la nostra” .

 

[22] Soltanto per rendere l’idea dell’ampiezza del fenomeno, si elencano alcune delle aggressioni registrate negli ultimi anni (evidentemente, l’elenco non può essere completo):

1 - 22 Aprile 2010, attivista di Ostia viene aggredito da alcuni fascisti mentre attaccava manifesti sul 25 aprile;

2 - Settembre 2011, aggressione agli studenti del liceo “Anco Marzio”; 

3 - 10 Gennaio 2012, aggressione agli attivisti di “Rifondazione Comunista”; 

4 - 23 Febbraio 2012, aggressione agli attivisti del Teatro del Lido di Ostia;

5 - 11 Maggio 2015, colpito ragazzo perchè indossava una maglietta della "Spartak Lidense"; 

6 - 25 Aprile 2016, aggressione fascista presso EXDEPò di Ostia;

7 - Maggio 2016, aggressione studenti del liceo “Democrito”; 

8 - 24 Maggio 2016, testata in volto al rappresentante d'istituto del liceo “Labriola”. 

 

 

[23] (http://94.23.251.8/~casapoun/images/unanazione.pdf).

[24]Disponibile su https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104721.pdf  

[25]Cfrhttps://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52016DC0587&from=IT

[26] https://www.corrierecomunicazioni.it/telco/giacomelli-agcom-allitalia-dellera-5g-serve-un-nuovo-piano-bul/

[27]Entro il 2030 almeno l'80% della popolazione adulta dovrebbe possedere competenze digitali di base e 20 milioni di specialisti dovrebbero essere impiegati nell'UE nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, con un aumento del numero di donne operative nel settore.

[28]Entro il 2030 tutte le famiglie dell'UE dovrebbero beneficiare di una connettività Gigabit e tutte le zone abitate dovrebbero essere coperte dal 5G; la produzione di semiconduttori sostenibili e all'avanguardia in Europa dovrebbe rappresentare il 20% della produzione mondiale; 10 000 nodi periferici a impatto climatico zero e altamente sicuri dovrebbero essere installati nell'UE e l'Europa dovrebbe dotarsi del suo primo computer quantistico.

[29]Entro il 2030 tre imprese su quattro dovrebbero utilizzare servizi di cloud computing, big data e intelligenza artificiale; oltre il 90% delle PMI dovrebbe raggiungere almeno un livello di base di intensità digitale e dovrebbe raddoppiare il numero di imprese "unicorno" nell'UE.

[30]Entro il 2030 tutti i servizi pubblici principali dovrebbero essere disponibili online, tutti i cittadini avranno accesso alla propria cartella clinica elettronica e l'80% dei cittadini dovrebbe utilizzare l'identificazione digitale (eID).

[31]Cfr: https://www.agcom.it/documentazione/documento?p_p_auth=fLw7zRht&p_p_id=101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE&p_p_lifecycle=0&p_p_col_id=column-1&p_p_col_count=1&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_struts_action=%2Fasset_publisher%2Fview_content&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_assetEntryId=21763414&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_type=document

 

 

 

[32] Per avere un’idea del fenomeno, dalla ventesima edizione dell’Ericsson Mobility Report 2021 il ritmo attuale al quale sta viaggiando il 5G è di un milione di nuovi abbonamenti al giorno che prevede per la fine del 2021, le sottoscrizioni saranno 580 milioni sottoscrizioni al mondo, arrivando a 3,5 miliardi (il 40% del totale) e una copertura del 60% della popolazione mondiale entro il 2026.

[33] I mercati più convenienti sembrano essere quelli delle Smart Cities (circa 190 miliardi).

[34] Per un approfondimento sulla definizione e sui vari tipi di IA si veda: https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20200827STO85804/che-cos-e-l-intelligenza-artificiale-e-come-viene-usata

[35] https://www.abiresearch.com/market-research/service/ai-machine-learning/

[36]Cfr. pag 89 Amazon dietro le quinte M. Angioni Raffaello Cortina Editore, Milano 2020.

[37]https://avanzamentodigitale.italia.it/it/progetto/spid

 

[38] L'acronimo con cui individuarle nasce in quegli ambienti open-source che promuovono la consapevolezza della distorsione politico-economica conseguente. Ma è soprattutto in Francia che questo acronimo è associato ad una campagna di sensibilizzazione contro gli abusi della concentrazione.

[39]https://www.savethechildren.it/blog-notizie/scuola-e-covid-19-pensieri-e-aspettative-degli-adolescenti

 

[40] Acronimo inglese di (Young people) Neither in Employment or in Education or Training, o anche " Not (engaged) in Education, Employment or Training", indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione. Usato per la prima volta nel 1999 in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito, come termine di classificazione per una particolare fascia di popolazione, di età compresa tra i 16 e i 24 anni. In seguito, l'utilizzo del termine si è diffuso in altri contesti nazionali, a volte con lievi modifiche della fascia di riferimento: in Italia, ad esempio, l'utilizzo di né-né come indicatore statistico si riferisce, in particolare, a una fascia anagrafica più ampia, la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni, anche se in alcuni usi viene ampliato per i giovani fino a 35 anni, se ancora coabitanti con i genitori

[41] In base al Considerato 59 della Direttiva 20218/1808 con il termine “alfabetizzazione mediatica” ci si riferisce “alle competenze, alle conoscenze e alla comprensione che consentono ai cittadini di utilizzare i media in modo efficace e sicuro. Al fine di consentire ai cittadini di accedere alle informazioni, usare, analizzare criticamente e creare in modo responsabile e sicuro contenuti mediatici occorre che essi dispongano di un livello avanzato di competenze di alfabetizzazione mediatica. L'alfabetizzazione mediatica non dovrebbe essere limitata all'apprendimento in materia di strumenti e tecnologie, ma dovrebbe mirare a dotare i cittadini delle capacità di riflessione critica necessarie per elaborare giudizi, analizzare realtà complesse e riconoscere la differenza tra opinioni e fatti. È pertanto necessario che sia i fornitori di servizi di media sia i fornitori di piattaforme per la condivisione di video, in cooperazione con tutti i soggetti interessati pertinenti, promuovano lo sviluppo dell'alfabetizzazione mediatica in tutti i settori della società, per i cittadini di tutte le età, e per tutti i media, e che se ne verifichino attentamente i progressi.”

[42] Tratto da “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, libro basato su di una serie di lezioni preparate da Italo Calvino nel 1985 in vista di un ciclo di sei lezioni da tenere all'Università di Harvard, nell'ambito delle prestigiose "Poetry Lectures" - intitolate al dantista e storico dell'arte americano Charles Eliot Norton. Il ciclo, previsto per l'autunno di quello stesso anno, non si è mai tenuto a causa della morte di Calvino avvenuta nel settembre 1985.

[43]In “Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione”, Guerini e Associati, Milano, 2003 raccolti, a cura di G. Paolucci, degli atti del convegno su «Rapidità. La contrazione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana», tenuto presso l’Istituto Universitario Europeo (Firenze) nel gennaio del 2002.

[44] Per un approfondimento si rinvia al Par. 5 “Il lato passivo della libertà di informare: a) la libertà di informarsi/essere informati (interesse a ricercare notizie e diritto di accesso);” del Cap. I “L’art. 21 Cost. e la libertà di informare” del manuale Diritto dell'informazione e della comunicazione di R. Zaccaria, A. Valastro, E. Albanesi XI ed. CEDAM 2021.

[45]Corte di giustizia dell’Unione europea sentenza 24 novembre 2011, C-70/10, Scarlet Extended SA c. SABAM).

[46] Sentenza 12 luglio 2011, C-324/09, L’Oréal SA c. eBay International AG.

[47]Sentenza 3 ottobre 2019, C-18/18, Eva Glawischnig-Piesczekc.Facebook Ireland Limited

[48]Corte di Cassazione Civile (Prima sezione) sentenza 19 marzo 2019, n. 7708.

[49]Si tratta delle delibere 102/20/CONS, 103/20/CONS e 104/20/CONS irrogate, rispettivamente a Mywayticket, Viagogo, e StubHub per un totale di 5.580.000 euro, e diffidando allo stesso tempo tali piattaforme dal porre in essere ulteriori comportamenti in violazione delle disposizioni di legge.

[50]Con il provvedimento 541/20/CONS l’Autorità ha sanzionato Google Ireland, titolare del servizio Google Ads (servizio di indicizzazione e promozione di siti web) il quale ha consentito, attraverso il servizio di posizionamento pubblicitario online, la diffusione, dietro pagamento, di link che indirizzano verso determinati siti (landing page), in violazione delle norme di contrasto al disturbo da gioco di azzardo.

[51] XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it).

[52] Gazzetta ufficiale di sabato 26 giugno: delibera del Senato recante "Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico", proposta da una nutrita schiera di senatori, a iniziare da Mauro Maria Marino (Iv-Psi).

[53] Regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online.

[54]Art. 2 par. 1 del regolamento: “un privato che agisce nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali o una persona giuridica che offre beni o servizi ai consumatori tramite servizi di intermediazione online per fini legati alla sua attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale”;

[55]Art. 2, par. 2 del regolamento: “servizi che soddisfano tutti i seguenti requisiti: a) sono servizi della società dell’informazione ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio (12); b) consentono agli utenti commerciali di offrire beni o servizi ai consumatori, con l’obiettivo di facilitare l avvio di transazioni dirette tra tali utenti commerciali e i consumatori, a prescindere da dove sono concluse dette transazioni; c) sono forniti agli utenti commerciali in base a rapporti”.

[56]Art. 2, par. 5 del regolamento: “un servizio digitale che consente all utente di formulare domande al fine di effettuare ricerche, in linea di principio, su tutti i siti web, o su tutti i siti web in una lingua particolare, sulla base di un interrogazione su qualsiasi tema sotto forma di parola chiave, richiesta vocale, frase o di altro input, e che restituisce i risultati in qualsiasi formato in cui possono essere trovate le informazioni relative al contenuto richiesto”;

[57]Art. 2, par. 5 del regolamento: “persona fisica che agisce per fini che esulano dall’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale di tale persona”.

[58] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0825&from=en

[59] Durante la sua recente audizione in Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi Rai lo scorso 13 aprile 2021 disponibile su https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=12116

[60] EUR-Lex - 52020PC0842 - EN - EUR-Lex (europa.eu)

[61] L. Aria in “L’attività delle piattaforme tra DSA e Direttiva SMAV. La frontiera di una nuova regolazione?”  del 29.01.2021 in MediaLaws http://www.medialaws.eu/lattivita-delle-piattaforme-tra-dsa-e-direttiva-smav-la-frontiera-di-una-nuova-regolazione/

[62] In una sua intervista «Un “new digital deal” per regolare le big tech: le azioni Agcom nel contesto Ue» su https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/un-new-digital-deal-per-la-regolazione-delle-big-tech-le-azioni-agcom-nel-contesto-ue/ illustrando in particolare l’indagine conoscitiva relativa ai servizi offerti sulle piattaforme online, avviata con delibera n. 44/21/CONS.

[63] http://presidenti.quirinale.it/Pertini/documenti/per_disc_31dic_82.htm

[64] Citazione da ultimo del documentario “the social dilemma” di Jeff Orlowski e scritto dallo stesso Orlowski insieme a Davis Coombe e Vickie Curtis e presentato il 26 gennaio 2020 al Sundance Film Festival, oggi distribuito da Netflix

[65] https://www.lapaginagiuridica.it/wp-content/uploads/2019/10/A_74_48037_AdvanceUneditedVersion.pdf

[66] Articolo 9 del GDPR

Trattamento di categorie particolari di dati personali

  1. È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.
  2. Il paragrafo 1 non si applica se si verifica uno dei seguenti casi:
  3. a) l’interessato ha prestato il proprio consenso esplicito al trattamento di tali dati personali per una o più finalità specifiche, salvo nei casi in cui il diritto dell’Unione o degli Stati membri dispone che l’interessato non possa revocare il divieto di cui al paragrafo 1;
  4. b) il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato;
  5. c) il trattamento è necessario per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica qualora l’interessato si trovi nell’incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso;
  6. d) il trattamento è effettuato, nell’ambito delle sue legittime attività e con adeguate garanzie, da una fondazione, associazione o altro organismo senza scopo di lucro che persegua finalità politiche, filosofiche, religiose o sindacali, a condizione che il trattamento riguardi unicamente i membri, gli ex membri o le persone che hanno regolari contatti con la fondazione, l’associazione o l’organismo a motivo delle sue finalità e che i dati personali non siano comunicati all’esterno senza il consenso dell’interessato;
  7. e) il trattamento riguarda dati personali resi manifestamente pubblici dall’interessato;
  8. f) il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali;
  9. g) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato;
  10. h) il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3;
  11. i) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato, in particolare il segreto professionale;
  12. j) il trattamento è necessario a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici in conformità dell’articolo 89, paragrafo 1, sulla base del diritto dell’Unione o nazionale, che è proporzionato alla finalità perseguita, rispetta l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.
  13. I dati personali di cui al paragrafo 1 possono essere trattati per le finalità di cui al paragrafo 2, lettera h), se tali dati sono trattati da o sotto la responsabilità di un professionista soggetto al segreto professionale conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti o da altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti.
  14. Gli Stati membri possono mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riguardo al trattamento di dati genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute.

 

[67] Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979 e ratificata dall’Italia con legge 132/1985, rappresenta lo strumento giuridico

internazionale fondamentale in tema di diritti delle donne. L’attuazione della Convenzione viene monitorata dal Comitato il quale ai sensi dell’art. 21 della Convenzione stessa adotta le General Recommendations, atti con i quali offre un’interpretazione della Convenzione volta a fornire agli Stati indicazioni utili a ben definire il contenuto degli obblighi così da facilitarne l’applicazione. A questo proposito è utile ricordare che la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che si "dovrebbe attribuire particolare peso" alle interpretazioni fornite del Comitato per i diritti umani in relazione al Patto internazionale sui diritti civili e politici. Per analogia, la medesima rilevanza deve essere attribuita anche alle General Recommendations, del Comitato CEDAW. M. A. Freeman, Oxford Commentaries on International Law: Un Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women: a Commentary, Oxford, 2012

[68]  Basti pensare alle numerose pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di violenza contro le donne, alcune delle quali sono di condanna dell’Italia. In particolare sono identificabili 2 ambiti entro i quali la Corte ha adottato decisioni relative a fatti oggetto di giudizio da parte delle nostre corti nazionali e cioè in primis le valutazioni compiute dall’autorità giudiziaria italiana in tema di capacità genitoriale di madri vittime di violenza domestica, e talune situazioni di  inerzia o ritardo della magistratura italiana nella concessione di misure di protezione in favore di donne vittime di violenza domestica. Si tratta di interventi della Corte. I principali obblighi positivi degli Stati membri in materia di lotta alla violenza contro le donne affermati dalla giurisprudenza della Corte Edu, concernono l’interpretazione degli articoli 2, 3, 8 e 14 della Convenzione. Altre disposizioni convenzionali, rilevanti sono previste agli articoli 4 e 13. Per una disamina sintetica della giurisprudenza della Corte europea in materia di violenza si veda: https://www.coe.int/it/web/portal/-/implementing-echr-judgments-new-factsheet-on-domestic-violence-cases.

[69] v. rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta 17.6.2021, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf -

[70] v. rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta 17.6.2021, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf -

[71] COM (2022) 105 definitivo, 8 marzo 2022. La lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica rientra tra le attività della Commissione europea in materia di protezione dei valori fondamentali dell'UE e e rispetto dei diritti previsti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. La necessità di prevenire e combattere la violenza contro le donne, proteggere le vittime e punire gli autori di questi reati rientra nella Strategia per la parità di genere 20202025. L’intento di considerare queste tematiche è presente trasversalmente nella Strategia dell'UE sui diritti dei minori (2021-2024), nella Strategia dell'UE sui diritti delle vittime (2020-2025), nella Strategia di uguaglianza LGBTIQ 2020-2025 e nella Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030. Il Piano d'Azione sulla parità di Genere III fa della lotta alla violenza di genere una delle priorità dell'azione esterna dell'Unione. La presente proposta si basa sul combinato disposto dell'articolo 82, paragrafo 2, e dell'articolo 83, paragrafo 1, del TFUE. L'articolo 82, par. 2, del TFUE fornisce la base giuridica per stabilire norme minime riguardanti i diritti delle vittime di reato relativamente al riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale per questioni di dimensione transnazionale. L'articolo 83, par. 1, del TFUE interessa invece le norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni riguardanti lo sfruttamento sessuale di donne e minori e i reati informatici. L’1 giugno 2023, l’Unione Europea ha inoltre concluso, con due decisioni del Consiglio, il processo di adesione alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, processo che aveva incontrato molteplici ostacoli, non da ultimo la necessità di attendere il parere della Corte di giustizia dell’Unione europea, reso nel 2021 su richiesta del Parlamento europeo. La ratifica da parte dell’UE è espressamente prevista dalla Convenzione di Istanbul (art. 75) ed era tra le priorità dell’attuale Commissione come emerge dalla Strategia per la parità di genere 2020-2025. A questo proposito va rilevato che, la direttiva, una volta adottata a maggioranza qualificata, obbligherà tutti gli Stati membri dell'UE a rispettare le sue disposizioni, che riflettono in parte la Convenzione del Consiglio d'Europa e che continua ad essere contestata quei paesi europei nei quali la retorica anti-gender rappresenta una minaccia diretta ai progressi in materia di parità di genere. Va anche considerato però che l'UE può essere vincolata dalle disposizioni di un testo internazionale nei limiti delle sue competenze perciò la ratifica della Convenzione Europea da parte dell’UE (in vigore per l’Unione europea dal 1° ottobre 2023) riguarda de facto solo le disposizioni che rientrano nelle sue competenze, ossia la cooperazione giudiziaria in materia penale, l’asilo e il non respingimento. Per gli Stati membri dell’UE che non hanno ratificato la Convenzione di Istanbul, quest’ultima “entrerà” nel loro sistema giuridico perciò nei limiti delle competenze attribuite dai Trattati, del diritto derivato dell’Unione europea. Ciò implica che in materia di criminalizzazione, fatti salvi altri interventi legislativi a livello UE, gli Stati che non sono parte della Convenzione di Istanbul non avranno alcun obbligo giuridico, ma avranno pur tuttavia un obbligo di attuare misure di protezione delle vittime dei reati di cui alla Convenzione che costituirà per tutti uno strumento interpretativo del diritto europeo già in vigore.

[72] Ricordiamo che il 28 giugno la Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere e la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo hanno votato la loro posizione sulla Proposta di DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, Strasburgo, 8.3.2022  COM(2022) 105 final 2022/0066 (COD), chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52022PC0105

[73] Al riguardo la Cassazione sembra però ferma nella sua  posizione del tutto negativa ,si veda al riguardo Cass. Sez.1 30 gennaio 2017 ,n.2224.

[74] Attuale anche dopo la riforma Cartabia ( II comma art. 473 bis-11) applicazione delle disposizioni ni generali sulla competenza salvo che si tratti di minori.

[75] Si veda  al riguardo, ad esempio, in Veneto la Legge di data 23 aprile 2013 al n.5 .

[76] Tra gli altri,   Ancona.

[77] Per vero, un trojan o trojan horse (cavallo di Troia) è una tipologia di malware. L'allegorico epiteto di "trojan horse" deriva dalla sua modalità di inoculazione: esso viene infatti nascosto all'interno di un altro programma apparentemente innocuo; eseguendo o installando quest'ultimo programma installa o esegue di conseguenza anche il codice del malware. Quindi, il software viene comandato da un soggetto terzo, e può eseguire delle operazioni all’interno del dispositivo infettato.

In realtà, il metodo di inoculazione del malware può essere vario. E’ pertanto tecnicamente incorretto chiamare tale metodo di investigazione “trojan”.

[78] Si veda il comunicato dei docenti universitari rinvenibile al link https://www.unito.it/sites/default/files/documento_captatori_informatici_0.pdf

[79] Si veda, ex plurimis, CEDU, Klass and others v. Germany, (Application n. 5029/71), 6 settembre 1978, § 50.

[80] Rinvenibile al link https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0050160.pdf

[81] Si veda, a titolo di mero esempio, FR, Code de Procédure Pénale, Artt. 706-102-1, 706-102-2.

[82] Decreto ministeriale 20 aprile 2018 – Disposizioni di attuazione per le intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico e per l’accesso all’archivio informatico a nor- ma dell’articolo 7, commi 1 e 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216.

[83] La Corte di cassazione, con sentenza n. 31604/20, depositata l’11 novembre, ha rilevato come  il captatore informatico non possa in inquadrarsi tra "i metodi o le tecniche" idonee ad influire sulla libertà di determinazione del soggetto, vietati dall’art. 188 c.p.p. poiché «non esercita alcuna pressione sulla libertà fisica e morale della persona, non mira a manipolare o forzare un apporto dichiarativo, ma, nei rigorosi limiti in cui sono consentite le intercettazioni, capta le comunicazioni tra terze persone, nella loro genuinità e spontaneità».

[84] Tale bene giuridico, specificazione informatica del domicilio comune, è da intendersi – secondo interpretazioni più attente al valore sociale che il dato digitale ha acquisito nel tempo – sia come spazio fisico contenente dati riservati, sia come spatium vitae et cogitationis attraverso cui la personalità umana si estrinseca. Il bene giuridico tutelato si esprimerebbe quindi nella libertà di condurre, all’interno del luogo-sistema informatico, qualsiasi attività che non si ponga in contrasto con l’ordinamento di diritto. Ne discende che la tutela penale si concreterebbe nel momento di esercizio dello “ius excludendi alios” del dominus loci, estendendosi, al pari della tutela del domicilio fisico, sin dove la voluntas excludendi si spinga (posto il necessario rispetto di eventuali norme che autorizzino l’accesso).

[85] Si veda: GER, Bundesverfassungsgericht, Urteil des Ersten Senats vom 15. Dezember 1983 - 1 BvR 209/83;  Bundesverfassungsgericht, Urteil des Ersten Senats vom 27. Februar 2008, 1 BvR 370/07 u. a. – Online-Durchsuchung/Computer-Grundrecht

[86] Si veda in particolare il D.Lgs. 51/2018 di attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorita’ competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonche’ alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio.

 

[87] Ud. 21 dicembre 2017, Presidente Canzio, Relatore De Amicis

[88] Ma si veda poi anche la più nota sentenza Spano del 7 dicembre 1995 causa C-462/93 Spano e a.

[89] Baldini&Castoldi, 1995.

[90] "The Future of Employment", pubblicato da Oxford University Programme, 2013.

[91] Global Chief Investment Officer di Ubs Wealth Management. Il dato è contenuto nella ricerca di Ubs "Workforce Future 2016".

[92] «Gli studi di Arntz, Gregory e Zierahn chiariscono molti aspetti e mostrano in modo evidente come la ricerca di Frey e di Osborne (e quelle successive, basate su simili supposizioni) sia poco attendibile. Stando a quanto riportato dai tre ricercatori del “Center for European Economic Research” di Mannheim….esaminando 21 paesi della zona OCSE (tra cui anche l’Italia), gli autori evidenziano come –in generale– solo il 9% degli attuali occupati sia ad alto rischio “sostituzione”. In particolare, il pericolo del progresso tecnologico sembra essere minore in tutti quei paesi avanzati che investono di più nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), che spendono maggiormente nell’educazione terziaria», Giovanni Caccavello, research fellow in European Policy presso EPI Center ed Institute of Economic Affairs. Qual è il vero rischio dell’automazione del lavoro? Econopoly, 30 gennaio 2017.

[93] Il tasso di interesse nell'eurozona (e in generale nei paesi più industrializzati) è quasi a zero, da circa nove anni https://voxeu.org/article/evidence-low-real-rates-will-persist. Tra l’altro, per quanto attiene l’Italia, i tassi bassissimi non hanno avuto effetti significativi neanche sugli investimenti https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economia-italiana-in-breve/index.html. Il che, naturalmente, non significa che le politiche monetarie siano inutili o ininfluenti, ma solo che non sono di per sé sufficienti in relazione a disoccupazione ed impoverimento.

[94] I lavoratori part time sono aumentati in Italia di circa 10 punti, passando dall’8% a oltre il 18% dei lavoratori. Il numero delle ore lavorate medie  è, conseguentemente,  sceso (dati Istat).

[95] Il dato è notevolissimo, e va tenuto presente quando si leggono i numeri della disoccupazione. L’Italia conta il 50% in più della Germania, e il 66% più della Franca, di self-employed persons, vale a dire lavoratori autonomi. Una larga parte di questi autodichiarati autonomi lo è diventato per carenza di altri sbocchi lavorativi.

[96] Dati della Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2016/index.html.

[97] Medesima indagine Bankitalia del 2016: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2016/index.html.

[98] Dati Istat (https://www.istat.it/it/archivio/226611).

[99] Éditions du Seuil, 2013.

[100] Si veda in merito anche Povertà, a cura di Carlo Cefaloni, con testi di Leonardo Becchetti, Maurizio Franzini, Alberto Mingardi, Chiara Saraceno, Vittorio Pelligra, Città nuova, Roma 2016.Nel testo si ricorda come in Italia negli ultimi dieci anni la povertà si sia allargata a macchia d’olio, mettendo in ginocchio intere famiglie. La povertà è cresciuta in modo notevolissimo: più 141%, con l’8% della popolazione residente in Italia che vive nell’indigenza assoluta (4,6 milioni di persone).

[101] Il piano inclinato del capitale: crisi, competizione globale e guerre, Luciano Vasapollo, Editoriale Jaca Book, 2003.

[102] In Italia, tuttavia, per non farci mancare nulla, sono scesi mediamente anche i salari: https://medium.com/@OECD/what-happened-to-wage-growth-8df7b6dfe9b4

[103] E sempre ammesso che non si cada in quella che sopra abbiamo definito la ‘trappola dell’automazione’.

[104] È chiaro infatti che gli effetti di un aumento dei consumi sul lavoro si disperdono in larga parte, laddove una buona parte dei beni sul mercato provenga dalle importazioni. Anche se ciò non deve scoraggiare dall’intraprendere queste politiche, che non solo sono valide, ma che sostenendo anche i paesi in via di sviluppo, contribuiscono al buon andamento dell’intera economia mondiale.

[105] All’interno dei Giuristi Democratici occorre dare conto di una diversa posizione:

Nel documento si afferma che il reddito di cittadinanza “resta una soluzione di passaggio”. Lo si presenta come l’unica adeguata “risposta al cambiamento epocale che abbiamo vissuto” e se ne cita, tra i fondamenti culturali, Hegel, per cui «l'uomo è l'essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso» e come fondamento giuridico la Costituzione all’art. 4, ”laddove è scritto che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. L’equivoco è tutto nel fatto che laddove è scritto “attività” e “costruzione” viene letto “lavoro” e “orario”. Deve infatti essere riconosciuta come rilevante l’attività di cura dei propri cari e dell’ambiente in cui si vive, quella svolta nella coltivazione di se stessi o nella dimensione ludica e sociale, in favore della scelta di prevedere la necessità di un “lavoro” formale. Dunque dissentiamo dalla proposta, in quanto, lungi dall’essere una "risposta al cambiamento", difetta proprio nel non saper guardare all’oggi, al momento storico in cui il lavoro ha toccato il suo picco assoluto di sofferenza, svalorizzazione ed insensatezza relativamente alla capacità di favorire la “libera” espressione della propria personalità.

È cioè una proposta obsoleta e —nella misura in cui punta alla piena occupazione con un lavoro formale— tanto impossibile quanto indesiderabile. E che per altro ha il difetto, involontariamente, di volgere le spalle alle lotte delle nuove generazioni per inventare un mondo davvero nuovo e sostenibile ipotizzando altri milioni a pendolare ogni giorno tra quartieri dormitori e posti di “lavoro”, affossando in prospettiva il mercato delle attività culturali e assistenziali che sarebbe bruciato da un esercito di lavoratori di cittadinanza non specializzati da impiegare. Se poi invece essa sottende a una reindustrializzazione di massa avrebbe —per pura ipotesi di realizzabilità— delle conseguenze devastanti dal punto di vista ecologico, in quanto presupporrebbe un massiccio ampliamento dell’apparato produttivo che per funzionare dovrebbe dragare risorse energetiche, e produrre quantità di scarti, tali da accelerare l’orizzonte autodistruttivo del pianeta. Alla fine tutto ciò che di progressivo resterebbe è la natura “pedagogica” della proposta che rinvia alla parte meno libera e feconda delle esperienze del socialismo reale, dimenticando come già Marx invitasse alla lotta contro l’alienazione del lavoro salariato e il conseguente furto del valore prodotto, valore che —dagli operaisti in poi— abbiamo appreso essere estratto proprio da quelle libere “attività” di cui parla l’art. 4 della Costituzione e rispetto a cui il reddito si configura già come dovuto salario sociale senza bisogno di inventare elefantiache organizzazioni pubbliche di messa i

  

 

 

 

Libro bianco dei Giuristi Democratici

Edizione 2023

 


Sommario

Premessa all’edizione 2023. 6

Qualcosa su di noi 7

  1. REPUBBLICA E COSTITUZIONE. 8
  2. a) Premessa. 8
  3. b) Sistema istituzionale. 8
  4. c) Sistema elettorale. 9
  5. d) Misure per la parità elettorale di genere. 12
  6. e) Personalismo della politica. 14
  7. f) Sul numero dei parlamentari e voto di preferenza. 14
  8. g) Quarto potere. 15
  9. h) La tentazione presidenzialista. 17
  10. UNIONE EUROPEA. 19
  11. a) Premessa. 19
  12. b) Cittadinanza sociale europea. 21
  13. c) Democrazia parlamentare piena. 21
  14. d) Riduzione del potere dei governi nell’Unione. 22
  15. e) Tutela dei diritti 23
  16. COSTITUZIONE DELLA TERRA. 24
  17. AUTONOMIA DIFFERENZIATA. 26
  18. a) Premessa. 26
  19. b) Profili problematici 27
  20. BENI COMUNI 30
  21. STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA. 32
  22. a) Referendum ammissibilità. 33
  23. b) Referendum- Quorum.. 34
  24. c) Raccolta firme referendum e proposta di legge di iniziativa popolare. 34
  25. d) Italiani all’estero. 35
  26. INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA. 35
  27. a) Magistratura ordinaria. 35
  28. b) Magistratura onoraria. 37
  29. c) Separazione delle carriere. 38
  30. VINCOLI DI BILANCIO.. 40
  31. TUTELA DELL’AMBIENTE. 41
  32. a) Premessa. 41
  33. b) La giurisprudenza costituzionale. 41
  34. c) Il principio internazionalista e la tutela ambientale. 43
  35. d) La recente modifica costituzionale. 44
  36. ASILO RESPINGIMENTI ED ONG. 46
  37. a) Premessa. 46
  38. b) Respingimenti 47
  39. c) Decreto Piantedosi 49
  40. LA NORMATIVA ANTIFASCISTA. 51
  41. a) Premessa. 51
  42. b) Attualità del pericolo di una involuzione autoritaria di tipo fascista nel nostro paese. 52
  43. c) La normativa in materia. 54
  44. d) L’attuazione della XII disposizione. 59
  45. e) Legge Scelba. 61
  46. f) Il saluto fascista tra legge Scelba e legge Mancino. 62
  47. g) Limiti alla propaganda politica. 68
  48. h) La Lista CasaPound. 70
  49. i) L’esclusione della lista. 73
  50. DEMOCRAZIA DIGITALE. 74
  51. a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale. 74
  52. b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa. 75
  53. c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale. 77
  54. d) L’improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale. 79
  55. e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti 81
  56. f) L’irresponsabilità delle piattaforme digitali nell’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale. 84
  57. g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B) 86
  58. h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA) 90
  59. i) Conclusioni 93
  60. LO STATO SOCIALE DIGITALE. 97
  61. a) Premessa. 97
  62. b) La verifica dell’identità. 98
  63. c) La valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali 99
  64. d) Il primato del diritto sul codice informatico: code is not law.. 100
  65. e) Proposta. 100
  66. f) Azioni concrete per una evoluzione digitale. 100
  67. g) L’uso degli algoritmi nel procedimento amministrativo ed open source nella PA.. 102
  68. h) Proposta. 105
  69. DIRITTO PENALE. 106
  70. a) Premessa. 106
  71. CRIMINI DI SISTEMA. 107
  72. CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. 109
  73. a) Premessa. 109
  74. b) Incentivare l’autonomia. 116
  75. c) Misure cautelari: proposte. 117
  76. d) I disegni di legge oggi in discussione. 119
  77. e) I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia. 119
  78. f) La formulazione degli atti 125
  79. g) Le fonti internazionali 127
  80. h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71. 131
  81. L’USO DI NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI NELLE INDAGINI PENALI 138
  82. a) Introduzione. 138
  83. b) Le Sezioni Unite nel 2016. 138
  84. c) La richiesta di intervento del legislatore. 139
  85. d) L’attuale regolamentazione normativa. 140
  86. e) La situazione odierna e le correlate problematiche. 140
  87. f) Le proposte. 141
  88. f) Considerazioni finali. 142
  89. LA PARTE OFFESA. 143
  90. ARTICOLI 613 E 97 CPP. 145
  91. a) Premessa. 145
  92. b) de iure condendo. 146
  93. c) proposta. 147
  94. CARCERE. 147
  95. a) Premessa. 147
  96. b) Proposte. 149
  97. ERGASTOLO OSTATIVO.. 150
  98. IL REGIME DETENTIVO SPECIALE EX ART. 41-BIS O.P. 151
  99. RIPORTARE LA COSTITUZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO.. 154
  100. a) Tutela reale contro ogni licenziamento illegittimo. 157

Considerazioni preliminari circa “la civiltà giuridica di questo paese”. 157

  1. b) I principi di diritto comune. 158
  2. c) La equiparazione del contratto di lavoro a tutti gli altri 160
  3. d) L’opera di demolizione della civiltà giuridica. 165
  4. e) La norma dichiaratamente classista di cui all’art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare) 167
  5. f) Il Jobs Act, ossia il trionfo del neoliberismo: dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti. 168
  6. g) “Sorvegliare e punire”: il panottico come modello e figura del potere nella società contemporanea. 169
  7. h) La istituzionalizzazione della precarietà. 171
  8. i) La disciplina dei licenziamenti 171
  9. l) Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico. 172
  10. m) Ripristinare lo stato costituzionale di diritto. 173
  11. n) Proposte. 174
  12. TRASFERIMENTO E CESSIONE D’AZIENDA. 175
  13. DELOCALIZZAZIONI 179
  14. PROCESSO DEL LAVORO SPESE DI GIUSTIZIA. 181
  15. PRECARIATO NEL PUBBLICO IMPIEGO.. 182
  16. a) Premessa. 182

b)I contratti ex art 110 tuel 182

  1. c) Problemi di coordinamento del quadro normativo dopo il Decreto Dignità. 184
  2. d) Sulla causalità dei rapporti/contratti 184
  3. e) Sulla decadenza. 184
  4. IL RAPPORTO DI LAVORO NELLE COOPERATIVE. 185
  5. IL DIRITTO DI CITTADINANZA SOCIALE. 187

DIRITTO AL LAVORO E REDDITO.. 187

  1. a) Premessa. 187
  2. b) Il nuovo patto sociale. 190
  3. c) Il diritto al lavoro. 191
  4. d) La proposta. 192
  5. e) Il campo di lavoro. 194
  6. f) Il diritto europeo di cittadinanza sociale. 195
  7. REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE. 196
  8. a) Premessa. 197
  9. b) Formule (o “ricette”) per l’occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva. 198
  10. c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta. 200
  11. d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo. 201
  12. e) L’utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell’incremento occupazionale. 202
  13. f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario. 204
  14. g) Una proposta vantaggiosa per tutti. 207
  15. CASSA FORENSE. 209

Proposta. 210

  1. SECONDE GENERAZIONI 210
  2. I Appendice giurisprudenza antifascismo. 212

Allegato n. 1. 212

Allegato n. 2. 213

Allegato 3. 216

 

 

 

Premessa all’edizione 2023

L’idea posta alla base del lavoro che ha portato alla redazione del Libro Bianco, che finalmente vede ora la luce, era quella di consegnare alle forze politiche, sindacali ed associative approfondimenti e proposte su molte, se non tutte, le problematiche che coinvolgono la tutela dei diritti dei cittadini, consegnando, così, alla società civile un quadro di insieme di analisi e proposte che un’associazione come la nostra ha elaborato negli anni, ispirandosi sempre ad un assoluto e completo rispetto dei valori costituzionali.

Come è noto, l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici non è monosettoriale, né corporativa, onde lo sforzo compiuto è stato particolarmente esteso e di ardua realizzazione ed ha richiesto circa due anni di lavoro.

Ora, se ciò ha consentito una più completa disamina dei temi che occupano l’attività ed i progetti dell’Associazione, ha determinato che una serie di avvenimenti, di normative nuove possano aver reso meno attuali i riferimenti e le progettualità esposte nel Libro Bianco.

In particolare, l’esito delle elezioni politiche, con il successo della Destra e specificamente del partito più notoriamente vicino al fascismo, ha reso ancora più rilevante la problematica della difesa dei valori costituzionali, già messi in forte pericolo durante il periodo berlusconiano ed oggi attaccati senza alcuna remora da FdI e Lega.

In questo senso, ulteriori argomenti ed approfondimenti saranno necessari in tema di richiesta di modifiche costituzionali circa l’introduzione di forme di premierato.

Anche la riforma elettorale necessiterà di ulteriori aggiustamenti rispetto a quanto già da noi scritto nel Libro Bianco.

Ed ancora: l’entrata in vigore della Riforma Cartabia, peraltro oggi rimessa in discussione dal Governo e dalla maggioranza parlamentare, meriterebbe e meriterà un ulteriore approfondimento in vista della attuazione di un vero “giusto processo”, con il rispetto delle garanzie dei diritti dei cittadini e del diritto ad una piena uguaglianza.

Il prossimo tema in discussione sul fronte giustizia, la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, andrà ulteriormente esaminato.

La delicata questione della situazione delle carceri (dall’incremento del numero di suicidi al caso Cospito) ha acquisito un rilievo maggiore di quanto fosse immaginabile.

Analogo discorso può e deve essere fatto con riferimento all’aggravarsi della situazione immigrazione, che ha assunto, secondo il Governo, caratteristiche di emergenza, cui si intenderebbe intervenire con interventi disumani.

Ed infine, la questione della guerra in Ucraina, che ha creato spaccature non certo sulla responsabilità dell’aggressione, pacificamente attribuita alla Russia, ma sulle modalità per fermare questa guerra, che rischia, come minimo, di determinare uno stallo che può durare anni, con incommensurabili perdite di vite umane, e come massimo di portare alla catastrofe nucleare.

Insomma, per concludere, un ulteriore esame di tutte le problematiche relative alla tutela dei diritti dei cittadini richiederebbe un aggiornamento continuo delle analisi, il che porterebbe alla concreta impossibilità di intervenire in tempi reali sui singoli argomenti: dunque, abbiamo deciso consapevolmente di pubblicare il lavoro fino ad ora fatto, ben consci di una sua parziale inadeguatezza rispetto alle modifiche ed alle novità sopravvenute, ma convinti di produrre un utile materiale di analisi e di approfondimento che potrà essere via via aggiornato con produzioni di documenti settoriali.

 

Qualcosa su di noi

L'associazione Giuristi Democratici si è ricostituita formalmente nel 2004 dopo essere stata fondata nel secondo dopoguerra, tra gli altri, da Umberto Terracini, Bianca Guidetti Serra, Ugo Natoli, Romeo Ferrucci, Raimondo Ricci e Lelio Basso.

Fanno parte dell'associazione, orientata politicamente a Sinistra, avvocati, magistrati, funzionari pubblici, studiosi del diritto appartenenti al mondo dell'Università e della ricerca.

L’Associazione italiana è parte dell'associazione europea dei giuristi democratici (ELDH) e dell'associazione internazionale avvocati per i diritti umani (IADL).

Il fine dell'associazione è quello di promuovere un concreto impegno di tutti gli operatori del diritto a difesa e per l'attuazione dei principi della Costituzione repubblicana, democratica, laica e antifascista, delle istanze progressive per l'applicazione della Convenzione dei Diritti umani, per il garantismo penale, per la realizzazione di una Costituzione europea autenticamente democratica, fondata sul ripudio della guerra, con particolare riguardo ai diritti dei lavoratori, dei meno abbienti e degli emarginati e ai diritti di associazione, libertà di circolazione, riunione e manifestazione del pensiero.

DEVOLVI AI GIURISTI DEMOCRATICI IL TUO 5×1000

È possibile inserire nell'apposita sezione della dichiarazione dei redditi il codice fiscale dell'Associazione Nazionale Giuristi Democratici: 91239960379.

Associazione Nazionale Giuristi Democratici CF: 91239960379,

Vicolo Buonarroti, 2 - 35132 Padova

 

 

1.    REPUBBLICA E COSTITUZIONE

 

a) Premessa

Tra le sue primarie finalità l’Associazione Giuristi Democratici vanta la difesa della Costituzione delle Repubblica, la promozione della sua attuazione e la diffusione della conoscenza dei suoi principi e valori. Noi vogliamo che il sistema democratico nel quale siamo cresciuti e ci siamo formati come cittadini, diventi patrimonio dei nostri figli; non potremmo fare loro regalo più grande che contribuire a preservare il prezioso lavoro delle donne e degli uomini che hanno fondato la Repubblica nata dalla resistenza.

Quella italiana è una Costituzione condivisa ed è il risultato di una esperienza e di un percorso storico, politico e culturale.

Storico, perché segna la presa di coscienza di un popolo nei confronti della dittatura fascista, della guerra, e dell’occupazione nazifascista. La Costituzione segna il punto di arrivo della consapevolezza della unità nazionale, dal percorso risorgimentale, dalla formazione di uno stato unitario portatore dei principi di libertà, di uguaglianza formale e di laicità, fino al raggiungimento dei principi di uguaglianza sostanziale di solidarietà/fratellanza nel rispetto della dignità e della realizzazione individuale della persona umana, nell’ambito dei diversi contesti sociali.

Politico, perché segna i principi condivisi tra i principali filoni di pensiero sviluppatisi nell’ultimo secolo di storia, liberale, liberalsocialista, socialista e comunista e cristiano sociale e cattolico nonché la condivisione di essi tra le diverse componenti sociali presenti nel Paese.

Culturale, perché tutte le componenti sociali, consapevoli di non voler ripetere gli errori e gli orrori del passato, hanno inteso affermare i principi di solidarietà ed il rispetto formale e sostanziale dei diritti e della dignità umana, in senso universale, nei confronti di tutti i popoli e di tutte le persone, affermando il ripudio della guerra per la risoluzione delle controversie internazionali.

Da questo fondamentale punto di partenza, da difendere e tutelare, si può e si deve partire per riconoscere, affermare e tutelare i nuovi diritti, che permetteranno un rilancio del senso di solidarietà delle nostre comunità.

 

b) Sistema istituzionale

In termini politico istituzionali, i Giuristi Democratici lavorano per il rafforzamento dei bilanciamenti costituzionali e per la rigorosa separazione dei poteri.

Ciò che appare utile da difendere e da potenziare, tra le altre cose, è infatti un modello dove poteri istituzionali e poteri di governo siano separati.

Il quadro tradizionale prevedeva una suddivisione di tre poteri (giudiziario, legislativo e esecutivo). Una democrazia compiuta non può fondarsi solo su questa tripartizione.

Da un lato va integrata con il riconoscimento di un potere partecipativo, del popolo e delle sue espressioni organizzate.

In tal senso deve essere valorizzato il concetto di isonomia.

Come molti ricordano, ad Atene, prima del concetto di democrazia, ossia governo del demos, si impone un concetto ben più pregnante, quello di isonomia. Dal greco isos: "uguale" e nomos. Tradizionalmente si traduce questo concetto come uguaglianza davanti alla legge. Ma non è corretto.

Infatti nomos viene dal verbo greco νέμω (“nemo”) che significa “distribuisco”, “faccio le parti”. Tanto che l’etimologia di nomos è la stessa di numero (ossia parte). Il concetto di isonomia, quindi è quello di eguale ripartizione. Il sistema isonomico quindi è il sistema che garantisce una corretta ed eguale ripartizione.

Il concetto, anche di recente è stato adoperato in riferimento alla corretta ed equa ripartizione del potere pubblico (o della partecipazione al potere pubblico).

 “Questa operazione è tutta ispirata dal principio di isonomia, in base al quale tutti hanno diritto alla stessa quota di sovranità”… Vi è una forte correlazione logica e materiale, infatti, tra l’apposizione di limiti al potere e la libertà e l’uguaglianza, tra una giuridicità diffusa e una democrazia: per questo la democrazia può essere indicata come «un regime nel quale si riconosce al cittadino, ad ogni cittadino, la capacità di creare diritto» e che «non afferma solo il principio della pari dignità di ogni cittadino, ma della sovrana pari dignità di tutti i cittadini» (7 C. ESPOSITO, Commento all’art. 1 della Costituzione)”[1].

 

Nel contempo, e sempre in questo quadro, va separato dai tre poteri tradizionali, il potere istituzionale. Un potere arbitro, e garante di tutti gli altri poteri, così come delle regole costituzionali.

Anche per tale ragione i Giuristi Democratici hanno sempre espresso contrarietà al modello costituzionale presidenziale.

 

c) Sistema elettorale

Nessun tema più della legge elettorale coinvolge il principio democratico.

Anche il potere elettorale popolare deve incontrare dei limiti, si deve scongiurare quella che è stata definita la ‘dittatura della maggioranza’.

L’obiettivo deve essere quello di lavorare per una messa in sicurezza ulteriore della nostra Costituzione, affinché essa stessa sia a riparo da modifiche in mano alla estemporanea maggioranza, e affinché si implementino i bilanciamenti ed i contropoteri, autonomi rispetto al governo di turno.

Una riflessione moderna sulla democrazia deve infatti considerare che il corpo elettorale esprime l’interesse degli elettori attuali e raramente prende in considerazione i problemi futuri (ad esempio si veda il degrado ambientale).

Inoltre l’attribuzione di tutto il potere (governativo e legislativo) in un singolo momento elettorale plebiscitario non è prudente. È all’interno di una tale riflessione che occorre valutare in concreto i singoli istituti e contrappesi della democrazia rappresentativa[2].

Il Parlamento deve rappresentare tutti ed essere uno specchio del Paese. Le distorsioni sono antidemocratiche.

Negli ultimi anni i sistemi elettorali (ad esempio il “Rosatellum”), pur presentando alcuni aspetti positivi, quali la visibilità dei candidati nel collegio uninominale, hanno sostanzialmente deluso le aspettative che avevano suscitato. Si è prodotta una artificiale rarefazione dell'offerta politica (e quindi della possibilità dei cittadini di essere rappresentati), provocando una conseguente rarefazione della rappresentanza sociale, senza raggiungere i risultati promessi in termini di riduzione della frammentazione. Infatti non è diminuito il numero dei partiti, né il potere delle loro burocrazie, né la loro litigiosità, né i cittadini si sono avvicinati ai loro rappresentanti. Anzi è stata favorita una torsione oligarchica del sistema politico, favorendo il congedo delle classi popolari dalla politica, ridotta ad una gara di opinioni e di potere, con molti spettatori e sempre meno protagonisti.

Ne è scaturita una rendita di posizione per i dirigenti dei principali partiti politici, i quali venivano esonerati dalla concorrenza dei partiti minori e favoriti dalla rarefazione forzata dell’offerta politica.

Gli effetti delle leggi elettorali restrittive si sono intrecciati con il taglio di un terzo dei parlamentari, generando un sistema che premia oltremodo chiunque abbia anche la più piccola maggioranza. Le liste che godono e godranno, nei singoli territori, anche di una piccola maggioranza conquisteranno una larga maggioranza nazionale dei seggi. Una maggioranza sproporzionata rispetto ai voti ottenuti.

Ad esempio, la legge elettorale oggi in vigore può consentire ad una coalizione di conquistare gran parte dei collegi uninominali, puntando ad eleggere i 2/3 dei parlamentari. Un numero che permetterebbe un’agevole modifica del testo costituzionale e impedirebbe di chiedere il referendum popolare per impedire le modifiche della Costituzione.

Le norme in vigore per la modifica della Costituzione (art 138) furono, infatti, scritte in presenza di un sistema elettorale proporzionale e non sono mai state modificate per impedire che il maggioritario mettesse la Costituzione nelle mani di una minoranza di elettori per effetto di meccanismi elettorali premiali.

I moniti di chi scrive e dei più avveduti costituzionalisti, purtroppo, sono caduti nel vuoto. A questo punto, essendo caduti inascoltati gli appelli a cambiare la legge elettorale, è necessario un nuovo richiamo.

L’Associazione dei Giuristi Democratici propone quindi di tornare ad un sistema elettorale proporzionale puro. Ovviamente taluni modesti correttivi possono essere apportati.

I fautori degli sbarramenti, impliciti ed espliciti, affermano che questi rispondevano a due esigenze. Da un lato quella della governabilità: aiutare le forze maggiori a crescere, favorirebbe la formazione di maggioranze stabili. Nel contempo fornirebbe una buona motivazione alle forze minori ad aggregarsi, superando una rissosità interna che, talora, era legata a ragioni difficilmente comprensibili agli elettori.

A queste argomentazioni, però, se ne contrappongono altre, non meno valide.

Una di principio: il Parlamento è il luogo della rappresentanza e la legge elettorale non dovrebbe servire a indurre comportamenti virtuosi. Il sistema elettorale deve comportarsi come un buon traduttore: qualunque cosa dica chi è tradotto, certamente non è compito del traduttore correggerlo.

Peraltro, il difetto delle riforme dei sistemi elettorali consiste sempre nel fatto che sono promosse da chi governa in un determinato momento storico ed è chiaro che chi governa porta acqua al proprio mulino.

Insomma, in un paese in cui la cultura democratica è consolidata, e che vuole evitare una alterazione strumentale della rappresentanza politica, la legge elettorale è super partes, condivisa ed equa.

Si può prevedere uno sbarramento per formazioni molto piccole, non tanto perché non meritino di essere rappresentate, ma per favorire le aggregazioni.

Si può ipotizzare qualche piccolo premio implicito alle formazioni maggiori, ma l’essenza deve essere quella per cui la rappresentanza politica deve aprirsi, per rilanciare il senso di appartenenza e partecipazione dei cittadini. Non è chiudendo il Parlamento alla rappresentanza che si garantisce la governabilità del paese. Periodicamente riaffiora, invece, la proposta di una riforma elettorale che attribuisca la maggioranza dei seggi ad una minoranza, attraverso artifizi vari. Elezioni che conferiscano tutto il potere ad una forza politica, o meglio ancora ad un singolo gruppo dirigente. 

Non è pensabile governare contro la maggioranza del popolo, non solo per ragioni democratiche, ma perché la storia insegna che si tratta di esperienze improduttive. 

Sotto altro profilo, si è osservato che la rissosità di corrente, interna ai partiti è addirittura superiore a quella tra i partiti della coalizione di governo.  Dunque introdurre soglie, ed indurre a aggregazioni posticce non migliora l’armonia delle forze che sostengono l’Esecutivo, né riduce il potere di ago della bilancia, di piccole formazioni di deputati.

d) Misure per la parità elettorale di genere

Il principio di parità tra i sessi si configura, dunque, come irrinunciabile elemento costitutivo di qualsivoglia sistema statale costruito sui principi di libertà ed uguaglianza e proteso al buon funzionamento delle sue istituzioni[3].

Su questo presupposto, il legislatore è intervenuto con più riforme costituzionali, al fine di permettere l’inserimento nel sistema elettorale italiano di strumenti volti a correggere le disparità di genere all’interno delle assemblee rappresentative.

Dapprima con la legge costituzionale n. 2 del 2001, e poi con le leggi costituzionali n. 3 del 2001 e n. 1 del 2003, sono state poste le basi per ogni successivo intervento normativo in tal senso, il cui spirito è sintetizzato nel nuovo capoverso del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione (“La Repubblica promuove, a tale fine, le pari opportunità tra donne e uomini“) e nel settimo comma dell’articolo 117 (“Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive“).

Da quel momento, tutte le riforme volte ad inserire strumenti che facilitassero un riequilibrio della rappresentatività di genere, hanno superato il vaglio di Costituzionalità, sino a giungere all’attuale disciplina contenuta nella legge n. 165 del 2017 (il già richiamato Rosatellum).

Il Rosatellum è un sistema elettorale misto, con prevalenza della componente proporzionale.

Il 37,5% dei seggi è assegnato con sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre quelli rimanenti sono attribuiti con sistema proporzionale.

Ciò premesso, l’attuale legge elettorale ha introdotto quattro diverse previsioni volte ad agevolare un equo bilanciamento tra i sessi nella rappresentanza parlamentare, riguardanti l’elezione presso sia i collegi uninominali che quelli plurinominali.

Le prime due previsioni riguardano il metodo proporzionale e dispongono che “a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere” e che “nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento“.

La terza previsione, invece, riguarda i collegi uninominali e, in maniera simile alle precedenti, stabilisce che “nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento” nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione, a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato.

La quarta e ultima previsione, infine, riguarda i poteri di controllo affidati all’Ufficio centrale nazionale e all’Ufficio elettorale regionale.

Tali previsioni, di sicuro impatto nella promozione del riequilibrio di genere, suscitano alcune riflessioni problematiche se considerate nel contesto elettorale nel suo complesso.

Per un primo aspetto, indicare la soglia del 60 per cento anziché del 50 per cento, pone evidenti perplessità in ordine al rispetto del principio di pari opportunità di accesso alla competizione elettorale, poiché ogni strumento volto al raggiungimento di quegli obiettivi costituzionali prima evidenziati, non può che essere improntato ad un trattamento eguale e paritario.

Per un secondo aspetto, è insensato che la circoscrizione Estero sia stata del tutto esclusa dall’applicazione da ogni misura volta al riequilibrio della rappresentanza di genere, acuendo le critiche già espresse in merito alla creazione di una circoscrizione elettorale del tutto separata dal circuito nazionale.

Occorrerebbe poi maggiore attenzione alla visibilità delle candidature, ossia alla collocazione in lista delle donne.  

Per altro verso, le sanzioni previste per il mancato rispetto della parità di genere devono essere maggiormente severe ed efficaci.

Infine, le disposizioni sin qui esposte vengono grandemente depotenziate dal sistema delle pluricandidature, per cui è consentito che un candidato sia presente più volte in diversi collegi plurinominali (con un limite di cinque).

Ciò che accade, nel concreto, è che i candidati cd. “blindati” (cioè coloro che il partito intende far entrare in parlamento) vengono di fatto presentati in più collegi, in parte aggirando l’alternanza di genere. Se la candidata da blindare è una donna infatti – e si tratta di un’eventualità meno frequente del contrario – verrà indicata quale prima candidata in più collegi e la sua vittoria in uno di questi, permetterà a tutti gli uomini indicati quali secondi negli altri di essere eletti, con un rapporto di quattro ad una. Se invece il candidato da blindare è un uomo, piuttosto che indicarlo quale capolista in più collegi, lo si inserisce quale secondo in lista di un collegio in cui, con tutta probabilità, la prima candidata verrà eletta in un altro collegio, lasciando libero il posto al candidato blindato.

Questo sistema ha permesso alle forze politiche – chi più e chi meno – di eleggere nell’ultima tornata elettorale, nei soli collegi plurinominali, il 64 per cento di uomini e il 36 per cento di donne, con aggiramento della parità di genere.

 

e) Personalismo della politica

Negli anni del bipolarismo e del maggioritario, inaugurati dall'elezione diretta dei sindaci e proseguita con i collegi uninominali del Mattarellum e infine con la lunga e devastante stagione dei premi di maggioranza trainati dai “capi” delle coalizioni, l’attenzione si è spostata sul voto ‘alla persona’.

 L’effetto, peraltro prevedibile, è stato quello di una battaglia politica che, dai programmi e dalle visioni del mondo, si è spostata sulla persona dell’avversario.

Si così è generato un inasprimento della battaglia politica, che non solo è scivolata sul personale, ma che si è trasformata in una lotta senza esclusione di colpi.

Avere buone idee, o validi ideali, non è più stato essenziale. In una corsa a due, basta dimostrare che l’altro è peggio di te. Da una battaglia sulle proposte, si è scivolati, velocemente, ad una demolizione personale dell’avversario.

Il sistema proporzionale ha quindi anche questo vantaggio: ciascuno corre in parallelo agli altri e deve farsi carico di proposte e valori, senza poter fare conto sulle cadute degli altri contendenti.

 

f) Sul numero dei parlamentari e voto di preferenza

La costituzione italiana è un organismo complesso. Si fonda su un accorto bilanciamento, modificarla senza un grande progetto democratico è sempre un errore, soprattutto se le revisioni del testo costituzionale non sono meditate dal ceto politico.

Tagliare il numero dei parlamentari non è solo una questione di numeri o di costi, si tratta di una riforma destinata ad incidere sulle modalità di organizzazione della rappresentanza politica attraverso la quale si esprime e si realizza il principio fondamentale della Repubblica secondo cui la sovranità appartiene al popolo e che attribuisce al parlamento un ruolo centrale nel nostro sistema democratico.

Il consenso all’ultima riforma costituzionale è stato alimentato da un grande equivoco, ossia che riducendo il numero dei parlamentari si punisca la casta mentre, al contrario, si puniscono i cittadini che vedranno diminuita la possibilità di eleggere un “proprio” rappresentante.

Minando il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Aumenta, anche geograficamente, la distanza fra rappresentato e rappresentante e viene ulteriormente sacrificato il pluralismo, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante.

È certamente vero che la classe politica, oggi, è avvertita come un gruppo “sociale e professionale” privilegiato a sé stante, separato dai cittadini. Ed è altrettanto vero che questa stessa classe politica deve mostrare in prima persona di essere in sintonia con l’elettorato, anche nella consapevolezza della difficoltà del vivere quotidiano di milioni di persone. Tuttavia è preoccupante che il rapporto sia inteso solo come rapporto di tipo economico e che il parlamentare sia inteso solo come uno stipendiato, non come il proprio rappresentante nelle istituzioni. Il cittadino dovrebbe essere ben consapevole che il suo interesse è quello di avere la massima presenza, la massima rappresentanza nelle istituzioni. Ci sono ben altri costi da tagliare e potranno essere tagliati solo se l’elettore sarà rappresentato

Nel contempo va ricordato che vi è una ragione se si è giunti a questo punto. Il rapporto diretto con un deputato, percepito come proprio, è venuto completamente a cessare da molti anni. Era un rapporto che si fondava soprattutto sul voto di preferenza Da molti anni i deputati sono, per lo più, indicati dai vertici di partito e, per questo motivo, l’elettore non avverte alcun collegamento diretto con lo specifico deputato, perché non lo ha scelto e talvolta non sa neanche chi sia. Ed il deputato non è all’elettore che sente di dovere una risposta, posto che le sue possibilità di rielezione derivano solo dall’essere ricandidato (magari in un collegio sicuro), dal vertice del proprio partito. In questo quadro è chiaro che per l’elettore sia piuttosto indifferente al numero di deputati: i deputati eletti non lo rappresentano in Parlamento, rappresentano il (suo) partito.

Il taglio dei parlamentari sommato alle norme elettorali in vigore apre una ferita nella capacità di rappresentare i cittadini, i territori, le posizioni politiche esistenti nel paese, creando per di più squilibri tra le aree territoriali a parità di popolazione.

Ciò è tanto più grave alla luce della legge elettorale vigente caratterizzata da una forte quota maggioritaria (3/8 dei seggi) con liste bloccate nel proporzionale e voto obbligatoriamente congiunto tra candidato uninominale e lista collegata, con l’effetto di comprimere notevolmente la possibilità dell’elettore di scegliere i propri rappresentanti.

La crisi della rappresentanza politica non si può curare riducendo il numero dei rappresentanti ma facendo sì che gli elettori possano tornare a scegliere direttamente i propri rappresentanti di modo che il Parlamento ritorni ad essere il motore della democrazia.

 

g)  Quarto potere

Il principio di separazione dei tre poteri dello Stato risale al ‘700, a Montesquieu, che scrivendo dello spirito delle leggi, affermava come ogni funzione statale (legislativa, amministrativa e giudiziaria) debba essere esercitata da organi diversi, in modo che “il potere arresti il potere”.  Montesquieu traeva spunto, peraltro, da pensatori precedenti. Il filosofo Locke, aveva distinto tra funzione legislativa, esecutiva e federativa (relativa ai rapporti di politica estera).

Il principio di separazione dei tre poteri canonici, ha portato le democrazie occidentali, in linea di massima, a prevedere l’indipendenza della magistratura, ed a separare l’organo di vertice dell’amministrazione (ossia il Governo) dal Parlamento, cui è attribuita la funzione legislativa

Oltrepassate le soglie del nuovo millennio, occorre però chiedersi, se davvero i poteri da tenere separati siano solo tre. E conviene particolarmente chiederselo, nel momento in cui sono ancora vive nella memoria le immagini dei tristi fatti del gennaio 2021, quando i manifestanti pro Trump assalirono il congresso degli Usa per cercare di impedire la transizione presidenziale, e dell’8 gennaio del 2023, con i tumulti di Brasilia.

Rileggendo a mente fredda quei fatti, ci si accorge del principale problema del sistema presidenziale:  manca un arbitro che sia al di sopra delle parti, il cui unico compito sia quello di far rispettare le regole. Quando Trump annunciava che non avrebbe lasciato il potere, nessuno, sopra di lui, poteva richiamarlo all’ordine. Il presidente americano è capo dell’esercito (Commander in Chief), è vertice delle istituzioni, ed è anche il capo del governo, quindi non ha nessuno sopra di lui.

Si comprende allora come, in una democrazia matura, vi sia un ulteriore, fondamentale potere, che merita riconoscimento e tutela, ed è il potere attribuito agli organi deputati al mero rispetto delle regole costituzionali.

In termini teorici, si può discutere se questo sia un quarto potere, se sia la somma di tutti gli altri, se sia un potere neutro o meno, così come si discute se il bianco sia un colore, o la compresenza di tutti i colori.

Ciò che rileva è che questo ruolo di Garanzia, e di vigilanza, è essenziale nella democrazia moderna, perché la garantisce nella sua sopravvivenza. Tuttavia non si attiva solo nei momenti più drammatici, ma si esplica nel quotidiano della vita repubblicana. È il potere di definire i conflitti tra gli altri tre poteri, e di spingerli verso il rispetto dei propri confini.

Nel corso dei secoli, le democrazie hanno sviluppato questo potere di Garanzia, a discapito degli altri poteri. Ciò si inscrive in una tendenza più globale che riguarda tutti i poteri, non solo quelli pubblici.

Le riflessioni sulla democrazia matura, per cui abbiamo recuperato la definizione di Isonomia, mirano a tracciare un percorso evolutivo: ridurre lo spazio del potere, inteso come scelta arbitraria, per sottomettere ogni, pur minimo, potere, alla regola.  E quindi comprimere, bilanciare, frammentare, controllare e regolamentare ogni forma di potere, pubblico o privato, fino a togliergli l’essenza di potere per far emergere l’essenza di funzione.

La democrazia matura è quindi l’era politica in cui la Regola, democraticamente generata, nel compromesso, nella tutela delle minoranze, nel principio di partecipazione, prevale sull’esercizio arbitrario del potere. Tanto colui che è apparentemente sovraordinato (il generale, il magistrato, il proprietario), che colui che è apparentemente sotto ordinato (il soldato, l’imputato, il dipendente) hanno una via segnata e delimitata dallo steccato della norma. Il funzionario pubblico (ma anche privato), a qualunque livello, non può più fare ciò che vuole, ma è tenuto e muoversi all’interno di regole predefinite. In tal modo il potere diviene funzione.

In questo quadro si legge la crescita del potere di Garanzia (o, più correttamente, la funzione di garanzia, perché anche il garante deve agire secondo le regole). La partita democratica trova il proprio arbitro, ed i propri guardalinee.  Arbitri sempre contestati, naturalmente, perché è ben noto come i poteri siano allergici ai limiti, alle regole, agli steccati.  Ed è proprio per questo che questo quarto potere deve essere tenuto ben vivo, fortificato e separato rigorosamente dagli altri. Arbitro e giocatori non possono coincidere, se non si vuole il ripetersi della tragedia (democratica) americana, e di tanti altri paesi che hanno sottovalutato il tema e sono scivolati verso forme che non possono più definirsi, a rigore, democratiche. 

E qui va detto, ancora una volta, che la nostra Costituzione è stata davvero lungimirante e matura. Ha delineato la Corte costituzionale, che è sicura manifestazione di questo potere di Garanzia, e che giudica i conflitti tra i poteri dello Stato, e ha creato la figura apicale del Presidente della Repubblica.

 

h) La tentazione presidenzialista

Si riaffacciano, periodicamente, in Italia, le tentazioni presidenzialiste. Uno degli argomenti su cui si fa leva è quello per cui l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, renderebbe il sistema più democratico.

Vale però la pena di affrontare il tema con attenzione, per verificare se davvero il presidenzialismo sia un modello che si prospetta, nel futuro, come evoluzione naturale della democrazia, o se invece al contrario sia un relitto del passato, un attrezzo desueto e poco funzionale.

La Costituzione definisce il Presidente della Repubblica “Capo dello Stato” e “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87). Gli attribuisce la funzione di garanzia costituzionale, cioè di preservazione di quel patto fondamentale – la Costituzione – che unisce i cittadini fra loro ed è condizione di quell’unità dell’intera nazione che egli rappresenta. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2013, definisce il Presidente “garante dell’equilibrio costituzionale”.

Non può sfuggire, e lo dimostra il sentimento diffuso dopo la rielezione del Presidente Mattarella, come questa figura sia in netta crescita rispetto alle altre. Un soggetto che non rappresenta la maggioranza di governo, né un orientamento partitico. Tuttavia la figura del Presidente della Repubblica non è una fredda figura tecnica, il Presidente non è, e non è visto, come un mero arbitro.  Egli viene riconosciuto simbolicamente come portatore degli interessi dell’Istituzione, e del Popolo, come pure del Bene Comune. Un soggetto, quindi, che resta politico, ma che è chiamato a svolgere un ruolo super partes, e che viene tenuto a riparo, saggiamente, dal fango delle accuse incrociate, perché istintivamente i partiti ed i politici sanno che poggiamo tutti su un terreno comune, che può franare.

Il Presidente non è portatore della politica della maggioranza, ma incarna la Repubblica. Questa funzione simbolica è talmente forte, da avere un rilievo nei processi democratici, ed incide financo sul carattere individuale. Si può osservare come, salvi rari casi, chi è stato chiamato a ricoprire la carica presidenziale ha sentito il ruolo, e lo ha interpretato in modo corretto.

Si è sopra accennato al tema della separazione dei poteri. La riflessione sulle forme più avanzate di democrazia ci ha portato a evidenziare l’esigenza di frammentare la concentrazione del potere in un solo individuo, e di assegnare ad un soggetto super partes quello che si è definito il quarto potere.

La repubblica presidenziale, tradizionalmente auspicata dalla destra italiana, è invece articolata sui tre poteri canonici. Al presidente della repubblica, eletto direttamente dal popolo, è attribuito sia il ruolo di vertice dell’Istituzione, che in Italia oggi è svolto dal Presidente della Repubblica, sia il ruolo di capo del governo. Introdurre il presidenzialismo in Italia significa quindi eliminare la figura del Presidente della Repubblica come la conosciamo noi, di soggetto sopra le parti. Il premier assumerebbe entrambi i ruoli.

Questa semplice considerazione permette di capire perché si tratta di un arretramento. In Italia il Presidente della Repubblica è espressione del quarto potere, così come lo sono i presidenti delle Camere, le molteplici autorità indipendenti, i garanti etc

In questo contesto è chiaro che, se il Presidente fosse eletto dal popolo, non potrebbe più svolgere un simile ruolo.

L’attuale Presidente della Repubblica agisce e deve agire per il bene della collettività nel suo insieme, senza favorire una parte politica. Storicamente questo ruolo sopra le parti è stato interpretato con grande dignità dai presidenti che si sono alternati: Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ciascuno di loro si è anche esposto a critiche, ma non può non emergere il senso complessivo di una funzione rilevante, che è cresciuta nel corso del tempo, l’autorevolezza che deriva dal parlare per l’Istituzione e non per la maggioranza temporaneamente al governo. Ed un effetto simile si è avuto per altre analoghe figure di rilievo (si pensi alla presidente Marta Cartabia della Corte costituzionale). 

Nel sistema presidenziale, invece, le diverse forze proporrebbero i loro candidati, farebbero dure campagne elettorali, anche distruttive degli altrui candidati, fino alla fatidica frase, per cui l’eletto ‘non è il mio presidente’. Prendere il Presidente della Repubblica e gettarlo nella mischia di maggioranza e minoranza, costringerlo all’attività spicciola e quotidiana di governo, all’imposizione di tasse ed alle dichiarazioni polemiche contro gli avversari, non sarebbe un progresso. 

Sarebbe invece una lesione della sua alta dignità. Non è un caso che le figure più rispettate ed amate della politica italiana abbiano rivestito questo ruolo. È un ruolo che migliora la personalità politica: chi si sente chiamato ad essere migliore, spesso lo diventa. Ma ciò che più conta è che sulla dignità di questo ruolo riposa anche una parte della residua capacità degli italiani di identificarsi con la Repubblica.

E non occorre davvero soffermarsi sul danno che una democrazia subisce, quando una consistente parte dell’elettorato, sente di non avere una figura di rappresentanza nelle istituzioni. La situazione è già critica per effetto di fattori concomitanti che hanno inciso sulla vita democratica.  La frammentazione politica ha aumentato il numero dei competitori, la personalizzazione ha imbarbarito il confronto. La lotta politica, in un contesto in cui i social network sono il principale strumento di comunicazione, non ha più argini. Si scava nella vita privata dell’avversario politico e della sua famiglia. Il bersaglio non sono le proposte politiche, ma le biografie personali. Nessuno può salvarsi, perché le accuse sono spesso false ed i fatti distorti. La conseguenza è che una parte, sempre crescente, del popolo, non solo italiano, non trova più modo di riconoscersi in alcun modo nei propri rappresentanti, neanche quando ne condivide, in grandi linee, le idee e le proposte.

In questo contesto, è divenuta sempre più essenziale l’enucleazione del quarto potere, che non è solo Garanzia ma, anche e soprattutto, rappresentanza dell’unità nazionale, non solo dei territori, ma dei cittadini e delle cittadine. E le stesse forze politiche, che in taluni casi dimostrano maturità, hanno percepito che non sarebbe più accettata l’elezione di un Presidente che non fosse frutto di un compromesso su una figura riconosciuta come idonea a svolgere questo tipo di ruolo. In altri termini, per come si è venuta configurando la figura del Presidente della Repubblica Italiana, il compromesso, allargato per quanto possibile, non solo non rappresenta una sconfitta, ma rappresenta la naturale modalità di elezione (corroborata dalla indicazione costituzionale, dei due terzi, richiesti nelle prime tre votazioni).

La riflessione, su questo quarto potere è essenziale. Fondere in un sola figura il ruolo di Presidente della Repubblica e quello di Presidente del Consiglio, o attribuire ruoli di governo attivo al Presidente della Repubblica, non solo non aggiungerebbe nulla, ma sopprimerebbe il ruolo di vigilanza e, ciò che è perfino peggio, la percezione popolare di un Garante, che si fa portatore dell’idea stessa della Repubblica.

In questo la democrazia ha notoriamente un limite, nella capacità di rappresentarsi con efficacia. Questo quarto potere, attribuito a prestigiosi soggetti, dopo una condivisione tra le diverse forze politiche, è una delle espressioni migliori della democrazia stessa, che può scegliere anche chi la rappresenti simbolicamente ed idealmente. Va quindi difeso, e valorizzato ove possibile.

 

2.    UNIONE EUROPEA

 

a) Premessa

La dimensione europea è oggi indispensabile per l’agire politico ed economico del nostro Paese nel panorama mondiale, in mancanza di organizzazioni e strumenti che siano in grado di far fronte alle difficoltà globali. Solo una vera unione europea può continuare a garantire la pace e a far prevalere la cooperazione alla competizione in un continente dal quale sono partite ben due guerre mondiali e contemporaneamente essere un agente attivo di pacificazione dei conflitti che si sviluppano nel mondo. Solo una vera res publica europea può essere in grado di correggere le ingiustizie sociali e le contraddizioni di cui è responsabile la globalizzazione, ed applicare politiche finanziarie e fiscali incisive.

Anche la recente, grave, crisi sanitaria ha dimostrato che le risposte nazionali sono sempre più inadeguate. 

Occorre, quindi, distinguere tra processo formativo dell’UE, che deve andare avanti in modo deciso, con attenzione ai diritti sociali dei singoli, e conduzione politica degli ultimi anni.

Riteniamo che l'Italia e gli altri Paesi dell'area geografica europea, se vogliono perseguire finalità di cooperazione, pace e solidarietà al proprio interno nella dialettica globale, devono organizzare strategie di contrasto sia alle diseguaglianze e alle crisi sociali e ambientali sia allo strapotere della finanza e degli intenti predatori di soggetti globali. Pertanto riteniamo che l'Unione Europea debba riformarsi in due direzioni entrambe indispensabili: assumere con coerenza una chiara rappresentatività delle proprie istituzioni legislative e di governo rispetto al popolo europeo e superare il misero obiettivo di garantire la stabilità monetaria e la libera circolazione delle imprese, delle ricchezze e delle persone, per assumere stabilmente ed in coerenza con i principi fondamentali della Carta di Nizza, obiettivi di tutela e garanzia dei diritti sociali ed economici, di rimozione delle disuguaglianze e di uguaglianza e solidarietà fra gli stati membri.

 

Quanto ai limiti della conduzione politica il giudizio dei Giuristi Democratici è severo.

Il dogma della libera concorrenza, assieme alla detta priorità della stabilità della moneta e ai vincoli di bilancio, travasati in alcuni trattati istitutivi, hanno prodotto disuguaglianze dentro l'area UE. Gli stati potrebbero evitare aggregazioni e ristrutturazioni che approfondirebbero, sfruttando dissesti dovuti alla crisi, i divari fra loro; e potrebbero arginare il crollo dell'occupazione che, oltre ad essere un costo per il welfare statale, riduce i salari e i diritti dei lavoratori.

Le importanti deroghe di questi ultimi anni dimostrano che le priorità dell'UE possono divenire un ostacolo nelle fasi di crisi, ovvero, per essere più severi e sinceri, creano profonde diseguaglianze fra gli stati e favoriscono solo politiche economiche e monetarie procicliche.

Una nuova fase potrebbe aprirsi però, a seguito della nuova crisi. La sospensione nell'UE del divieto degli aiuti di stato alle imprese nazionali avvenuta con due decisioni della Commissione (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CEL) e, come più noto, la sospensione dei vincoli di bilancio del Fiscal compact vanno accolte con favore.  Quindi la possibilità degli stati di investire in deficit, oltre i parametri, diventare azionisti, acquistare imprese, esercitare la golden power in settori di interesse nazionale (di cui per i soli settori strategici già nel DL 21/2012): sono misure anticrisi che, se divenissero permanenti, segnerebbero una svolta essenziale nell'integrazione dell'UE. Assieme alle ipotesi di aiuti a fondo perduto (senza aumento del debito nazionale) e al QE della Bce (e auspicabilmente a cospicue monetizzazioni dei debiti dei paesi più esposti) renderebbero l'integrazione sostenibile e meno iniqua.

La proposta, in sostanza, è quella di dare vita a un grande progetto, un new deal a livello continentale, di cui la stessa Unione deve essere direttamente responsabile in modo unitario.

I giuristi democratici ritengono che questa possa e debba diventare l’occasione per un passo avanti deciso in senso democratico e sociale nella costruzione del processo unitario.

Si costruisca la Res Publica Europea, un soggetto pubblico garante dei diritti sociali e politici di tutti i cittadini, una  Repubblica responsabile della sanità e della scuola in tutta l’Unione.

Questo percorso ha un senso, una coerenza e forse anche una storica inevitabilità.

 

b) Cittadinanza sociale europea

Occorre poi lavorare per una cittadinanza sociale europea.

Uno status dei diritti che l’Unione garantisce a donne ed uomini. Capace in primo luogo di abbattere in ogni campo ogni discriminazione ed uniformare i diversi livelli di servizi sociali tra i paesi dell’Unione e garantirne la piena agibilità ed esigibilità. Noi puntiamo al riconoscimento ai singoli cittadini europei di un corpo di diritti sociali, che non passi attraverso la mediazione degli Stati; e perciò pretendiamo che la stessa Unione sia diretta responsabile dei diritti fondamentali (reddito, lavoro, salute, casa etc.).

Non è sufficiente che l’Europa consenta al corpo intermedio 'Italia' di fare più debito: il bilancio comunitario deve accrescere la propria entità, oltre alle proprie competenze, anche per poter sostenere i servizi sociali europei, garantendo a tutti i cittadini europei livelli uniformi.

 

c) Democrazia parlamentare piena

 Per garantire l’universalità dei diritti sociali è indispensabile che l’Unione economica e monetaria sia dotata di un vero e proprio governo politico ed economico e di un bilancio idoneo fondato su una capacità fiscale autonoma. Occorre allora ripensare e democratizzare l’attuale struttura istituzionale europea, costruendo un sistema realmente rappresentativo, che le attuali regole non garantiscono, mettendo il Parlamento in grado di esercitare il potere legislativo e un reale controllo politico sugli altri organi europei. È quindi necessario redigere con gli altri europei democratici una proposta di riforma istituzionale dell’Unione, con l’obiettivo di trasformare la stessa in una democrazia parlamentare piena.

La stessa Unione Europea dovrebbe avviare una profonda riflessione costituzionale, e verificare se non sia il caso di introdurre la figura presidenziale parlamentare di Garanzia. In particolare si potrebbe ipotizzare una doppia presidenza di genere, ossia una Presidente donna, ed un Presidente uomo, con identici poteri e compiti. Una doppia presidenza opportuna per ragioni di dimensione territoriale e di decentramento, almeno simbolico, e di avvicinamento ai territori del sud e del nord dell’Unione.

I due presidenti dovrebbero essere eletti dal Parlamento europeo, a maggioranza qualificata (ad esempio 3/5), in modo da svolgere funzione di garanzie delle minoranze, assumendo un ruolo simile a quello ora svolto dal Presidente della Repubblica in Italia o in Germania, dai monarchi parlamentari europei, e con qualche elemento di potere mutuato dal Presidente della Repubblica francese (ad esempio la ratifica dei trattati internazionali e la nomina di alti funzionari, a loro volta con ruoli di garanzia).

In questo quadro di democratizzazione dell’Unione è necessario promuovere e definire anche una riforma elettorale che preveda liste per le elezioni europee non più su base nazionale, con candidature di carattere europeo.

In tal senso viene vista con favore riforma la riforma in corso dell’Atto elettorale europeo del 1976 (che ha visto il via libera della commissione per gli Affari costituzionali -AFCO).

Dopo il via libera della plenaria di Strasburgo dovrà essere adottata all’unanimità dal Consiglio dell’UE e poi ottenere l’approvazione di tutti gli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”.

In base a tale importante riforma ogni elettore avrà a disposizione due voti: uno servirà per eleggere i deputati nelle circoscrizioni nazionali, mentre l’altro permetterà di scegliere i 28 nuovi eurodeputati aggiuntivi della circoscrizione UE.

Avranno diritto a presentare liste di candidati a livello UE “entità elettorali europee”ossia coalizioni di partiti politici di diversi paesi, e partiti politici europei (probabilmente anche gruppi parlamento europeo).

La soglia elettorale obbligatoria minima del 3,5 per cento per le grandi circoscrizioni (con almeno 60 seggi)

Nella scheda ci sarà anche Spitzen kandidaten, ossia il nome che il partito europeo candida alla carica di presidente della Commissione Europea.

In tal modo vi sarà un rafforzamento dei partiti politici europei, e le campagne transnazionali creeranno un vero dibattito paneuropeo.

 

d) Riduzione del potere dei governi nell’Unione

Ridisegnare l’Unione Europea, trasformarla in una res publica, avvicinarsi ad una democrazia parlamentare piena, significa ripensare, da un lato il ruolo dei governi nazionali, all’interno dell’Unione, e nel contempo entrare nell’ordine di idee che una riforma compiuta non potrà che riguardare anche i territori di cui è costituita l’Unione.

Ed insomma, anche il dialogo tra centro (Unione) e diramazioni locali (Stati e Regioni) non può che essere ripensato in una riforma organica. Se la politica centrale avrà maggiore spazio, in un disegno che avvicini l’Europa ad un soggetto unitario democratico, nel contempo vanno ripensate le forme dell’autonomia dei territori. Occorre quindi ripensare i meccanismi di co-decisione e di adattamento delle decisioni collettive europee.

In tal senso si può aprire un dibattito su un possibile parlamento federale costituito dai rappresentanti delle regioni d’Europa.

Tali processi di approfondimento dell'unione fra gli stati europei in senso federale, dovranno necessariamente compiersi a fianco, e condizionatamente, al progresso del disegno sociale ed economico; e nel complesso è una direzione riformatrice che consideriamo indispensabile per rendere legittima e sostenibile, dal punto di vista interno e costituzionale, la cessione di sovranità nazionale in favore di un soggetto istituzionale che rispetti i caratteri fondamentali del paradigma del costituzionalismo democratico scelto dall'Italia.

 

e) Tutela dei diritti

 Occorre riconoscere che l’Unione Europea, mentre è stata insoddisfacente sul piano delle politiche economiche si è mossa in modo più convincente sul piano della tutela dei diritti: il corpus normativo del diritto eurounitario, accanto a norme dei trattati che andrebbero urgentemente modificate, ha sviluppato un buon impianto di tutela dei diritti.

Con l'entrata in vigore del "Trattato di Lisbona", la Carta di Nizza ha acquisito il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati.

La Carta, quale fonte primaria di protezione dei diritti fondamentali nell’UE, diviene parametro di legittimità degli atti dell’Unione. Questa carta si occupa anche di diritti sociali, talora con intensità maggiore anche della Costituzione italiana, anche se questa resta un presidio a difesa dei diritti fondamentali della persona, come il diritto al lavoro e alla salute, specie laddove subordina esplicitamente a questi, alla dignità della persona e all'utilità sociale le libertà economiche e la proprietà privata e segna compiti di intervento pubblico nell'economia per il raggiungimento dell'eguaglianza sostanziale.

Appare ad esempio più netto e definito il riconoscimento del diritto di sciopero nella norma europea (Art. 28), o la tutela del lavoratore licenziato (art.30/33).

I diritti fondamentali previsti nella carta di Nizza concorrono con quelli costituzionali (Corte costituzionale  n. 269 del 2017 che afferma che si possa “ disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione” ) .

 

Anche su altri versanti il diritto eurounitario ha rappresentato un avanzamento sociale. La Cassazione, con sentenza del 23 dicembre 2014, n. 27363 ha condannato l'"abuso" del precariato nella pubblica amministrazione: con richiamo alla sentenza "Mascolo" 2014 della Corte di Giustizia Europea sulla scuola, ha dichiarato che un precariato pubblico di oltre trentasei mesi costituirebbe "abuso" di contratti a termine per contrasto con la direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999.

La Corte di Giustizia Europea ha sancito che la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale. In particolare le sentenze   Arblade e a., 1999, cause riunite C-369/96 e C-376/96 e poi  Causa C-438/05 International Transport Workers’ Federation, laddove è stato affermato che “Si deve aggiungere che, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c) e j), CE, l’azione della Comunità comporta non soltanto «un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali», ma anche «una politica nel settore sociale». L’art. 2 CE afferma infatti che la Comunità ha il compito, in particolare, di promuovere «uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche» e «un elevato livello di occupazione e di protezione sociale».  Poiché dunque la Comunità non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale, tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 136, primo comma, CE, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata e il dialogo sociale”.

La Commissione europea ha presentato il 4 marzo 2021 una proposta sulla trasparenza salariale per garantire che donne e uomini nell’UE ricevano la stessa retribuzione per lo stesso lavoro. La proposta stabilisce misure di trasparenza retributiva, come informazioni sulla retribuzione per chi cerca lavoro, il diritto di conoscere i livelli retributivi per i lavoratori che svolgono lo stesso lavoro, nonché obblighi di segnalazione del divario retributivo di genere per le grandi aziende .

Altro settore in cui il diritto comunitario è più avanzato di quello nazionale è il diritto ambientale.

Poi il diritto antitrust, e quello di protezione del consumatore.

L’Unione Europea manifesta in tal modo la sua utilità, come area più ampia di applicazione di tali normative. L’azienda pur di poter accedere ad un’area territoriale ricca come l’UE, è disposta ad accettarne le regole, in termini ambientali, di abuso di posizione dominante, di sicurezza, di protezione del consumatore, di rispetto della privacy etc.

L’UE deve quindi proseguire su tale strada per affrontare in modo unitario una ulteriore serie di misure. È infatti urgente una regolazione unitaria dei movimenti di capitale della tassazione, volta ad eliminare i paradisi fiscali (etc.).

 

3.    COSTITUZIONE DELLA TERRA

 

Nel contempo occorre sostenere la brillante intuizione politica, ed il progetto delineato da Luigi Ferrajoli, nel suo volume Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio.

Le politiche nazionali sono vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali, o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali, interessati soltanto al consenso elettorale, di affrontare le sfide e i problemi globali con politiche alla loro altezza. La democrazia odierna conosce insomma soltanto spazi ristretti e tempi brevi. Non ricorda e anzi rimuove il passato e non si fa carico del futuro, ossia di ciò che accadrà oltre i tempi delle scadenze elettorali e al di là dei confini nazionali. È affetta da localismo e da presentismo.

Occorre quindi un costituzionalismo sovranazionale, in grado di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri selvaggi dei mercati e il carattere ancora prevalentemente locale della politica e del diritto.

Una Costituzione della Terra è diversa da tutte le altre carte costituzionali, perché deve rispondere a problemi globali sconosciuti in altre epoche, e tutelare nuovi diritti e nuovi beni vitali contro nuove aggressioni, in passato impensabili. Non è un'utopia. È l'unica strada per salvare il pianeta, per affrontare la crescita delle disuguaglianze e la morte di milioni di persone nel mondo per fame e mancanza di farmaci, per occuparsi del dramma delle migrazioni forzate, per difendersi dai poteri selvaggi che minacciano la sicurezza di intere popolazioni con i loro armamenti nucleari[4].

L’ipotesi proposta da Ferrajoli è quella di una riformulazione della classica tipologia e separazione dei poteri formulata da Montesquieu: la distinzione, ancora una volta, tra istituzioni di governo e istituzioni di garanzia. Le istituzioni di governo sono quelle investite di funzioni politiche, di scelta e di innovazione discrezionale in ordine a quella che Ferrajoli definisce la «sfera del decidibile»: non solo, quindi, le funzioni propriamente governative di indirizzo politico e di scelta amministrativa, ma anche le funzioni legislative. Le istituzioni di garanzia sono invece quelle investite delle funzioni vincolate all’applicazione della legge, e in particolare del principio della pace e dei diritti fondamentali, a garanzia di quella che Ferrajoli definisce  la «sfera dell’indecidibile»: le funzioni giudiziarie o di garanzia secondaria, ma ancor prima le funzioni deputate alla garanzia in via primaria dei diritti sociali, come le istituzioni scolastiche, quelle sanitarie, quelle assistenziali, quelle previdenziali e simili.

Sono queste funzioni e queste istituzioni di garanzia, ben più che le funzioni e le istituzioni di governo, che a livello globale è necessario sviluppare in attuazione del paradigma costituzionale. Ciò che si richiede, ai fini della garanzia della pace, dell’ambiente e dei diritti umani, è non già l’istituzione di un’improbabile e neppure auspicabile riproduzione della forma dello Stato a livello sovranazionale —una sorta di superstato mondiale, sia pure basato sulla democratizzazione politica dell’Onu— ma piuttosto l’introduzione di tecniche, di funzioni e di istituzioni adeguate di garanzia.

La costituzione della Terra oggetto della proposta si caratterizzerà – come propone lo stesso  Ferrajoli-  per un allargamento del paradigma costituzionale oltre lo Stato, in tre direzioni:

  1. a) in direzione di un costituzionalismo sovranazionale o di diritto internazionale, in aggiunta all’odierno costituzionalismo statale, tramite la previsione di funzioni e di istituzioni sovra-statali di garanzia all’altezza dei poteri economici e politici globali;
  2. b) in direzione di un costituzionalismo di diritto privato, in aggiunta all’odierno costituzionalismo di diritto pubblico, tramite l’introduzione di un sistema adeguato di regole e di garanzie nei confronti degli attuali poteri selvaggi dei mercati;
  3. c) in direzione di un costituzionalismo dei beni fondamentali, in aggiunta a quello dei diritti fondamentali, tramite la previsione di garanzie dirette a conservare e ad assicurare l’accesso di tutti al godimento di beni vitali come i beni comuni, ma anche i farmaci salva-vita e l’alimentazione di base.

 

4.    AUTONOMIA DIFFERENZIATA

a) Premessa

Negli anni novanta del secolo scorso, l’Italia attraversava una grande ubriacatura federalista. A dispetto dei tanti che allertavano sugli enormi problemi, anche pratici, che comportava ampliare la potestà legislativa delle regioni, le forze politiche maggioritarie sembravano attraversate da una vera febbre devolutiva.

La modifica del Titolo V della Costituzione è quindi approvata sul finire della legislatura per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra. Il testo fu proposto il 19 settembre 2000, e poi votato il 21 settembre nel testo oggi vigente. 

L'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, nel testo riformulato, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. "regionalismo differenziato" o "regionalismo asimmetrico", in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre), ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma).

L'ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono: tutte le materie che l'art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente; un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato: a. organizzazione della giustizia di pace; b. norme generali sull'istruzione; c. tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

L'attribuzione di tali forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita con legge rinforzata: in altri termini, in primo luogo vi deve essere un'intesa fra lo Stato e la Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi di cui all'art. 119 Cost. in tema di autonomia finanziaria; successivamente il testo deve essere approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

La norma così introdotta non ha avuto attuazione immediata. Con la legge di stabilità per il 2014, il Parlamento ha approvato alcune disposizioni di attuazione dell'art.116, terzo comma, Cost., relative alla fase iniziale del procedimento.

Dopo i referendum in Lombardia e Veneto del 2017 e la richiesta dell'Emilia Romagna, queste regioni hanno firmato, il 28 febbraio del 2018, col governo Gentiloni ormai da tempo dimissionario una pre-intesa, relativa a cinque materie specifiche (tutela di ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali),

 Si prevede per la prima volta per quelle regioni il principio della compartecipazione ai tributi erariali, cioè per la prima volta si prevede che la spesa prestabilita ad esempio per sanità ed istruzione dipenda dalle tasse riscosse in più in una specifica regione. Fino ad oggi, invece, la ripartizione dei fondi fra le regioni viene effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (spesa storica); viceversa le regioni che chiedono il trattamento differenziato vogliono sganciarsi da questo criterio generale ed affermare il principio per cui le somme loro erogate devono dipendere da quante tasse pagano i cittadini residenti sul loro territorio.

Sarebbe un passaggio epocale, anche dal punto di vista culturale, ed un enorme successo per il movimento federalista. Infatti si stabilirebbe il principio in virtù del quale il livello dei servizi nella regione non dipende dai ‘bisogni’ ma dal ‘reddito’ regionale . Il giudizio dei Giuristi Democratici, su questa innovazione, è ovviamente negativo.

 

b) Profili problematici

Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano: così sintetizza Mario Dogliani in uno scritto del febbraio 2019, segnalando che il regionalismo differenziato non è una questione tecnico-amministrativa, ma un processo di capitale significato politico che potrebbe mettere in discussione il principio di eguaglianza tra gli italiani nella fruizione dei servizi pubblici nazionali e nelle condizioni di vita dei cittadini abitanti le diverse regioni, sino alla messa in pericolo dello stesso principio di unità nazionale.

Secondo i commentatori il progetto di autonomia differenziata rischia di violare implicitamente i principi costituzionali di perseguimento dell’eguaglianza sociale (artt.3, 32) e di integrità della Repubblica (artt.5, 117-118-119), di parità e progressività della tassazione (art.53) e di determinazione di principi della funzione legislativa (art.76).

La disposizione dell'art. 116 comma 3° della Costituzione si intreccia inevitabilmente con il recentissimo contesto storico in cui – a partire dal 2017, anno dei referendum consultivi tenuti in Veneto e in Lombardia, sino ad oggi – si è assistito ad una estensione smisurata dell'istanza 'autonomistica' di alcune Regioni, in specie del Nord Italia.

Da un iniziale “richiesta” di trasferimento alle regioni di 5 materie tra quelle indicate dall'art. 117, si è passati (Veneto e Lombardia in particolare) alla pretesa di deliberare sulla totalità delle materie: non è irragionevole pensare che l'ampliamento sia dipeso da motivi non di natura costituzionale ma di natura politica, secondo un disegno trasversale che accomuna varie forze.

Testo e contesto, dunque: testo che però “va maneggiato con cura” (cit.), perché l'art. 116 3° comma come modificato nel 2001 consente applicazioni in conflitto con altre norme dell'ordinamento costituzionale e con i principi che le dettano, primo fra tutti l'unità e l'indivisibilità della Repubblica.

Cosa significa “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni”?

Significa innanzitutto che le competenze legislative regionali richieste non possono essere dannose o pregiudizievoli allo Stato o ad altre Regioni, pena il dissolvimento della unitarietà del Paese.

Significa che nessuna “ulteriore autonomia” può prescindere dal rispetto dei diritti fondamentali: uguaglianza tra i cittadini, in primis, in attuazione dell'art. 3 della Costituzione, che è compito dello Stato tutelare e far osservare; ma soprattutto uguaglianza e solidarietà redistributiva fondano l'imposizione tributaria disegnata dall'art. 53 cost. Una lettura estremistica dell'autonomia fiscale pretende la redistribuzione del prelievo fiscale entro lo stesso territorio, dimenticando che gli individui sono tassati in base alla loro capacità contributiva, non in base alla residenza; e se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a costituzione formalmente invariata.

Ma non è solo un problema fiscale e di risorse, ma anche di competenze e regole: si pensi alla salute, all'istruzione, al governo del territorio: materie che hanno evidente attinenza con i principi costituzionali fondamentali sui quali si fonda l'ordinamento dello Stato nella sua indivisibilità.

Occorre quindi una particolare attenzione alla concreta attuazione dell'art. 116 3° comma: la richiesta deve fondarsi su peculiarità specifiche - non occasionali o di “convenienza” - della regione e può sostenersi se circoscritta e giustificata. E, ancora, può riguardare materie il cui trasferimento alla regione richiedente sia davvero realizzabile.

Come può ritenersi giustificata una competenza legislativa regionale in materie come l'istruzione se gli articoli 33 e 34, nell'ottica del principio della libertà di insegnamento e dell'uguaglianza tra i cittadini, attribuiscono allo Stato il potere di dettare le norme generali in ragione dell'unitarietà culturale del sistema di istruzione e di ricerca?

Come può ritenersi conforme a Costituzione l'attribuzione esclusiva alle regioni richiedenti di materie che per loro natura richiamano la potestà legislativa statale, come la tutela e sicurezza sul lavoro, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione?

Nella dottrina costituzionalistica si è ipotizzato un quadro normativo insostenibile: se Veneto e Lombardia ottenessero l'autonomia differenziata a cui anelano, si produrrebbe l'abrogazione dell'art. 117 comma 3° per due sole Regioni.

L'ipotesi dimostra quanto sia labile il confine tra attuazione costituzionale e incostituzionale dell'art. 116 3° comma; sfruttando le potenzialità dell'art. 116  si potrebbe scardinare l’intero titolo V prevedendo, come nelle intese con Lombardia e Veneto, la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, III comma) in competenze esclusive di solo alcune regioni, sottraendo allo stato anche le tre materie sue esclusive previste dal II comma dell'art. 117.

Del resto, l'emergenza sanitaria è stata vissuta da alcune regioni come un'occasione per promuovere la differenziazione e la gestione autonoma nei propri territori del diritto fondamentale appartenente all'intera collettività nazionale; ma l'emergenza sanitaria ha anche scoperto il fianco dei fautori dell'autonomia differenziata, protagonisti negativi della evidente incapacità di gestire la sanità pubblica e di tutelare il diritto alla salute degli stessi concittadini regionali: se un insegnamento proviene dalla lunga gestione della pandemia è la necessità di gestire il servizio sanitario nazionale secondo criteri coerenti ed efficaci decisi a livello nazionale secondo un percorso democratico trasparente e svincolati sia dalle contingenti maggioranze alla guida delle varie giunte regionali, sia dalle diverse capacità di risposta alla crisi da parte dei servizi locali.

Dopo le “intese” del 2018-2019 tra governo e regioni, la procedura sembra essersi arenata nell’elaborazione di una proposta di una legge-quadro – per opera del ministero dei rapporti con le regioni -  la cui bozza  presenta significative lacune sulla lettura dell'art. 116 3° comma (nulla dice su adattamento a specificità locali ed esclusione di alcune materie dove deve permanere una necessaria uniformità), ma soprattutto smaschera la sua debolezza di “tenuta”: una legge cd rinforzata prevista nel procedimento dell'art. 116 3° comma, frutto dell'intesa con una regione, potrebbe modificarla, derogarla, abrogare la legge quadro e a nulla sarebbe valsa la sua eventuale approvazione. Il parlamento è così ostaggio delle dinamiche politiche fra stato e regioni e la costituzione rischia di essere stravolta in suoi aspetti fondamentali; spezzare l'unità del paese sul tema fiscale e aprire a radicali differenziazioni di competenze su istruzione e sanità, per tacer d'altro, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale ad opera di una legge ordinaria vincolata ad un accordo politico con delle regioni. Anche per tali ragioni la proposta non è stata presentata in Parlamento entro la scadenza della legislatura  nel settembre 2022.

Ciò che appare evidente in questo contesto è che, ad oggi, nessun serio coinvolgimento è stato avviato con i soggetti direttamente interessati alla vicenda costituzionale del regionalismo differenziato: l'opinione pubblica e il Parlamento.

Senza l'avvio di questo confronto, ogni proposta di attuazione dell'art. 116 3° comma rischia di restare appannaggio di limitati centri istituzionali che certo non rappresentano la comunità nella sua espressione nazionale.

L’autonomia regionale differenziata verrebbe attuata a scapito anche delle autonomie locali e degli enti di prossimità, le istituzioni più vicine alla cittadinanza, in quanto le esproprierebbe di alcuni poteri a favore di nuovi “carrozzoni” centralizzati e inefficienti, questa volta però a livello regionale. In particolare, sarebbe soppressa l'universalità dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre secondo il reddito dei loro residenti, per poter usufruire dei quali, nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca.

I c.d. LEP, ossia i livelli essenziali delle prestazioni non potrebbero né prevenire né impedire la frammentazione del paese derivante dall’autonomia differenziata. Attengono infatti al livello del servizio, e non all’organizzazione dei poteri pubblici che lo forniscono. La prova si trae dai LEA, equivalente sanitario dei LEP, che non hanno evitato il sostanziale dissolvimento del servizio sanitario nazionale.

5.    BENI COMUNI

I beni comuni possono essere qualificati – utilizzando una formula sintetica ed estremamente efficace di James Boyle -, come l’ “opposto della proprietà”. Questa definizione negativa di un’idea nuova, infatti, consente di andare oltre il concetto di “funzione sociale” della proprietà privata, così come si legge all’art. 42 della Costituzione. Il “retroterra non proprietario” sotteso ai beni comuni, infatti, è volto a garantire quelle situazioni legate al soddisfacimento delle esigenze e dei bisogni primari della persona costituzionalizzata e a rimettere in discussione il concetto stesso di cittadinanza. I beni comuni intesi come “opposto della proprietà” aprono, quindi, alla questione – tutta politica - di comprendere in che modo questa nuova pretesa di soddisfazione dei bisogni e di accesso ai beni primari che la persona costituzionalizzata porta con sé, possa trovare un riconoscimento positivo nella legislazione ordinaria ovvero a livello primario.

Procedendo a una breve ricognizione dei significati normativi assunti dal lemma “beni comuni”, possiamo partire dagli esiti della “Commissione Rodotà” istituita nel 2007 presso il Ministero della Giustizia, che ha proposto una definizione incentrata sulla relazione funzionale tra determinati beni, i diritti fondamentali e il libero sviluppo della persona. Secondo l’elenco non tassativo stilato dalla Commissione, sono da considerarsi beni comuni: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

La disciplina dei beni comuni, inoltre, avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica armonizzazione normativa con quella già vigente e riguardante gli usi civici; si prevedeva una tutela inibitoria diffusa e una tutela restitutoria in capo allo Stato. Pensata come una riforma che riguardava lo statuto civilistico della proprietà, l’inversione della individuazione della categoria tassonomica dal regime ad una ontologia naturalistica e funzionalistica, lasciava scoperto il tema del soggetto giuridico a cui avrebbe dovuto esserne affidata la gestione e l’amministrazione. Un’altra linea pratico-ermeneutica assai feconda ha interpretato la sussidiarietà orizzontale come chiave di volta per accedere a nuove forme di gestione dei c. d. “beni comuni urbani”, assenti dal dibattito teorico normativo della Commissione Rodotà, sebbene molte esperienze di gestione collettiva di spazi urbani orbitassero nel suo spazio ideale. Secondo la proposta di “Labsus – laboratorio per la sussidiarietà”, trasfusa nel regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni della città di Bologna, ripresa poi da molte altre città, i beni comuni urbani sono quei “beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l’Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva”. Tra le critiche a questa impostazione, c’è quella che ha segnalato la prassi di un abuso della sussidiarietà, che ha deresponsabilizzato le amministrazioni locali e ha prodotto una impostazione sostanzialmente competitiva tra le varie associazioni della cittadinanza attiva poste in concorrenza tra loro per la gestione di pezzi tutto sommato poco rilevanti del territorio.

 

Partendo da queste critiche, sui beni comuni urbani si sono sviluppate altre proposte, tra cui quella del nuovo istituto dell’uso civico e collettivo urbano, sperimentato a Napoli e seguito da altre amministrazioni locali, ma soprattutto dai movimenti che rivendicano la gestione diffusa dei beni comuni. L’istituto non prevede l’assegnazione in uso esclusivo ad un soggetto individuato da un patto di condivisione (come nel modello sopra citato), ma si compone, da una parte, dell’attribuzione del “diritto di uso comune” di spazi e aree urbane in proprietà pubblica o privata, e dall’altro si qualificano, sulla scia degli usi civici tradizionali, degli specifici organi assembleari come organi di gestione di tali spazi.

La proposta dei Giuristi democratici consiste nel recuperare la sintesi di questi avanzamenti politici in materia, unendo la tutela dei beni comuni come funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della personalità dei cittadini, alla partecipazione nella loro gestione e amministrazione, quale elemento qualificante. In questa ottica, quindi, sarebbe auspicabile un ripensamento ed una riscrittura dell’articolo 43 della Costituzione: questo articolo, infatti, è stato poco considerato, sia a livello teorico che politico, nonostante la grande importanza che ne avevano dato i Costituenti, in quanto avrebbe dovuto svolgere una duplice funzione, garantista ma allo stesso tempo interventista, per quanto concerne l’azione dello Stato nell’economia. Del resto, l’articolo 43 esprime una valutazione di fondo molto importante e cioè che i monopoli privati, o comunque la gestione privata delle fonti di energia e dei servizi pubblici essenziali, ostacolerebbero la realizzazione di quei “fini di utilità generale” che devono essere letti in combinato disposto con l’articolo 3, secondo comma, quindi quale estrinsecazione del principio di uguaglianza sostanziale.

Quello che va approfondito è un ponte di congiunzione tra beni comuni urbani e beni comuni naturali, perché facendo leva sui diritti fondamentali (intesi in senso ampio) e sulla gestione collettiva, si apre una divaricazione tra risorse molto diverse, che non solo non possono essere gestite nello stesso modo, ma che rispondono alla realizzazione di categorie di diritti molto diversificate. In virtù dell’indissolubile legame che connette beni comuni e dignità della persona, il loro accesso non può essere escluso in base a criteri di disponibilità economica, ma dovranno semmai caso saranno alcuni aspetti relativi alla loro gestione a dover essere segnati in chiave partecipativa, attraverso procedure istituzionali che coinvolgano la platea dei loro fruitori ovvero loro rappresentanti speciali. Esistono poi altri beni in grado di garantire il soddisfacimento di diritti che arricchiscono il catalogo di quelli fondamentali, in particolare in direzione di quelli sociali e civili. Normalmente appartengono alla categoria dei beni pubblici e privati, e in questi casi assolvono tali funzioni secondo logiche di servizio oppure di domanda e offerta; in alcuni casi però anche questi beni possono essere ripensati come beni comuni.

Ciò accade quando vengono percepiti da una collettività ampia come propri, ma non in un senso proprietario né di appartenenza ideale o territoriale, bensì comunitario: ciò si traduce nella concreta disponibilità del bene per un utilizzo e una gestione diretta secondo regole stabilite, attraverso procedure determinate dagli stessi utilizzatori. Il valore di questi beni comuni non risiede soltanto nei diritti che sono in grado di soddisfare, ma nel sistema relazionale che permette prima l’individuazione, a volte una vera e propria scoperta, di bisogni e desideri diversi, e poi l’attivazione mutualistica e cooperativa per affrontarli.

In questo caso i beni possono essere resi comuni quando viene valorizzato questo processo vitale per la democrazia, per cui si forma una comunità che, più che di un bene in sé, si prende cura in forme reciproche e solidali dei bisogni che essa è messa in condizione di esprimere.

Al riguardo, ci sembra opportuno precisare come la nostra idea di beni comuni non sia soltanto da considerarsi come “l’opposto della proprietà”, ma anche come “l’opposto della sovranità”: infatti, se si tratta di cambiare paradigma giuridico ed economico, se si tratta di superare l’individualismo proprietario e le incrostazioni della proprietà codicistica, allora si tratta anche di far emergere i legami sociali che sono sottesi ai beni primari a cui ogni singola persona, a prescindere dal fatto che sia o meno cittadino/a, deve necessariamente accedere. In questa ottica, “comune” non può essere sinonimo di “comunitario”, almeno non nella declinazione di comunità organica e chiusa, ma aperta: se non si assume consapevolezza anche di questo ulteriore mutamento di paradigma, il rischio è quello di utilizzare una formula nuova per reintrodurre nell’ordinamento “chiusure” vecchie, connesse all’appartenenza originaria di un determinato gruppo sociale rispetto a determinati beni.

Dal nostro punto di vista, quindi, la logica anti-sovrana insita nei beni comuni, produce una prassi rivendicativa e conflittuale nei confronti delle pretese speculative e di sfruttamento delle risorse naturali da parte del neo-liberismo, il cui esito ultimo - in termini politici - è l’approdo ad una “condizione istituzionale di indifferenza rispetto al soggetto che risulta essere il titolare formale” del bene fondamentale in questione, per utilizzare le parole di Rodotà. Se i beni comuni, in sintesi, appartengono a tutti e a nessuno, se tutti possono accedervi e nessuno può vantarvi diritti esclusivi, allora i valori che essi catalizzano non sono soltanto oppositivi all’individualismo proprietario, ma valorizzano i legami sociali in una logica egualitaria e solidaristica, necessariamente anti-sovrana.

 

6.    STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA

L'esercizio della sovranità popolare è un principio sancito dal primo articolo della Costituzione il quale afferma solennemente che “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Una parte di tale sovranità si esercita anche attraverso gli strumenti di democrazia diretta. L’Associazione Giuristi Democratici ha sviluppato talune proposte per rafforzare tali istituti.

a) Referendum ammissibilità

L’art. 75 recita: È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

I casi in cui non è ammesso il referendum abrogativo sono dunque un numerus clausus.

Questa norma è integrata con altra norma di rango costituzionale, l’art. 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1:

“2. - Spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso.”

La tradizionale giurisprudenza della Corte ha esteso il novero dei controlli ed valorizzato la necessità della permanente funzionalità di organi costituzionalmente necessari: “ciò che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una valutazione liminare e inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se, nei singoli casi di specie, il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all'applicazione di un precetto costituzionale, consistente in una diretta e immediata vulnerazione delle situazioni soggettive o dell'assetto organizzativo risultanti a livello costituzionale[5]. Ed in tema di referendum elettorali: “Questa Corte può spingersi soltanto sino a valutare un dato di assoluta oggettività, quale la permanenza di una legislazione elettorale applicabile, a garanzia della stessa sovranità popolare, che esige il rinnovo periodico degli organi rappresentativi[6].

La Corte ha quindi valutato di dover estendere il proprio sindacato alla normativa di risulta, non tanto per verificare la costituzionalità della stessa, quanto per accertare se l’abrogazione referendaria può condurre alla paralisi della funzionalità di un organismo necessario costituzionalmente.

In questi casi la Corte ha dichiarato inammissibili i referendum.

Vi è però da verificare se la soluzione adottata dalla Corte sia stata quella che ha maggiormente consentito il pieno dispiegarsi della previsione costituzionale dell’art. 75.

Concorrono infatti due interessi: da un lato il pieno dispiegarsi della sovranità popolare ‘diretta’ ed il diritto costituzionalmente garantito alla sottoposizione di una norma al referendum popolare. Dall’altro la necessità di garantire che l’abrogazione della norma non generi una cesura nella funzionalità di un organo.

Nella scelta adottata dalla Corte, però, piuttosto che una composizione tra i due interessi si è generato un sacrificio totale del primo, in tutti gli innumerevoli casi in cui il referendum poteva incidere su un precetto costituzionale nel senso sopra esposto.

Con il risultato di snaturare completamente l’istituto referendario. È infatti possibile, ma non certo, che attraverso un intervento manipolativo si possa garantire la perdurante funzionalità dell’organo. Inoltre, di fatto, è lasciato alla più completa causalità la possibilità di sottoporre una norma al referendum abrogativo.

b) Referendum- Quorum

 Occorre una riforma dell’istituto referendario.  Allo stato attuale, perché il referendum sia valido, devono votare più della metà degli aventi diritto. È quindi facile gioco per chi sostiene il NO di turno (a torto o a ragione) appellarsi all’astensione. In questo modo i NO si sommano all’astensione fisiologica (anziani, malati, disinteressati). L’astensione fisiologica, cresciuta negli ultimi anni, ormai è almeno del 20%. Quindi i NO consapevoli si sommano ai NO inconsapevoli e vincono sempre.

Ma c’è un’altra distorsione molto preoccupante, di cui nessuno si cura. In questo modo, infatti, l’esercizio del voto non è più garantito di fatto dalla segretezza, ma diventa palese, perché chi si limita soltanto a dichiarare che andrà a votare, implicitamente dichiara che voterà SI’.

E’ quindi possibile sapere perfettamente chi la pensa in un modo chi in un altro, dunque è possibile controllare il voto e, in taluni contesti, persino condizionarlo.

Si tratta di un esito molto grave, cui va posto subito rimedio: la proposta dei G.D. è quella di cambiare il sistema del quorum di validità: il referendum è valido e vincono i SI’, qualora rappresentino almeno il 40% degli aventi diritto al voto (e qualora siano più dei NO); a ciò si deve poi aggiungere l’opportunità di escludere dal computo del quorum dei referendum abrogativi gli italiani residenti all’estero.

 

c) Raccolta firme referendum e proposta di legge di iniziativa popolare.

Affinché gli strumenti di democrazia diretta possano essere realmente efficaci, è necessario che il loro impiego non sia monopolio di organizzazioni che dispongono di fondi consistenti e reti di amministratori autenticatori. La semplificazione e la digitalizzazione delle procedure di sottoscrizione e vidimazione dei quesiti referendari è indispensabile per rendere effettivo il diritto del cittadino all’accesso agli strumenti di democrazia diretta.

I GD hanno proposto che le sottoscrizioni per richiedere un referendum o per una iniziativa legislativa popolare, possano essere raccolte in modalità digitale. Tale proposta sembra essere stata attuata di recente. Nell’ottobre 2022 è stato emanato il decreto attuativo relativo al funzionamento della piattaforma di raccolta elettronica delle sottoscrizioni per i referendum e i progetti di legge di iniziativa popolare.

 

d) Italiani all’estero

L’esperienza maturata nel corso degli ultimi anni, ci ha convinti senza alcun dubbio della necessità e urgenza di operare una revisione sia del sistema normativo sia delle modalità operative con le quali riconoscere e fare esercitare il diritto di voto ai connazionali residenti all’estero.

Abbiamo potuto verificare che spesso il corpo elettorale chiamato ad esprimersi è composto da cittadini emigrati da decenni e che negli elenchi figurano persone già decedute. Si dovrebbe porre rimedio a troppi episodi che nel voto all'estero hanno contraddetto i principi essenziali di un'espressione di voto segreto e personale.

Troppi episodi verificatisi durante la campagna referendaria del 2016 per la modifica della Costituzione hanno confermato che il voto degli italiani all'estero non è stato espresso in modo segreto e anzi personaggi conosciuti dall'opinione pubblica hanno ritenuto di farsi fotografare durante il voto, con evidenti intenzioni di disprezzo dei principi costituzionali e delle leggi.

I seggi dovrebbero quindi essere di norma all'interno delle sedi consolari e degli Istituti di cultura italiana all'estero, oppure organizzati con tutte le necessarie garanzie in sedi pubbliche degli stati Esteri. Sarà compito dei consolati organizzare i seggi della circoscrizione Estero in modo tale da renderli fisicamente raggiungibili e accessibili nella giornata elettorale a tutti i cittadini iscritti nei propri elenchi elettorali.

Inoltre nel conteggio degli aventi diritto ai fini del quorum, si è evidenziata la scarsa affidabilità del numero degli aventi diritto al voto residenti all’estero, con conseguente artificioso e non corretto innalzamento del complessivo quorum di validità della consultazione.

Tra le proposte dei Giuristi Democratici vi potrebbe essere l'iscrizione volontaria del residente all'estero alla lista elettorale - iscrizione che dovrebbe valere per un certo numero di anni, salvo richiesta di rinnovo.

Agendo su questo "prerequisito" per poter esprimere il voto, si porrebbero molti meno problemi sulle modalità del voto, che, peraltro, ormai potrebbero essere anche telematiche.

Inoltre la richiesta di iscrizione alla lista elettorale testimonierebbe l'interesse a mantenere un rapporto con la "Patria", che in moltissimi casi è venuto meno tra chi si ritrova iscritto solo perchè decenni orsono si è iscritto all'Aire o solo perchè figlio o figlia di italiano all'estero che nemmeno ha mai messo piede in Italia.

 

7.    INDIPENDENZA ED AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA

a) Magistratura ordinaria

Nella Costituzione le garanzie di indipendenza sono formulate direttamente nel Titolo IV per i magistrati ordinari, mentre vengono riservate alla legge ordinaria per i magistrati delle giurisdizioni speciali.

L’indipendenza riguarda l’istituzione, l’organizzazione, l’ufficio, nonché i singoli componenti dell’ufficio giusdicente che non devono essere condizionati da qualsiasi altro potere dal punto di vista generale e istituzionale Sull’importanza della separazione dei poteri, non serve dilungarsi. Non è opportuno, in uno Stato democratico, che le promozioni ed i trasferimenti dei magistrati, siano decise dal Governo, che potrebbe premiare magistrati amici e punire quelli scomodi.

La Costituzione, all’art. 104, ha stabilito garanzie di autonomia, in virtù delle quali la magistratura governa se stessa. Un’indipendenza che tutte le forze politiche a parole rispettano, ma che nei fatti infastidisce molti.

In particolare, le critiche si appuntano sulle elezioni dei componenti magistrati del CSM (definiti “togati”). È noto a molti il fatto che negli anni i magistrati si sono affiliati, più o meno formalmente, ad associazioni, di stampo prevalentemente culturale, che però sono state un trampolino di lancio per le elezioni del CSM. Formalmente queste associazioni non sono riconosciute, nel senso che sulla scheda per le elezioni non compaiono simboli. È però sicuramente vero che, in molte circostanze, queste associazioni di magistrati hanno dato indicazioni di voto, ed hanno svolto la funzione di ‘partitini’ dei magistrati.

Tuttavia, quando si critica l’esercizio del potere democratico, non si deve dimenticare che il problema non è la scelta dei rappresentanti, ma il loro controllo, ed i limiti al potere che è loro attribuito. La soluzione è stringere il nodo delle regole. Le promozioni, ed i trasferimenti dei magistrati non devono avvenire arbitrariamente, ma in base a criteri predefiniti e stringenti. Occorre potenziare i controlli, rendere trasparenti le scelte, criticabili i giudizi, effettivi i controlli, anche giurisdizionali. In Italia spesso chi è sovra ordinato (ossia posto in una posizione di potere), si sente sottratto al rispetto delle regole. Ed invece, è proprio l’esercizio di un maggiore potere che impone ancora più fortemente la necessità del rispetto della regola.

I Giuristi Democratici hanno, poi, posto l’attenzione sulla necessità di potenziare le garanzie di indipendenza anche delle giurisdizioni speciali.  In particolare del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

Allo stato attuale, l’attività di governo, del Paese e del territorio, costantemente incontri sulla sua strada, spesso nelle vesti di ostacolo, la giustizia amministrativa e contabile.

Si pensi ai ricorsi in materia ambientale che interessano le piccole e grandi opere, alle nomine, agli appalti, all’urbanistica, ai ricorsi in materia elettorale. 

La giustizia penale, ed il suo potenziale dispiegarsi in piena autonomia, possono incidere indirettamente sull’attività di governo, attraverso gli attori; la giustizia amministrativa e la giustizia contabile incidono, invece, direttamente sul momento esecutivo delle scelte.

Nel tempo ciò ha generato una insofferenza del potere esecutivo rispetto ai giudici amministrativi (ed ancor più al peso del loro sindacato demolitorio) e tensioni intorno al meccanismo dei controlli.

Gli ultimi anni hanno visto il declino della cultura costituzionale del bilanciamento e dei controlimiti ai poteri - proprio in un tempo storico in cui ve ne sarebbe più bisogno - e le tensioni sono divenute espliciti attacchi.  Viene rappresentata una artificiosa contrapposizione tra interesse nazionale e rispetto delle norme, tra crescita del PIL e giustizia nell’amministrazione.

Si dimentica, in tal modo, che l’unico interesse nazionale conoscibile al diritto è quello al rispetto della legge.  Nessuno impedisce, a chi ha il potere, di modificare le norme, di cambiarne il contenuto. Ciò che però non si può concepire, senza scivolare al di fuori dello stato di diritto, è che si configuri una categoria di esercizio del potere al di fuori delle norme.

Ciò che si osserva, nei ripetuti attacchi, è come si postuli invece uno scavalcamento della legge da parte del decisore.  La regola deve divenire cedevole rispetto alla decisione assunta. Non è più la legge la portatrice dell’interesse collettivo nazionale, ma la decisione attiva, da chiunque presa, e con qualunque contenuto.

Da ciò nasce la critica a chi garantisce efficacia ai precetti, il Giudice Amministrativo (o contabile), criticato non perché inefficiente, ma perché troppo rigoroso. Da questo nasce la contemporanea pulsione ad un addomesticamento della giurisdizione amministrativa e contabile.   

Quindi, il tema della indipendenza dei giudici speciali è assolutamente fondamentale, non solo per una compiuta divisione dei poteri, ma anche per la difesa dello stato di diritto.

b) Magistratura onoraria

A nostro avviso, è opportuno che termini il “precariato” del Giudice di Pace. Allo stato attuale, stante la temporaneità dell’incarico, il giudice di pace che ha conseguito una buona esperienza deve lasciare l’incarico. Mentre assume l’incarico un soggetto privo di adeguata formazione.  Inoltre, non potrà essere certo un giovane ad investire professionalmente su una funzione di durata temporanea, ma sufficientemente lunga per impedirgli di percorrere, per tempo, altre strade.  Infatti allo stato attuale è un ruolo scelto prevalentemente da persone al termine delle proprie rispettive carriere, spesso in pensione.

Riteniamo dunque opportuna una riflessione. È indubbia l’importanza del lavoro svolto dai Giudici di Pace, di cui oggi, il sistema non potrebbe fare a più a meno.

E’ quindi opportuno che il sistema investa adeguate risorse per la formazione del Giudice di Pace. Che lo Stato dunque assuma giovani, neo laureati, con un pubblico concorso. Persone che investano professionalmente in un’attività di ausiliari della giustizia, e che dunque godano di una retribuzione stabile , della copertura previdenziale etc..

Ciò permetterebbe, peraltro, di aumentare la competenza ordinaria, per valore, almeno fino a 10.000 euro di valore.

 

c) Separazione delle carriere

Il problema della separazione delle carriere deve essere visto in maniera assolutamente laica, cercando di trovare soluzioni che evitino alcune inaccettabili commistioni tra giudice e pubblico ministero. Le norme attualmente vigenti, impediscono o rendono, comunque, estremamente difficile il passaggio da una funzione all’altra, ed hanno già, in buona parte, ovviato ai principali inconvenienti. Il restante problema di possibile commistione tra giudicante e requirente non pare tanto fondato sulla appartenenza allo stesso ordine, ma piuttosto determinato da ragioni di maggiore conoscenza e amicizia personale tra i magistrati. Si tratta, dunque, in prima battuta e senza voler essere eccessivamente superficiali, di questioni di natura personale che potrebbero essere risolte con un maggior impegno del giudicante a rispettare e applicare la propria autonomia nei confronti sia del pubblico ministero che dell’avvocato.

Il principale timore in relazione alla separazione delle carriere è che essa possa incidere sull’indipendenza della magistratura e, conseguentemente, sulla tutela dei diritti dei cittadini. Essa andrebbe ad aggiungersi, oltre che alla delegittimazione della magistratura, alla richiesta di rottura del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fulcro e base dell’uguaglianza dei cittadini. Sembra estremamente pericoloso contribuire ulteriormente all’opera di normalizzazione e limitazione dell’autonomia della magistratura attraverso una modifica costituzionale che, istituendo una doppia carriera e un doppio Consiglio superiore (partendo addirittura, al fine di aggirare la necessità della riforma costituzionale, da un doppio concorso, come è stato ipotizzato recentemente), rischia di far dipendere il pubblico ministero dal potere esecutivo. In ogni caso, un simile pubblico ministero resterebbe ancora più lontano da quella cultura della giurisdizione che dovrebbe accomunare magistratura e avvocatura; nascerebbe una autonoma cultura dell’indagine e dunque dell’accusa fondata su principi ed elementi non necessariamente coincidenti con quelli sino ad oggi seguiti, anche se in maniera non soddisfacente.

Anche molti avvocati sono, infatti, perplessi nell’idea di creare una figura di magistrato che, dall’inizio alla fine della sua carriera, sia destinato e dedicato solo al ruolo di pubblica accusa. Molti ritengono che una migliore cultura e formazione si acquisisce solo se uno stesso soggetto ricopre tutti i ruoli del processo. In astratto meglio ancora sarebbe se il magistrato svolgesse prima il ruolo di difensore, poi di accusatore, poi di giudicante, e poi ruotasse ancora. Chi ha giudicato, sarà anche più prudente nell'accusare (nel chiedere un rinvio a giudizio). Chi ha accusato e difeso sarà più consapevole nel giudicare. Negli USA, ad esempio, gli avvocati per un periodo sono chiamati a svolgere il ruolo di procuratori dell’accusa, poi tornano a fare gli avvocati difensori.

Il tema sollevato dai promotori è reale e concreto.  Chi sostiene il ruolo dell’accusa, in un giudizio, ha una posizione privilegiata, che potremmo definire come una sorta di accesso agevolato al convincimento del giudice giudicante. I promotori ritengono che sia legato ad uno spirito di corpo, che si crea per il passaggio da una funzione all’altra, e dunque al senso di colleganza. Non è così.

Il nodo è che il PM è un soggetto pubblico. Quando decide di 'accusare' si presume lo faccia nell'interesse pubblico. In sostanza, è vero che nel processo vi può essere un pregiudizio favorevole alla tesi del PM. Ma questo nasce dal fatto che il PM accusa in buona fede, perché ne è convinto, perché ha trovato la (sua) verità, giusta o sbagliata che sia, ma nel pubblico interesse, mentre l'avvocato rappresenta una parte privata (che si difende nel proprio interesse). Ecco perché nel giudizio la parte pubblica è avvantaggiata, perché un giudizio super partes, quando inizia il processo, c'è già stato. Ed è quello del PM che ha deciso di accusare l’imputato.

Questo pregiudizio non si potrà mai eliminare. È presente anche nel giudizio civile o nel giudizio amministrativo presso il TAR. Il problema è che una parte è pubblica, ed il difensore della parte pubblica agisce (o si presume agisca) nell'interesse collettivo. Il pregiudizio positivo resta, nel giudizio civile o amministrativo, anche quando la parte pubblica, ad esempio l’ente locale, è difeso da un avvocato privato

Ciò che rileva, è che nulla potrà mutare questa situazione, e certamente non il fatto di separare le carriere. Per mutare questo pregiudizio positivo all'accusa, occorrerebbero tali sconvolgimenti, da non essere affatto consigliabili.

Sotto altro profilo, la separazione delle carriere non risolverebbe i problemi della giustizia.

Si sostiene che la comunanza di carriera e logistica porterebbe come conseguenza un asservimento dei giudici allo strapotere dei pubblici ministeri, mediaticamente molto più forti. Ma ciò non sarebbe impedito se le carriere fossero due. Ed anzi si rischia un’ulteriore sovraesposizione mediatica dei pubblici ministeri, non più intralciati da regole deontologiche (già oggi sovente violate), che finirebbe per pesare, anche a livello inconscio, sui giudici, premuti dall’opinione pubblica.

Ciò che deve essere garantito è che tutti i magistrati, ed anche gli avvocati, partano da un comune terreno di “gioco”, una condivisa visione della giurisdizione. In questo impianto, poi, occorre creare un rigido e serio controllo da parte della magistratura giudicante sull’operato del pubblico ministero. Questo controllo è sovente mancato in questi anni, ma certo non è la separazione delle carriere che lo renderebbe più agevole. Servirebbe, invece, un senso di responsabilità e di vera indipendenza di ogni magistrato, oggi spesso mancante.

Un noto penalista, Astolfo Di Amato, ha sostenuto, sulle colonne del Riformista, che il condizionamento dell’accusa sulle giurisdizioni, anche su quelle superiori, è enorme, onde il problema non sarebbe quello di «tenere il pubblico ministero immerso nella cultura della giurisdizione affinché si autolimiti. Occorre, viceversa, creare le condizioni affinché la giurisdizione costituisca un momento di controllo rigoroso e non condizionabile delle attività del pubblico ministero. Ed ecco perché serve la separazione delle carriere». Se la premessa è giusta, certo non lo è il modo per raggiungere l’obiettivo: il rigoroso controllo dell’attività del pubblico ministero ben può, e anzi deve, essere perseguito, ma ciò è perfettamente compatibile con l’attuale sistema di separazione delle funzioni. Occorrerebbe, invece, correggere l’attuale cultura di alcuni pubblici ministeri (che si muovono al fine di acquisire notorietà mediatica e consenso sociale) e rafforzando nei giudici la piena autonomia non solo dai pubblici ministeri (e dagli avvocati, nei rari casi in cui ciò potrebbe succedere) ma anche dalla stampa e dall’opinione pubblica.

Si tratta, in definitiva, di approfondire il tema, discuterne collettivamente, valutarne gli aspetti positivi e quelli negativi, operare un bilanciamento tra essi, superando quella contrapposizione, dannosa per i cittadini, Avvocati-Magistrati, che da anni ha contrassegnato il tema, nella ricerca di una comune cultura della giurisdizione.

 

8.    VINCOLI DI BILANCIO

 La modifica all'art. 81 della Costituzione approvata quasi all'unanimità nel 2012 dal parlamento ha introdotto il principio del pareggio di bilancio con la formula “equilibrio tra le entrate e le spese”.

La limitazione della spesa pubblica, se non frutto di un'ideologia estremista e cieca, deve adattarsi alle esigenze della popolazione, consentire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, mentre il pareggio di bilancio comprime i diritti che la stessa costituzione, all'art. 2, definisce solennemente come inviolabili. Pertanto sarà il bilancio a sottostare alla necessità di garantire l'erogazione di prestazioni e interventi indispensabili per la tutela di diritti insopprimibili e non il contrario, come stabilito con chiarezza dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 275 del 2016. Lo stesso vincolo esterno del Fiscal compact - che pure non imponeva alcuna modifica costituzionale - si è rivelato non “inviolabile” in tempi di pandemia e di crisi economica conseguente, tanto da esser stato prontamente sospeso dalla Commissione UE. Ci troviamo infatti a dover approvare periodicamente, durante la pandemia, gli scostamenti di bilancio, quando saremmo giustificati dalle istituzioni europee.

Appare urgente, in sintonia ormai con i segnali di eccezione a livello europeo che speriamo si tradurranno in stabili riforme, rivedere l'art. 81 tornando alla originaria formulazione, o meglio ancora fissare esplicitamente la inviolabilità dei diritti fondamentali delle persone su tutto il territorio nazionale - anche a schermo contro le distorsioni che deriverebbero dalle spinte secessioniste del “regionalismo differenziato” - proprio in relazione alle esigenze degli interventi di politica economica e monetaria.

Proprio in tal senso è stato elaborato un disegno di legge costituzionale dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale: si chiede pertanto di rimuovere il pareggio di bilancio introdotto nel 2012 rendere esplicito che le politiche di spesa pubblica devono in ogni caso garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

 

9.    TUTELA DELL’AMBIENTE

a) Premessa

La questione ambientale non è estranea alla Costituzione italiana, così come non è assente nella tradizione del costituzionalismo moderno e contemporaneo[7]. D’altra parte, l’ambiente è «un presupposto di tutti gli altri diritti e, come tale, costituisce una sfida per l’intero assetto di quello che, in base alle costituzioni nate nella seconda metà del secolo scorso, si può definire lo Stato costituzionale»[8].

Nel testo originario della Costituzione la questione ambientale, seppur dimessamente, è menzionata all’art. 9.2 che richiama espressamente il compito della Repubblica di tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Successivamente, con L. cost. n. 3 del 2001, la Costituzione si è dotata di disposizioni e formule più “evolute” e rispondenti alla (drammatica) rilevanza assunta dalla questione ambientale nella società odierna.

All’interno del nuovo titolo V la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” è annoverata tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato (art. 117.2, lett. s). Alla legislazione concorrente Stato-Regioni spetta, invece, la «valorizzazione dei … beni ambientali», nonché il «governo del territorio» (art.117.3). Sono state, altresì, assegnate al medesimo comparto legislativo anche la «tutela della salute», l’«alimentazione», la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Adottando questa soluzione, seppure in un ambito del tutto peculiare (il titolo V è – com’è noto –integralmente dedicato alle autonomie territoriali), il legislatore costituzionale del 2001 ha, da una parte, ammesso – come rilevato finanche dalla Corte costituzionale - la vigenza del principio ambientalista nell’interno dell’ordinamento italiano, ritenendolo «desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali»)[9]. Dall’altra ne ha coerentemente recepito la rilevanza ordinamentale. E declinando il principio ambientalista in una duplice direzione ha assicurato la convivenza, a partire dal testo costituzionale, di un’interpretazione di tipo antropocentrico («tutela dell’ambiente») con una lettura di carattere ecocentrico (tutela dell’ «ecosistema»).

b) La giurisprudenza costituzionale

La Costituzione italiana tutela il diritto all’ambiente. Ad averlo, in più occasioni ribadito, è stata la Corte costituzionale. A tale riguardo è interessante rilevare come il giudice costituzionale sia approdato a questo esito non sulla base di una visione giusnaturalista e immanente dei diritti dell’uomo (e in quanto tale sganciata dal testo costituzionale). E neppure impiegando l’art. 2 Cost. alla stregua di una norma a fattispecie aperta (soluzione questa di per sé idonea ad assorbire all’interno della generica formula «diritti inviolabili dell’uomo» tutti quegli interessi che, venuti maturando nella coscienza sociale nel corso del tempo, non erano stati espressamente menzionati in Costituzione).

La Corte è venuta enucleando la nozione costituzionale di ambiente (e la dimensione dei diritti a essa sottesa) a partire da disposizioni puntuali e dettagliate della Costituzione italiana. È il caso della tutela del paesaggio ex art. 9, formula dalla quale il giudice costituzionale ha ricavato la definizione di  «ambiente naturale modificato dall’uomo» (Corte cost. n. 94 del 1985 e n. 151 del 1986). E del diritto alla salute come «diritto fondamentale» e «interesse della collettività» (art. 32  Cost.) dal quale non solo la Cassazione (Cass. S.U. 6.10.1979, n. 5172), ma anche la Corte costituzionale ha desunto l’esistenza del «diritto all’ambiente salubre»(Corte cost. n. 247/1974; n. 167 del 1987).

La presa di posizione assunta, già alla fine degli anni Ottanta, dal giudice costituzionale su questo punto è quanto mai netta, soprattutto nelle sue implicazioni di ordine sistemico:

«L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto»[10]

Di qui l’innestarsi di un impianto giurisprudenziale che ha consentito al giudice costituzionale di assumere la tutela dell’ambiente anche come limite da opporre all’iniziativa economica (art. 41), al diritto di proprietà (art. 42), all’uso razionale del suolo (art. 44).

A offrire una coerente ed esaustiva sintesi degli sviluppi della giurisprudenza sul diritto dell’ambiente è stato lo stesso giudice delle leggi in una sua recente sentenza:

«È noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l'espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l'ecosistema, questa Corte  con  numerose  sentenze  aveva riconosciuto (sentenza n. 247  del  1974)  la  “preminente  rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell'uomo(art. 32) e alla protezione dell'ambiente in cui questi vive (art. 9,secondo comma)”, quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210del 1987). E la  giurisprudenza  successiva  aveva  poi  superato  la ricostruzione in termini solo finalistici,  affermando  (sentenza  n.641 del 1987) che l'ambiente costituiva “un bene immateriale unitario sebbene  a  varie  componenti,  ciascuna  delle  quali   può anche costituire, isolatamente  e  separatamente,  oggetto  di  cura  e  di tutela; ma tutte, nell'insieme,  sono  riconducibili  ad  unità.  Il fatto  che  l'ambiente  possa  essere  fruibile  in  varie  forme   e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie  norme  che assicurano la tutela dei vari profili in cui si  estrinseca,  non  fa venir meno e non intacca la sua natura e  la  sua  sostanza  di  bene unitario che l'ordinamento prende in considerazione”. Il  riconoscimento  dell'esistenza  di   un   “bene   immateriale unitario” non è fine a se  stesso,  ma  funzionale  all'affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della  tutela, uniformità  che  solo  lo  Stato  può  garantire,  senza   peraltro escludere che anche altre istituzioni  potessero  e  dovessero  farsi carico degli  indubbi  interessi  delle  comunità  che  direttamente fruiscono del bene»[11].

c) Il principio internazionalista e la tutela ambientale

Tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano peculiare rilevo riveste il principio internazionalista che ha il suo perno negli artt. 10-11 Cost.   L’art. 10.1 Cost., in particolare, oltre a riconoscere implicitamente il diritto pattizio, sancisce che «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. L’istituto dell’adattamento nel diritto internazionale implica l’esistenza di un “rinvio mobile” e pertanto un recepimento automatico delle norme internazionali nell’ordinamento interno. Peculiare rilevo è venuto assumendo, all’indomani della revisione costituzionale del 2001, l’art. 117.1 Cost. che vincola la legislazione statale e regionale al rispetto degli obblighi internazionali e dell’ordinamento Ue.

Le procedure e gli istituti giuridici sottesi al principio internazionalista hanno reso, in questi anni, possibile l’ingresso nell’ordinamento italiano di norme e principi in materia ambientale maturati nel diritto internazionale e dell’Unione europea. Si pensi alle numerose convenzioni internazionali siglate dall’ONU (conferenze di Stoccolma del 1972, di Rio del 1992, di Johannesburg del 2002, Accordo di Parigi del 2015sottoscritto da195 Stati e che oggi si propone di adottare azioni congiunte per fronteggiare i mutamenti climatici e surriscaldamento)[12].

In Europa la questione ambientale ha fatto capolino anche all’interno della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sebbene la CEDU(1950) non menzioni espressamente questo diritto. La Corte europea ha originalmente ricavato il diritto dell’ambiente dall’art. 8 della Convenzione avente ad oggetto la tutela della vita privata e familiare (si vedano i casi Lopez Ostra c. Spagna - 09.12.1994; Cordella e altri c. Italia - 24 gennaio 2019).

Ben più incisive e puntuali sono invece le disposizioni in materia di tutela ambientale contenute nel Trattato sull’Unione europea, dalle cui disposizioni apprendiamo che l’Unione «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato … su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. 3,§. 3) e promuove lo «sviluppo sostenibile della Terra» (art. 3, §§. 3-4). 

Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono stati invece definiti gli ambiti di competenza dell’Unione in materia ambientale. A tale riguardo il Trattato rileva che le «esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile» (art. 11). Nel TFUE sono stati altresì definiti i profili funzionali della tutela ambientale fondata «sui principi di precauzione, dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”» (art. 191,§. 2, TFUE

In questo contesto ciò di cui abbiamo oggi bisogno è una coerente e dettagliata riforma legislativa diretta a «individuare le modalità con le quali inserire la valutazione degli interessi ambientali nella programmazione di tutte le altre attività pubbliche e di tutti i programmi economici e sociali che vengono proposti e approvati nel circuito decisionale Parlamento / Governo (il modello potrebbe essere quello della Loi Grenelle francese), individuando criteri e metodi del bilanciamento» [13]

 

d) La recente modifica costituzionale

Una riforma Costituzionale di inizio 2022 ha introdotto la tutela dell’ambiente nella prima parte della Costituzione, in particolare il testo recita:

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

Se è vero, come abbiamo scritto, che la giurisprudenza costituzionale aveva già individuato l’ambiente come un bene da tutelare, appare evidente che inserirlo anche espressamente tra i beni tutelati, aggiungere la biodiversità, gli ecosistemi, l’interesse delle future generazioni e la tutela degli animali non può altro che avere un effetto importante sulla futura giurisprudenza costituzionale ed anche sulla lettura costituzionalmente orientata delle norme.

Le perplessità relative alla prima volta che viene modificata la parte iniziale della Costituzione, quella dei principi generali, possono essere superate dal fatto che la norma è stata approvata quasi all’unanimità, dando l’idea che si tratta davvero di un principio generale condiviso da tutti, come deve essere un principio costituzionale.

Si vedrà quale sarà l’evoluzione della giurisprudenza ma non vi è motivo di dubitare che la tutela dell’ambiente potrà solo essere aumentata dall’inserimento di questi elementi nella nostra Carta Costituzionale.

Forse ancora più importante è la modifica dell’art.41, 2° co., Cost.

Per l’art.41 “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recar danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.”

In periodo di liberismo, una modifica costituzionale che pone limiti all’iniziativa economica privata sulla base dell’ambiente e della salute diventa una novità che non è possibile sottovalutare.

Se si pensa ai processi per disastro o inquinamento ambientale, ai processi per omicidi colposi sul lavoro, diventa evidente che la libera iniziativa economica diventerà ben debole argomento ogni qualvolta andrà a scontrarsi con l’ambiente o con la salute dei lavoratori o dei cittadini.

Anche in questo caso gli sviluppi si vedranno in futuro, certamente si tratta di un segnale dell’importanza che ha assunto la questione ambientale, di una presa d’atto che l’ambiente è valore costituzionale riconosciuto a livello internazionale e non vi fosse ragione perché non fosse anche in modo espresso nella Costituzione Italiana. Il riconoscimento di una prevalenza dell’ambiente (e della salute) come valore superiore alla libera iniziativa economica privata, in grado di limitarla, è un elemento in più, importante.

 

 

10.                     ASILO RESPINGIMENTI ED ONG

a) Premessa

Le destre xenofobe e razziste hanno spesso costruito il loro spazio politico e culturale, e le loro fortune elettorali intorno al primato dell’appartenenza nazionale e agli interessi da tutelare contro i “nemici stranieri”.

La formula “prima gli italiani”, del tutto sovrapponibile a quel America First dell’ultra conservatore Trump e, andando indietro negli anni bui del vecchio continente, al Deutschland Uber Alles del nazismo, riscuote successo in Italia come, declinata nei diversi Paesi, a quasi tutte le latitudini.

Si tratta solo dell’ultima tappa di una gara che vede forze oscurantiste, conservatrici e xenofobe, insieme a forze democratiche, impegnate da anni a contendersi uno spazio pubblico costruito intorno alla sottrazione di diritti alle persone di origine straniera.

Una corsa che va avanti da più di venti anni e che ha portato nel nostro Paese ad esempio, ma vale per gran parte dei Paesi europei, a rendere impraticabile l’ingresso regolare agli stranieri sia per motivi di lavoro sia per richiesta d’asilo.

La cultura proibizionista, che favorisce i trafficanti, rende ricattabili e socialmente fragili i lavoratori e le lavoratrici stranieri; caratterizza oramai l’agenda sull’immigrazione, sempre più concentrata sull’esternalizzazione delle frontiere e sui programmi di rimpatrio forzato.

Se le destre hanno così ben interpretato il loro ruolo, da riuscire a dettare l’agenda ai governi, che oramai parlano e programmano attività e politiche su tali temi in maniera quasi ossessiva, partendo dalla criminalizzazione dell’immigrazione, le forze democratiche e di sinistra non sono state, fino ad oggi, in grado di trovare una proposta credibile e una strategia alternativa.

La proposta che vede diretta destinataria l’Unione Europea, per invertire la direzione, è quella di:

  1. Introdurre, attraverso una direttiva, vie d’accesso per ricerca di lavoro, anche autonomo, nonché modalità permanenti, non straordinarie, di uscita dall’irregolarità che tengano conto della condizione di inclusione sociale e lavorativa delle persone;
  2. Riformare, secondo le linee individuate dal documento votato dal Parlamento Europeo in questa legislatura, il Regolamento Dublino, consentendo una ripartizione equa e ragionevole dei richiedenti asilo, a partire dalle esigenze delle persone coinvolte e avendo cura dei territori e dei legami precedenti tra le persone e quei territori;
  3. Chiudere la stagione del “diritto speciale per gli stranieri”, con l’abolizione di ogni forma di detenzione amministrativa legata allo status giuridico;
  4. Trasferire le competenze riguardanti il soggiorno degli stranieri agli enti locali, sottraendole alle forze dell’ordine e al sistema della Sicurezza
  5. Implementare un programma europeo di ricerca e salvataggio e in parallelo un programma di reinsediamento per un numero non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione europea ogni anno.
  6. Interrompere i programmi e gli accordi per il controllo delle frontiere esterne all’UE, soprattutto in paesi come la Libia, l’Egitto, la Turchia, il Niger, il cui effetto è l’aumento dei morti e delle violazioni dei diritti umani, che spesso si traducono in veri e propri crimini contro l’umanità.

 

b) Respingimenti

Norme e principi di carattere nazionale, costituzionale e sovranazionale non possono essere stracciati impunemente, neanche da un governo “forte”. Lo stesso testo unico sull’immigrazione (art. 10 ter) prevede che le persone salvate in mare devono essere condotte nei centri di prima accoglienza e devono essere informate del diritto di chiedere la protezione internazionale, essendo il diritto d’asilo un diritto fondamentale garantito dall’art. 10, comma 3 della Costituzione. Inoltre l’espulsione collettiva di stranieri è vietata dall’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Il Decreto del 4 novembre 2022 - dei Ministeri dell’interno, dei trasporti e della mobilità sostenibile e della difesa - vieta alla nave Humanity1, della ONG SOS Humanity, di “sostare nelle acque territoriali italiane …oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed il precarie condizioni di salute”; analogo decreto è stato adottato la sera del 6 novembre 2022 per la nave Geo Barents, della ONG Medici Senza Frontiere, secondo un metodo che potrebbe ripetersi anche nell’immediato futuro (altre navi con naufraghi a bordo sostano infatti al confine con le acque territoriali).

I decreti sono manifestamente illegittimi in quanto violano numerose norme del diritto internazionale ed interno.

Invocando un generico pericolo per la sicurezza dell’Italia, posto in relazione allo sbarco di naufraghi, impropriamente richiamando l’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione Onu sul diritto del mare, il Governo impedisce la conclusione delle operazioni di salvataggio di naufraghi. L'obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce, infatti, nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. "place of safety")[14].

Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall'Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004), allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Obbligo al quale le autorità preposte, italiane e maltesi, si sono sottratte.

Non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché  tali persone hanno, tra i numerosi altri diritti, quello di presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave.

A ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la Risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d'Europa secondo cui «la nozione di "luogo sicuro" non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.).

Al riguardo, risulta arbitraria quanto approssimativa la distinzione all’interno dei gruppi dei naufraghi che il Governo italiano sta proponendo, come risulta impossibile escludere la situazione emergenziale delle decine se non centinaia di persone a bordo la cui condizione va valutata singolarmente, in ossequio all’art. 19 della Carta del Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che vieta le espulsioni collettive e all’effettivo rispetto dell’art 3 della CEDU e dell’art 4 della CDFUE, nonché  al carattere assoluto del divieto di trattamenti inumani e degradanti (l'art. 15 della Convenzione EDU fa espresso divieto di deroga, persino in caso di guerra o di pericolo pubblico che interessi la nazione). La Commissione Europea che più volte ha richiamato l’Italia, invitandola a «minimizzare la permanenza delle persone a bordo delle navi» (da ultimo il 10 novembre con una nota ufficiale), come peraltro prescrivono il diritto internazionale del mare e il Regolamento europeo n.656 del 2014.

La terminologia scandalosa utilizzata dai rappresentanti del governo per definire i migranti lasciati a bordo (“carico residuale”, “sbarco selettivo”) è un insulto a chiunque possegga un minimo di umanità. Peraltro, l’attività di respingimento del “carico residuale si esporrebbe a una seconda sanzione della Corte Europea, dopo la condanna dell’Italia nella sentenza Hirsi Jamaa c/ Italia del 2012, emessa per la violazione dell’art. 4, protocollo 4 Cedu.

Deve poi essere assicurato alle persone a bordo della nave e in acque territoriali italiane il diritto a chiedere la protezione internazionale in attuazione dell’art. 6 della direttiva 2013/32/UE (direttiva procedure) che obbliga gli Stati membri a garantite un accesso effettivo alla procedura. Si tratta di diritto fondamentale sancito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione, norma declinata anche come diritto di accedere al territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura anche di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. sent. n. 25028/2005), in quanto, come affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 29460/2019), il diritto alla protezione internazionale “è pieno e perfetto” e “il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto” che “nelle forme del procedimento è solo accertato…il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità”.

Ai sensi dell’art 10 ter del D.lvo n. 286/98 le persone giunte sul territorio nazionale a seguito di salvataggio in mare devono essere condotte presso i punti di crisi o nei centri di prima accoglienza, dove sono identificati, è assicurata la prima assistenza e deve essere assicurata l’informazione anche sul diritto a chiedere la protezione internazionale. L’illegittimo tentativo di fare sbarcare esclusivamente alcuni dei naufraghi e respingere indistintamente tutti gli altri al di fuori delle acque territoriali nazionali si configura, oggettivamente, come una forma di respingimento collettivo, vietato dall’art. 4, Protocollo n. 4 della CEDU; attività, quest’ultima, per la quale l’Italia è già stata condannata in passato (sentenza Hirsi Jamaa c. Italia del 2012).

La condotta governativa si pone, altresì, in contrasto con i principi sanciti nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e, in primo luogo, del principio di non refoulement (art. 33). In questa condizione se i comandanti delle navi portassero fuori dai confini italiani i naufraghi potrebbe configurarsi a loro carico, e a carico degli armatori, una responsabilità per avere prodotto, in esecuzione di un ordine manifestamente illegittimo, una grave violazione dei diritti umani.

 

c) Decreto Piantedosi

 

Il Decreto, pubblicato il 21 settembre 2023 sulla Gazzetta Ufficiale, che interviene sul tema dei respingimenti prevede il versamento di una garanzia finanziaria di 5.000 euro da parte dei migranti privi di passaporto che vogliono evitare i centri di permanenza temporanea.

È quanto ogni singolo migrante dovrà versare allo Stato italiano in attesa dell’esito della procedura di richiesta d’asilo, se non vuole essere trattenuto in un centro di permanenza temporanea.

La notizia ha suscitato un’ondata di sdegno. È stato argomentato che la somma richiesta costituirebbe una sorta di “riscatto” per ottenere la libertà, un “pizzo” di Stato. Tuttavia, dovendosi addentrare in una selva legislativa particolarmente oscura, in cui si intersecano fonti legislative nazionali ed europee e atti amministrativi, per poter esprimere una valutazione congrua, occorre fare un po’ di chiarezza sull’origine, sui destinatari, sull’ambito di applicazione del provvedimento.

All’origine del provvedimento c’è una norma del decreto Cutro, l’art. 7 bis (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  procedure  accelerate  in frontiera) che introduce, sulla falsariga della Direttiva “Procedure” dell’Unione Europea, una procedura accelerata, da svolgersi direttamente in frontiera o nelle zone di transito per i richiedenti asilo provenienti da paesi ritenuti “sicuri” (Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia). Si tratta di una procedura finalizzata ad una rapida evasione della domanda di asilo e al rimpatrio immediato. Per evitare il pericolo di fuga è previsto che lo straniero possa essere trattenuto fino ad un massimo di 28 giorni: “qualora il richiedente non abbia consegnato il  passaporto o altro documento equipollente in  corso  di  validità,  ovvero  non  presti idonea garanzia finanziaria.”

Insomma il decreto Cutro, forzando le procedure europee, ha introdotto una forma speciale di detenzione amministrativa per alcune categorie di richiedenti asilo ai quali è riservato un esame sommario della domanda di protezione internazionale, posto che provengono da paesi “sicuri”. Si può sfuggire all’internamento solo in due ipotesi: se gli stranieri consegnano il passaporto, ovvero se prestano idonea garanzia finanziaria. Astrattamente la possibilità di prestare una garanzia finanziaria dovrebbe essere una misura a favore del richiedente asilo che non può o non vuole consegnare il passaporto. Il decreto del Ministro Piantedosi dovrebbe consentire l’esercizio di questa facoltà, ma in realtà la nega, rendendola impossibile.

Infatti l’art. 3 del decreto Piantedosi (Determinazione delle modalità di prestazione della garanzia finanziaria)  prevede:        

  1. Allo straniero di cui all’art. 1, comma 3, del presente decreto è dato immediato avviso della facoltà, alternativa al trattenimento, di prestazione della garanzia finanziaria.  2. La garanzia finanziaria è prestata in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi. 3. La garanzia finanziaria deve essere prestata entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico ai sensi degli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (..)

Secondo questo provvedimento, il tunisino o l’algerino che sbarca a Lampedusa entro tre giorni (il tempo previsto per le operazioni di fotosegnalamento) si deve rivolgere ad una Banca o ad una Assicurazione (mentre si trova rinchiuso nel centro di identificazione) e farsi rilasciare una fideiussione o una polizza fideiussoria: operazione assolutamente impossibile, anzi inimmaginabile. Per eliminare ogni residua possibilità di prestare una garanzia finanziaria, il decreto prevede che la polizza non può essere versata da terzi (come potrebbe fare, per es., un parente residente in Italia che sia titolare di un c/c bancario). Con il decreto Cutro, come applicato da Piantedosi, è stata inaugurata una nuova tecnica normativa: la burla legale. La legge non serve a dare delle disposizioni che devono essere attuate da qualcuno, per perseguire dei fini più o meno legali, ma per sbeffeggiare i soggetti interessati ed ingannare l’opinione pubblica. Tuttavia l’aspetto più scandaloso non sta nella burla sulla garanzia finanziaria, bensì nella procedura di somma urgenza che sacrifica pesantemente la possibilità per il richiedente asilo di far valere il suo diritto alla protezione internazionale, ove sussistente. È infatti previsto che la Commissione territoriale debba decidere entro sette giorni. Contro la decisione è ammesso ricorso nel termine di 14 giorni sul quale il giudice monocratico deve decidere entro cinque giorni con un decreto non impugnabile (cioè non appellabile, né ricorribile per cassazione). In questo modo è stato reso evanescente il diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, e la possibilità di ottenere la tutela giurisdizionale contro i provvedimenti della pubblica amministrazione assicurata dall’art. 113 della Costituzione. 

 

11.                     LA NORMATIVA ANTIFASCISTA

 

a) Premessa

I sistemi costituzionali danno luogo ad architetture complesse e fragili. Accade, dunque, che nel dibattito politico delle liberaldemocrazie possano attecchire ideologie illiberali e antidemocratiche, che alle elezioni repubblicane si presentino – ad esempio – partiti monarchici, e che gruppi organizzati chiedano e ottengano cittadinanza politica, pur tradendo la propria ostilità nei confronti dei presupposti fondativi dell’ordinamento.

È uno dei paradossi della democrazia, chiamata ogni giorno a fare i conti con sé stessa per mantenere fede alla propria identità: ciò, anche quando determinate forze tentino di metterne in luce i nervi scoperti, cercando di piegare le istituzioni e le procedure democratiche ai controvalori propugnati dalle prime.

In questo quadro la categoria politica del fascismo, è sempre attuale e, nel nostro tempo è più attuale che mai, anche se la vicenda storica del fascismo – naturalmente - è morta e sepolta e non può più essere riportata in vita. È ovvio che il fascismo ed il nazismo non torneranno mai più nella forma storica in cui noi li abbiamo conosciuti. I forni di Auschwitz non si metteranno a fumare un'altra volta e non ritornerà più un signore con la camicia nera e la mascella squadrata a prometterci di nuovo l’impero, fra il tripudio della folla. Quegli episodi storici sono nella loro specificità conclusi. Ma possiamo escludere che la mala pianta del razzismo e della discriminazione non tornerà di nuovo a fiorire nel nostro paese, che il flagello della guerra continuerà ad essere bandito dal nostro futuro, come pretende la Costituzione, che il pluralismo sarà rispettato, che il Parlamento non sarà marginalizzato e che non si concentreranno un’altra volta tutti i poteri nella mani di un capo politico, interprete e padrone della volontà popolare?

Il fascismo non è stato solo un evento storico. La parola fascismo è una metafora, essa rappresenta una condizione patologica dello spirito umano nella sua dimensione sociale. In questo senso il fascismo è un fenomeno transtemporale, non è appannaggio esclusivo di un’epoca storica, né di una determinata parte politica. Ci sono delle costanti storiche e psicologiche che si riaffacciano, specialmente nei periodi di crisi; ci sono politiche che costruiscono risposte violente ed autoritarie ai problemi della convivenza umana; ci sono condizioni psicologiche che attivano meccanismi di fuga dalla libertà e spingono gli uomini a liberarsi del fardello delle proprie responsabilità consegnandosi nelle mani di un uomo forte.          Il fascismo è una malattia dello spirito pubblico che, quando si attiva, corrompe la democrazia e corrode le istituzioni democratiche.

E’ vero che la Costituzione italiana costituisce un baluardo contro il ritorno dei disvalori e delle pratiche proprie del fascismo. La Costituzione, stabilendo un recinto inviolabile di libertà individuali e collettive ed organizzando la separazione, la diffusione e la distribuzione dei poteri, rende impossibile ogni forma di dittatura della maggioranza. Ma, proprio per questo la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica. Ridotta all’osso è questa la questione centrale che ha animato i tentativi di grande riforma della Costituzione che sono stati praticati nel tempo.       

Una politica che non riconosca i valori ed i principi fondamentali dell’ordinamento democratico come delineato dalla Costituzione repubblicana, può portare rapidamente all’obsolescenza ed al tramonto della Costituzione, anche a prescindere da modifiche o stravolgimenti formali dell’impianto costituzionale.

Rimane il problema di capire a che punto siamo della notte. Che cosa non ha funzionato nel modello di democrazia prefigurato nella Costituzione repubblicana. Quale sia l’origine del “male oscuro” che corrode la democrazia ed ha avviato una transizione dagli sbocchi indefinibili.

La crisi della democrazia politica in Italia viene da lontano e la degenerazione rappresentata dal Berlusconismo e dal Salvinismo non ne è la causa principale, ma – in un certo senso l’effetto, ovvero lo stadio finale, se non ci sarà una reazione adeguata a questo fenomeno ed alle cause che lo hanno generato.    

 

b) Attualità del pericolo di una involuzione autoritaria di tipo fascista nel nostro paese.

Vi sono sentimenti che, nelle società ricche, traggono origine dall’inconscio collettivo, dal senso delle perduta stabilità, dalla paura del futuro, dal timore di non conservare i diritti o i privilegi acquisiti, e che si esprimono in una ricerca di esclusività, in una esacerbata affermazione di identità, in un’ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in una difesa corporativa del proprio gruppo, o regione, o cortile, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della pelle degli altri.

In questa situazione cresce l’insicurezza, il senso delle precarietà della vita individuale e collettiva ed avanza una sottopolitica che costruisce le sue fortune sulla paura, che mette uomo contro uomo in uno spregiudicato gioco per il potere. Tutte le ultime elezioni politiche hanno dimostrato che organizzare la paura paga in termini di consenso elettorale, in quanto il c.d. “tema della sicurezza”, comprensivo della richiesta di oscure misure nei confronti di Rom e stranieri, è sempre l’atout su cui è fondata la campagna elettorale del centro-destra.

Di fronte alla drammaticità della crisi economica e sociale che il nostro continente sta vivendo e attraversa, e anche alle difficoltà delle istituzioni democratiche ad affrontarla, crescono nei Paesi europei i movimenti neofascisti e neonazisti. Si tratta di fenomeni politici che in taluni casi attraversano il confine della vera e propria eversione.  Alba Dorata, che raccoglie in Grecia un consenso elettorale significativo, si serve addirittura di squadre paramilitari che aggrediscono gli avversari politici e gli immigrati.

Questo fenomeno riguarda anche il nostro Paese.

Il nostro è uno dei Paesi nei quali la crisi economica ha influito maggiormente, aggravando il malcontento, la tensione sociale e le diseguaglianze fra i cittadini. A causa dell’instabilità politica e della profonda debolezza dei partiti non si è ancora giunti a quelle importanti riforme istituzionali ed economiche di cui il Paese ha un estremo bisogno. La crisi e la percezione diffusa di una difficile ripresa alimentano ulteriormente i focolai di rinascita del fenomeno di cui si discute.

Insomma, occorre una grande, collettiva, azione per contrastare un fenomeno che non può essere tollerato, in un Paese che ha subìto vent’anni di dittatura fascista, ha subìto l’autoritarismo e la discriminazione razziale nelle forme più odiose e violente. Una parte fondamentale della suddetta azione deve essere costituita, necessariamente, dall’esclusione dal confronto elettorale di tutti quei gruppi e movimenti politici che sono chiara espressione di un’ideologia in aperto contrasto con i principi testé richiamati.

In particolare si segnala che le norme italiane prevedono financo la sanzione penale per chi tenta la ricostituzione di movimenti fascisti o para-fascisti. Ebbene, è chiaro che si rischia di adottare una politica contraddittoria. Prima della sanzione penale viene la legittima resistenza politica (ed amministrativa) alla pretesa di tali movimenti di partecipare alla competizione elettorale.

Se, infatti, si ammettono liste neo-fasciste alle elezioni, si avvalora l’idea che sarebbe legittima una gestione della cosa pubblica improntata a tali idee. In tal modo, indirettamente, si legittima l’esistenza di un rinato movimento dai contorni fascisteggianti.

In sostanza, non è rilevante che poi tali liste siano o meno idonee a conquistare effettivamente il consenso elettorale. Ciò che più conta è ribadire che, pur in un sistema democratico, ci sono dei limiti, dettati dalla autoconservazione del sistema stesso e dei suoi valori fondamentali.

Se non si procede alla esclusione di tali liste, si ammette implicitamente che tali liste, in caso di vittoria schiacciante, potrebbero trasformare il sistema democratico in sistema autoritario, razzista, omofobo, etc (con lesione dei diritti fondamentali di tutti i cittadini che non hanno voluto quella trasformazione). Trasformazione che, poi, per esperienza storica, diviene irrevocabile. Dunque la lista deve essere esclusa a monte, perché la trasformazione che propugna non è ammissibile, non solo per effetto delle specifiche disposizioni costituzionali che impediscono la ricostituzione del disciolto partito fascista, ma anche in difesa di tutti gli altri diritti costituzionali.

 

c) La normativa in materia

Occorre partire dalla grundnorm, cioè dalla nostra Costituzione che, con la XII disposizione transitoria e finale, stabilisce, al primo comma, che è “vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

I nostri Costituenti hanno vietato non solo la ricostituzione dello storico partito fascista, inteso come un fenomeno storico politico culturale ben riconoscibile, cioè il Partito Nazionale Fascista (d'altra parte il partito fascista era già stato punito con lo scioglimento per mezzo del regio decreto 2 agosto 1943 numero 704), ma anche quella di partiti e movimenti che “sotto qualsiasi forma” professino l'ideologia fascista.

Ora, per comprendere l'importanza della XII disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione, è necessario chiedersi perché i nostri Costituenti l'abbiano inserita nel testo della Costituzione.

In fondo il regime era caduto, già da qualche anno, il Duce era morto e con lui almeno una parte dei suoi gerarchi e sodali; perchè, dunque, inserire questa norma?

Certamente possiamo ritenere che ciò derivi, almeno in parte, dal fatto che la nostra Costituzione è espressione della lotta antifascista; è il prodotto dell'azione e del pensiero di uomini che hanno lottato contro il fascismo  e il nazismo, che sono stati perseguitati, che magari sono stati in prigione per le loro idee, che sono stato partigiani, che hanno combattuto con le armi in pugno il regime fascista, magari che hanno vissuto sulla loro pelle o di quelle di persone a loro vicine le stragi commesse dai nazi-fascisti.

Sicuramente è così. Però non è solo questo.

E a maggior ragione bisogna chiederselo per il fatto che l'introduzione di questo articolo nella Costituzione non è un fatto banale, anche da un punto di vista giuridico; perchè la XII disposizione transitoria e finale è una norma problematica, e lo è perchè si pone, almeno astrattamente, in contrasto con quanto la nostra Costituzione dichiara, statuisce, o perfino celebra, con articoli fondamentali, posti per lo più nella sua prima parte. Ci si riferisce principalmente all'art. 21 la libertà di pensiero e a quel combinato di articoli  (artt.18,19, 39 e 49) che dettano la disciplina della libertà di associazione (in generale, religiosa, sindacale e politica).

La lettura di questi articoli ci chiarisce che in essi si esprime appieno il diritto di associazione e se ne esplicitano in modo esaustivo e non etero integrabile anche i limiti e le eccezioni.

Se consideriamo, ad esempio, l'articolo 18 vediamo che dopo aver espresso il principio generale (“i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione”), la norma indica espressamente i limiti e le eccezione di cui si parlava (“per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale....sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militari”).

Questa della XII disposizione non è un'eccezione alla regola generale; perchè essa stessa è, in fondo, una regola generale.

Ancora, l'importanza della XII disposizione si misura tutta se solo si considera come essa incide su quel particolare diritto di associazione che è la partecipazione al partito politico.

Va considerato, sul punto, che i partiti politici sono associazioni avente rilevanza costituzionale, mediante le quali i cittadini concorrono, con metodo democratico “a determinare la politica nazionale”, come recita l'art. 49 Cost. Dunque si può ben sostenere che se la determinazione della politica nazionale ha molto a che fare con la sovranità popolare che “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, secondo la dizione dell'art. 1, comma 2, Cost., la rilevanza costituzionale del partito politico assume un carattere concreto e fondamentale per il funzionamento della Stato di diritto e, conseguentemente, la regola generale introdotta dalla XII disposizione transitoria e finale, ne diventa una delle colonne portanti.

Inoltre, la ricaduta di questo possibile contrasto coinvolgerà, ovviamente, anche le leggi ordinarie di attuazione di questa regola generale che, a loro volta, si potranno porre in contrasto con le norme della Costituzione che abbiamo citato, e ancor più con la norma della Costituzione che vieta la discriminazione tra le persone, in ragione delle proprie convinzioni politiche cioè l'art. 3, comma 1, che disciplina il principio di uguaglianza formale.

E, ovviamente, laddove questo contrasto si verifichi, come è effettivamente avvenuto anche per la legge (“Scelba”) di attuazione della XII disposizione, si potrà sollevare davanti ad un'autorità giudiziaria la relativa eccezione di costituzionalità di quella norma.

Volendo andare ancora più in profondità, possiamo dire che la XII disposizione è sicuramente una norma volta a scongiurare l'ipotesi di una torsione totalitaria (evidentemente la Costituzione non può contemplare l'ipotesi che tale torsione non venga perseguita dall'interno del sistema quanto per via “rivoluzionaria” o “eversiva”), ma si pone con riferimento a questa funzione in termine di rapporto tra genus e species, nella rappresentazione di quella particolare forma di regime totalitario che è il regime fascista; in questa sua caratteristica essa non va considerata discriminatoria, perchè il suo grado di intolleranza (contro l'ideologia fascista) rappresenta l'unica intolleranza che è concessa alla democrazia, cioè quella contro i sistemi politici e sociali intolleranti (e il nazifascismo lo fu(rono) ampiamente).

Peraltro, si deve considerare che la nostra Costituzione, ha aliunde disciplinato l'ossatura di uno stato di diritto, con lo stabilire e regolare la divisione dei poteri dello Stato e nell'assicurare l'autonomia e indipendenza della Magistratura, oltrechè nel riconoscere (in primis con l'art. 2) i diritti inviolabili dell'uomo, i diritti di libertà, civili e politici, dei singoli cittadini; ossatura che risulta granitica (e che sembrerebbe, dunque, poter prescindere dalla XII disposizione transitoria finale) in ragione del fatto che è Costituzione rigida (art. 138) e ulteriormente garantita dalla norma di “chiusura” del sistema prevista dall'art. 139 (“la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”); norma, quest'ultima, che va interpretata in maniera estensiva, sì da ritenere non soggette a revisione tutte le disposizioni costituzionali relative alla sussistenza dello stato di diritto.

Tutto ciò detto, dobbiamo ancora rispondere alla domanda che ci siamo posti.

Ebbene, alla domanda si può cominciare a rispondere, leggendo il secondo comma della XII disposizione transitoria e finale dove si trova scritto che “in deroga all'articolo 48 (che indica i requisiti per l'elettorato attivo) sono stabilite con leggi, per non oltre un quinquiennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”.

Questa disposizione fa comprendere, senza ombra di dubbio alcuno. che i Costituenti si rendevano perfettamente conto che il fascismo non era morto con la fine di Mussolini.

Essi intesero bene che i vent'anni del regime e la presenza più che ventennale del movimento fascista, non erano, come pensava Benedetto Croce, una parentesi nello stato liberale, un'aberrazione che non avrebbe lasciato tracce dopo il suo crollo (quello della RSI) del1945.

I Costituenti avevano ben presente le piazze piene di cittadini in delirio per il Duce e avevano ben presente la lezione di Piero Gobetti quando aveva parlato del fascismo come autobiografia della nazione.

Con il senno di poi, non possiamo che concordare pienamente con la previsione e la previdenza dei Costituenti e lo possiamo fare in ragione di ciò che ci separa dal 1948, della storia che nel frattempo si è dipanata, senza dimenticare le radici socio culturali del fascismo.

Sul punto, basterà semplicemente confrontare la nostra attualità con quanto indicava Umberto Eco nell'elencare nel suo “il Fascismo eterno”: una lista di caratteristiche tipiche di quello che lui chiamava, appunto l’ “Ur-Fascismo“, o il “fascismo eterno“.

A distanza di quasi cent'anni, possiamo tranquillamente riconoscere che non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo con la storia e la storia ritorna a ricordarcelo.

Non l'abbiamo fatto come popolo, al di là della evidenza di quel consenso di cui si parlava che non può essere dimenticato e delle dinamiche interne alle società di massa e “liquide”, tanto più oggi che viviamo la  crisi delle liberal- democrazie.

La giustificazione che “tutti” dovevano essere iscritti al partito se volevano campare (PNF ossia “Per Necessità Familiari”) ha contribuito a liquefare l'epurazione a tutti i livelli mentre il mito tranquillizzante “italiani brava gente” ha cancellato, da quei “conti”, i massacri nell'Africa coloniale o le atrocità commesse nei Balcani dai nostri compatrioti.

Ma non l'abbiamo fatto, a maggior ragione e fino in fondo, a livello di istituzioni dello Stato.

La continuità dell'ordinamento repubblicano democratico con le strutture della dittatura fascista è stata questione di uomini, anche pesantemente compromessi con il regime, uomini che sono rimasti ai loro posti, che hanno continuato a “servire” la patria.

 

E questo vale anche e soprattutto per la magistratura: per un certo periodo l'organo apicale dell'ordinamento giudiziario è la Corte di Cassazione (almeno sino al 1956 anno in cui entra in funzione la Corte Costituzionale). E ancora nel 1968, tutti i 524 magistrati di Cassazione erano entrati in servizio prima del 1944, il che significa che l’alta magistratura, da cui venivano estratti la maggioranza dei componenti togati del Csm, i presidenti e i procuratori generali delle corti di appello, era ancora esclusivamente di nomina fascista.

Conseguenza certamente legata a questa dato di fatto e la giurisprudenza, aberrante, che si sviluppò in relazione alla normativa finalizzata a sanzionare le condotte criminali fasciste e cioè il decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio 1944 n. 159 e l'interpretazione degli altri strumenti legislativi in vigore nel secondo dopoguerra come l'amnistia “Togliatti”, del 22 giugno 1946, il decreto presidenziale n. 4.

Sul punto si ricordano le interpretazioni accomodanti che furono seguite per scagionare i criminali fascisti e le modalità con le quali le stesse norme venivano interpretate in modo restrittivo nei confronti dei partigiani.

Certamente, si deve considerare le nuove evenienze che si andavano sviluppando: la divisione del mondo in due blocchi e il fatto che il nuovo nemico si chiamava “comunismo”; sicchè, c'era proprio bisogno che l'epurazione non andasse in profondità e gli apparati di provata fede anticomunista rimanessero integri.

Quale esempio più eclatante è possibile ricordare degli “armadi della vergogna”: è fatto storico che nel 1994 il procuratore militare Antonino Intelisano (incaricato di  istruire il processo contro l'ex SS Erich Priebke) rinvenne nella sede della Procura Militare di Roma, un armadio, con le ante rivolte verso il muro, nel quale c'erano fascicoli di decenni prima, "archiviati provvisoriamente", che riguardavano le più importanti stragi nazifasciste del periodo bellico (come l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, delle Fosse Ardeatine, di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto), e tante altre.

Tra i fascicoli anche un documento secret redatto dal comando dei servizi segreti britannici, dal titolo Atrocities in Italy (Atrocità in Italia), con all'interno il frutto di accurate indagini (comprensive di testimonianze) su episodi di violenze commessi nazifascisti, che, al termine della guerra, era stato consegnato ai giudici italiani per essere, poi, come visto, “provvisoriamente” archiviato.

E per tornare alla continuità tra regime fascista e stato liberal democratico, basterà ricordare che, ancora oggi, il nostro codice penale è il Codice Rocco” del 1930 (r.d  n. 1398 del 19 ottobre 1930) e il nostro codice nuovo di procedura penale (istitutivo del modello “accusatorio”, seppur spurio, a scapito di quello “inquisitorio”) è datato 1988, introdotto quasi in concomitanza (tutt'altro che casuale) con la “caduta del muro di Berlino” e più in generale con il crollo del socialismo reale.

Del resto, nel nostro ordinamento, vige ancora il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del  R.D. n. 635 del 18 giugno 1931 n. 773 (e il suo regolamento del 6 maggio 1940 n. 635): vero strumento liberticida del regime fascista e che, non per nulla, fu oggetto della prima sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 1  del 14 giugno 1956) demolitiva dell'art. 113, sulla “stampa”.

Ma la Storia successiva all'entrata in vigore della Costituzione è costellata di riscontri alla previsione dei nostri Costituenti: ed ecco gli innumerevoli tentativi di colpo  di stato da parte di fascisti e neo-fascisti, la stagione della strategia della tensione, con le stragi fasciste e l'utilizzo in chiave anticomunista della manovalanza neofascista anche da parte di apparati dello Stato, con le successive coperture e depistaggi da parte di quegli stessi apparati finalizzati per assicurare poi l'impunità propria e quella dei neofascisti coinvolti.

Oggi, in Italia, dove accade anche che un giornalista vive sotto protezione per le minacce ricevute perchè autore di libri-inchiesta (Paolo Berizzi, autore dell'imprescindibile “Naziitalia. Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista”), i dati della “galassia nera”, i dati recensiti, che si possono reperire, ci parlano (dal 2014 al 2018) di centinaia di episodi riconducibili all'estreme destra (intimidazioni atti di violenza danneggiamenti, attentati, omicidi) e centinaia le persone denunciate[15]

Questi ed altri gruppi facenti parte della “galassia nera” operano da un lato nell'ambito della “politica ufficiale” e dall'altro nel tessuto sociale, soprattutto in favore degli gli strati più deboli della popolazione (italiana), per trovare una legittimazione da parte dell'opinione pubblica.

A titolo esemplicativo del contesto di questo proselitismo, si va dal mondo giovanile e studentesco (Blocco Studentesco); al lavoro, (Sindacato blu); all'ecologia, (“La foresta che avanza”); alla solidarietà (“La salamandra”); alla salute e sicurezza, (“Impavidi Destini”, “Braccia tese”).

Notevole, infine, anche la presenza massiccia sui social network e sul dark web oltre che nelle tifoserie calcistiche (es. “Brigate Gialloblu” del Hellas Verona fondato nel 1971 e si sviluppano tra il richiamo alle Brigate nere mussoliniane e la nascita del Veneto fronte skinhead).

Si mira, in definitiva, alla caduta della pregiudiziale sulle manifestazioni di quella ideologia, la sua normalizzazione e persino l'accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante; vi è, anche, nell'opinione pubblica un atteggiamento di noncuranza con riferimento alle manifestazioni connotate di illiceità in sé del neofascismo. E quando si levano le voci allarmate di chi paventa un ritorno del fascismo, l'atteggiamento sembra quello di chi considera il fenomeno “nero” come qualcosa di residuale, di scarsa importanza e/o inattuale.

Questo il quadro storico che ci divide temporalmente dalla previdente scelta dei nostri Costituenti, la cui avvedutezza è stata, peraltro, recentemente riconosciuta dalla Cassazione che ha considerato la XII disposizione norma sempre attuale dal momento che, “le esigenze di tutela delle istituzioni democratiche non risultano, infatti, erose dal decorso del tempo... frequenti risultano gli episodi ove sono riconoscibili rigurgiti di intolleranza ai valori dialettici della democrazia e al rispetto dei diritti delle minoranze etniche o religiose” (cfr,. Cass. n. 37577/2014).

Tutto ciò, in definitiva, ci dà il senso dell'importanza dell'inserimento nella Costituzione della XII disposizione transitoria e finale che deriva dalla sempre attuale necessità di vigilare sulla presenza in Italia del fascismo che non ha mai smesso di rappresentare un pericolo per le istituzioni democratiche (una forma di Stato totalitario, di polizia, alieno dal riconoscere i diritti di libertà, civili e politici e fondato sull'uso della violenza come strumento di lotta politica).

d) L’attuazione della XII disposizione

Ebbene, Ebbene, non ci rimane ora da considerare in che termini è stata data attuazione dal punto di vista normativo alla XII disposizione. 

Si deve subito dire che la scelta del Legislatore è stata quella di rispondere con una legislazione incentrata sulla sanzione penale.

Innanzi tutto, va richiamata la legge 20 giugno 1952, n. 645, recante “norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale, comma primo, della Costituzione” (c.d. legge Scelba).

Questa legge ha aperto la strada alle successive fattispecie incriminatrici di discriminazione razziale introdotte dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654 (c.d. legge Reale), di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, le cui disposizioni sono state successivamente modificate dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (c.d. legge Mancino), concernente “misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa”.

Con il decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 221, poi, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della l. n. 654/1975 ed all’art. 3 del d.l. n. 122/1993, poi modificato dalla legge Mancino, è stato integralmente trasfuso nelle nuove fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 604-bis e 604-ter nel codice penale, con contestuale abrogazione delle norme originarie.

Per risolvere i possibili casi di interferenza con le disposizioni della legge n. 645 del 1952, le ipotesi di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico o di istigazione a tale attività di discriminazione (art. 604-bis, comma 1, lett. a) o alla commissione di violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (lett. b), previste dalla legge Mancino, sono caratterizzate da una clausola di riserva generale – espressione del principio di sussidiarietà – che ne impone l’applicazione solo nel caso in cui le condotte non siano punite in modo più grave da altra disposizione.

Più di recente, infine, la legge 16 giugno 2016, n. 115 ha dato rilievo penale, attraverso alla previsione di una specifica ipotesi di aggravante, alle asserzioni negazioniste della Shoah e dei crimini contro l’umanità previsti dalla Statuto della Corte Penale Internazionale, prendendo atto delle esigenze e delle spinte della comunità internazionale verso la previsione di forme di tutela penale della “memoria”.

Più specificamente, la legge Scelba (legge 20 giugno 1952, n. 645) chiarisce il perimetro applicativo della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista[16].

Quanto alle ulteriori disposizioni[17], tra le altre vi sono quelle collegate alla “legge Mancino”, dl 26 aprile 1993, n. 122, con norme rilevanti in materia[18] .

Con il decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 221, in attuazione della delega di codificazione penale, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della l. n. 654/1975 ed all’art. 3 del d.l. n. 122/1993, poi modificato dalla legge Mancino, è stato integralmente trasfuso nelle nuove fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 604-bis e 604-ter nel codice penale, con contestuale abrogazione delle norme originarie.

e) Legge Scelba

Negli ultimi anni si è registrato un sensibile aumento dei casi in cui, in  occasione di eventi svoltisi in luogo pubblico o aperto al pubblico, singoli e gruppi hanno dato luogo a manifestazioni che si richiamano esplicitamente al fascismo.

Le relative condotte (saluto romano; chiamata del “presente!”; ostentazione di immagini, vessilli e simboli propri del regime fascista ecc.) non vengono quasi mai impedite dalle Forze dell’ordine e raramente i loro autori vengono identificati, con il risultato che il giudice penale è solo sporadicamente investito della valutazione circa la liceità di tali condotte; a ciò si aggiunga che i differenti tribunali – e talvolta, addirittura, i diversi giudici dello stesso tribunale -  pervengono a conclusioni diametralmente opposte, con ciò precludendo il formarsi di un orientamento giurisprudenziale chiaro e univoco.

Rispetto alle ipotesi di reato previste dalla legge Scelba (n. 645 del 20 giugno 1952), il differente approdo cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità e di merito si spiega con la loro ricostruzione quali reati di pericolo concreto, nel senso che gli stessi possono ritenersi consumati solo se si accerti che la condotta dell’agente ha creato il pericolo concreto di riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Le norme in questione, dunque, non forniscono un’elencazione delle condotte vietate perché le stesse non sono pericolose in quanto tali, ma solo in quanto rendano concreto il rischio paventato, che deve essere accertato sulla base di elementi indiziari o sintomatici la cui valutazione può avere come risultato risposte contradditorie. 

Per tali effetti, la medesima condotta può configurare o meno la “Riorganizzazione del partito fascista” vietata dall’art. XII delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione, e sanzionata dall’art. 1 della legge Scelba, sulla base delle specifiche circostanze di tempo e luogo nonché delle modalità con cui venga posta in essere; è evidente, tuttavia, che i parametri per ritenere sussistente il relativo pericolo siano estremamente labili.

Ad analoghe conclusioni il giudice di legittimità è pervenuto anche rispetto al reato di “Apologia del fascismo”, previsto dall’art. 4 della legge Scelba, e a quello di  “Manifestazioni fasciste”, di cui al successivo art. 5. Più in generale, è stato ribadito che, in ragione delle libertà garantite dall'art. 21 della Costituzione, le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista non sono sanzionabili in sé, e che le istanze repressive sottese alle fattispecie di istigazione e apologia devono armonizzarsi non solo con la libertà di manifestazione del pensiero, ma anche con il principio di offensività, come chiarito dalla Corte costituzionale.

Deve peraltro rilevarsi che le manifestazioni di cui si verte sono spesso promosse da organizzazioni confluiti in veri e propri partiti senza che le pubbliche autorità abbiano adottato alcun provvedimento per pervenire al loro scioglimento e alla confisca dei loro beni, come invece previsto dall’art. 3 della legge Scelba.

 

f) Il saluto fascista tra legge Scelba e legge Mancino

Appare poi urgente e necessario un intervento giurisprudenziale, in tema di saluti fascisti e simili.

Come noto, un nuovo modo di guardare l'applicazione della legge penale si è fatto strada a livello europeo (vedasi Corte di Giustizia europea Sez. I, del 11/06/20) con ricadute anche nel nostro sistema giudiziario (vedasi caso “Contrada”, CEDU Sez. IV , del 14/04/15),  affermando che la legittimità della sanzione penale è legata alla prevedibilità giurisprudenziale.

Se così è, occorre un orientamento chiaro in tema di punibilità della manifestazione pubblica di matrice fascista. In particolare occorre una chiara indicazione nell'esegesi logico-giuridica rispetto a saluti fascisti, labari della RSI, svastiche, fasci littori, “Duce Duce” e  altre amenità di tale segno.

Dopo diversi decenni di tortuosità ermeneutiche sul punto, restano in piedi due orientamenti contrastanti.  Di tale contrasto sono manifestazione due sentenze della I Sez. della Corte di Cassazione n. 3806/2022, udienza del 19/11/2021 e n. 7904/2022 udienza del 12/10/21.

Brevemente i fatti.

Nella sentenza numero 7904 del 2022 udienza 12 ottobre 2021, prima sezione penale della Corte di Cassazione, si trattava di una cerimonia commemorativa dei Caduti della Repubblica Sociale Italiana all'interno del Cimitero Maggiore di Milano del 25 Aprile 2016, in cui alcuni soggetti compivano manifestazione usuali del disciolto partito fascista quali la chiamata del presente e saluto romano.

Nel primo grado di giudizio il Tribunale di Milano, con sentenza del 30 aprile 2019, qualificava i fatti nell'articolo 5 della legge Scelba assolvendo gli imputati perché il fatto non sussiste, dal momento che nel fatto non si sarebbe ravvisata una concreta idoneità delle condotte a determinare il pericolo di ricostituzione del disciolto partito fascista. La Corte d'Appello di Milano, il 22 novembre 2019, nel ripristinare l'originaria qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'articolo 2 del decreto legge n 122 del 1993, affermava la responsabilità degli imputati.

La  Suprema Corte, nella sentenza menzionata,  annulla senza rinvio la sentenza della Corte d'Appello perché il fatto non sussiste.

Al contrario la sentenza della Cassazione, sezione prima, numero 3806 del 2022 udienza 19 novembre 2021, confermava la sentenza di condanna della Corte d'Appello di Milano che, in totale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 13 giugno 2019, affermava la responsabilità penale degli imputati ai sensi dell'articolo 2 del decreto legge numero 122 del 1993; costoro, nell'ambito di una pubblica manifestazione commemorativa, manifestavano per i caduti della rivoluzione fascista  coincidente con anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, iniziativa promossa dall'associazione Dharma Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale e della Associazione Nazionale Arditi d'Italia. 

La divergenza emersa dal primo e secondo grado aveva ad oggetto la rilevanza penale della condotta e in particolare, ancora una volta, la questione di diritto se il rituale sopra descritto, lettura dei nomi dei Caduti cui seguiva la risposta del presente con conseguente saluto romano, fosse qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice di cui all'articolo 2 del  legge numero  205 del 1993 oppure se ricadesse piuttosto sotto la legge Scelba

Ebbene cominciando dalla prima sentenza n. 7904/22, la decisione della Corte di Cassazione affronta il problema della plurima riqualificazione giuridica dei fatti in base alla lettura della nozione di specialità di cui all'articolo 15 del cod. pen.

 

Sul punto scrive la Cassazione di ritenere del tutto impropria l'adozione, da parte del Giudice di merito, nel caso in esame, della categoria dogmatica della specialità di cui all'articolo 15 del codice penale[19].

Ma il Collegio della Suprema Corte va anche oltre nella sua analisi o “chiarimento” demolitivo perchè dapprima richiama, la sentenza della Cassazione, sempre prima  sezione, n. 21409 del 27/3/2019 così massimata: “il cosiddetto “saluto romano” o “saluto fascista” (nella specie accompagnato dalla espressione “presenti e ne siamo fieri”) è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni gruppi indicati nel d. l. n. 122 del 1993 ... ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale etnico”; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'articolo 2 del citato d.l”, aggiungendo che “nella motivazione di tale decisione si afferma ….che “il saluto fascista” ben può rientrare nella previsione incriminatrice di cui all'articolo 2 d. l. n. 122 del 1993 trattandosi di una <manifestazione gestuale che rimanda alla ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e intolleranza>,  il tutto in una dimensione di pericolo astratto.  Vengono citate a sostegno della assunto, Sez prima n. 25184 del 4.3.2009, ... e Sez. III n. 37390 del 10 luglio 2007....”

 In seguito, chiarendo la propria contraria valutazione, viene scritto in sentenza che “il Collegio esprime dissenso verso un simile inquadramento delle condotte punibili, atteso che nelle decisioni di cui sopra non viene esaminato il profilo - da ritenersi ineludibile - della inerenza delle manifestazioni o gestualità ad associazioni o gruppi attivi e presenti nella realtà fenomenica attuale, cui si riferisce la disposizione incriminatrice in modo espresso (... propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 3 legge n. 654 del 1975)  gruppi che vanno previamente identificati, allo scopo di comprendere se si tratti di aggregazioni umane che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali etnici nazionali o religiosi. Ciò in aderenza ai principio di tassatività delle norme incriminatrici e necessaria corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta”.

La conclusione di quanto argomentato, porta a concludere la Suprema Corte nel senso di sottolineare che “nel caso in esame, il profilo descrittivo dell'accusa e la stessa attività istruttoria svolta nei due gradi di giudizio di merito hanno inquadrato non già la ascrivibilità del gruppo “Lealtà e Azione” (pur indicato nella contestazione) al novero dei gruppi “vietati” ai sensi dell'articolo 3   l. n. 654 del 1975, quanto incentrato la ricostruzione sull' avvenuto utilizzo delle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, in un contesto innegabilmente commemorativo dei Caduti della RSI. Ne deriva la considerazione di un corretto inquadramento giuridico della fattispecie nei termini espressi dal Tribunale di Milano ai sensi dell' art. 5 l. il n. 654 del 1952, con presa d'atto dell'assenza di profili in fatto valorizzabili in chiave di punibilità, per assenza del pericolo concreto di ricostituzione del disciolto partito fascista, profili non apprezzati nemmeno dal giudice di secondo grado  in virtù della - illegittima, per quanto finora esposto - operazione di riqualificazione del fatto”

Ebbene, “in direzione ostinata e contraria” la sentenza, n. 3806 sempre della prima sezione; in essa dapprima si chiarisce che “la divergenza emersa dal primo e secondo grado ha per oggetto la rilevanza penale della condotta cioè la questione di diritto se il rituale … lettura dei nomi dei Caduti cui seguiva la risposta del presente con conseguente saluto romano,  sia qualificabile alla stregua della violazione della norma incriminatrice di cui all'articolo 2 del  l. n.  205 del 1993 oppure se ricada piuttosto sotto la legge Scelba”.

Sul punto nella sentenza vengono, poi, descritti i rapporti tra le condotte di cui all'art. 2  l. n. 205 del 1993 e articolo 5 l. n. 645 del 1952, specificando che sussiste un'ipotesi di specialità ex articolo 15 del cod. pen. della seconda fattispecie legge Scelba rispetto alla prima legge Mancino.

Il Collegio fornisce un'approfondita motivazione scrivendo che “va innanzitutto evidenziato che il legislatore quando è intervenuto nel 1993 ... ha chiaramente mostrato di voler introdurre nell'ordinamento l'articolo 2 della l. n. 205 del 1993 mantenendo espressamente in vigore le previsioni della legge Scelba, il cui testo normativo è stato contestualmente emendato e aggiornato alle nuove esigenze punitive, ferma restando la apparente omogeneità delle condotte sanzionate, incentrate sul compimento di atti esteriori simbolici propri dei gruppi che propugnano le idee vietate”.

Infatti l'articolo 4 l. n. 205 del 1993 ha espressamente sostituito il secondo comma dell'articolo 4 della l. n. 645 del 1952, mantenendo in vigore entrambi i testi normativi con la “consapevolezza che, alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la condotta vietata dalla legge Scelba richiede altresì uno specifico rischio che, invece, non è richiesto dalla fattispecie generale di cui all'art. 2 l. n. 205 del 1993.

L'art. 2 della l. n. 205 del 1993, continua il Collegio, è in effetti la fattispecie generale che sanziona le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, dei simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano idee discriminatorie: le medesime condotte sono sanzionate dalla art. 5 l. n. 645 del 1952,  ma soltanto allorquando  si ravvisa quel particolare pericolo concreto che attiene alla riorganizzazione del disciolto partito fascista.

Del resto in disparte l'elemento specializzante previsto dalla legge Scelba le due fattispecie sono identiche dal punto di vista sanzionatorio come pure sono del tutto sovrapponibili le condotte incriminate”.

Partendo da questi presupposti, la Suprema Corte in questa sentenza afferma che “ciò che rileva per selezionare le fattispecie alla luce del principio di specialità di cui all'articolo 15 cod. pen. è la <intenzione del legislatore il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'articolo 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare....  La ratio  della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta da attuare la disposizione XII della Costituzione. Il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione> ( Corte Costituzionale sentenza n. 74 del 1958)”.

Evidente, a questo punto, che la differenza sostanziale che riguarda i due approdi giurisprudenziali concerne la circostanza che il richiesto pericolo di ricostituzione del partito fascista non sarebbe, secondo quanto argomentato nella sentenza n. 3806/22, un aspetto interpretativo della norma quanto un elemento precipuo e caratterizzante la fattispecie contenuta nella legge Scelba[20].

Per la Corte di Cassazione, in definitiva, fu corretta la qualificazione normativa dei fatti addebitati  agli imputati,  essendo ai medesimi contestato di aver compiuto delle manifestazioni esteriori simboliche ed evocative del regime fascista, da qualificarsi alla stregua dell'art. 2 legge n. 203 del 1993, non essendo stata contestata l'idoneità a costituire un pericolo per la ricostituzione del disciolto partito fascista che avrebbe piuttosto configurato la violazione dell' articolo 5 legge numero 645 del 1952.

 

Dopo la lettura di queste due sentenza della Suprema Corte, come si diceva prima, ci si deve aspettare che la querelle continui, con nuovi capitoli e canoni interpretativi che generino ulteriore disorientamento negli interpreti oltre a possibili sacche di impunità in relazione alla normativa di attuazione della XII disposizione, oppure che le questioni più dibattute siano affidate SSUU, o ancora che il Legislatore introduca norme chiare e semplici come quelle che sono state inserite nelle proposte di legge di iniziativa popolare e parlamentare, ma fino ad ora sempre disattese.

Da parte nostra auspicheremmo che la lettura della normativa che viene esplicitata dalla sentenza n.3806/22, venisse implementata da una considerazione in ordine alla fattispecie di cui all'art. 5 della legge Scelba, con riferimento alla necessità del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista di cui alla sentenza n. 74/1958 della Corte Costituzionale.

In particolare, noi riteniamo che la manifestazione fascista, di qualunque tipo essa sia, costituisce di per sé un pericolo per lo Stato democratico fondato sulla Costituzione repubblicana perchè intrinsecamente finalizzata alla ricostituzione del partito fascista, mentre la concretezza di tale pericolo deriva esclusivamente dalla valutazione del contesto pubblico, cioè al momento e ambiente, in cui essa si verifica.

In questi termini, anche la possibile obbiezione di violare il diritto di cui all'art. 21 Cost., sarebbe infondata, sulla scorta di quanto più volte statuito dalla giurisprudenza e cioè che il diritto alla libera manifestazione del pensiero non può giustificare atti o comportamenti che, pur se esternazione di proprie idee e convinzioni, siano lesivi di altri principi di rilevanza costituzionale e dei valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno e internazionale.

Sul punto, è stato scritto, ad esempio, che tutte le forme di discriminazione razziale costituiscono anche violazione dell'applicazione del fondamentale principio di uguaglianza indicato nell’art. 3 Cost., “sicché è ampiamente giustificato il sacrificio del diritto di libera manifestazione del pensiero”.

Si è altresì specificato che le idee assumono portata di discriminazione e odio razziale quando contengono “il germe della sopraffazione od enunciazioni filosofico-politico-sociali che conducano a discriminazioni aberranti col pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione. La diffusione di tali ideologie produce la lesione della dignità dell’uomo e delle condizioni di pacifica convivenza democratica, fondate sulla reciproca tolleranza fra popolazioni di differente cultura ed etnia” (Cass., Sez. 1, n. 3791 del 30/09/1993, Freda, in CED, Rv. 196583)

Concetti questi espressi anche a livello di Corte europea dei diritti dell'uomo che più volte ha sentenziato che non può essere invocato l'art. 10 della convenzione che statuisce il principio di libertà di pensiero, da chi compie un atto che mira alla distruzione dei diritti  e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione medesima, abusandone, in base all'art. 17 della Convenzione europea (ad esempio il caso della sentenza del 21 ottobre 2015 riguardava un ingiuria pubblica aggravata dalla componente razzista).

Tutto ciò, naturalmente, ci porta a concludere che la mancata introduzione di norme chiare nel sanzionare la manifestazione pubblica di matrice fascista derivi solo ed esclusivamente da motivi e volontà di natura politica.

g) Limiti alla propaganda politica

Una recente sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (n. 447/2019 del 18 aprile 2019.) ribadisce l’attitudine dei principi fondamentali a conformare direttamente la funzione pubblica, e rammenta l’intensa correlazione sussistente fra diritti e doveri nella trama costituzionale.

La rappresentante piemontese di una formazione della destra extraparlamentare chiedeva al comune di Rivoli l’assenso a collocare un gazebo – per ragioni di propaganda politica – nella via cittadina intitolata a due giovani partigiani, i fratelli Arduino e Agostino Piol (quest’ultimo insignito della medaglia d’oro al valor militare).

Alcuni mesi prima il locale consiglio comunale aveva vincolato la giunta a sollecitare – nei riguardi di tutti gli aspiranti concessionari di suolo pubblico – la formalizzazione di una dichiarazione, attestante il ripudio del «fascismo» e del «nazismo», nonché l’adesione «ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo».

L’interessata si impegnava per iscritto a «riconoscersi nei valori della Costituzione, [a] non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, [a] non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio», così come «a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico».

L’omissione di ogni riferimento alla Lotta di Liberazione, tuttavia, induceva l’amministrazione a ritenere incompleta – e, dunque, inadeguata – la produzione dell’istante, e comportava il rigetto della richiesta.

Ne scaturiva un contenzioso giudiziario, definito dalla seconda sezione del succitato Tribunale con la decisione n. 447 del 18 aprile 2019.

La pronuncia si distingue per la cristallina riaffermazione di alcuni capisaldi dell’intelaiatura costituzionale, confrontandosi con l’estensione dei diritti di libertà e il mosaico assiologico della Repubblica.

La premessa del percorso decisorio è data dall’affermazione – compiuta con provvidenziale franchezza – della limitatezza dei diritti fondamentali.

Soltanto a una narrazione malaccorta – ancorché disgraziatamente fortunata – le situazioni giuridiche enunciate in Costituzione possono apparire incondizionate. Ma, se così fosse, presto o tardi la loro incontenibilità ne snaturerebbe l’essenza, autorizzando la tirannia di alcune a discapito di altre.

L’intera evoluzione del discorso sui diritti fondamentali è permeata dalle esigenze del bilanciamento: non a caso, una feconda parte dell’elaborazione pretoria – riveniente sia dai giudici comuni sia dalla Consulta – affida al canone di ragionevolezza l’armonizzazione delle molteplici istanze emergenti dalla quotidianità.

La composizione reciproca dei diritti di matrice costituzionale ambisce, pertanto, a scongiurare il rischio della disgregazione delle fondamenta dell’ordinamento, verosimilmente scaturente dall’ipotesi d’indiscriminata prevalenza di un diritto su quelli rimanenti: nella consapevolezza di come gli assolutismi giuridici non possano trovare asilo all’interno del perimetro costituzionale.

Ciò vale vieppiù per la libertà di manifestazione del pensiero (politico), pure invocata dalla ricorrente a sostegno della denunziata antigiuridicità del provvedimento comunale da lei avversato.

Operando una sintetica ma esaustiva ricognizione dei principali snodi normativi individuabili in materia, il Tribunale amministrativo puntualizza la fallacia dell’argomento a mente del quale la libertà d’esternazione e propaganda di cui all’art. 21 della Costituzione legittimi ogni forma di proselitismo politico, e sottragga alla pubblica autorità il compito di saggiarne – sebbene estrinsecamente – la consonanza all’assetto valoriale scolpito in Costituzione.

«I valori dell’antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, […] perché sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo», precisa il Collegio.

È bene sottolineare come la motivazione della sentenza riposi non già su considerazioni moraleggianti bensì su specifici addentellati positivi – fra i quali la XII disposizione transitoria e finale della Carta, e l’art. 1, legge n. 645/1952 – la cui lettura circolare consente al Tribunale di esplorare i margini entro i quali si posiziona la libertà in discorso, incompatibile – come osservato dalla pronuncia – con la denigrazione dei «valori della resistenza».

Per questa via, la statuizione perviene al proprio passaggio baricentrico.

Il generico richiamo all’osservanza della Costituzione – quand’anche apertamente professato dalla richiedente – si dimostra apparente, insincero e stilistico, laddove deliberatamente mutilato della sua naturale conclusione: la condivisione sostanziale del significato ascrivibile alla Lotta di Liberazione, evidentemente invisa all’interessata e conseguentemente taciuta nella sua dichiarazione d’intenti.

Il giudice amministrativo rimarca, in proposito, come «Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica».

 

h) La Lista CasaPound

Il movimento CasaPound ha spiccate caratteristiche di tipo fascista.

In primo luogo, sono gli stessi esponenti di CasaPound a definirsi fascisti. Sono numerose le dichiarazioni e le interviste rilasciate dagli attivisti nelle quali i medesimi si qualificano come fascisti, dicono di essere ispirati da ideologia e personalità fasciste, ed elogiano le politiche attuate nel ventennio fascista[21].

In secondo luogo, si deve sottolineare come tanto a livello nazionale, quanto a livello locale (e nello specifico ad Ostia, dove si terrà la competizione elettorale che interessa in questa sede), gli esponenti di CasaPound si siano resi colpevoli di numerosissimi casi di violenza.

Si veda, ad esempio, il doc. 1, nel quale si rende noto che tra il 2011 e l’inizio del 2016 (l’articolo è del 4 febbraio 2016) sono stati arrestati ben 20 fra militanti e simpatizzanti di Casapound. Nello stesso periodo i denunciati sono stati 359. Nei 106 scontri avuti con gli "antagonisti" si sono rimasti feriti (in alcuni casi anche gravemente) ben 24 attivisti di entrambi i fronti.

In questa sede appare opportuno segnalare che moltissimi episodi di violenza hanno interessato proprio la zona di Ostia[22],

Quanto sopra è confermato dal programma ufficiale del movimento Casa Pound[23]

In primo luogo appare molto chiaro l’art.15 del programma:

Democrazia” è stato, fino ad oggi, il nome di una truffa. Se i politici sono camerieri dei banchieri – come accade oggi – significa che la “sovranità popolare” viene svuotata in favore dei poteri forti di tipo economico, criminale, confessionale o sovranazionale. I centri decisionali per eccellenza, del resto, oggi sono concentrati in istituzioni e potentati non elettivi e puramente castali. Noi riteniamo tuttavia che possa esistere un'altra forma di democrazia che sia organica e qualitativa. Democrazia come partecipazione di un popolo al proprio destino. Momento cruciale della politica, posto che per noi la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità”.

Quest’ultima frase (“la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità”) è una citazione mussoliniana.

La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino” è invece tratta dal saggio Il terzo Reich di Moeller Van Der Bruck.

Il medesimo articolo del programma propugna la “Sostituzione del Senato con una Camera del lavoro che garantisca la rappresentatività armonica di tutte le categorie produttive e lavorative” in assonanza con la Camera dei fasci e delle corporazioni.

Nel programma si ravvisano alcune inequivocabili affermazioni di stampo fascista:

Nella Introduzione si legge “Lo Stato che vogliamo è uno Stato etico, organico, inclusivo, guida e riferimento spirituale della comunità nazionale, uno Stato che torni a essere un fatto spirituale e morale”…. Noi vogliamo un'Italia libera, forte, fuori tutela, assolutamente padrona di tutte le sue energie e tesa verso il suo avvenire. Un'Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana.”.

Dall’art. 2 “La dittatura del libero mercato, le politiche miopi e servili dei vari governi sin qui succedutisi, lo smantellamento dello stato sociale creato durante il Fascismo, obbligano gli italiani a subire la disoccupazione, la precarietà, la proletarizzazione e l’immigrazione forzata e incontrollata”.Si propone dunque  “Politica autarchica integrata nell’area europea”.

Dall’art. 4 “Rifondazione culturale dell’Umanesimo del Lavoro, secondo l'ispirazione fondamentale di Giovanni Gentile” (ndr ministro dell’istruzione nei governi fascisti)

Dall’art.12 “In campo culturale proponiamo: – Creazione di un Ente nazionale di cultura che coordini l'intera produzione culturale nazionale in ogni ambito e settore”.

Dall’art.13 “Estirpazione del lobbismo e della politicizzazione interna alla magistratura”

Dall’art. 14 , “Contro la sottomissione nazionale, proponiamo: …Ripristino della geopolitica degli “anni Trenta” verso il Mediterraneo e l’Oceano Indiano” (ndr la geopolitica ‘anni trenta’ nel mediterraneo portò, tanto per dirne una, all’invasione dell’Albania nel 1939).

Dall’art. 14  “L’Italia non deve avere limitazioni su nessun sistema d’arma: dalle portaerei alle armi nucleari”.

Insomma, sebbene il programma eviti abilmente gli eccessivi richiami espliciti al fascismo, abbondano i riferimenti ed i rimandi alle parole d’ordine proprio del regime mussoliniano e la critica al sistema democratico.

In base alle norme vigenti, quindi, la lista di CasaPound non può essere ammessa alla competizione elettorale.

 

i) L’esclusione della lista

Il potere di ricusare la lista che viola i precetti costituzionali (e della normazione primaria applicativa del precetto costituzionale, sopra richiamata), spetta alla commissione elettorale.

Le istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature, elaborate dal Ministero dell’Interno nell’anno 2017, in relazione in particolare all’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale, prevedono:

3.4.4. Esame dei contrassegni di lista

La commissione elettorale circondariale dovrà procedere, poi, all’esame dei contrassegni di lista.

La commissione dovrà ricusare:

(…)

  • i contrassegni in cui siano contenute espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole «fascismo», «nazismo», «nazionalsocialismo» e simili), come tali vietate a norma della XII disposizione transitoria e finale, primo comma, della costituzione e dalla legge 20 giugno 1952, n. 645”.

Su questo specifico aspetto si è pronunciato in termini chiarissimi il Consiglio di Stato, con la sentenza della sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, nella quale ha sostenuto: “il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’articolo 49 della Costituzione, e quello di accesso alle cariche elettive, ex articolo 51 della costituzione, trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere e democratiche dinamiche. Va soggiunto che l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teleologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione di un’associazione vietata, ma deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista.

Tale essendo il quadro costituzionale entro il quale si iscrive la disciplina che regola il procedimento elettorale e che fissa i poteri delle commissioni elettorali, si deve ritenere che gli articoli 30 e 33 del D.P.R. n. 570/1960 fissino i casi di esclusione e di correzione dei contrassegni e delle liste elettorali presupponendo implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XII disposizione di attuazione e transitoria della costituzione. In altri termini la normativa in parola, nello stabilire i casi di ricusazione dei contrassegni e delle liste, si riferisce a situazioni in astratto assentibili sul piano della superiore normativa costituzionale senza fungere da garanzia per situazioni già vietate, in via preliminare e preventiva, dall’ordinamento costituzionale. L’impossibilità che il movimento o l’associazione a cui si riferisce il simbolo o la lista partecipi alla vita politica postula quindi, in via implicita ma necessaria, il potere della commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento giuridico.

Dalla sopramenzionata sentenza emerge quindi un dato fondamentale.

Non solo il simbolo può essere ricusato dalla commissione, ma la lista in sé, laddove faccia capo ad un movimento o associazione di stampo neofascista.

Infatti la norma , nel disciplinare l’ammissione della lista presuppone “implicitamente la legittimazione costituzionale del movimento o partito politico alla stregua della XII disposizione di attuazione”.

Il potere di ricusazione della commissione si estende alla valutazione del presupposto di conformità alle norme costituzionali della lista. E’ attribuito quindi “in via implicita ma   necessaria, il potere della commissione di ricusare la lista”.

 

 

12.                     DEMOCRAZIA DIGITALE

 

a) Premessa. Dal divario digitale infrastrutturale al divario digitale sociale

“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. Ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo”: a distanza di quasi mezzo secondo da questa frase, pronunciata da Italo Calvino durante un’intervista per “Mondoperaio”, è lecito domandarsi cosa avrebbe pensato il suo autore della rete - e dei social in particolare- a cui ciascuno di noi dedica il massimo del tempo della propria vita moderna.

La lettura cartacea ha repentinamente lasciato il passo a quella digitale, allargando indubbiamente i nostri confini e le nostre conoscenze ed entrando sempre di più, sempre di più, nel nostro quotidiano. Il web 3.0 - ossia quello inclusivo dei walled garden dei social network – ci ha alleggerito (sic!) la vita fornendoci - brevi manu - le notizie direttamente all’interno dei social stessi senza doverle più andare trovare singolarmente, intenzionalmente e faticosamente altrove. Siamo sempre connessi e lo saremo sempre di più, specie grazie a buona parte del recovery plan dedicato al digitale. Il passaggio dalla scarsità all’abbondanza delle informazioni è stato repentino, ingrassando oltremodo la nostra mente affetta da una bulimia del sapere; non riusciamo più a comprendere, ad assorbire, a valutare e a decantare. Tale condizione ci ha drogati (in)consciamente rendendoci tuttologi del sapere: siamo diventati medici, avvocati, politici, chef, scienziati, giudici, comodamente dal divano di casa, elargendo tutto il nostro sapere sconfinato attraverso i polpastrelli di una mano.

Questo contributo intende esplorare “il mondo nuovo della rete” alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali e disposizioni normative, nel tentativo di predisporre una “cassetta degli attrezzi” che abbia una fusa valenza su due versanti: tutela degli utenti e responsabilità delle piattaforme.

b) La rete una, sola ed unica piattaforma comunicativa di massa

La libertà dell’informazione- quale punto di contatto tra le libertà costituzionalmente contenute nell’articolo 15 e 21 della Costituzione- ha conosciuto nella prima età della rete la sua massima ed estesa espressione. In tale formula comunicativa le due libertà (manifestazione del pensiero e forma di comunicazione) si sono, per la prima volta, unite in maniera indistinta a differenza del passato, in cui a ciascun mezzo di comunicazione corrispondeva ad un servizio ben indentificato. Ciò è reso possibile grazie al processo di convergenza crossmediale, che ha abilitato ciascuno di noi a utilizzare un unico mezzo (la rete) per la realizzazione di infiniti servizi (posta elettronica, chiamate, messaggi, video, condivisione di contenuti).

Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno di svolta di tale processo, a causa del forzato isolamento domestico dettato dalla pandemia. I dati di utilizzo di internet in Italia rilevano che, nel mese di settembre 2020, ben 42 milioni di utenti medi giornalieri hanno navigato in rete per un totale di 59 ore mensili a persona (cfr. il documento “Le infrastrutture di comunicazione mobile e la banda ultralarga” realizzato dal Servizio Studi della Camera dei deputati in data 27 gennaio 2021[24]).

Qualcosa in questi ultimi anni è stato compito per consentire lo sviluppo della banda ultralarga: nuove previsioni per la semplificazione delle procedure relative al dispiegamento delle reti regole (ad opera del d.l. 135/18 che ha modificato il d. lgs. 33/16), maggiori poteri attribuiti ad Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) sulla separazione funzionale e volontaria relativamente alla fornitura all'ingrosso di determinati prodotti di accesso, con specifico riferimento alle infrastrutture di rete, specifiche misure di semplificazione per il dispiegamento delle reti (d.l. 76/20)- come ad esempio la previsione della SCIA per effettuare gli interventi di scavo, installazione e manutenzione di reti di comunicazione in fibra ottica– e della fibra in particolare presso gli istituti scolastici e ospedali (d.l. 183/20).

Al contempo, resta indubbiamente alto il tasso di divario digitale “infrastrutturale” del nostro paese rispetto agli obiettivi prefissati dall’Unione europea nella Strategia nazionale per la banda ultralarga. La percentuale italiana di connettività ad almeno 100Mbp/s per il 2020 è ben al di sotto dell’obiettivo prefissato dell’85% (siamo ancora al 25% contro una media UE del 60%); così come siamo ancora lontani dal garantire a tutti i cittadini, sempre nel 2020, una connessione a banda larga garantita a 30Mbp/s (al 60% contro il 77% della media europea).[25] Come ha ricordato il Commissario Antonello Giacomelli «per l’Italia e il governo è l’ora di un nuovo Piano Bul, perché siamo fermi a quello del 2015, risorse comprese, e nel frattempo molto è cambiato. C’è una risposta da dare sul modello per le aree grigie, ci sono novità straordinarie come il 5G, dove l’Italia è stata la prima sulla sperimentazione della rete legata al posizionamento dei servizi in collaborazione con università e imprese. Ora la strategia complessiva va tarata sul futuro. Il Recovery Plan è un’occasione come base di partenza, ma non è una strategia sulla banda ultralarga»[26]

Nell’annus horribilis la Commissione europea ha pubblicato Comunicazione "Bussola digitale 2030: la via europea per il decennio digitale", che ha definito, tra gli altri, anche gli obiettivi di connettività per l'anno 2030, prevedendo due importanti obiettivi: da un lato garantire una connettività di almeno 1 Gbps per tutte le famiglie europee e dall’altro realizzare una piena copertura 5G in tutte le aree popolate. A distanza di appena un anno, la Commissione ha adottato una nuova versione della comunicazione, per conseguire una trasformazione digitale dell’Europea entro il 2030 strutturata su quattro punti cardinali: (1) cittadini dotati di competenze digitali e professionisti altamente qualificati nel settore digitale[27], (2) infrastrutture digitali sostenibili, sicure e performanti[28], (3) trasformazione digitale delle imprese[29] e (4) digitalizzazione dei servizi pubblici[30].

Dall’analisi degli ultimi dati dell’Osservatorio sulle Comunicazioni dell’Agcom[31]emerge che, a fine settembre 2020, nella rete fissa, gli accessi complessivi si siano ridotti di circa 130 mila unità rispetto al trimestre precedente e di 390 mila unità a confronto del settembre 2019. Parallelamente, è stato riscontrato un cambiamento delle tecnologie utilizzate: gli accessi alla rete fissa in rame sono passati dall’85% del settembre 2016 al 39% del settembre 2020% (con una flessione di 9,6 milioni di linee); nello stesso periodo c’è stato un importante aumento degli accessi tramite tecnologie qualitativamente superiori: FTTC +7,06 milioni di unità, FTTH +1,16 milioni e FWA (+ 610 mila).

Per quanto concerne la comunicazione mobile. L’Autorità ha certificato la presenza di 104 milioni di sim attive a settembre 2020 (con una flessione su base annua di circa 220mila unità), con una crescita di 2,8 milioni di sim M2M e una riduzione di 3 milioni di sim “solo voce” e “voce+dati”.

Dunque, da un punto di vista strettamente tecnologico la connessione attualmente utilizzata degli italiani è in gran parte fibra misto rame, per la linea fissa, e 4G per quella mobile. Se l’Italia ha attraversato il lock-down con tali dotazioni infrastrutturali potrà continuare così fino al 2030 “anno obiettivo” della connessione unica ad 1 G/bit al sec per il fisso e del 5G per tutti?

c) 5G, Internet of things e Intelligenza Artificiale

Si ricordi, al riguardo, che tra un anno esatto (30 giugno 2022) il nostro paese, contestualmente al resto d’Europea, avrà il suo secondo switch off (il primo, come molti di voi ricorderanno avvenne tra il 2010 e il 2012 con il passaggio dalle trasmissioni televiste analogiche a quelle digitali), ossia il 50% delle attuali risorse frequenziali attualmente impiegate dagli operatori di rete televisivi passerà agli operatori di comunicazioni elettroniche per “allargare” lo spazio del 5G[32].

La ragione risiede dal cambiamento delle abitudini e dell’uso degli utenti dello smartphone: terzi del consumo di traffico su reti mobili è infatti rappresentato da video, quota destinata ad ampliarsi al 77% entro il 2026; se oggi il consumo medio di ogni utente è di 10 GB al mese, tra cinque anni dovrebbe più che triplicarsi, a 35 GB. A distanza di tre anni dal primo lancio sperimentale del 5G. le stime del report annuale della GSMA prevedono che raggiungerà il 20% delle connessioni globali nel 2025, a fronte del 4% di oggi. Il nuovo standard di comunicazione mobile è ormai presente in tutti i continenti del globo; in alcuni paesi più avanzati come Usa, Corea del Sud e Cina il 4G ha già raggiunto il suo picco di diffusione e comincia il suo declino a vantaggio del 5G, tuttavia un terzo dei consumatori mondiali preferisce ancora attendere i veri vantaggi del 5G prima di migrare, ma altro terzo per ora è deluso, sebbene, occorre ribadire, che il vero 5G stand alone sarà implementato solo nella seconda parte del 2023 (sia a seguito, dello switch off, che dalla massiva penetrazione di devices abilitati alla sua ricezione).

Ma, come noto, il 5G non è destinato solo alle comunicazioni interpersonali ma anche ad una moltitudine di altri utilizzi tipici dell’Internet of Things (IoT); in questo campo le previsioni sono che entro il 2030 più di 50 miliardi di dispositivi saranno connessi con tale tecnologia e nel 2023 la spesa mondiale crescerà fino a  superare 1.100 miliardi di dollari[33]. Interessante al riguardo la recente dichiarazione della commissaria europea Margrethe Vestager, Vicepresidente esecutiva, responsabile della politica di concorrenza illustrando i risultati preliminari della indagine settoriale sulla concorrenza nei mercati dei prodotti e servizi relativi all’Internet degli oggetti (IoT) di consumo nell’Unione europea: “un gran numero di intervistati ha sottolineato che il principale ostacolo allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi è la capacità di competere efficacemente con i principali attori del settore consumer IoT, ovvero Google, Amazon e Apple”.

Altro tema abilitante dal 5G e dalla crescita della rete consiste nell’intelligenza artificiale ossia la tecnologia informatica che sta rivoluzionando il modo con cui l'uomo interagisce con la macchina, e le macchine tra di loro (M2M). L’intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, e agire verso un obiettivo specifico; il computer riceve i dati, processandoli e rispondendo[34]. Certo siamo ancora lontani dal mondo immaginario di Steven Spielberg esattamente vent’anni fa quando realizzò un progetto di Stanley Kubrick “A.I. Artificial Intelligence” la cui locandina recitava: “David ha 11 anni. Pesa 27 chili. E' alto 137 centimetri. Ha i capelli castani. I suoi sentimenti sono veri. Ma lui non lo è.

Secondo previsioni di ABI Research[35] il numero di device di tracking IoT raggiungerà quota 68 milioni di unità fra 5 anni: si tratta di un gran numero di prodotti consumer per la casa e il controllo di elettrodomestici o altri sistemi indoor, ma anche apparecchi per il monitoraggio delle condizioni di salute e di controllo personale, soprattutto bambini, anziani e animali domestici che stanno diventando sempre più diffusi.

Grandi passi in avanti sono stati fatti, specie dopo la pandemia e l’esplosione dell’uso dei dati da parte di tutti noi. «L'intelligenza artificiale è un must per l'adozione e la gestione di successo del 5G»: ha affermati Peter Laurin, Senior Vice President e capo di una delle 4 aree globali (Managed Services) di Ericsson aggiungendo “grazie all'Intelligenza Artificiale, ci assicuriamo che le reti funzionino al meglio delle loro capacità, garantendo le migliori esperienze per gli utenti finali. L'Intelligenza Artificiale ci consente di prevedere un calo delle prestazioni di rete prima che questo si verifichi e di intraprendere le azioni necessarie prima che ciò generi un impatto sugli utenti finali.”, Ma bastano le sue rassicurazioni? Non per la Commissione europea che 21 aprile 2021 ha proposto un regolamento sull’Intelligenza Artificiale intitolato “il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce norme armonizzate in materia di intelligenza artificiale e che modifica alcuni atti legislativi dell'Unione" ma che di fatto istituisce un quadro di riferimento legale volto a normare il mercato dell’Unione Europea dell’IA. Ma non solo. Nel medesimo giorno, la Commissione ha anche proposto un "Piano coordinato di revisione dell'intelligenza artificiale 2021", che pone le basi affinché la Commissione e gli Stati membri collaborino nell'attuazione di azioni congiunte ed eliminino la frammentazione dei programmi di finanziamento, delle iniziative e delle azioni intraprese a livello dell'UE e dei singoli Stati membri nonché il "Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relative alle macchine", che dovrebbe sostituire la direttiva 2006/42/CE del 17 maggio 2006 relativa alle macchine, che garantisce la libera circolazione delle macchine all'interno del mercato UE ed assicura un alto livello di protezione per gli utenti e altre persone esposte. In particolare, la proposta di regolamento classifica i prodotti che utilizzano completamente o parzialmente il software AI in base al rischio di impatto negativo su diritti fondamentali quali la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, il diritto alla non discriminazione, la protezione dei dati ed, in particolare, la salute e la sicurezza. Più il prodotto è suscettibile di mettere in pericolo questi diritti, più severe sono le misure adottate per eliminare o mitigare l'impatto negativo sui diritti fondamentali, fino a vietare quei prodotti che sono completamente incompatibili con questi diritti.

Poiché  i dati sono alla base dell’intelligenza artificiale diversi sono i punti in comune con il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati – RGPD): da un lato, infatti, vi sono le restrizioni per gli operatori economici non-UE nella circolazione dei loro beni e servizi nell'UE dall’altro l’applicazione delle regole a prescindere dal fatto che gli operatori siano stabiliti nell'UE. Proprio quest’ultimo aspetto – di cui si parlerà più diffusamente nella seconda parte dell’articolo – è uno dei nuovi parametri verso cui la Commissione europea ma anche gli stati membri (si pensi alla normativa italiana in tema di secondary ticketing o divieto di giochi d’azzardo) stanno virando: dal country of origin al country of destination.

 

d) L’improcrastinabile urgenza di abbattere il digital divide sociale

Il vero problema risiede nel digital divide sociale. Come ha puntualmente descritto Martin Angioni[36] nel suo “Amazon dietro le quinte”, il successo di piattaforme digitali come Amazon, decretato dalla continua crescita del numero di clienti, “è dovuto solo in parte residuale ai prezzi praticati. Molto di più è riconducibile al servizio, alla comodità e soprattutto all’assortimento senza pari”.

È da tale considerazione che occorre approcciarsi per ridurre il divario sempre più marcato tra nord e sud, tra over 50 e under 30, tra genitori e figli, tra pubblico e privato.

Le quattro categorie rappresentano il cuore del problema digitale sotto il primo versante di cui si discute, ossia quello del rapporto tra piattaforme e utenti.

Il tema centrale non è, dunque, solo garantire una rete (fissa e mobile) ultra veloce, bensì pure quello di prendere consapevolezza dell’aumento di disuguaglianze digitali sociali sempre più marcato specie dopo la pandemia.

Si pensi allo SPID. Nato nel marzo del 2013 da una proposta del deputato Stefano Quintarelli, presidente del comitato di indirizzo dell'AgID. Per ben 7 anni non è riuscito ad avere una vera diffusione presso la popolazione; si è dovuto attendere il cashback di Stato per vederlo decollare istantaneamente: da 6 milioni del marzo 2020 agli oltre 18 milioni del marzo 2021[37].

Eppure, l’idea di dotare il cittadino di un sistema di credenziali unico per “loggarsi” nei siti (o app) delle diverse amministrazioni pubbliche, invece di essere costretti ad attivare un account per ciascuna era straordinariamente rivoluzionaria e innovativa, era giusta. Tuttavia, mancava di appeal. Si badi bene, non che oggi i cittadini abbiano maturato improvvisa fiducia nello Spid, ma lo si possiede semplicemente per un uso (il cashback) ritenuto appetibile. Paradossalmente, la postura che lo Stato dovrebbe assumere nei confronti dell’utenza dovrebbe assomigliare – rovesciandone le finalità- a quello seguito dai GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), ovvero semplicità e funzionalità del servizio offerto[38].

Sempre per restare sul tema del pubblico, pensiamo all’app IMMUNI. Da giugno 2020 ad oggi è stato scaricato da circa 10.400.000 di utenti (circa il 19% della popolazione). I download dell’app, dopo una buona crescita in autunno, all’inizio della seconda ondata, si sono praticamente fermati - dalla fine di ottobre 2020 a metà marzo 2021 sono passati da 9,3 a 10,3 milioni – risultando praticamente inutile nella seconda e terza ondata della pandemia. Il problema vero è che, dei milioni di utenti che l’hanno scaricata, pochissimi l’hanno usata per caricare i loro dati, se positivi, e pochissimi hanno ricevuto notifiche di esposizione. Ecco che ritorna il divario digitale sociale. Se l’utente non è messo in condizioni di utilizzare una app o un servizio digitale non lo usa e basta.

Passando all’ambito didattico, si è tanto dibattuto e si continua a confrontarsi sulla didattica a distanza: la DAD. Da una recente indagine condotta da Ipsos per conto di Save the Children[39], associazione che più di tutte, dall’inizio della pandemia, segue da vicino la questione, circa il 30% degli studenti arriva a disertare le lezioni virtuali. Si tratta di un dato drammatico. Le cause della dispersione sono legate a una questione economica e classista, i giga e tablet forniti dal Ministro per i meno abbienti si sono dimostrati poco funzionali, perché non hanno retto la mole di lavoro. Dall’indagine emerge che la DAD ha peggiorato enormemente la didattica: circa un alunno su due ritiene di aver “sprecato” l’anno, oltre uno studente su tre (35%) si sente più impreparato di quando andava a scuola in presenza e il 35% quest’anno deve recuperare un maggior numero di materie rispetto all’anno scorso. Quasi quattro studenti su dieci sostengono di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare (37%). Gli adolescenti dicono di sentirsi stanchi (31%), incerti (17%), preoccupati (17%), irritabili (16%), ansiosi (15%), disorientati (14%), nervosi (14%), apatici (13%), scoraggiati (13%), in un caleidoscopio di sensazioni negative di cui parlano prevalentemente con la famiglia (59%) e gli amici (38%), ma che per più di 1 su 5 rimangono un pesante fardello da tenersi dentro, senza condividerlo con nessuno (22%). A distanza di un anno dal suo ingresso sono innegabilmente aumentate le disuguaglianze tra gli studenti, con un aumento dei NEET[40] e una diminuzione della qualità di coloro che riusciranno ad arrivare ugualmente all’università. Su tale questione le responsabilità sono molteplici. In primis legate alla mancanza di una preparazione da parte degli insegnanti nei confronti di una lezione a distanza che richiede un approccio diverso rispetto a quello in aula. Inoltre, vi è pure la responsabilità dei genitori, che si sono trovati impreparati a gestire i propri figli in casa come a scuola, trascurandoli da un lato o aiutandoli oltremodo dall’altro. Infine, c’è una responsabilità dei ragazzi, che sino all’inizio della pandemia associavano spesso il digitale solo allo svago (chat, visione di film, social) e non come strumento di studio.

Come ci ricorda Wolfgang Goethe  in Wilhelm Meister “non c’è nulla di più ragionevole al mondo che saper cavare un vantaggio dalla follia altrui. La domanda non deve essere solo quando riaprire,  bensì come e con quali nuovi strumenti atti a ridurre il divario tra gli studenti.

Un esempio potrebbe essere quello di predisporre un patentino digitale, nipote, ad esempio, del ECDL, European Computer Drive License, che certifichi l’abilitazione dell’uso al digitale da parte dell’utente (professore, genitore e studente). Ma soprattutto che renda obbligatorio il passaggio della formazione, della lettura delle istruzioni per l’uso della consapevolezza della macchina che stiamo “pericolosamente” guidando senza una meta.

 

e) Verso una nuova forma di tutela e responsabilità degli utenti

Insieme all’accelerazione della comunicazione (e delle reti), stiamo assistendo alla sua contrazione racchiusa addirittura in un tweet di 120 (allargati, poi, a 240) caratteri. Anzi. Il crescente utilizzo dei nuovi social network (Instagram, Periscope e Tik-Tok) ha da un lato abbassato l’età media degli utenti social –allargando ai più giovani (spesso giovanissimi) l’accesso a tali mezzi di comunicazione - e dall’altro spostato l’asse della comunicazione dalla scrittura (seppur concisa) di un post o di un commento in favore di un video o di una foto. Chissà cosa avrebbe pensato il padre della lingua italiana di questo processo. Di certo torna quanto mai attuale l’incipit di “Le due città” di Charles Dickens “era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi”. L’umanità non ha mai vissuto una stagione della conoscenza così florida e parallelamente tanto piena di costante disinformazione. Il nodo centrale è avere la capacità di gestire tale immenso magazzino di informazioni; la repentina diffusione della rete e dei social non ha permesso una (necessaria) fase di decantazione da parte dello Stato e soprattutto da parte di ciascuno di noi. In questo contesto svolge un ruolo chiave l’alfabetizzazione digitale[41] (media literacy) che deve partire sin dalla giovane età all’interno della famiglia e trovare un costante processo formativo scolastico ed universitario.

Per usare ancora una volta le parole di Italo Calvino, che  aveva intuito tale processo già nel 1984, “alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”[42].

In tempi più moderni, Gabriella Paolucci, durante un convegno[43]svolto a Fiesole presso la European University Institute sull’attenzione alla contrazione spazio-temporale del mondo contemporaneo, aveva diagnosticato le cause e gli effetti di tale processo: “L’odierna compressione spazio-temporale ricade – a grande velocità!– sulle forme del pensiero e del linguaggio, sui modi della comunicazione, sugli aspetti essenziali della vita sociale e su tutto ciò che concorre alla riproduzione individuale”.

Se la sociologia e la letteratura avevano sapientemente anticipato i tempi, profetizzando le ricadute del processo di accelerazione e contrazione del tempo e dello spazio nella comunicazione massmediale, il diritto e la legge non sono stato altrettanto veloci.

Si pensi, per un attimo, ai giornali prima e alla radio e alla televisione in seguito: dietro ogni articolo, trasmissione o programma c’è sempre una “responsabilità editoriale”. E’ su simile grande responsabilità che si è, sino ad oggi, basato il successo o l’insuccesso di un giornale o di un canale televisivo. Ma soprattutto è in virtù di essa che si è concretizzata l’altra faccia della libertà di informazione dell’art. 21 della Costituzione: la libertà di ricevere l’informazione[44]. Come ci ricorda il Prof. Roberto Zaccaria nel suo manuale “Diretto dell’informazione e della comunica   zione «(i)l profilo passivo della libertà di informazione è da tempo evidenziato nei testi costituzionali ed anche in molte Carte internazionali […]. In tutti questi testi si mette in primis in risalto, accanto alla libertà di informazione, anche il diritto, strumentale ed essenziale rispetto alla prima, di ricercare le fonti e di accedere alle stesse». Siamo arrivati ad avere una mancanza comune dei pesi specifici delle fonti di informazioni. La ricerca delle fonti e soprattutto del fact-checking - sia da parte di chi fruisce delle notizie che, non di raro, da parte di chi le produce - è passato in subordine rispetto alla incessante produzione delle stesse. Anzi, spesso ci fidiamo più di uno dei primi risultati di una ricerca su Google (alzi la mano chi è riuscito ad andare oltre la seconda/terza pagina) di una qualche di un articolo del Corriere della Sera o di Repubblica. Abbiamo in gran parte perso il desidero di approfondire qualunque notizia, sopraffatti dall’irresistibile voglia di essere protagonisti della scena, con immediati commenti su tutti i temi, assettati da una costante voglia di arricchire il nostro palinsesto a portata di pollice.

Inizia tuttavia a vedersi gli effetti (spesso perversi) di questo divario digitale sociale presso gli utenti anche nei giovani. “Avevamo cominciato bene, eravamo felici. E poi. [...] Poi la gente ha cominciato ad aver paura”: questa citazione – di William Golding, Premio Nobel per la letteratura 1983 tratta dal suo romanzo d’esordio “Il signore delle Mosche” – è perfettamente calzante al momento di maturità che stiamo vivendo nei confronti della rete. Ne “Il signore delle Mosche” venivano narrate le vicende di un gruppo di ragazzi britannici bloccati su un'isola disabitata e il loro disastroso tentativo di autogovernarsi.

Mutatis mutandis, finita l’età dell’oro del far web è giunta l’improcrastinabile urgenza di una seria e concreta presa di coscienza della rete.  Usiamo spesso la frase navigare in rete; non c’è metafora più azzeccata per rendere questo concetto. Per navigare occorre saperlo fare. Occorre che qualcuno ci abiliti a farlo. Ci fornisca la bussola, le mappe, l’imbarcazione. e quale migliore posto dell’ambiente domestico e della scuola per poterlo fare. Si tratta di un binomio inscindibile dal quale è fondamentale partire. Il vero problema è che i primi ad essere vittime siamo spesso noi adulti che a differenza dei giovani abbiamo la responsabilità, la maturità e la postura per poter correggere ai nostri errori.

Ma se la predetta condizio ne sociale riguarda tutti noi, è altresì vero che la mancanza di una responsabilità ex ante delle piattaforme digitali è il tabù da sfatare.

La seconda parte del contributo è, quindi, incentrato sulle piattaforme digitali ed intende proprio approfondire il tema della loro responsabilità, partendo dalla normativa attuale (Direttiva e-commerce), la sua evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e di Cassazione sino ad arrivare alle recenti proposte della Commissione europea (DSA e DMA) nel nuovo approccio proposto.

 

f) L’irresponsabilità delle piattaforme digitali nell’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale.

Analizzato il versante dell’utente finale della rete passiamo ad esplorare le piattaforme digitali, partendo dal regime di responsabilità in ragione della diversa tipologia di attività svolta.

Un primo intervento normativo è rappresentato dalla Direttiva E-Commerce risalente al 2000 (recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 70/03), che ha introdotto una distinzione tra le categorie di soggetti operanti su reti di comunicazione elettronica che, a diverso titolo, prestano un servizio della società dell’informazione.

Grazie a tale Direttiva si è iniziato a prendere in considerazione la (ir)responsabilità delle piattaforme digitali. Si tratta in particolare dei c.d. “intermediari di rete distinti in tre tipologie in funzione delle diverse caratteristiche di attività: semplice trasporto (mere conduit), memorizzazione temporanea (caching), o memorizzazione (hosting) delle informazioni.

Per ognuno di essi è previsto un regime di irresponsabilità, a date condizioni giustificato dal fatto che si tratta di attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo: il che implicherebbe che il prestatore di servizi non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate (Considerando 42 della direttiva).

In un siffatto scenario è lecito, ed anzi doveroso, domandarsi se ha ancora senso parlare di rete libera.

Il limite sino ad oggi riscontrato risiede nella mancanza di una responsabilità editoriale (diversamente dai contenuti radiotelevisivi) da una parte e dalla infinita accessibilità alle risorse dall’altra (contrariamente alle risorse scarse delle frequenze, ad esempio).

Le attuali regole del gioco che conosciamo – tutte di matrice europee – sono frutto dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione della comunicazione tipici degli anni 80/90 del secolo scorso, che a cascata sono entrate nel nostro ordinamento (si pensi al Testo unico dei servizi di media e al codice delle comunicazioni elettroniche).

Lo stesso legislatore europeo in realtà si pose il problema delle piattaforme digitali agli albori del nuovo millennio, adottando proprio la Direttiva E-Commerce 200/31/CE recepita nel nostro ordinamento dal D.lgs n. 70/03. In tale disposizione aveva infatti previsto una generale esenzione di responsabilità ex ante da parte del prestatore intermediario (provider), ossia “il soggetto che esercita un’attività imprenditoriale di prestatore di servizi della società dell’informazione offrendo servizi di connessione, trasmissione ed immagazzinamento dei dati, ovvero ospitando un sito sulle proprie apparecchiature”. Tale figura è stata in tale contesto suddivisa a sua volta in (1) fornitore di accesso (access provider), ossia il soggetto che offre al pubblico l’accesso ad una rete (2), fornitore di servizi (service provider) quale soggetto che offre al pubblico servizi di comunicazione e/o di trattamento delle informazioni destinati al pubblico, oppure ad utenti e abbonati e fornitore di contenuti (content provider), ovvero il soggetto che offre al pubblico informazioni che transitano sulla rete telematica e destinate al pubblico, oppure ad utenti e abbonati.

Più in particolare, l’art. 17 della predetta Direttiva ha introdotto, in favore dei provider, l’assenza dell’obbligo generale di sorveglianza che si traduce in una esenzione di responsabilità per i fornitori di servizi, a condizione che non intervengano in alcun modo sui contenuti.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha dato, nel corso degli anni, una chiara attuazione a tali principi, come ad esempio nella nota sentenza Scarlet/Sabam del 2011[45] in cui è stato affermato che la direttiva E-commerce osta ad un’ingiunzione rivolta ad un fornitore di servizio di accesso alla rete Internet di predisporre un sistema di filtraggio di tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi ai sensi dell’art. 15, il quale vieta l’imposizione di obbligo di sorveglianza attiva generalizzata. Così come, in tema di motori di ricerca, la Corte di Giustizia si è pronunciata nel 2010, affermando l’irresponsabilità di Google nell’offrire un servizio di posizionamento connesso al proprio motore di ricerca, rilevando che il suo ruolo fosse meramente tecnico, automatico e passivo.

Un decisivo passo in avanti è stato compiuto dalla sentenza EBay L’Oréal[46]nel 2011, in cui la Corte ha precisato come non possa considerarsi meramente tecnica, automatica e passiva l’attività dell’intermediario di rete che abbia prestato un’assistenza consistente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e nel promuovere tali offerte.

In altri termini, la Corte, precisando che la verifica più stringente circa il suo attivo dell’ISP spetti in concreto al Giudice di rinvio, ha riscontrato comunque che poiché Ebay non fornisce ai suoi utenti un servizio “neutro” bensì una vera e propria assistenza nelle vendite, “consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte“, esso “non ha una posizione neutra tra il cliente venditore e i potenziali acquirenti, ma svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte“. Ma l’aspetto forse più rilevante di tale pronuncia consiste nell’invio della Corte agli Stati membri affinché i propri organi giurisdizionali competenti in materia di proprietà intellettuale possano ordinare agli ISP di adottare provvedimenti che contribuiscano sia a far cessare le violazioni di tali diritti ad opera degli utenti, sia a prevenire nuove violazioni.

Più di recente la Corte ha compiuto un altro importante cambio di passo con la sentenza del 3 ottobre 2019 Facebook c/ Eva Glawischnig-Piesczek[47]adottata nella causa C-18/18, affermando che il divieto per gli Stati, ai sensi della direttiva sul commercio elettronico, di imporre agli intermediari di rete un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, non riguarda obblighi di sorveglianza in casi specifici come quello di porre fine ad una violazione o di impedire una violazione, in particolare cancellando le informazioni illecite o disabilitando l’accesso alle medesime.

Su tale linea, la Corte di Cassazione[48], da ultimo, ha compiuto un’ulteriore, e fondamentale, passo in avanti, individuando specifici elementi che permettono di qualificare l’hosting provider “attivo” e dunque privo dell’esenzione da responsabilità riconosciutagli in principio dalla legge per i contenuti illeciti “ospitati” sui propri siti: le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione dei contenuti operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio e, in ogni caso, tutte le condotte volte a completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti. Ma soprattutto la Corte ha chiarito che il regime di esenzione di responsabilità ex ante previsto dall’art. 16 del D. Lgs. 70/2003 - che attua l’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE - soggiace al rispetto di due condizioni: (I) che non sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione veicolata e (II) che agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti. Se una o entrambe le condizioni non vengono rispettate l’hosting provider, a prescindere dalla specifica qualificazione tra attivo o passivo – non può invocare il regime di esenzione di responsabilità.

 

g) La nuova disciplina italiana sugli intermediari di Rete: tra secondary ticketing, divieto di pubblicità del gioco con vincite in denaro e platform to business (P2B)

Sulla scia della richiamata giurisprudenza europea e nazionale, in tema di responsabilità degli intermediari di Rete, e per far fronte ai crescenti illeciti amministrativi attraverso la rete Internet, il legislatore italiano ha dotato l’ordinamento nazionale di nuovi strumenti di contrasto del fenomeno del secondary ticketing e del gambling con vincite in danaro.

  1. A) Secondary ticketing: L’art. 1, comma 545 della legge 2016/232 “al fine di  contrastare  l'elusione  e  l'evasione  fiscale, nonche' di assicurare la tutela dei consumatori e garantire  l'ordine pubblico” ha introdotto una nuova fattispecie di illecito amministrativo, consistente nella “vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione”. 

L’obiettivo che si è prefissato il legislatore consiste nel contrastare il crescente fenomeno del bagarinaggio di biglietti per eventi di spettacolo, cresciuto a dismisura grazie ad Internet. L’unica eccezione consentita è la vendita di biglietti ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale, effettuata da una persona fisica ed in modo occasionale, purché senza finalità commerciali.

La disciplina del secondary ticketing è stata modificata con la l. 145/18, n. 145, che ha introdotto i commi da 545-bis a 545-quinquies alla legge n. 232/2016. Con tali modifiche è stato disposto da un lato che, a partire dal 1° luglio 2019, i titoli di accesso ad attività di spettacolo in impianti con capienza superiore a 5.000 spettatori debbano essere nominali e dall’altro è stata disciplinata la procedura di intermediazione, svolta solo dai soggetti autorizzati (e cioè siti Internet di rivendita primari, box office autorizzati e siti Internet ufficiali dell’evento), attraverso la quale gli acquirenti dei biglietti possono rivendere a terze persone fisiche i titoli acquistati.

Nei casi di violazione dei predetti divieti il legislatore ha previsto (I) l’inibizione della condotta, (II) una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché (III), ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, l’oscuramento del sito attraverso il quale la violazione è stata posta in essere.

La competenza a vigilare sul rispetto dei predetti divieti è stata attributi all’Agcom, che nel 2020 ha adottato diverse sanzioni pecuniarie[49] (per un importo di oltre 5.000.000 di euro) ed inibendo la prosecuzione della condotta lesiva.

Il Tar del Lazio ha recentemente confermato l’operato dell’Autorità con le sentenze nn. 3955/2021 e 4335/2021 rispingendo i ricorsi promossi da Viagogo e da StubHub, i più grossi operatori digitali del secondary ticketing. Il Tar, accogliendo integralmente le difese dell'Autorità esposte dall'Avvocatura generale dello Stato, ha rigettato tutti gli argomenti difensivi affermando “la gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite l'articolata gestione imprenditoriale evidenziata nella motivazione del provvedimento, servizi finalizzati – per stessa ammissione della ricorrente – a favorire la conclusione di negozi giuridici che la legge qualifica in linea generale illeciti, escluse le limitate ipotesi sopra indicate, non possa essere considerata neutrale rispetto al disposto normativo, non potendo essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata, come infondatamente argomentato da parte ricorrente” (enfasi aggiunta).

Si tratta di due pronunce di rilevante importanza in quanto, da un lato confermano la costante impostazione giurisprudenziale in tema di hosting provider sancita più di recente dalla Corte di cassazione (Cass. Civ. Sez. I, 19 marzo 2019, n. 770) sulla scia di quella europea (Corte Ue, C-324/09, L'Orèal c. eBay e C-236/08, Google c. Louis Vuitton) e, dall'altro, supera l'arresto del Consiglio di Stato (sentenze nn. 4359/19 e 1217/20) sull'identificazione del ruolo delle piattaforme di intermediazione - tra i quali Viagogo e StubHub – quali hosting provider passivi, in considerazione dell'attività effettivamente svolta dalla piattaforma non «consistente nella mera “memorizzazione di informazioni”».

  1. B) Divieto di pubblicità del gioco con vincite in danaro. L’articolo 9, comma 1, del decreto-legge 87/18 convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 ha introdotto un divieto generalizzato di pubblicità concernente il gioco a pagamento effettuata su qualsiasi mezzo di comunicazione. Inoltre, a partire dal 1° gennaio 2019 detto divieto è stato esteso anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti la cui pubblicità. Restano lecite, invece, le pubblicità afferenti le lotterie nazionali a estrazione differita, le manifestazioni locali e i loghi sul gioco sicuro e responsabile dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

In caso di inosservanza a tali divieti è stato previsto a carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari al 20% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a euro 50.000. Anche in questo caso, la competenza a monitorare sul rispetto di tale norma è stata attribuita all’Agcom, che nel 2020 ha avviato la propria attività irrogando svariate sanzioni ai diversi soggetti sopra individuati, tra cui Google[50] .

Anche il gioco con vincitore in danaro ha subito dei cambiamenti importanti durante il lockdown: «La chiusura delle sale fisiche per il gioco d'azzardo legale durante il lockdown ha dato luogo ad un parziale spostamento dei consumi verso altri canali non soggetti alle restrizioni, in particolare verso l'offerta a distanza e l'online vero e proprio". E "non può escludersi che una parte del maggior consumo online possa essere intercettata - attraverso siti clandestini - dall'offerta illegale che in questo settore era già presente e in ascesa». Si tratta di un piccolo estratto della relazione presentata il 15 giugno 2021 dal comitato della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle mafie[51] che ha monitorato le attività delle organizzazioni criminali nel periodo dell'emergenza sanitaria[52].

Sul tema, il Senato ha di recente deciso di costituire una specifica Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico composta da venti senatori, nominati dal Presidente del Senato su proposta dei Gruppi parlamentari. Tra i diversi compiti della Commissione si segnala, in questa sede: (1) l’analisi delle condizioni complessive del settore del gioco pubblico; (2) l’efficacia della disciplina pubblica in relazione alla tutela dei soggetti più deboli, al contrasto della diffusione del disturbo da gioco d’azzardo (DGA), alla gestione delle concessioni nonché alla tutela della correttezza dell’offerta di gioco e del rispetto della concorrenza tra gli operatori; (3) l’individuazione delle dimensioni del gettito erariale e le dimensioni complessive del comparto, con particolare attenzione ai settori produttivi impegnati nella produzione, nella commercializzazione e nella gestione degli apparecchi da intrattenimento, nonché nella produzione e gestione del settore delle scommesse e delle lotterie istantanee; (4) l’efficacia del sistema di regolazione e di controllo con particolare riferimento al contrasto del gioco illecito e illegale.

  1. C) La responsabilità ex ante degli hosting provider. Le due nuove discipline di illeciti amministrativi sopra descritti rivestono un rilevante impatto proprio nei confronti dei soggetti intermediari della rete. Per la prima volta, infatti, viene prevista una responsabilità ex ante piena da parte degli hosting provider a prescindere dalla propria qualificazione quelle attivo o passivo. Come abbiamo visto, infatti, una delle (due) condizioni per poter invocare l’esenzione di responsabilità da parte delle piattaforme consiste nel fatto che l’hosting provider non venga effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione fornite da un destinatario del servizio. La conoscenza di tale illiceità implica che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di responsabilità del prestatore del servizio per fatto proprio colpevole mediante omissione, ovvero per non aver impedito la protrazione dell’illecito (rimuovendo le informazioni o disabilitando l’accesso). Infine, è interessante notare che sia le sanzioni irrogate in materia di secondary ticketing (Viagogo e StubHub) che quella irrogata a Google su pubblicità online del gioco con vincite in danaro hanno riguardato soggetti non italiani ma stranieri.
  2. D) Le nuove regole per i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online. Il Regolamento Platform to business[53] ha introdotto delle nuove ed importanti misure di garanzia a favore degli utenti commerciali[54] nella fruizione dei servizi di intermediazione online e dei motori di ricerca online. Si tratta del primo passo verso una nuova frontiera della regolamentazione dell’attività delle piattaforme contenuta nella strategia legislativa europea.

In concreto, il Regolamento ha previsto una serie di nuove regole nei confronti (I) per i fornitori di servizi di intermediazione online[55] (categoria molto ampia, in cui rientrano i mercati di commercio elettronico per conto di terzi, come Amazon, eBay o Zalando, gli app store come Google Play, Apple App Store, Microsoft Store, i social media usati a scopi professionali quali ad esempio account Facebook o Instagram utilizzati con finalità professionali da artigiani, e gli strumenti di comparazione dei prezzi come Skyscanner, Trivago o Google Shopping) e per (II) i motori di ricerca online[56] (categoria che ricomprende sia quelli generalisti come Google sia tematici come TripAdvisor).

A tali soggetti il regolamento vieta specifiche pratiche nocive per lo sviluppo dell’economia digitale come la sospensione degli account, impone l’adozione di termini e condizioni semplici e chiare, l’indicazione dei parametri utilizzati per il ranking, la predisposizione di facili sistemi di reclamo e l’introduzione di una procedura di risoluzione delle controversie.

Dunque, il rapporto che il regolamento P2B disciplina riguarda da un lato i fornitori di servizi di intermediazione online e per i motori di ricerca online e dall’altro gli utenti commerciali. Da notare che in tale definizione il legislatore ha inteso includere non solo le persone giuridiche, bensì anche quelle fisiche che agiscono nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali (si pensi ad esempio agli influencer). Restano fuori pertanto i consumatori[57] , ossia gli utenti finali tutelati, invece, dal codice del consumo (la cui competenza è attribuita all’Agcm).

Il legislatore italiano per garantire l’adeguata ed efficace applicazione del Regolamento ha attribuito, con la legge 178/20 (commi 515-517), all’Agcom le nuove competenze attribuendole il potere di regolazione, vigilanza, composizione delle controversie e sanzionatorio nell’ambito della cornice edittale più grave già prevista per le violazioni in materia di posizioni dominanti all’art. 1, comma 31 della l. 249/97 (sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore al 2% e non superiore  al  5% del fatturato).

Anche in questo caso è estremamente interessante notare che il legislatore ha inteso confermare il principio del country of destination: la responsabilità delle piattaforme prescinde dalla sua ubicazione fisica, in quanto si guarda alla residenza o allo stabilimento dell’utente commerciale.

Ciò che conta non è pertanto il luogo entro cui si conclude la transazione, ma il momento nel quale avviene l’incontro: qualora la piattaforma svolga ruolo di effettivo intermediario, allora le sue responsabilità ricadranno nel perimetro della nuova regolamentazione.

 

h) Le nuove regole per internet: il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA)

Merita, infine, un breve ma importante richiamo al recente pacchetto di riforme presentato dalla Commissione europea a fine 2020, a valle di una lunga consultazione pubblica con tutti gli stati membri, volto a introdurre una serie di nuove proposte legislative tali da proteggere in modo più efficace i consumatori e i loro diritti fondamentali online e rendere più equilibrato il mercato digitale rispetto a quello reale.

Si tratta di due proposte di regolamento, che si rivolgono tanto ai servizi quanto ai mercati digitali diversificando gli obblighi e le tutele in ragione delle diversioni di tali soggetti. L’obiettivo che si pone il legislatore europeo è, infatti, quello di garantire un accesso sicuro alla rete per tutti gli attori e un reale affidamento alle notizie che leggiamo al fine di eliminare l’attuale squilibrio tra la doppia realtà online e offline.

Gli strumenti previsti sono particolarmente innovativi rispetto a quelli attuali poiché introducono un processo di armonizzazione massima e puntali obblighi ex ante, sorveglianza più attenta e delle sanzioni espresse e rilevanti.

DSA e DMA costituiscono, pertanto, la risposta europea ai radicali cambiamenti globali derivati delle piattaforme digitali: motori di ricerca, piattaforme di intermediazione digitali, social network e così via. L’’obiettivo sarebbe quello di arrivare ad una adozione dei due Regolamenti nella primavera del 2023. Tutto dipenderà dal ruolo che il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea svolgeranno durante le fasi del cosiddetto trilogo.

A distanza di un ventennio dall’emanazione della direttiva e-commerce, la Commissione europea ha finalmente adottato una proposta di Regolamento relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la predetta direttiva 2000/31/CE (Digital Services Act DSA)[58] .

Come ha recentemente affermato il Presidente dell’AGCOM, Giacomo Lasorella[59]Il Digital Service Act dell’Ue punto di partenza del nostro operato” con il chiaro obiettivo di realizzare quella convergenza per la quale l’Autorità è stata istituita ossia la regolazione del digitale che può attuarsi solo in un quadro europeo.

La proposta mira a migliorare la sicurezza degli utenti online e la protezione dei loro diritti fondamentali in tutta l’Unione. In altre parole, il nuovo approccio proposto dalla Commissione non guarda, come in passato, soltanto al mercato unico e alla circolazione dei servizi digitali, ma anche alle nuove sfide per la tutela dei diritti fondamentali e della democrazia nella società dell’informazione.

Le piattaforme online nel corso degli ultimi vent’anni hanno, infatti, definitivamente rivoluzionato il mondo delle comunicazioni e degli scambi commerciali, aprendo nuove prospettive ad una sterminata platea di soggetti; tuttavia, esse sono state e continuano ad essere parallelamente pericolosi canali di diffusione di contenuti illeciti (tra tutti i siti pirata) e di vendita di beni o servizi illegali.

L’obiettivo che la Commissione si è prefissata di raggiungere nel corso del trilogo consiste in un riequilibrio delle parti (piattaforme e utenti), introducendo una serie di nuovi obblighi armonizzati (ragione per cui si è scelto di procedere con un Regolamento e non con una Direttiva) per i servizi digitali a livello dell’UE tra cui segnaliamo: norme per la rimozione di beni, servizi o contenuti illegali online, strumenti di tutela per gli utenti che si vedono cancellati i propri contenuti,  specifiche previsioni per consentire il tracciamento degli utenti commerciali nei mercati online, rilevanti e puntuali poteri di verifica sul funzionamento delle piattaforme digitali, una più efficace procedura di cooperazione tra autorità di settore all’interno dell’Unione, una maggiore trasparenza specie per la pubblicità online e i relativi strumenti di posizionamento, nonché obblighi calibrati in funzione delle dimensioni delle piattaforme.

Insieme al DSA la Commissione ha, altresì, adottato un’altra proposta di regolamento relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale (legge sui mercati digitali nota anche Digital Markets Act o DMA)[60] .

Tale proposta mira più specificatamente ad introdurre una serie di criteri oggettivi per definire le piattaforme online di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell'accesso. Si tratta di quei soggetti che, grazie alla loro attività di intermediazione, detengono una posizione economica rilevante nel mercato nazionale e in quello paneuropeo. 

In questo caso l’obiettivo dell’Unione è quello di introdurre nei vari ordinamenti una armonizzazione massima, fornendo chiare definizioni e vietando le pratiche sleali ivi presenti. Dunque, non si rivolge a tutti i soggetti della rete, ma solo a quei soggetti i quali  in ragione del proprio bacino di utenti sono più soventi a ospitare, non di rado, illeciti (basti pensare ai motori di ricerca come Google, social network come Facebook o Instagram, fornitori di servizi di intermediazione online come Amazon o EBay). Altro aspetto non meno rilevante consiste nell’importante presidio sanzionatorio pecuniario previsto, che potrebbe portare ad irrogare multe sino al 10% del fatturato mondiale o, nei casi di recidiva, all’obbligo di adottare misure strutturali, fino all’eventuale cessione di determinate attività nei casi in cui non siano disponibili altre misure alternative altrettanto efficaci per garantire il rispetto delle norme.

Diverso è l’approccio seguito sino ad ora dalla Commissione relativo ai soggetti dominati della rete che in virtù delle loro dimensioni e della loro potenza economica. Come sappiamo, gli attuali strumenti sono solo di natura pecuniaria pur rilevante e tuttavia di certo non così forti da scarnire davvero i poteri dei GAFAM. Ecco, allora, il nuovo approccio seguito: evitare che si arrivi ad una sanzione, smontando le varie posizioni dominati da parte dei big della rete.

In questo scenario un ruolo centrale sarà svolto dalla cd co-regolamentazione che, come ci ricorda il Commissario Laura Aria[61] «fornisce un collegamento giuridico tra l’autoregolamentazione e il legislatore nazionale, in conformità delle tradizioni giuridiche degli Stati membri. Nella co-regolamentazione le parti interessate e il governo o le autorità o gli organismi nazionali di regolamentazione condividono il ruolo di regolamentazione. Il ruolo delle autorità pubbliche competenti comprende il riconoscimento del regime di co-regolamentazione, l’audit dei suoi processi e il suo finanziamento. Ciò dovrebbe consentire l’intervento statale qualora i suoi obiettivi non siano conseguiti».

 

i) Conclusioni

Per ipotizzare qualche sommaria conclusione è necessario fare un prequel.

Prima che l’era digitale prendesse il sopravvento, molti interventi normativi tentarono di dare ordine al sistema comunicativo analogico. Con sorti assai alterne.

Mentre nel comparto della carta stampata la legge n. 416 del 1981(variamente novellata, ma rimasta intatta nelle sue fondamenta) mise dei contorni piuttosto significativi al settore, sia in termini di trasparenza proprietaria sia nei confini imposti alle concentrazioni, il campo radiotelevisivo non ha mai assunto una vera fisionomia democratica.

Purtroppo, la non breve stagione del Far West dell’etere (divenuta oggi Far Web) iniziata dopo la sentenza n. 202 della Corte Costituzionale segnò per sempre la fisiologia del sistema. Quella sentenza, peraltro giusta e storicamente matura, fu emanata nel luglio del 1976. Solo un anno prima la legge n.103 aveva riformato la Rai, spostandone l’indirizzo e la vigilanza dal potere esecutivo al Parlamento (la legge n.220 “Renzi” del 2015 ribalterà la situazione).. La Corte accolse la spinta verso la parziale rottura del monopolio statale, letti mando l’accesso dei soggetti privati solo nell’ambito locale. La stessa Corte, come ribadì anche nel 1988 e nel 1994, evocava l’urgenza di una disciplina organica, che condizionasse la cosiddetta libertà di antenna al varo di un adeguato corpo di regole.

L’assenza di un quadro di certezze fondato su rigorosi diritti e doveri, limiti antitrust e tutele adeguate del pluralismo portò all’anomalia italiana. A quello che taluni commentatori chiamarono il principale disastro latino nel campo. Da simile situazione nacque il fenomeno berlusconiano. Da una televisione via cavo – Telemilano – partì la conquista da parte del tycoon di Arcore dell’universo della televisione generalista, Provarono a fermarne la (ir)resistibile ascesa tre pretori nel 1984, i quali rilevarono l’illiceità della interconnessione nazionale tra le diverse stazioni locali che componevano il mosaico di Fininvest, arrivando a chiudere le trasmissioni. Si sollevò una reazione durissima, al grido “I Puffi, i Puffi”, che portò il governo allora presieduto da Bettino Craxi a provvedere rapidamente con decreti legge reiterati, diventati la legge n.10 del 1985. Caso unico (salvo il Messico e la Turchia) l’Italia rese possibile ad un unico soggetto di possedere ben tre reti nazionali. La legge n.223 del 1990 (l.Mammì) fotografò infine la situazione, rendendola permanente.

Provò senza successo il centrosinistra dell’epoca dell’Ulivo a limitare il numero delle reti. Fu la legge n.249 del 1997 a metterci mano, subendo – però- una controffensiva ancora una volta demagogica e segnata dal populismo mediatico. Finì con la scialba scelta di immaginare che, a certe condizioni, una rete potesse essere trasmessa via satellite, liberando così risorse terrestri. Persino quell’esile filo fu spezzato dalla grande “controriforma” varata dall’allora ministro Gasparri con la legge n.112 del 2004, recepita poi nel Testo Unico delle Radiodiffusioni del 2005 (decreto legislativo n.177).

Insomma, si determinò una situazione di oligopolio assoluto, declinata nel rapporto tra pubblico e privato come “duopolio” di Rai e Mediaset.

Neppure fu regolato adeguatamente il conflitto di interessi, pervasivo e diffuso. Il testo approvato nel 2004 (l. Frattini, n.215) non risolveva pressoché nulla.

Le novità interessanti da ricordare sono, forse, almeno tre: la costituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la legge n. 249 del 1997; la legge n.122 del 1998 sull’obbligo di investimento da parte delle emittenti in opere audiovisive italiane ed europee; la legge n.28 del 2000 sulla “par condicio”. Quest’ultima è stata pressoché l’unica medicina rispetto alla frequente lesione delle pari opportunità tra le parti politiche nel mondo radiotelevisivo. Insomma, in assenza di una moderna ed adeguata struttura antitrust, per lo meno si sono limitati i danni. Purtroppo, l’Agcom si è via via indebolita, anche per ragioni ultronee rispetto ai suoi stessi limiti.  Che ne è degli anni analogici nel discorso mediatico? Vi è stata la vittoria sul campo del vecchio schermo generalista, onnivoro e arretrato. La comunicazione si fece direttamente politica.

La nascita del cavo fu impedita dall’antico accordo di potere sui rispettivi comparti di egemonia tra Rai e Sip e il progetto del 1994 messo in campo dalla Stet di portare la fibra ottica nell’intero territorio italiano fu spenta dall’enfasi data alle culture della concorrenza. Fu il frutto di un momento di riassetto del quadro degli indirizzi dell’Europa. Ora verosimilmente, di fronte alla conclamata crisi del liberismo, non accadrebbe.

Tutto ciò per segnalare come i problemi della modernità digitale abbiano tristi prolegomeni.

C’è tanto da fare e la stagione che si sta affacciando porta con sé tutte le possibilità per cambiare rotta. La Legge di delegazione europea 2019/2020 finalmente varata un primo ed importante e punto di partenza. Al suo interno vengono recepite ben 38 direttive europee e inserito l'adeguamento della normativa nazionale a 17 regolamenti europei. Tra le più rilevanti normative europee vi è la nuova Direttiva sui servizi digitali (Direttiva 2018/1808), le due Direttive sul diritto d’autore (Direttive nn. 789/19 e 790/19) nonché la Direttiva che istituisce il codice delle comunicazioni elettroniche (Direttiva 2018/1972). Una vera e propria rivoluzione digitale sta per arrivare.

E’ presumibile pensare che entro la fine dell’estate i testi fondamentali (SMAV, CCE e COPYRIGHT) saranno emendati, consentendo dunque all’AGCOM di avviare le relative consultazioni pubbliche prodromiche all’adozione dei singoli interventi normativi previsti. In questo scenario cruciale sarà il ruolo dell’Autorità italiana per le comunicazioni che - come ci ha ricordato la Commissari Prof.ssa Elisa Giomi[62] – dovrà creare “le condizioni per la messa a punto di un sistema regolatorio per i nuovi modelli di business digitale che garantisca – lato consumatori e utenti – maggiore controllo sui propri dati e – lato imprese – un trattamento equo e non discriminatorio nei rapporti contrattuali con le piattaforme online”.

Certo molto dipenderà da quanto riuscì il Governo ad innovare attraverso i decreti legislativi: ossia se si limiterà ad un intervento chirurgico che recepisca pedissequamente le principali novità contenuti nelle direttive di settore oppure se coglierà l’occasione per introdurre nuovi strumenti regolatori tanto per i players tradizionali quanto per i big della rete.

Con specifico riferimento al settore dei media cruciale importanza riveste la media literacy/education ovvero l’alfabetizzazione digitale, vero e proprio fulcro centrale del divario digitale sociale.

Solo attraverso una competenza diffusa e condivisa tra i vari attori pubblici (istituti scolastici, università MISE. MIC, AGCOM, Garante Privacy solo per citarne alcuni). Fa sperare, al riguardo che l’articolo 4 della legge di delegazione europea (che attribuisce il mandato al Governo per il recepimento della Direttiva SMAV) contenga al suo interno un comma dedicato e che impone “la promozione dell'alfabetizzazione digitale da parte dei fornitori di servizi di media e dei fornitori di piattaforme di video-sharing”. Ecco, tuttavia, a parere di chi scrive, l’alfabetizzazione digitale non è solo un compito da attribuire ai fornitori di media (lineari e non) ma soprattutto dei GAFAM; è con loro che bisognerebbe avviare un percorso, di formazione costante dei propri utenti. Necessario in questo percorso è la parallela formazione da parte della stessa PA, a partire dagli insegnanti - che, come detto, non sono stati preparati, a causa dell’assenza della formazione, a gestire la DAD - dagli impiegati degli enti pubblici locali (dipendenti comunali, delle ASP, della regione etc.) e nazionali. Infatti, se dal recovery plan arriveranno importanti fondi per il digitale è davvero fondamentale che essi siano spesi nella formazione dei soggetti (partendo da pubblici per arrivare ai privati) prima ancora che accrescere la connessione e i servizi digitali. Come ci ricordò il Presidente Pertini nel suo messaggio di fine anno del 1982[63]Il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere.” Si badi bene, è qui che si gioca la vera partita, specie della questione meridionale; è dal mezzogiorno che bisogna puntare la lente di ingrandimento ma non solo nelle modalità di spesa dei danari pubblici quanto, lo si ripete, nella formazione all’utilizzo del digitale.

Occorre, quindi, prendere le mosse dalla “burrasca di distruzione creativa” ipotizzata dall’economista Joseph Schumpeter che sviluppo nel suo volume “Capitalismo, socialismo e democrazia” per regolare con lenti nuove e diverse il fenomeno delle piattaforme digitali che non guardi quindi agi strumenti tradizionali sin qui seguiti ma anzi li distrugga in maniera creativa fornendone dei nuovi: «Il punto essenziale da afferrare è che chi studia il capitalismo studia un processo essenzialmente evolutivo. Gli economisti stanno uscendo dallo stadio in cui non vedevano che una forma di concorrenza: quella nei prezzi è […] ma la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo, condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità e incide non sui margini del profitto e sulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro spesse fondamenta, sulla loro vita» (tratto da pag. 78 de “Capitalismo, socialismo e democrazia”).

Per regolare le piattaforme occorre pertanto non pensare solo ai principi tipi della concorrenza, basati essenzialmente, sui prezzi praticati dei big player, ma sulla nuova valuta di scambio divenuta pregiatissima i dati, i nostri dati. In concreto, per fare ciò è indispensabile partire da una visione per così dire glocal: guardare ai fenomeni della globalizzazione per regolare il locale. La recente sentenza del Consiglio di Stato (sentenza n. 2631/2021) ha sancito la “non gratuità di Facebook”, chiarendo, per la prima volta, che i servizi offerti dalle piattaforme (le ricerche che facciamo, le mail che inviamo, i video che guardiamo etc.) fruibili senza richiedere alcun denaro non sono affatto gratuiti. Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che «le informazioni rese all’utente al primo contatto, lungi dal contenere gli elementi essenziali per comprendere le condizioni e i limiti delle conseguenze che, a fronte della gratuità dei servizi offerti, deriveranno dalla profilazione in termini di indefinibilità dei soggetti che utilizzeranno i dati personali messi a disposizione e del tipo di utilizzo commerciale connesso, lasciano supporre che sia possibile ottenere immediatamente e facilmente, ma soprattutto “gratuitamente” (e per tutto il periodo in cui l’utente manterrà l’iscrizione in piattaforma), il vantaggio collegato dal ricevimento dei servizi tipici di un social network senza oneri economici, omettendo di comunicare che, invece, ciò avverrà (e si manterrà) solo se (e fino a quando) i dati saranno resi disponibili a soggetti commerciali non definibili anticipatamente ed operanti in settori anch’essi non pre-indicati per finalità di uso commerciale e di diffusione pubblicitaria».

 

Scoperto il vaso di pandora per cui è ormai sempre più noto che “If You Are Not Paying for the Product, You Are the Product![64], diventa impellente rispondere alle seguenti domande: Quando vale un mio dato? Quanto riesce a cubare un’azienda dai miei movimenti? Quali nuove regole imporre alle piattaforme digitali?

In realtà, come ci ha ricordato Jaron Lanier, informatico, compositore e saggista statunitense, noto per aver reso popolare la locuzione virtual reality (realtà virtuale, di cui è peraltro considerato un pioniere): “il prodotto non siamo noi. E’ la possibilità che le piattaforme hanno di cambiare il nostro comportamento”. Occorre pertanto prevedere, ed in questo i nuovi testi (DSA e DMA) stanno imboccando la corretta direzione, misure diversificate in funzione delle tipologie e delle dimensioni delle aziende OTT.

Dal punto di vista dell’informazione non è più sostenibile per un giornale seguire il nodello di Facebook o Google ma semmai quello di Le Monde. Il quotidiano francese anziché puntare ad una strategia commerciale di contenimento dei costi, anche tramite una riduzione dei giornalisti, ha puntato sulla qualità; il suo direttore, Luc Bronner, ha scritto al riguardo, attraverso Twitter, che fra il 2018 e il 2019 Le Monde ha ridotto del 14% il numero degli articoli (addirittura del 25 per cento nei due anni) e che nel frattempo i giornalisti sono aumentati - oggi sono più di 500 - e hanno più tempo per fare inchieste. Il risultato che è il numero di utenti sul web e sulla carta è aumentato, dell'11% in ciascun settore.

Più giornalisti meno articoli uguale più lettori. Sebbene sembri uno spot da prima Repubblica, sulla scia di "lavorare meno lavorare tutti", in realtà si tratta di una formula controintuitiva perché c'è una variabile nascosta che la rende comprensibile: la qualità del giornalismo. Più giornalisti, meno articoli uguale più qualità e quindi più lettori. Tale approccio, a ben pensare, è quello che ha seguito con successo,  dai grandi media player che specie negli ultimi anni hanno avuto un’enorme fortuna economica puntando proprio sulla qualità (contenuti originali, alta definizione, pluralità di lingue e sottotitoli).

Se errare è umano, perseverare sarebbe diabolico. Davvero. E un’altra stecca comprometterebbe definitivamente l’opera: L’informazione è la democrazia.

 

 

13.                     LO STATO SOCIALE DIGITALE

 

a) Premessa

Nel mese di ottobre del 2019 è stato presentato all’ONU il rapporto[65] del relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani, Philip Alston. Il rapporto è dedicato all’allarme per i diritti umani derivante dall’abuso della digitalizzazione nel campo della protezione sociale.

Lo stato sociale digitale è un complesso ed eterogeneo insieme di interventi totalmente o quasi interamente governati dal software e da sistemi automatizzati. Come riferisce il rapporto <<i sistemi di protezione sociale e di assistenza sono sempre più dipendenti dai dati digitali e dalle tecnologie che vengono utilizzate per automatizzare, prevedere, individuare, sorvegliare, rilevare il bersaglio e punire. I commentatori hanno predetto un futuro in cui le agenzie governative potrebbero effettivamente legiferare con i robot, ed è evidente che stanno emergendo nuove forme di governance che si basano in modo significativo sull’elaborazione di grandi quantità di dati digitali da tutte le fonti disponibili, utilizzano l’analisi predittiva per prevedere il rischio, automatizzare il processo decisionale e rimuovere la discrezionalità dalle decisioni umane. In un mondo del genere, i cittadini diventano sempre più visibili al loro governo, ma non il contrario>>.

Il rapporto osserva che nei paesi dove questi sistemi sono stati implementati, lo stato sociale digitale viene presentato come una creatura benigna, foriera di efficienza, riduzione dei costi e di un livello più alto dei servizi. In realtà la digitalizzazione dei sistemi di welfare è stata spesso <<accompagnata da profonde riduzioni di budget complessivo, un restringimento della platea di beneficiari, l’eliminazione di alcuni servizi, l’introduzione di forme esigenti e intrusive di valutazione dei requisiti di accesso ai benefici, il perseguimento di obiettivi di modifica dei modelli di comportamento, l’imposizione di regimi sanzionatori più forti e una completa inversione della nozione tradizionale secondo cui lo stato dovrebbe essere responsabile nei confronti dell’individuo>>.

Insomma, siamo in presenza di una sorta di neoliberismo strisciante mascherato da buon samaritano digitale con effetti fortemente regressivi che riflette valori e ipotesi che sono molto lontani dai principi dei diritti umani e che possono risultarvi addirittura antitetici.

La minaccia di un futuro distopico è particolarmente significativa rispetto al tema dello stato digitale. Il rapporto presenta un resoconto sistematico dei modi in cui le tecnologie digitali vengono utilizzate nello stato sociale e delle loro implicazioni per i diritti umani. Il documento si conclude chiedendo la regolamentazione delle tecnologie digitali, compresa l’intelligenza artificiale, per garantire il rispetto dei diritti umani e un ripensamento dei modi positivi in cui lo stato sociale digitale possa divenire uno strumento potente per il raggiungimento di un effettivo miglioramento dei sistemi di protezione sociale.

b) La verifica dell’identità

Quello della verifica dell’identità della popolazione è stato considerato uno dei fattori strategici e di sviluppo. In effetti in moltissime aree del mondo gran parte della popolazione non possiede un documento di identità e non sono stati adottati sistemi efficienti di registrazione delle nascite. La Banca Mondiale ha attivato dei programmi di finanziamento finalizzate alla promozione ed all’implementazione di tecnologie digitali per la registrazione anagrafica e l’identificazione. Pur essendo innegabili i benefici di tali interventi, esistono dei pericoli intrinseci al funzionamento di questi sistemi informatici, talvolta basati su tecnologie di riconoscimento biometrico, che possono mettere a repentaglio la sicurezza dei dati personali della popolazione oppure essere utilizzati come tecnologie di controllo di massa o, più semplicemente, possono funzionare male mettendo a repentaglio anche la vita di esseri umani. In India ad esempio è stato introdotto dal 2009 un gigantesco sistema di riconoscimento biometrico che ad oggi coinvolge oltre 1,2 miliardi di persone.

Raccolte di massa di dati biometrici e DNA si riscontrano in Kenia, Sudafrica, Argentina,  Bangladesh, Cile, Irlanda, Giamaica, Malesia, Filippine e Stati Uniti.

Nel nostro ordinamento l’art. 9 del GDPR riguarda proprio il trattamento dei dati biometrici, che è generalmente vietato ma risulta ammesso se si verificano i casi previsto al paragrafo 2 (vedi in particolare le lettere b), g), h), i)[66]).

c) La valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali

I sistemi automatici di valutazione dei requisiti di ammissibilità alle prestazioni assistenziali sono sempre più utilizzati. Nello stato canadese dell’Ontario l’accesso al sistema di assistenza sociale si basava su un software IBM denominato Curam. Il software è stato usato anche negli Stati Uniti, in Germania, Australia e Nuova Zelanda ed è personalizzabile. Ebbene, questo software, a causa di un errore di programmazione, ha letteralmente tagliato le prestazioni per una somma pari a 140 milioni di dollari a fronte di un totale di budget pari a 290 milioni. Prestazioni quindi dimezzate per un errore di programmazione con conseguente panico per i beneficiari e per i pochi operatori umani destinati a risolvere la faccenda.

Nello stato dell’Illinois, riporta il Guardian, il governo ha richiesto il rimborso di sussidi asseritamente pagati in eccesso, relativi in alcuni casi a 30 anni fa. Questi “rimborsi zombie”, decisi sinteticamente dai programmi per elaboratore, stanno mettendo nel panico gli strati più deboli della società. Nel Regno Unito si investono milioni di sterline in un progetto di “robot assistenziali” per sostituire gli umani nella cura delle persone bisognose. In Australia, si usa l’automazione per sospendere, senza preavviso, i sussidi sociali. In India  è stato introdotto un sistema di riconoscimento biometrico per l’erogazione delle razioni di sussistenza alimentare.

Questi sono solo alcuni esempi delle distorsioni derivanti da un uso sconsiderato delle tecnologie e dell’automazione governata da algoritmi e senza la supervisione dell’uomo.

d) Il primato del diritto sul codice informatico: code is not law

A tal riguardo è di particolare interesse la sentenza N. 10964/2019 del TAR Lazio. Secondo il TAR, sul solco già tracciato precedentemente dal Consiglio di Stato, in materia di procedimento amministrativo l’intervento umano è necessario e non potrà mai essere completamente sostituito dal sistema automatizzato.

Il meccanismo informatico o matematico è infatti del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa.

Alle procedure informatiche va riservato quindi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo, alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale.

Le decisioni della giustizia amministrativa italiana sono di fondamentale importanza perché riaffermano il primato dell’uomo e di una delle sue più sofisticate ed evolute creazioni, il diritto. Se ne sentiva il bisogno ma bisogna restare vigili.

e) Proposta

Occorre una regolamentazione dell’uso delle tecnologie digitali, compresi i sistemi esperti digitali - impropriamente definiti come intelligenza artificiale – da intendersi esclusivamente come ausilio all’intervento dell’uomo, per garantire il rispetto dei diritti fondamentali e un ripensamento dei modi positivi in cui lo stato sociale digitale possa divenire uno strumento potente per il raggiungimento di un effettivo miglioramento dei sistemi di protezione.

 

f) Azioni concrete per una evoluzione digitale

La stragrande maggioranza delle connessioni in rete avviene tra macchine. In Internet l’umanità è ormai minoranza. Con l’introduzione delle tecnologie 5g questo fenomeno si manifesterà in maniera ancor più evidente. Oggi le macchine acquisiscono dati sulle nostre abitudini, sui nostri gusti, sulle nostre attività e suggeriscono ciò che secondo i propri algoritmi informatici dovrebbe piacerci. Se acquisti un libro in una piattaforma online poi la macchina te ne suggerirà altri che potrebbero interessarti; lo stesso accade se guardi un film su un sito di streaming, subito dopo, senza soluzione di continuità te ne verrà proposto un altro che potrebbe piacerti. Questi sistemi, sebbene apparentemente utili, possono limitare l’autonomia e la libertà di scelta da parte dell’uomo. Quella su come dovrà l’essere umano rapportarsi a questi cambiamenti rappresenta una sfida evolutiva. Come vivere nell’infosfera senza subire limitazioni al proprio agire ed al proprio pensare ? Potrà l’essere umano ancora governare la macchina o ne diventerà dipendente e schiavo ?

La risposta a questi quesiti passa attraverso il nodo della centralizzazione delle piattaforme informatiche.

Il fenomeno al quale assistiamo oggi è la presenza di grandi piattaforme informatiche monopolistiche o semi monopolistiche con enormi poteri di influenza su cosa vediamo, con chi interagiamo, quali sono i nostri gusti, qual è il nostro orientamento politico e religioso. Questo potere di influenza può trasformarsi in un perverso e pericolosissimo sistema di manipolazione di massa del quale - chi più, chi meno – siamo tutti vittime.

Siamo soggetti a processi decisionali automatizzati, erroneamente definiti dai comunicatori come “intelligenza artificiale”, che funzionano come una scatola nera senza alcuna trasparenza nei meccanismi di funzionamento.

Il controllo delle grandi piattaforme è in mano a pochi soggetti privati che acquisiscono e conservano tutti i dati che passano attraverso le proprie reti, producendo profitti immensi e con una bassa responsabilità sociale. Quello che è stato creato negli ultimi trent’anni è un ecosistema orientato al profitto, al monopolio ed all’omologazione, dove passano ormai tutte le interazioni tra gli esseri umani.

Una via progressista per cambiare questo stato di fatto e per consentire a tutti di usufruire degli indubbi e grandissimi vantaggi delle tecnologie avanzate digitali è quella della trasparenza dei protocolli informatici, della conoscibilità del codice informatico e degli algoritmi, della decentralizzazione delle piattaforme utilizzando sistemi federati che siano orizzontali e non verticali.

E’ necessario promuovere le innovazioni per il bene comune in un ecosistema possibilmente autogestito o gestito da piccole collettività che si trovino in rapporto paritario e mai verticistico tra loro. Un sistema in cui anche l’iniziativa imprenditoriale sia distribuita e socialmente responsabile attraverso l’uso di tecnologie ed energia il più possibile pulite.

E’ di strategica importanza una governance positiva e forte del settore pubblico nella creazione e condivisione di conoscenza, creatività, ricerca, sviluppo e innovazione, a beneficio di tutta la società. Le tecnologie digitali avanzate possono creare grandi opportunità se orientate alla promozione di iniziative che abbiano un approccio comunitario e cooperativo.

Il cittadino da utente, consumatore o prodotto, deve diventare agente consapevole. Le persone devono riacquistare il potere ed affermare il proprio imprescindibile ruolo di soggetti attivi e mai passivi nella progettazione, nella costruzione e nella fruizione della tecnologia. Solo in questa maniera l’essere umano potrà evitare di soccombere nella grande lotta con la macchina dalla quale risulterebbe sopraffatto ed infine inesorabilmente schiavo, come nei peggiori scenari della fantascienza distopica.

Il ruolo dell’Unione Europea in questo processo è fondamentale.

In primo luogo occorre rafforzare la tutela dei dati personali correttamente elevati dal GDPR ben al di sopra del mero concetto di riservatezza. Il dato personale attiene all’essere umano. Nell’infosfera il dato è paragonabile ad una porzione del corpo umano e la sua tutela ed inviolabilità appartiene al rango più elevato del complesso dei diritti fondamentali.

Occorre limitare l’impatto negativo dei monopoli delle piattaforme e dell’automazione, utilizzando anche la lotta all’evasione ed all’elusione fiscale dei grandi operatori internazionali.

Le piattaforme informatiche e i formati elettronici devono essere interoperabili; i dati devono poter essere esportati da una piattaforma all’altra senza limitazioni.

I processi decisionali automatizzati attraverso l’uso di algoritmi informatici devono essere democratizzati, intellegibili ed a codice aperto.

Occorre potenziare e rendere più facilmente fruibili le basi comuni di dati acquisiti e trattati dalla pubblica amministrazione, che devono diventare vero e proprio bene comune di tutti i cittadini.

Devono essere incentivate e sviluppate le piattaforme cooperative decentralizzate che abbiano sin dalla progettazione una distribuzione orizzontale e non verticistica, attraverso protocolli che consentano l’interconnessione federata.

L’uso della crittografia nello scambio di informazioni sulle reti telematiche deve essere incentivato e non ostacolato sulla base di presunte esigenze securitarie.

Lo Stato deve utilizzare e contribuire fattivamente con i propri mezzi e ed il proprio personale allo sviluppo di software a codice aperto, restituendo in questo modo alla collettività programmi per elaboratore più sicuri e trasparenti, liberandosi dai vincoli delle multinazionali con ovvi ritorni positivi anche in termini di sicurezza nazionale.

La tecnologia deve essere utilizzata per consentire la più ampia partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli, anche quelli delle decisioni economiche, affiancando e coadiuvando ma senza sostituire la rappresentanza parlamentare nelle assemblee legislative.

 

g) L’uso degli algoritmi nel procedimento amministrativo ed open source nella PA

Il Consiglio di Stato sez. VI, con sentenza n.2270 dell’8 aprile 2019 ha affermato il principio secondo il quale in primo luogo, come già messo in luce dalla dottrina più autorevole, il meccanismo attraverso cui si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. In secondo luogo, la regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo.

L’utilizzo di procedure “robotizzate” non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa.

Difatti, la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva.

Questa regola algoritmica, quindi:

  • possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale, come si è detto, deve soggiacere ai principi generali dell’attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza (art. 1 l. 241/90), di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.;
  • non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l’elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili (e ciò la rende in parte diversa da molte regole amministrative generali); la discrezionalità amministrativa, se senz’altro non può essere demandata al software, è quindi da rintracciarsi al momento dell’elaborazione dello strumento digitale;
  • vede sempre la necessità che sia l’amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell’algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning);
  • deve contemplare la possibilità che – come è stato autorevolmente affermato – sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano’, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”.

In definitiva, dunque, l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico“.

Successivamente, la Sezione Terza bis del TAR Lazio con sentenza in forma breve N. 10964/2019, ha fissato un ulteriore importante principio di diritto in materia di uso dell’algoritmo informatico all’interno del procedimento amministrativo, affermando che non si può demandare allo strumento informatico lo svolgimento dell’intero procedimento amministrativo. In mancanza dell’intervento dell’uomo nel procedimento amministrativo, viene a mancare secondo il TAR una vera e propria attività amministrativa. Il meccanismo informatico o matematico è infatti del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa. Un algoritmo, motiva la il TAR, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6,7,8,9,10 della legge 7.8.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario. Ed ancora, gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost.

E’ pertanto necessario ed insostituibile l’intervento umano che non potrà mai essere completamente sostituito dal sistema automatizzato. Alle procedure informatiche va riservato un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

Demandare ad un impersonale algoritmo lo svolgimento dell’intero procedimento amministrativo (esempio tipico è quello delle procedure di assegnazione dei docenti alle sedi disponibili nell’organico dell’autonomia della scuola) rappresenta una fattispecie in cui manca una vera e propria attività amministrativa.

<<Un algoritmo, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6,7,8,9,10 della legge 7.8.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario>>.

Secondo il TAR <<gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale>>.

Le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento, deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

Con sentenza recentissima il TAR Lazio ha ribadito il concetto riconoscendo il diritto di accesso al codice sorgente del software relativo allo svolgimento della prova scritta del concorso per il reclutamento dei dirigenti scolastici bandito nel 2017 (sentenza n. 7372 del 30 giugno 2020). Il Ministero dell’Istruzione (che ha bandito la procedura) e il Cineca (che ha realizzato il software) devono ora consentire l’accesso all’algoritmo, attraverso la lettura del codice sorgente del software, in modo che alcuni dei soggetti che hanno partecipato alla procedura possano verificarlo.

L’affermazione di questi principi sacrosanti da parte della giustizia amministrativa richiederà alla pubblica amministrazione un miglioramento delle competenze informatiche da parte dei funzionari della pubblica amministrazione in un paese che purtroppo si trova in coda tra i paesi dell’Unione Europea nella classifica delle competenze digitali. Non sarà infatti più sufficiente attingere semplicemente ed acriticamente i dati elaborati dal programma informatico ma il funzionario pubblico  responsabile del procedimento, dovrà partecipare attivamente alla sua stesura e quindi alla definizione dell’algoritmo, inteso procedimento informatico che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui.

h) Proposta

In un contesto in cui è sempre più diffuso l’uso di software che gestiscono il procedimento amministrativo o alcune delle sue fasi in maniera automatizzata, è necessario vigilare affinché risultino rispettati i principi delineati dalla più avveduta giurisprudenza amministrativa (trasparenza dell’algoritmo e partecipazione umana al procedimento che non deve essere quindi totalmente automatizzato); di pari passo è necessario migliorare il livello di competenza informatica dei dipendenti della pubblica amministrazione - attraverso il ricorso a risorse interne ed organiche all’amministrazione stessa - nonché incentivare ed estendere l’uso di applicativi informatici a codice aperto.  

A tal riguardo si evidenzia che la pubblica amministrazione italiana è tenuta per legge a preferire software libero e/o a codice sorgente aperto, valutando i possibili benefici derivanti dall'azione di formati aperti. La direttiva Stanca del 2003, affermò esplicitamente l'adozione di soluzioni informatiche in grado di gestire almeno un formato aperto. Ai sensi dell’art. art. 68 della del Codice dell’Amministrazione Digitale esiste l'obbligo di effettuare "analisi comparativa di soluzioni" ad es. tra programmi a codice aperto ed a codice chiuso. Le Pubbliche amministrazioni hanno inoltre l’obbligo di pubblicare in open source tutto il proprio codice e di valutare software già esistente prima di realizzarne di nuovo (art. 69 CAD). In tale contesto normativo appare di difficile comprensione la recente decisione del Ministero dell’Istruzione di adottare la suite proprietaria ed a codice chiuso Office 365 della Microsoft come piattaforma di lavoro; allo stesso modo non si comprende il motivo per cui i programmi prescelti per le udienze da remoto nel processo civile e penale siano sempre a codice chiuso di proprietà della Microsoft. È necessario quindi richiedere l’accesso agli atti del procedimento amministrativo di adozione degli applicativi informatici della pubblica amministrazione al fine di verificare l’effettivo espletamento delle analisi comparative. Tali procedure comparative, ad esempio nel caso specifico della scuola e della giustizia, non possono fare a meno di considerare costi e benefici nonché i rischi potenziali in termini di trattamento dei dati personali.

 

14.                     DIRITTO PENALE

a) Premessa

L'esordio del nuovo governo Meloni non poteva essere più preoccupante.

A fronte delle vere e varie urgenze sociali, i primi provvedimenti del governo sono dedicati al diritto e alla procedura penale. Per di più si tratta di interventi dedicati a introdurre un nuovo reato, punito con pene sconsiderate; a ritardare l’entrata in vigore di una riforma, con il malcelato intento di rivederne le parti più garantiste; e a tentare di mantenere in vita, sotto sembianze dissimulate, l'ergastolo ostativo che da tempo la Corte Costituzionale ha chiesto al legislatore di abrogare. A dispetto delle prime dichiarazioni del Ministro della Giustizia il governo percorre, come sempre la destra ha fatto, la strada della criminalizzazione e della repressione come risposta ad ogni problema.

Certamente l’introduzione del reato di invasione arbitraria di edifici e terreni finalizzata a "raduni pericolosi" (dizione giuridicamente inedita, contemplando il nostro codice, fin qui, unicamente il reato contravvenzionale di "radunata sediziosa") è la previsione più pericolosa. Il diritto a riunirsi —in più di cinquanta persone, diritto fondamentale, individuale e sociale sancito dall'articolo 17 della Costituzione viene violentato, con la scusa dei rave party, e si prevedono fino a sei anni di carcere per chi lo promuove con diminuzione di pena, non quantificata, per chi vi partecipa.

Si stabilisce un minimo della pena così alto (tre anni) al solo fine di evitare che siano applicabili, non solo ai promotori del raduno, ma anche ai partecipanti, misure come la dichiarazione di tenuità del fatto. Si prevede addirittura la misura della sorveglianza speciale anche per il semplice partecipante al raduno. Non solo: la misura non necessita di una previa condanna definitiva, ma può essere proposta anche solamente sulla base di denunce e segnalazioni di PS, dal momento che la nuova fattispecie va ad ampliare il numero di quelle per cui è possibile l'applicazione delle misure di prevenzione personale, il cui abuso abbiamo più volte denunciato. E lo si fa quando il raduno «può» mettere in pericolo l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica, demandando prima alle forze di polizia e poi alla magistratura una inammissibile discrezionalità, che può agevolmente sfociare nell'arbitrio.

La norma, peraltro, consente la configurazione del reato e la relativa irrogazione della pena anche in caso di occupazione di scuole, università o fabbriche.

Anche il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia desta preoccupazione. Se il problema era quello di permettere una più ordinata transizione fra la vecchia e la nuova normativa, tutto si poteva risolvere con l’introduzione di qualche norma transitoria ad hoc. La riforma Cartabia contiene luci e ombre, ma il rinvio sembra preordinato a spegnere le luci e a mantenere in vita e aumentare le ombre.

Infine il governo, con vivo accanimento, cerca di prolungare l'esistenza dell’ergastolo ostativo con una normativa che nominalmente lo abroga, ma lo rende di fatto inevitabile, vista la quantità di ostacoli che vengono posti al suo superamento nel concreto. Il giusto e auspicabile contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa non può tradursi nell’inumanità della pena.

Se questo è l'inizio, cosa ci riserverà il prosieguo?

Come Giuristi Democratici non possiamo che confermare la nostra netta contrarietà all'introduzione di nuove norme penal-repressive, palesemente incostituzionali, e il nostro impegno a demistificarle e contrastarle in ogni sede, insieme a tutte le associazioni progressiste e democratiche, alle attiviste ed attivisti, alla società civile.

 

15.                     CRIMINI DI SISTEMA

Sono le violazioni dei diritti umani degli immigrati e i morti per fame causati dai poteri politici, economici e finanziari e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Leggi e pratiche sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti. Ottocento milioni non hanno né cibo né acqua, due miliardi non possono curarsi

Si propone di adottare una nozione di crimine assai più estesa di quella di crimini penali, qualificabili come tali solo se consistenti in offese e in eventi dannosi esattamente determinati e imputabili alla responsabilità di persone altrettanto determinate. Si tratta di colmare una lacuna presente nel nostro lessico teorico-giuridico, cioè di dare un nome a quell’altra classe di violazioni massicce di diritti e beni fondamentali stabiliti da carte costituzionali o internazionali e tuttavia non consistenti in atti individuali.

La proposta consiste nell’includere, nella nozione di «crimine», questa classe di violazioni giuridiche, non meno e anzi, di solito, assai più gravi: quelli che possiamo chiamare crimini di sistema, consistenti in aggressioni e violazioni dei diritti umani messe in atto, come si è detto, dall’esercizio incontrollato dei poteri globali – politici, economici e finanziari – e dallo sviluppo anarchico del capitalismo. Non si tratta, si badi, dei crimini dei potenti, che sono pur sempre crimini penali e la cui gravità e la cui frequente impunità sono state fatte oggetto d’indagine da un’ormai ampia letteratura di criminologia critica. E neppure si tratta dei crimini di Stato o dei crimini contro l’umanità, parimenti trattati dal diritto penale internazionale a seguito di quella grande conquista che è stata l’istituzione della Corte penale internazionale.

I crimini di sistema, consistendo in violazioni massicce dei diritti umani costituzionalmente stabiliti, sono sicuramente riconducibili alla fenomenologia dell’illecito giuridico. Non sono tuttavia illeciti penali, difettando di tutti gli elementi costitutivi del reato. I loro tratti distintivi, quelli che, volendo usare il linguaggio penalistico, possiamo chiamare i loro elementi costitutivi, sono due: il carattere indeterminato e indeterminabile sia dell’azione che dell’evento, di solito catastrofico, e il carattere pluri-soggettivo sia dei loro autori che delle loro vittime, consistenti di solito in popoli interi o, peggio, nell’intera umanità.

Prendiamo le leggi e le pratiche adottate in Italia, come in molti altri paesi, contro l’immigrazione clandestina. Ovviamente il diritto penale non potrà mai configurarle come delitti. Eppure leggi e pratiche di questo tipo sono responsabili del silenzioso massacro prodotto dai respingimenti alle frontiere degli immigrati clandestini. Si tratta di molte migliaia di vittime, interamente rimosse dalla nostra coscienza: più di 30 mila persone negli ultimi 15 anni. È chiaro che questi eccidi non possono essere considerati come disastri naturali, bensì come crimini di sistema, benché non siano punibili come reati le politiche e le leggi che li hanno provocati. Solo così può svilupparsi la consapevolezza della loro contraddizione con tutti i nostri conclamati valori di civiltà e può maturare, nel senso comune e nel dibattito pubblico, la necessità di impedirne come illecita la commissione.
Lo stesso discorso può farsi per i milioni di morti ogni anno per fame, sete e malattie non curate e per le devastazioni ambientali. Oggi più di 800 milioni di persone soffrono la fame e la sete e circa 2 miliardi si ammalano senza la possibilità di curarsi. La conseguenza è che ogni anno muoiono circa 8 milioni di persone – 24 mila al giorno – in gran parte bambini, per la mancanza dell’acqua potabile e dell’alimentazione di base provocata da inquinamenti e carestie. Ancor più drammatica è la situazione della salute.

Alla base di questi crimini di sistema c’è un vuoto di diritto, ben più che di diritto penale, dovuto a molteplici fattori, tutti legati all’odierna globalizzazione della sola economia e al carattere ancora locale della politica e del diritto: l’assenza di una sfera pubblica all’altezza dei poteri economici e finanziari in grado di limitarne e controllarne l’esercizio; il conseguente ribaltamento del rapporto tra economia e politica, in forza del quale non è più la politica che governa l’economia, ma è l’economia che governa la politica, ovviamente a vantaggio dei soggetti economicamente più forti; il nesso infine tra l’impotenza della politica nei confronti dei poteri economici globali e la sua rinnovata onnipotenza, da questi imposta, nei confronti delle persone e in danno dei loro diritti costituzionalmente stabiliti.

Si è così prodotta un’abdicazione della politica al suo ruolo di governo dell’economia e di garanzia dei diritti sociali, che peraltro è stata favorita anche da talune aporie della democrazia, emerse anch’esse con l’odierna globalizzazione. Le democrazie rappresentative dei nostri paesi sono nate e restano tuttora ancorate agli Stati nazionali. Sono perciò vincolate ai tempi brevi, anzi brevissimi, delle competizioni elettorali o peggio dei sondaggi, e agli spazi ristretti dei territori nazionali: tempi brevi e spazi angusti che evidentemente impediscono ai governi statali politiche all’altezza delle sfide e dei problemi globali.

C’è poi un’altra aporia che investe le nostre democrazie. Simultaneamente alla perdita di sovranità degli Stati, sostituita dalla sovranità di quei nuovi sovrani assoluti, invisibili e irresponsabili che sono i mercati, stanno prendendo il sopravvento, nei nostri paesi, movimenti populisti – euroscettici, xenofobi, sovranisti e nazionalisti – che mentre contestano demagogicamente quei nuovi sovrani globali, ne risultano di fatto i principali alleati dato che si oppongono alla sola politica che sarebbe in grado di fronteggiarli: la costruzione di una sfera pubblica alla loro altezza, quanto meno europea e in prospettiva globale, in grado di imporre loro regole, limiti e controlli. È invece precisamente questa la sola risposta razionale che la politica e il diritto possono offrire ai crimini di sistema e alla conseguente crisi delle nostre democrazie: lo sviluppo di una dimensione nuova e ormai inderogabile della sfera pubblica, del costituzionalismo e del garantismo, al di là dell’angusto localismo della politica delle democrazie nazionali: in primo luogo un costituzionalismo di diritto privato, cioè un sistema costituzionale di limiti, vincoli e controlli sopraordinato ai poteri privati, oltre che a quelli pubblici; in secondo luogo un costituzionalismo di diritto internazionale, all’altezza delle aggressioni planetarie all’ambiente – il riscaldamento climatico, l’inquinamento dell’aria e dei mari, la riduzione della biodiversità – che richiedono l’introduzione di norme, controlli, funzioni e istituzioni di garanzia anch’esse di livello planetario.

È difficile prevedere se una simile espansione del costituzionalismo e della democrazia riuscirà a svilupparsi o se continueranno a prevalere la miopia e l’irresponsabilità dei governi. Due cose sono però certe. La prima riguarda l’alternativa di fronte alla quale è posta l’umanità. Oggi o si va avanti nel processo costituente, dapprima europeo e poi globale, basato sulla garanzia della pace e dei diritti vitali di tutti, oppure si va indietro, ma indietro in maniera brutale e radicale. O si perviene all’integrazione costituzionale e all’unificazione politica dell’Europa, magari ad opera di un’Assemblea costituente europea, oppure si produce una disgregazione dell’Unione e un crollo delle nostre economie e delle nostre democrazie, a vantaggio dei tanti populismi che stanno crescendo in tutti i paesi europei.

La seconda cosa certa riguarda il carattere niente affatto utopistico, ma al contrario razionale e realistico del progetto costituzionale disegnato dalle tante carte dei diritti prodotte dal costituzionalismo novecentesco. C’è infatti una grande, positiva novità che è stata generata dalla necessità di proteggere i diritti e i beni fondamentali dai crimini di sistema e che consente una nota di ottimismo: l’interdipendenza crescente tra tutti i popoli della terra, idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani e a rifondare la politica come politica interna del mondo, basata sull’esistenza, per la prima volta nella storia, di un interesse pubblico e generale ben più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato.

 

16.                     CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

a)     Premessa

Anche in materia di violenza maschile contro le donne la legislazione italiana ha assunto da tempo il paradigma securitario quale orizzonte di intervento privilegiato non fosse altro che per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza e la retorica emergenzialista che oramai accompagna sistematicamente non solo le novelle che il legislatore sempre più frequentemente introduce in questo ambito, ma anche più ampiamente il corredo di politiche che fa da cornice al sistema degli interventi in materia di contrasto e prevenzione della violenza nonché protezione delle vittime.

È indubbio che in questi anni la “issue” della violenza contro le donne sia entrato a pieno titolo nell’agenda politica. Tale circostanza in buona misura attribuibile alla domanda politica che le donne a livello globale avanzano da decenni, è però in realtà anche l’esito di indefettibili obblighi internazionali che ci derivano dalla sottoscrizione di norme di più ampio respiro che riguardano specificamente la lotta alle discriminazioni nei confronti delle donne[67], ma anche più estesamente il codice internazionale dei diritti umani, e in particolare il diritto alla vita, il diritto a non subire tortura e/o trattamenti inumani, crudeli e degradanti, il diritto alla libertà personale e al rispetto della propria vita privata e familiare, cosi come a quello non essere ridotte in schiavitù e ovviamente ad un giusto processo[68]. Proprio all'inquadramento offerto dal diritto internazionale dei diritti umani già nel 1993 con l’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne si deve il riconoscimento della violenza come “manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Tale riconoscimento, nel tempo ripreso estesamente in una pluralità di atti, ha imposto al nostro decisore politico di non limitare l’intervento legislativo in materia di contrasto alla violenza degli uomini contro le donne alla previsione di fatti di reati più o meno severamente sanzionati bensì di operare per rimuovere le condizioni che sono sottese alla violenza ovvero le discriminazioni contro le donne basate sul genere. Ciò ha implicato la messa a punto di un corredo di dispositivi e di policies che sono culminate nella previsione all’art. 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» il quale prevede l'adozione di un «Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», al comma 2, lett. d) stabilisce di «potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza» e all'art. 5-bis tratta delle azioni per i centri antiviolenza e le case rifugio. 

Tale decreto inaugura perciò una stagione che avrebbe dovuto essere segnata da un impegno in materia di lotta alla violenza certamente caratterizzata da un’attenzione in chiave criminalizzante verso i reati di cui sono vittime le donne accompagnata però dalla previsione di misure e risorse atte da un lato a “liberarle” autenticamente dal flagello della violenza, dall’altro a sostanziare sul piano della retributività le stesse norme penali, poiché è chiaro che un fenomeno sociale di questa portata non lo si può sconfiggere lavorando su quella porzione di situazioni che emerge rispetto ad un sommerso che continua ad alimentarsi proprio sulla maggior esposizione alla vulnerabilità situazionale che molte donne vivono nel nostro contesto sociale segnato dalla persistenza di evidente situazioni discriminatorie.

Di fatto sulla scorta di quanto previsto dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 oggi il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023” presentato in Consiglio dei ministri nel novembre 2021, previo parere espresso dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni che, in continuità con il precedente 2017-2020 costituisce la cornice di riferimento per il sistema degli interventi in materia di violenza e si articola in 4 assi (Prevenzione, Protezione e sostegno, Perseguire e punire, assistenza e Promozione) in analogia alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica adottata a Istanbul l'11 maggio 2011di Istanbul e ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77. Il Piano è a sua volta integrato dall’Intesa Stato-Regioni, che modifica la precedente n. 146/CU del 27 novembre 2014, relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio determinando criteri stringenti in merito al livello di specializzazione di tutti i soggetti (siano essi associazioni o enti pubblici e locali) che concretamente erogano i servizi, uniformando a livello nazionale i requisiti minimi per accedere alle risorse finanziarie e valorizzando il “lavoro in rete” svolto dai Centri antiviolenza all’interno di un sistema di risposta alla violenza coordinato a livello territoriale.

In realtà i vari interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi anni, a partire dalla normativa sul “femminicidio” introdotta-significativamente- nel decreto sicurezza omnibus del 2013 (Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119), che, ricordiamolo, conteneva anche norme penali in materia di cantieri (Tav), protezione civile ed altro, ci si è prioritariamente (se non esclusivamente) preoccupati di agire in termini di inasprimento delle pene.

Siamo giunti, nel 2019, al cosiddetto “Codice Rosso” (Legge 19 luglio 2019, n. 69), dispositivo sostanzialmente caratterizzato dalla previsione di criteri di priorità di intervento e trattazione dei procedimenti in materia di violenza sulle donne, di nuove fattispecie di reato, aggravanti e aggravamenti di pena, integrate da una serie di modifiche in materia di misure cautelari, di prevenzione ed esecuzione pena .

Il tutto stando a quanto previsto nelle norme apparentemente a costo zero: l’art. 21 (clausola di invarianza finanziaria) dispone espressamente che l’attuazione delle norme non deve comportare alcun onere aggiuntivo per la finanza pubblica, e che “Le amministrazioni interessate provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”. In sostanza, pene più severe, ed è noto a tutti il fatto che il sistema sanzionatorio comporti dei costi rilevanti in realtà, senza che a queste corrispondano servizi di sostegno per le donne più adeguatamente supportati sul piano economico, anche in considerazione del fatto che, proteggere le donne significa tra le tante cose prevenire reiterazioni delle condotte violente e perciò comunque oneri ulteriori a carico del sistema della giustizia e che in questi anni il numero di vittime che a diverso titolo chiede aiuto ai Centri antiviolenza e alle istituzioni è notevolmente aumentato.

I risultati sono assolutamente evidenti. I dati statistici sui reati violenti in Italia attestano “l’invarianza” numerica di quelli commessi contro le donne in ambito domestico-affettivo, a fronte di un calo complessivo dei restanti. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero dell’Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza- gli omicidi volontari, anche nel 2022, confermano la tendenza già rilevata gli anni immediatamente precedenti (309 complessivi, numero che attesta una netta e costante discesa- dagli oltre 600 del 2007, 536 del 2012 e tenendo conto che nel 1990 se ne contavano 3012); il numero degli assassinii con vittime di sesso femminile resta tuttavia invariato (122), anzi leggermente superiore a quello degli anni precedenti, con prevalente collocazione in ambito familiare-affettivo (100 su 122). In altre parole, più di 1/3 degli omicidi volontari commessi in Italia avviene al di fuori di “contesti criminali”, nei confronti di donne, prevalentemente in famiglia o comunque ad opera di mariti, fidanzati ed ex partner.

Nell’analisi annuale del Ministero dell’Interno viene registrata una diminuzione percentuale di due dei cd. reati spia sulla violenza contro le donne, ovvero lo stalking (- 10,3%) ed i maltrattamenti in famiglia (-3,9%), dato che certamente risente del confronto con le percentuali vertiginose di aumento del 2021 (in periodo “lockdown”, che aveva visto aumenti dell’11,8% per il reato di atti persecutori e del 9,3% per quello di maltrattamenti). E’ invece aumentato, rispetto al 2021, il numero dei reati di violenza sessuale denunciati.

C’è un ulteriore elemento che attesta, se necessario, la particolarità, in negativo, della sottoposizione alla violenza in base al genere: anche i reati commessi in danno dei minori vedono ragazze e bambine come vittime in percentuale maggioritaria per quasi tutte le tipologie considerate.

Non solo: le relazioni in materia di applicazione giudiziale delle normative introdotte su “violenza di genere e domestica”[69] danno atto di un grave deficit di preparazione, in termini sia iniziativa che di concreto supporto in sede giudiziaria nella maggior parte delle Procure e dei Tribunali.

Nel rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta leggiamo, quanto ai magistrati inquirenti: “Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare nel 2018 la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22 per cento del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati”.

Quanto ai CTU (sempre in sede penale): “Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori e, in primis, il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica. Il 25 per cento delle procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso”.

Ancor peggio il rapporto descrive la situazione in essere nel settore civile: “Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.”

Nel 95 per cento dei tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il giudice dispone una CTU nella materia”. “Il 95 per cento (124 su 130) dei tribunali non è in condizione di indicare in quante cause il giudice abbia disposto una CTU. Solo nel 29 per cento (38 su 130) dei tribunali i giudici civili fanno ricorso a un quesito standard nella nomina del CTU e solo un terzo dei pochi che ne fanno uso lo ha elaborato con il contributo di figure professionali competenti in materia[70]

Ci soffermiamo sul tema CTU, perché, come notorio, le decisioni giudiziali in materia di famiglia, ed in particolare di affidamento dei minori, si fondano spesso sui pareri espressi dalle relazioni dei consulenti o dei Servizi incaricati di investigare sulle “capacità genitoriali” dei coniugi separandi/divorziandi.

Questi mezzi di prova, che notoriamente quasi sempre sono decisivi sull’esito del procedimento (se non direttamente trascritti in sentenza), scontano un’impostazione “familistica” che troppo spesso prescinde ed allontana il tema della violenza riducendolo frequentemente a normale conflittualità di coppia e cosi occultando la dimensione di potere che invece connota la violenza degli uomini sulle donne. L’assunto di partenza, quello della bigenitorialità, continua ad avere assoluta prevalenza su ogni tipo di diversa esigenza e rappresentazione, violenza domestica inclusa. Così non è raro trovare casi in cui placidamente il CTU (o i Servizi Sociali) affermano la necessità che il padre violento-maltrattante mantenga (o addirittura stabilisca-ristabilisca, ove interrotto da misure cautelari di allontanamento dalla casa familiare e/o divieto di avvicinamento) il rapporto con i figli minori, persino in casi di cd. “violenza assistita”.  È evidente che tale orientamento sottende la non volontà di assumere il disvalore che connota queste condotte come scriminante rispetto alla relazione con i figli. Peraltro sul piano pratico si traduce nella non interruzione dei rapporti tra la donna maltrattata e l’autore di reato. Si tratta di una condizione, che anche nelle circostanze in cui non si traduca in pericolo per la madre dei figli, è comunque dolorosa e pesante da affrontare e spesso viene vissuta come l’assenza di riconoscimento del torto subito.

Non si tratta di casi isolati e sporadici, ma di una prassi purtroppo abbastanza consolidata nei Tribunali civili e minorili  di tutto il paese, come attestano recenti studi sul tema. Per tutti, citiamo la recente pubblicazione del testo “Senza madre- storie di figli sottratti dallo Stato”, autrici varie, che affronta il tema del distacco forzato dalla figura materna “colpevole” spesso solo di non essere in grado di imporre al figlio o alla figlia la frequentazione di un padre da loro rifiutato.  Per un certo periodo, è invalsa persino la teoria della cd. “Sindrome da alienazione genitoriale” (Pas), e della “madre malevola” (MMS) fortunatamente non accolte nel novero delle “patologie scientificamente riconosciute”; ne hanno fatto le spese però moltissime donne (anche vittime di violenza) a cui i figli/le figlie sono stati sottratti, a volte con veri e propri interventi militari, ed affidati per lo più a case-famiglia (ma in alcuni casi persino all’altro genitore o a suoi familiari). 

Sul punto, la Cassazione è intervenuta negli ultimi anni con provvedimenti significativi, placando il ricorso straripante a dette teorie che ha però purtroppo dilagato e convinto buona parte dei magistrati e delle magistrate per svariati anni (e tuttora residua manifestamente nel retropensiero di molte decisioni in materia di famiglia), quasi come contraltare alla politica di risposta penalistica alla violenza domestica. Non sono mancati casi incredibili, in cui al padre condannato per maltrattamenti in famiglia è stato addirittura affidato il figlio minore, preferendolo alla collocazione presso la madre. Ma, al di là delle decisioni veramente fuori norma, il punto è che il criterio della perfetta bigenitorialità comunque viene generalmente adottato e considerato prevalente nella maggior parte delle CTU, delle relazioni dei Servizi Sociali e conseguentemente nelle sentenze civili in materia di affidamento dei minori, indipendentemente e nonostante la violenza imperante nel nucleo familiare. Il padre è il padre “a prescindere” è il principio con cui si devono purtroppo confrontare le donne in sede giudiziale. Ma è un principio che è necessario superare e ribaltare, laddove non corrisponda ad alcuna esigenza del minore, o peggio, vi contrasti. E su questo punto si gioca un pezzo importante della relazione tra le donne vittime di violenza e l’accesso concreto ai percorsi di giustiziabilità dei diritti umani posti gravemente a pregiudizio in queste circostanze.

In questo senso, l’ordinanza 9691/22 della Corte di Cassazione (che ha annullato la revoca della postestà genitoriale a Laura Massaro, ritenuta da CTU e magistrati madre abusante-alienante) ha affermato che “…che il diritto alla bigenitorialità disciplinato dalle norme codicistiche è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore: il diritto  del singolo  genitore  a realizzare  e consolidare  relazioni e rapporti continuativi e significativi con il figlio minore presuppone il suo perseguimento nel miglior interesse di quest'ultimo, e assume carattere recessivo se ciò non sia garantito nella fattispecie concreta”. Non si tratta, nel caso, di una vicenda caratterizzata da violenza domestica, ed ovviamente la decisione riafferma e ripercorre la giurisprudenza interna ed europea in materia di diritto del minore ad un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, condividendola in toto.

Laddove il principio sopra richiamato venga correttamente applicato in procedimenti contenziosi in sede civile in cui la violenza in famiglia è elemento serio e abituale le conseguenze potrebbero e dovrebbero essere ben diverse da quelle a cui le Sezioni Famiglia dei Tribunali ci hanno abituato.

In altre parole, il principio della bigenitorialità, in sé corretto ed auspicabile, non può diventare una spada di Damocle tesa sulla testa donne vittime di violenza, costrette ad affrontare percorsi di mediazione o ancor peggio a frequentare in ragione della presenza di figli minori padri-mariti-compagni violenti.

Soprattutto, è necessario ragionare e proporre un sistema articolato e non giudicante che riesca a garantire alle donne, nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, di non essere condannate a relazionarsi con il marito/compagno violento, in ragione della presenza di figli minori.

Un primo passaggio potrebbe essere garantito da un’integrazione alla normativa sulle misure cautelari (allontanamento dalla casa familiare e divieto di avvicinamento, ed, a maggior ragione, in caso di adozione di misure più gravi e restrittive della libertà personale) che autorizzi la donna persona offesa ad esercitare la responsabilità genitoriale sui figli minori indipendentemente dal consenso dell’altro genitore, senza dover ricorrere al procedimento civile per farsi autorizzare all’iscrizione/trasferimento scolastico (problema molto frequente nei casi di donne accolte in protezione che ovviamente hanno necessità di non far conoscere al maltrattante la loro posizione e quella dei figli).

 

Tornando alla risposta penalistica sul tema, come si diceva sopra, il problema più rilevante e sostanziale rimane quello dello squilibrio di potere, che permane, tra donne e uomini e che non sembra essere contrastato in alcun modo in questo momento se si osservano alcune tendenze che la società esprime sia sul piano degli interventi in direzione di un’affermazione più concreta del paradigma dell’eguaglianza, sia sul versante del riconoscimento del disvalore di tutta una serie di condotte abusanti non di rado intrise di razzismo e xenofobia oltre che di marcato sessismo.

È infatti sotto questo profilo che il sistema di tutela delle donne dalla violenza resta indubbiamente ed estremamente carente, garantendo (nei limiti dei bilanci assai contenuti di cui possono disporre i centri antiviolenza) al massimo (e non sempre) la risposta emergenziale.

Le difficoltà in cui opera chiunque si occupi di violenza nelle relazioni intime sono soprattutto legate alla mancanza di risorse, soprattutto nella parte di intervento che spetta ai Servizi Sociali, che è poi fondamentalmente quella che attiene alla possibilità per le donne di avviare un percorso di autonomia, a partire dalla possibilità alloggiativa indipendente (e, nei casi più importanti, possibilmente distante dal partner violento) per proseguire con la tematica più generale del lavoro e del reddito.

E queste difficoltà diventano sempre più significative ed irrisolvibili in conseguenza delle “restrizioni” imposte ai bilanci degli enti locali, le cui risorse diventano sempre più scarse proprio in relazione agli interventi sociali in generale. Non vogliamo neanche pensare a cosa comporterà l’applicazione della cd. “autonomia differenziata”.

Aggiungiamo che alla ristrettezza degli stanziamenti economici ai Centri Anti Violenza vanno aggiunti gli oneri ulteriori posti a carico delle strutture nel recente “protocollo Stato Regioni”

b)    Incentivare l’autonomia

Quanto sin qui esposto ha un’incidenza ben più rilevante nei casi in cui la donna che chiede supporto giudiziale e non nel percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica sia straniera, e tanto più se proveniente da nucleo familiare composto da stranieri (extra Ue).

In ambito giudiziale, ed in particolare sull’azionabilità dei diritti, rinviamo integralmente a un testo recentemente elaborato in collaborazione tra l’Università di Padova- Centro per i Diritti Umani Antonio Papisca e l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione, “Donne straniere diritti umani e questioni di genere”, liberamente scaricabile e reperibile al link https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2022/10/Volume-Completo-Donne-straniere -e, in particolare, per quanto attiene all’azionabilità dei diritti, alla seconda parte del volume.

 Le difficoltà che si manifestano quotidianamente nell’attività di supporto alle donne vittime di violenza (con maggiore difficoltà se straniere) riguardano ovviamente il tema abitativo e reddituale. Le poche misure di sostegno che sono state sin qui adottate (il cd. “reddito di libertà” di cui al DPCM del 17 dicembre 2020, consistente nell’erogazione di € 400 mensili per un massimo di 12 mensilità) ha ricevuto per il periodo 2020-2022 un finanziamento complessivo di 12 milioni di euro, con il risultato che, nel primo anno di applicazione, ne hanno potuto fruire 600 donne (su un totale di oltre 3200 domande presentate). Per il 2023 lo stanziamento statale contenuto nella legge di bilancio è di 1.850.000 euro (sic!)

In ambito lavorativo- di supporto alla ricerca di occupazione- dal 2015 al 2022 l’importo complessivamente erogato da Stato e Regioni è stimato in 157 milioni di euro, di cui 20 milioni per sostegno al reddito (“reddito di libertà” -inclusi i finanziamenti aggiuntivi stanziati dalle Regioni Sardegna, Puglia e Lazio), 124 milioni per il supporto occupazionale (congedi indennizzati, orientamento e tutoraggio, misure inserimento-tirocini, borse lavoro, formazione, incentivi all’assunzione, crediti per autoimprenditorialità), 12 milioni di euro (tra Stato e Regioni) per autonomia abitativa (sussidi per caparre, fitti, utenze). Il che corrisponde, sostanzialmente, ad un sostegno economico calcolato in € 54 al mese per ogni donna assistita dai centri antiviolenza in condizione di non autonomia economica.

È un dato estremamente crudo e significativo, che fa comprendere la necessità ineludibile di un cambio di passo. Vien da dire: meno norme penali e più soldi per uscire dalla violenza.

c)     Misure cautelari: proposte

In attesa del prossimo “inasprimento pene” anticipato nel discorso pubblico come necessario a seguito degli ultimi femminicidi avvenuti prima dell’estate 2023 e più ampiamente degli adattamenti che a breve il legislatore interno dovrà apportare per dare spazio al recepimento dell’attuale dratf di Direttiva[71] in materia rispetto alla quale il Consiglio ha recentemente avviato i negoziati con il Parlamento europeo, dopo che quest’ultimo ha approvato la relazione senza votazione, in linea con il suo regolamento interno[72], ci permettiamo qualche appunto sulla normativa esistente e qualche suggerimento-proposta.

Le disposizioni in materia di allontanamento dalla casa familiare (art 282 bis c.p.p.) consentono al PM, nel caso che l’esecuzione della misura venga a privare le persone conviventi (NB, la disposizione parla di conviventi, indipendentemente dallo stato di coniugio o meno, e non solo in caso di presenza di figli) dei mezzi di sostentamento, di richiedere l’imposizione di un assegno di mantenimento a carico del maltrattante. È una disposizione importante, come immediatamente comprensibile, per garantire alle vittime di violenza in famiglia l’indispensabile alla sopravvivenza propria e dei figli; statisticamente parlando, però, è una disposizione sottoutilizzata, e che ovviamente importa un carico aggiuntivo di indagini e valutazioni (sulla situazione economica delle parti) che le Procure spesso omettono se non esplicitamente sollecitate. Il suggerimento, sul punto, è quello di fornire, ove possibile, in sede di querela o con istanza ad hoc anche successiva, i dati reddituali che consentano la comparazione. La proposta è quella di lavorare ad una modifica dell’art. 282 bis c.p.p. che renda obbligatoria-e non eventuale - l’indagine patrimoniale e la valutazione sulla necessità di stabilire un contributo al mantenimento del nucleo familiare a carico del maltrattante sottoposto alla misura dell’allontanamento dalla casa familiare, anche non contestualmente all’esecuzione della misura (che ovviamente ha carattere di urgenza ed indifferibilità a tutela della vita e della salute delle donne) e che estenda esplicitamente la disposizione in esame alle diverse misure eventualmente adottabili (essendo purtroppo diffusa l’opinione che tale possibilità non sia data, ad esempio, in caso di divieto di avvicinamento ex art 283 ter cpp).

Sempre in tema di misure cautelari, va ancora registrata una carenza che può comportare, in relazione alla particolarità delle situazioni delle violenze in famiglia, gravi rischi per le donne: la normativa non prevede espressamente che la p.o. venga notiziata (e conseguentemente che possa intervenire) dell’eventuale richiesta di riesame avverso l’ordinanza cautelare. Spesso, quindi, le donne p.o. non ne vengono affatto notiziate. Ebbene, se al limite si può discutere sulla possibilità dell’intervento della persona offesa (ex art 299 cpp) in sede di riesame, certamente la non conoscibilità della richiesta di riesame e dei provvedimenti e modifiche che eventualmente ne derivino è intuitivamente un rischio a cui una donna vittima di violenza nelle relazioni intime e familiari non può e non deve essere sottoposta. In questo senso è quindi indubbiamente necessaria un’integrazione normativa che imponga espressamente quanto meno la notifica alla p.o. dell’istanza di riesame e della decisione che ne deriva, analogamente a quanto disposto dai commi 3 e 4 bis dell’art. 299 cpp. La previsione di una misura in tal senso appare si essere urgente, in ragione di esigenze autentiche di tutela delle persone offese di reato, ovvero delle donne!!!

Aggiungiamo qui, rinviando alla lettura dell’elaborato “sull’azionabilità dei diritti umani delle donne straniere vittime di violenza. Criticità in ambito penale” (pubblicato nel testo “Donne straniere diritti umani questioni di genere” già sopra citato e liberamente scaricabile online), che il tema della traduzione dei provvedimenti- quanto meno per estratto- anche nei casi di persone offese straniere diventa sempre più importante, a fronte dell’incremento della popolazione straniera, e soprattutto in ragione della povertà culturale a cui moltissime donne sono condannate da usanze familiari segreganti/isolanti, che non consentono conoscenza delle procedure, dei propri diritti e spesso anche della lingua italiana. E’ anche una questione di democrazia!!!

Ed ancora, va ricordato che nel novero delle ipotesi di reato previste dall’art 76 comma 4 ter del DPR 115/02, che consente l’ammissione al patrocinio a spese dello stato indipendentemente dai limiti di reddito per tutta una serie di reati tipicamente commessi in danno delle donne  (maltrattamenti, stalking, violenza sessuale, mutilazione sessuale) non è ricompreso, per assurdo, il reato più grave, ovvero il femminicidio, se non in favore degli orfani. In altre parole, la donna che riesca a scampare al tentativo di ucciderla, non rientra tra i soggetti destinatari della disposizione di cui si è detto. Pare evidente la necessità di includere tra i reati previsti dall’art 76 comma 4 ter DPR 115/02 quanto meno il tentato omicidio, ove aggravato ai sensi dell’art 577 n. 1 c.p. (in realtà, in presenza di tale aggravante, il beneficio sarebbe logicamente estensibile anche alle ipotesi di reato meno gravi)

d)    I disegni di legge oggi in discussione

Concludiamo con brevissimi cenni sui disegni di legge oggi in discussione: il disegno di legge governativo (C.1294), quello dei deputati del PD (C. 1245), quello del Mov. 5 Stelle (Ascari e altri C.603), quello targato Italia Viva (Bonetti e altri C. 439).

Al di là dei proclami e inasprimenti delle misure “preventive” (in buona sostanza, l’incremento-forse- dell’utilizzo dei braccialetti elettronici e delle sanzioni conseguenti alla loro manomissione e distruzione, e l’introduzione di misure di prevenzione-sorveglianza speciale), e ferma restando la caratteristica di “invarianza finanziaria”= mancato investimento di risorse, l’aspetto che lascia più interdetti della disciplina “innovativa” (tra l’altro comune anche alla proposta dei deputati PD) è l’estensione del procedimento per ammonimento introdotto in relazione allo stalking al campo largo dei cd. “reati spia” della violenza. Davvero questa previsione è di difficile comprensione, per chi si occupa di violenza e ne conosce la ricorrenza delle dinamiche che la connotano sul piano fattuale.

Senza entrare specificamente nel merito delle singole disposizioni ancora in discussione, ci pare doveroso sottolineare che l’estensione del procedimento “monitorio” presenta (almeno) due evidenti problematicità: l’una, rappresentata dalla procedibilità indipendentemente dalla volontà/segnalazione/querela della donna (e ciò che questo può comportare in una situazione di convivenza o comunque di relazione in corso, in termini di sicurezza e protezione); l’altra, la realistica possibilità che tale procedura venga utilizzata “in sostituzione” dell’azione giudiziale, stante la natura delle condotte indicate (lesioni, violenza privata, minaccia, stalking, revenge porn, violazione di domicilio, danneggiamento), che sono poi quelle abitualmente presenti nella fenomenologia della violenza contro le donne.

 

e)     I c.d. protocolli dei tribunali in materia di diritto di famiglia

 

I procedimenti che riguardano   la famiglia e le persone , il modo in cui vengono gestiti  dai Tribunale  ma anche dai Difensori  delle parti , il contenuto degli atti processuali , il linguaggio usato ed infine  le decisioni prese consentono di comprendere  non solo quali siano gli orientamenti  giurisprudenziali ma anche quale sia lo “stato” del nostro Paese , come vengano intese le relazioni personali e soprattutto  se vi sia una autentica sensibilità ed una efficace attenzione e rispetto alle differenza di genere ed a quelle situazioni  in cui vi debba  essere  tutela per  donne vittime di violenza .

In tal senso appare utile esaminare i “cd Protocolli” di cui molti Tribunali si sono dotati nel tempo. Va premesso che si deve criticare l’uso dei singoli magistrati di uniformarsi in un automatico a tali protocolli, semplificando ed appiattando le diverse situazioni, tanto da far ritenere che i protocolli stessi rappresentino ben più che una generale linea di indirizzo, e si trasformino nel pretesto per semplificare situazioni  molto  complesse,  imponendo    un modello regolamentativo  eccessivamente  schematico per definire relazioni intime,  rapporti personali e condizioni  economiche  e patrimoniali  che richiederebbero   maggior  tempo e una attenzione  più puntale  rispetto a quanto viene  loro purtroppo dedicato ordinariamente,

Tanto premesso il primo dato che emerge  è  che non tutti i Tribunali italiani  hanno deciso di dotarsi di un Protocollo  o di linee guida (come hanno  deciso  di qualificarla  taluni) , e che alcuni si limitano a trattare solo alcuni argomenti specifici  .

Si consideri ad esempio, in via del tutto esemplificativa,  che Frosinone , Rieti , Roma , Napoli, Benevento e Chieti si sono dotati di un Protocollo unicamente  in relazione alla determinazione del contributo nel mantenimento dei figli e analogamente  hanno fatto Pescara e Teramo. Matera ha invece linee guida che riguardano la classificazione   delle  spese  ordinarie e straordinarie e così pure Torino.

In Sardegna e nella intera Regione  non troviamo riferimento alla adozione  di Protocolli , Genova dispone di un suo protocollo che attiene però unicamente  alla individuazione delle spese extra. Questa prima disamina , di certo parziale seppure significativa, consente di affermare  che l’attenzione primaria viene dedicata alla complessa matassa delle questioni economiche   nei rapporti tra le parti .

Solo in via di osservazione generale va rilevato come non vi sia differenza nella loro regolamentazione  tra procedimenti di separazione e  giudizi di scioglimento del vincolo , tra giudizi già definiti ed altri invece da decidere.

Se un tempo si poteva forse ritenere che la conflittualità e ancor peggio che una relazione connotata da violenza, riguardassero  solo la prima fase, le prime iniziative  avanti la autorità  Giudiziaria (quindi correlata prevalentemente alla separazione), sappiamo oggi che purtroppo non è più così e che in  corso del procedimento non si assiste più ad un acquietamento nelle relazioni ma che al contrario  ad una distorsione dei rapporti continuano ad essere, non bilanciati o ancor  peggio molesti, violenti o maltrattanti, non definiti neppure dalla conclusione  del giudizio, di certo non bonificati.

Possiamo allora ipotizzare che a mantenere questa condizione di costante patologia   concorra in modo più o meno determinante la procedura ed il modo in cui viene applicata, prima ancora del suo esito?

Un procedimento  semplice nelle sue scansioni, ma approfondito nelle sue indagini, rapido nelle decisioni e comprensibile per i suoi destinatari, non difficoltoso da illustrare a chi non è tenuto ( come lo sono i difensori ) ad avere competenze  specifiche,  può certo concorrere a dare sicurezza e serenità personale a chi decide di porre fine alla propria relazione , a rassicurarla anche sotto un profilo personale ed economico e a far comprendere all’autore del comportamento contra jus le possibili conseguenze, con un auspicabile effetto  deflattivo. 

Senza dimenticare che anche sotto un profilo puramente economico patrimoniale, quello per intenderci che interessa tanto i Protocolli,  scontiamo la impossibilità  di definire in via anticipata  i rapporti economici.

Viene da pensare che talvolta l’apporre alcuni correttivi , in forma  pattizia o anticipatoria alla separazione prima ed al divorzio  poi, potrebbe costituire elemento di attenuazione  delle dispute economiche[73]  .

Ritornando alla lettura dei Protocolli  si può  di certo affermare, valutando come vi sia una differente declinazione  di molti temi e come appaiono diversi  gli orientamenti   a seconda del contesto sociale , territoriale ed economico che si possa giungere a concrete applicazioni ed indicazioni non solo divergenti  ma spesso anche contrastanti tra i differenti Tribunali costituente  elemento  che  supporta il cd forum shopping[74].

In via esemplificativa di queste diversità si possono citare in via esemplificativa  alcuni tra i molti, collocandoli anche  temporalmente e valutando prioritariamente quali siano i soggetti che li hanno sottoscritti : oggetto di esame specifico quindi il protocollo del Tribunale  di  Perugia , Bari, Pordenone , Verona , Ancona , Forli,  Firenze , Milano.

Emerge immediatamente  leggendone i firmatari come non si esca nella maggior parte  dei casi da una   diade di soggetti (salvo  alcune eccezioni ).

** Anno 2011 Firenze : il Protocollo viene sottoscritto dal Tribunale , dalla Procura della Repubblica , dal Consiglio  dell’ordine degli avvocati , Aiaf Toscana , Camera Minorile , IDIMI, Osservatorio  del diritto di famiglia. 

** Anno 2013 Ancona :  il Protocollo viene sottoscritto  dal Presidente  dell’Ordine degli avvocati e dal Presidente del Tribunale .

** Anno 2013 Pordenone : il Protocollo viene sottoscritto dal Presidente del Tribunale , dal Presidente del Laboratorio Forense , dal Presidente del Consiglio dell’Ordine , dal Direttore generale ASS 6 , dal Direttore Generale dall Auls,  dal Presidente dei Consultori  famigliari di Pordenone - Portogruaro .

** Anno  2016 Alessandria : sottoscrive il Presidente del Tribunale  e  del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati .

** Anno 2017 Forli: sottoscrivono il Presidente del Tribunale   , il Presidente del’Ordine degli avvocati ed in Presidente  del Comitato pari opportunità

**Anno 2018 Bari:  sottoscrivono  il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati ,il Presidente del Tribunale,  il Presidente  della Prima sezione civile ( sezione che si occupa evidentemente  di qustioni di diritto di famiglia ) , il Presidente della Commissione famiglia , ed il presidente della sezione di Bari dell’ Osservatorio del diritto di famiglia

** Anno 2018 Verona sottoscrive il Presidente del Tribunale e quello  dell’Ordine degli avvocati con l’adesione di AIAF , ONDIF , Camera Minorile ,Cammino , Unione giuristi  cattolici e Valore prassi.

**  Anno 2019 Milano vengano qualificate solo come linee guida e sono sottoscritte dalla Corte di Appello ( Presidente e Presidente della sezione famiglia ), dal Tribunal di Milano , dal Consiglio dell’Ordine e dall’Osservatoio  sulla giustizia civile)

** anno 2019 Perugia il Protocollo è stato sottoscritto dal Presidente del Tribunale ,dall’Ordine degli avvocati ,dalla associazione italiana avvocati famiglia e minori , dal Forum delle Associazioni famiglia dell’Umbria , dall’Osservatorio  nazionale sul diritto di famiglia, dalla camera Civile , dall’ass.avvocati matrimonialisti  italiani.

** anno 2019 Venezia  il Protocollo è sottoscritto dal Presidente dell’ordine degli Avvocati  e dal Presidente del Tribunale.

Scorrendo rapidamente questo gruppo esemplificativo di Protocolli, ma anche dopo aver esaminato gli altri, si può facilmente evincere che, eccezion fatta che per Pordenone, nessun altro ha ritenuto di coinvolgere le Aziende sanitarie locali, i consultori, l’Ordine degli Psicologi e degli assistenti sociali.

Solo Forlì ha inserito tra i sottoscrittori il comitato pari opportunità, molto pochi (Firenze , Milano , Verona  e Perugia ) altre associazioni , nessuno il Tribunale dei Minorenni , pochi la Procura  della  Repubbica e nessuno i Centri Antiviolenza.

Si differenziano  tra tutti Aosta  e Verona che hanno adottato dei Protocolli di intesa  per la prevenzione ed il contrasto della violenza nei confronti della persona e della comunità famigliare, ma solo Aosta ha collaborato con il Centro Antiviolenza mentre Verona si è limitata ad redigere linee  guida per il Tribunale .

La mancata  presenza dei Centri Antiviolenza  ai tavoli di discussione ed elaborazione di linee guida e/o protocolli è significativa. Nei fatti ne limita l’efficacia ma si pone anche in contrasto  con specifiche norme da tempo in vigore .

Si consideri ad esempio il recente art.473 bis-15 c.p.c. e l’art. 342 ter c.c (sebbene norma risalente nel tempo) che si riferisce agli ordini di protezione contro la violenza al suo secondo comma stabilisce che il Tribunale “possa disporre  l’intervento  dei Servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione famigliare anche delle associazioni che abbiano come fine statutario  il sostegno e l’accoglienza di donne  e minori o di altri soggetti vittime di abusi  o maltrattamenti”. Ora, se è vero che tale ultima norma  non è attuale ed andrà sicuramente adeguata  ai cambiamenti  intervenuti, (si consideri  tra tutti la contradditorietà  tra il riferimento  all’invito alla  mediazione  famigliare e l’art. 48 della Convenzione di Istanbul che  prevede il divieto  di metodi alternativi di risoluzione  del conflitto o di misure alternative alle pene obbligatorie), va invece sottolineato che di questo interlocutori (i centri Antiviolenza) operativi , attivi sul territorio, riconosciuti   normativamente, non si  si rinviene traccia nella  elaborazione  dei cd Protocolli.

Eppure il ruolo che i Centri Antiviolenza hanno avuto e ricoprono tutt’ora è sempre più riconosciuto e valorizzato,  non solo per il lavoro che da anni li lega al territorio ( se e quando  riescano a sopravvivere con gli inesistenti contributi che vengono dati loro) ma anche  alle leggi nazionali e regionali  che riconoscono  competenza , attribuendo loro anche un ruolo preciso[75].

Non va dimenticato inoltre  che le sedi giudiziarie rappresentano spesso il  faticoso punto di arrivo per le donne in situazioni in cui i rapporti con il partner era stato caratterizzato da prevaricazione, da maltrattamenti, da  violenza talvolta anche nella forma della  violenza assistita  e che proprio per questo le donne  si sono  rivolte ai Tribunali , dopo un percorso al Cav (centro antiviolenza) che può iniziare anche in pendenza di giudizio.

E quindi va considerato che la presenza dei centri antiviolenza al tavolo di discussione e di concertazione di un protocollo in materia di diritto di famiglia apparirebbe non solo opportuno  ma  indispensabile .

Ciò non solo per la sicura esperienza maturata sul campo da chi con le donne vittime di violenza lavora quotidianamente  , ma anche perchè l’ottica di lettura, di interpretazione  e di azione dei Centri antiviolenza costituisce un utile correttivo ad un approccio che non può essere neutro quando  si incorra in una situazione di violenze contro  le donne.

Peraltro è da sottolineare che detti Protocolli  non vengono neppure inviati per conoscenza  ai Centri antiviolenza  del territorio   con la richiesta di eventuali integrazioni e/O osservazioni  o anche di mera presa di atto .

E ciò rappresenta l’ennesimo esempio di quella mancanza di coordinamento e di comunicazione   tra i diversi interlocutori in ambito istituzionale ed giudiziario.

E consente di introdurre un altro rilievo critico che riguarda la frammentarietà  degli interventi istituzionali ,  il loro mancato collegamento  , anzi per essere più chiari l’evidente scollamento che esiste tra le varie istituzioni , gli Organi giudiziari  stessi e ancor prima tra i vari interlocutori  che sono interessati e dovrebbero essere coinvolti nel contrasto alla violenza in senso più generale e in senso più specifico nella elaborazione di linee guida/protocolli

Questa frammentarietà diventa, a sua volta,  causa di poca tempestività, incisività ed efficacia degli interventi  e rappresenta un dato di macroscopica evidenza, malamente  vissuta dalle parti coinvolte  in un procedimento  di famiglia , dai loro difensori e anche dallo stesso  Giudicante.

Si dovrebbe in realtà avere uno strettissimo   legame tra i vari organi giudiziari tra il Tribunale civile quello dei minorenni, la Procura  ed il Tribunale  penale .

E non si ritiene che il comma 8 dell’art. 473 bis – 12 di nuova formulazione vi ovvi laddove prevede che il ricorso introduttivo (onerando la parte quindi) debba indicare la esistenza di altri procedimenti, aventi ad oggetto in tutto o in parte le medesime domande o domande ad esse connesse, laddove sarebbe stato  più semplice prevedere un meccanismo di circolazione  delle informazioni onerando gli organi giudiziari  . 

Per far comprendere  in via esemplificativa ciò che questo di fatto ha comportato e potrebbe comunque  ancora comportare , “calato” nei protocolli che si stanno esaminando basta valutare  che  in gran parte di essi si fa riferimento “all’obbligo” del legale che assiste una parte in un procedimento di famiglia di dare comunicazione della pendenza di altro procedimenti avanti il Tribunale dei Minorenni.

E tale esigenza di circolarità non viene neppure recepita da tutti i Tribunali.

Oltre a ciò manca qualsivoglia raccordo tra procedimento penale e procedimento  civile, limitata la comunicazione  penale alla procura minorile  ex art. 609  decies c.p.p .

Eppure, da tempo, il  Consiglio superiore della Magistratura ( già con propria risoluzione del 2018) segnalava la necessità di cooperazione delle magistrature ordinarie , civili , penali e minorili   quando sia pendente un procedimento di separazione  personale o di divorzio o comunque  relative alla separazione delle parti ,per evitare la possibilità di vittimizzazione secondaria del coniuge e dei minori vittime e loro volta di violenza diretta  o assistita .

Questo in quanto donne e minori sarebbero  costretti in difetto di una doverosa  acquisizione di ufficio degli elementi di prova che fondano l’apertura  di un procedimento  penale o avanti il Tribunale   minorile a ripercorrere e ripetere più  e più volte le loro vicende personali, con possibilita’- non così remota-  che vengano pronunciati provvedimenti  tra loro contradditori o del tutto inconciliabili .

Proprio a tal riguardo il Consiglio superiore della Magistratura aveva  sottolineato la necessità di un intervento legislativo al riguardo, sollecitando gli Uffici delle Procure e dei Tribunali a formalizzare accordi al riguardo.

Inviti che non risultano essere  stati colti in modo organico , coerente e conforme neppure in una sede  che potrebbe aprire la strada  alle “cd buone pratiche” e cioè nella formulazione  dei Protocolli che non dovrebbero  considerare la acquisizione  degli atti e provvedimenti emessi da diverse  autorità  solo come un obbligo in capo ai Difensori .

Che la mancanza di comunicazione  e trasmissione tra le varie Autorità costituisca un grave elemento di debolezza è dimostrato  dalla necessità avvertita dal legislatore  di inserire nel testo normativo penale l’art.64 bis disp.att.c.p. introdotto dal cd Codice rosso (legge 69/2019) .

Norma che prevede che ai fini della decisione nei procedimenti   di separazione  personale dei coniugi e dei procedimenti relativi a figli minori di età ed all’esercizio della  responsabilità genitoriale , copia dell’ordinanza  di applicazione delle misure cautelari personali o che ne dispongano la sostituzione  o la revoca, l’avviso  di conclusione  delle indagini preliminari, del procedimento  di archiviazione per i reati di cui agli art. 572, 609 bis , 612 bis e ter , 582, 583 quinquies  nella ipotesi aggravata  ai sensi  dell’ art.576 , primo comma numero 2 e 5 e 577 primo comma n.1 secondo  comma  siano trasmessi  al Giudice competente.

 

La trasmissione è d’obbligo anche nella diversità delle posizioni  processuali e di certo  il dato fattuale può agevolare la valutazione  del Giudicante.

 Solo con l’introduzione dell’art. 64 bis disp.att quindi ci si troverebbe di fronte ad una regolamentazione che introduce  un rapporto di comunicazione  tra due differenti autorità Giudiziarie   e che si pone come tassativo .

Va verificato poi nella  pratica quanto questo avvenga effettivamente.

Andrebbe  probabilmente alla luce  di questo riconsiderato  con attenzione  il rapporto tra procedimento  penale e procedimento  civile chiedendosi anche  se sia opportuno (ma non confligga con l’art. 27,  2 comma della Costituzione)  anche l’acquisizione  della semplice  notizia  di reato  al fascicolo del procedimento  civilistico .

Sotto tale profilo prevedere proprio nei Protocolli una forma di trasmissione automatica  e quindi di conoscenza  tra le differenti autorità giudiziarie  appare non solo utile ma doverosa.

 

f)      La formulazione  degli atti 

Merita un riferimento anche il contenuto dei cd protocolli laddove prevede dei criteri per la stesura degli atti processuali, proprio perché esso può andare ad orientare, permeare e condizionare   lo stesso andamento del giudizio .

Va evidenziato come alcuni giungano addirittura, in loro parti specifiche  a dare indicazioni  su come debbano essere formulati e redatti gli atti .

Si possono distinguere   due diversa tipologie: 

a=) Un primo gruppo di Protocolli richiede addirittura una sorta di astensione  nel riferire aspetti più strettamente  personali , eventualmente riferibili  alle ragioni della separazione, riservando la narrazione degli stessi al deposito della Cd Memoria Integrativa ( art.709 c.p.c)[76].

Bari invece, sul presupposto della natura bifasica del procedimento ritiene che la udienza  presidenziale richieda unicamente   la deduzione di fatti e la allegazione  di documenti funzionali all’emissione dei provvedimenti  presidenziali   essendo l’udienza stessa di fatto mirata ad una funzione principalmente  conciliativa, volta quindi alla consensualizzione  .

Tanto da richiedere che le vicende personali (come se vi possa esser altro !) non vengano portate all’attenzione del Presidente  come  le vicende separatizie , e l’atto sia inoltre limitato nella sua lunghezza.

 

Verona invece chiede che siano indicate sinteticamente le cause .

 

  1. b) Un secondo gruppo di Tribunali (e di protocolli) ritiene utile al contrario ed opportuno che siano indicate le cause della separazione e nei procedimenti divorzili anche gli eventuali inadempimenti alle statuizioni giudiziarie  .

Tutti indistintamente i Tribunali  sono molto rigidi nel richiedere che in allegato agli atti sia acquisita la documentazione che consenta  di individuare  le disponibilità  economiche  delle parti  e quindi i redditi, siano essi annuali o mensili, e le eventuali  rendite di cui le parti siano titolari .

Alcuni addirittura (come Perugia) chiede il deposito degli atti di acquisto dei beni, la precisazione se vi siano titoli di godimento su altri immobili ,ma anche se la famiglia si doti di collaboratori  famigliari, se vi siano componenti iscritti a circoli ricreativi o associativi (sempre Perugia).

Forlì invece  si limita a richiedere  che venga fornito ogni  elemento utile per stabilire il tenore di vita .

Appare di sicuro singolare questa diversità di metodo di costruzione della udienza presidenziale e degli atti che in essa vengono  depositati  e scambiati , anche in ragione del fatto che oramai la prima udienza rappresenta una sorta di anticipazione della decisione finale, seppure mirata alla pronuncia dei provvedimenti temporanei  ed urgenti che  comunque consolidano, spesso  per lungo tempo  se non sino alla  sentenza,  la regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali .

 Ma ciò che pare piuttosto singolare è che l’aspetto personale , quello delle relazioni tra le parti e  spesso tra loro quali genitori, cosi pregnanti nei procedimenti   di famiglia,  venga posto in secondo piano  rispetto alla disclosure  economica.

Volendo trarre delle conclusioni  dalla disamina di questi protocollo non si può che andare a rilevare  l’applicazione   delle norme di diritto in  una ottica riduttiva, mirata  alla  risoluzione del conflitto,  limitata alla sola  definizione   degli aspetti economici.

Altre prescrizioni riguardano invece la richiesta  di utilizzare  nella stesura degli atti i principi di sinteticità  e chiarezza.

 Se è pur vero che state introdotte modifiche legislative volte alla semplificazione del momento decisorio: si pensi alla  sostituzione   della ordinanza alla sentenza , alla decisione  immediata  ex art.281 sexies c.p.c , alla motivazione  concisa e che  successivamente  l’interesse del legislatore  si è esteso  introducendo e richiedendo principi di sinteticità e chiarezza negli atti processuali siano essi utilizzati da parte del Giudice  che dalle parti.

Tali principi già in vigore  nel processo amministrativo e contabile  in realtà appaiono molto vaghi : è chiaro  che la sinteticità va rapportata  al contenuto  dell’atto  prevedendo   l’esclusione  di ripetizioni  e ridondanze ,e  si riferisce anche alla dimensione dell’atto e quindi alla sua proporzione al numero delle questioni trattate  e  alla loro complessità .

Mentre  la chiarezza fa riferimento alla impostazione ordinata dello scritto  ed alla sua comprensibilità .

Ora se questi criteri sono di certo elementi apprezzabili nella lettura dell’atto , va però tenuto conto che gli atti in un processo in cui sono coinvolte le relazioni personali , in cui anche la materia giuridica è spesso intrisa di dolore e sofferenza, in cui le aspettative delle donne di essere credute ed ascoltate ed avere giustizia  non devono essere ridotti solo a meri modelli da compilare o nei quali  riportare unicamente  i dati da cui  poter evincere quale fosse il bilancio famigliare  tra entrate ed uscite .

Ben sappiamo che di frequente  non tutto quello che  le donne ritengono importante debba per ciò stesso essere portato a conoscenza  del Giudice o abbia un rilievo fondante per una eventuale decisione ma comunque offre la cornice entro la quale si è svolta la vita delle parti.

Limitare anche la possibilità di parlare attraverso gli atti ma anche in sede di loro audizione, togliere voce a chi faticosamente  l’ha ritrovata  appare un ulteriore atto di prevaricazione e di violenza . 

Piuttosto che limitare gli atti si dovrebbe   invece prevedere di inserire all’interno di protocolli degli obblighi di rispetto nei riguardi delle donne quali ad esempio quello di non incorrere nella narrazione degli atti nell’uso di stereotipi di genere .

 

g)      Le fonti internazionali 

Nessuno dei Protocolli contiene riferimenti diretti ma neppure richiami generici a principi enucleati in fonti internazionali che nel tempo si sono più direttamente occupati delle tematiche della violenza  contro le donne, fonti che ai sensi  dell’art.117 della Costituzione  hanno pari dignità  di quelle nazionali e dovrebbero trovare altrettanta esecuzione  ed applicazione  delle norme interne.

Manca, ad esempio, ogni riferimento al contenuto della CEDAW  (definita   Carta internazionale dei diritti delle donne che impegna gli stati firmatari ad avviare misure  che siano utili a porre fine alle discriminazione  contre le donne e che è stata ratificata dalla Italia il 10 giugno 1985 ed entrata in vigore un mese dopo).

Ma ciò che è peggio è che risulta del tutto ignorata la Convenzione di Istanbul del 2011.

 

Eppure la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza del 29 gennaio 2016 al n. 10959 si è chiaramente  espressa affermando:  “ Come  è stato osservato la direttiva 2012/29/UE , con il suo pendant  di provvedimenti-satelliti  ( le direttive sulla tratta di esseri umani , sulla  violenza sessuale , sull’ordine di protezione penale, tra le altre)  e di  accordi internazionali ( la Convenzione di Lanzarote e Istanbul  in particolare) rappresenta un vero e proprio snodo per le politiche criminali , di matrice sostanziale  e processuale  ,dei legislatori europei .Non tanto per le singole indicazioni da attuare a livello  nazionale ( diritti di informazione , assistenza  linguistica , accesso alla giustizia,  garanzie di protezione e via discorrendo ) quanto per la necessità , imposta dal testo europeo di definire  una chiara posizione sistemica dell’offeso .

In tale contesto si è inserita l’attività del legislatore interno che , a fronte dell’ emersione del fenomeno della violenza in ambito famigliare e domestico  e in presenza di una pluralità di atti internazionali  di cui tener conto  ha provveduto a modificare in larga parte la normativa sostanziale  e specialmente  processuale  con interventi  settoriali , spesso attuati con lo strumento del decreto legge , anche reintervenendo  con successivi  adattamenti degli stessi istituti :  un vero e proprio “arcipelago”  normativo  nel quale  non sempre è facile orientarsi. Di tale quadro di riferimento complesso e frammentario si deve tener  conto al fine di risolvere la questione di cui trattasi , che richiede di essere inquadrata nell’ambito  delle fonti normative interne ed internazionali .”

Ciò nonostante di tali fonti sovranazionali non troviamo traccia nei Protocolli e tantomeno  nella motivazione dei provvedimenti  temporanei  ed urgenti ,non certo nelle  sentenza , non nelle motivazioni di ordinanze ,  non nella emissione di eventuali provvedimenti  cautelari o di modifica di sentenze o provvedimenti  provvisori.

E sarebbe  di certo molto interessante verificare in quante sentenze di primo o secondo grado siano  contenuti riferimenti alle fonti internazionali.

Eppure se alla Convenzione di Istanbul  bisogna guardare come ad una fonte di legge ,allora di essa dovrà tenersi conto in tutti  i gradi  ed in tutti gli ambiti  in cui essa potrebbe o dovrebbe trovare applicazione .

Quale miglior ambito allora di quello  attuativo -pratico  proprio dei giudizi  e delle procedure  in cui si debba procedere ad attuare forme di tutela  per donne vittime  di violenza ?

Non va dimenticati che l’art.5 della  Convenzione di Istanbul (intitolata obblighi degli Stati e dovuta diligenza) al punto 2 prevede espressamente che : “Le parti adottino le misure legislative e di altro tipo per esercitare la debita diligenza nel prevenire , indagare , punire i responsabili ( e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali)”.

Ma anche al capitolo IV intitolato “protezione e sostegno “all’art. 18 II comma prevede che le parti adottino misure legislative e di altro tipo necessarie con riferimento al loro diritto interno per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficaci tra tutti gli organismi statali competenti , comprese  le autorità giurisdizionali , pubblici ministeri , le autorità incaricate delle applicazioni della legge , autorità locali e regionali ed organizzazioni non governative e le altre organizzazioni o entità competenti  per proteggere e sostenere le vittime”.

Ma si consideri anche il capitolo V “Diritto sostanziale”  , all’art.29  procedimenti e vie di ricorso in materia civile  o l’art. 48 divieto di metodi  alternativi di risoluzione dei conflitti , anche nel corpo di detto articolo troviamo la medesima formula che prevede sia l’adozione di misure legislative ma anche l’assunzione di  iniziative di “altro tipo”.

 

Se lo Stato Italiano che ha ratificato la Convenzione  e ad essa deve attenersi , allora gli si richiede coraggio , trasparenza , coerenza e iniziativa.

Viene da chiedersi se non si possa trovare un  buon ambito di applicazione od almeno un buon banco di prova della Convenzione di Istanbul proprio nella predisposizione di Protocolli (così amati dai nostri Tribunali !)o di linee guida relative  alla trattazione dei giudizi di separazione, divorzio, regolamentazione di questioni relative a figli minorenni o maggiorenni  non economicamente autonomi  misure cautelari , che recepiscano   questi principi ed agli stessi diano applicazione.

Indispensabile e condizione indeffettibile però è prendere consapevolezza da parte di magistrati  , CTU, servizi sociali , servizi sanitari che non tutte le relazioni intime sono  conflittuali, il che presuppone  un piano di parità  e di confronto anche se spinto e  di dialettica seppure estrema, ma che alcune trascendono diventando relazioni violente e maltrattanti in cui una delle parti è vittima dell’altra .

E che come tali vanno nominate e che questo tipo di violenza deve essere riconosciuta   come avente natura strutturale, connaturata alla manifestazione di potere di un soggetto su di un altro.

Questo approccio costituisce l’asse portante del metodo e del pensiero di chi lavora con le donne vittime di violenza e che delle stesse cerca di far sentire  la voce .

Ma purtroppo queste competenze  non vengono adeguatamente  valorizzate e considerato come patrimonio comune il loro lavoro, come dovrebbe essere per tutti i soggetti  istituzionali che di tali situazioni hanno modo o dovere di occuparsi.

Ed allora vi è necessità che le competenze si intreccino non solo per favorire un utile imprescindibile scambio di differenti punti di attenzione ma anche per formulare criteri di  indagine e di verifica mirati ad esempio in sede di Ctu  alla valutazione del rischio ed in generale alla assunzione di elementi probatori  utili che con un differente approccio non verrebbero colti .

Se ad esempio si facilitasse la richiesta di misure cautelari ancora poco utilizzate in sede civile prevedendo anche nei Protocolli l’inserimento di alcuni elementi o prerequisiti  in modo da supportare la richiesta finalizzandola  al  suo accoglimento.

Ciò potrebbe avvenire,  ad esempio, acquisendo specifiche  relazioni dei  centri antiviolenza  che hanno avuto modo di incontrato la donna a protezione della quale si richiede un particolare provvedimento   ( misure cautelari , ma anche visite protette per i figli)    cosi da poter offrire al meglio ed in tempi veloci ,  evitando gli usuali ritardi conseguenti alla  richiesta di acquisizione che sconta i tempi biblici dei Servizi così da raccogliere tutti gli elementi probatori  necessari.

Ma andrebbe anche potenziata la figura del Pubblico Ministero al quale comunque competono  i compiti di cui allo art.70 c.p.c che dispone di  una facoltà ( ed un obbligo ) ma al tempo stesso di poteri di indagine e di intervento di certo superiori a quelli  che spettano alla parte.

Cosicchè i provvedimenti sia se emessi “inaudita altera parte” ma anche se venisse disposta la comparizione delle parti,  sarebbero completi pur nelle loro sommarietà di indagine costituendo  il frutto della acquisizione  del maggior numero di elementi  .

Non si ritiene che l’utilizzo di un potere di disclosure da parte del Giudicante ecceda quelli che gli sono propri, travalicando l’onere probatorio che grava sulla parte, sia perché potrebbe sempre essere  indicato come prerequisito da inserire  nel Ricorso  ma anche in ragione  di effettuabili  plurimi richiami   a norme costituzionali  art. 31 e 32  ma anche 29 e 39  sotto il profilo della eliminazione  di condizioni  di discriminazione. 

Ed a maggior ragione laddove  vi fosse necessità di protezione di donne vittime di violenza o di minori,  questi ultimi  soggetti privi di propria capacità di agire e quindi di essere loro stessi  soggetti autonomi nel processo con autonoma difesa .

Vanno analizzate le modifiche che a tale impostazione potrebbero derivare dalla recente  riforma e dalla introduzione  della nuova figura del curatore dei minori  .

A ciò si potrebbe  ovviare potenziando la presenza obbligatoria del PM ex art.70 c.p.c ed il suo conseguente intervento  obbligatoria  a pena di nullità nei procedimenti  indicati nel predetto articolo , ma anche l’art.72 c.p.c  che regolamenta  i poteri del Pubblico Ministero e lo riconosce alla stessa stregua  di quelli  che competono  alle parti , richiamando l’art. 267 c.p.c , norma che fa riferimento  allo intervento del terzo nel processo ,con possibilità conseguente di produrre documenti e dedurre prove.

Quindi non un ruolo di mero supporto ed integrazione che gli viene riconosciuto al punto 3) del medesimo articolo 70 in tutti i procedimenti  in cui si ravvisa  un pubblico interesse .

Sussiste conseguentemente la possibilità teorica che sia il pubblico Ministero   con i propri poteri di impulso   non appena notiziato della pendenza di un procedimento ad avere modo  di assumere  ed ottenere informazioni utili e necessarie e di farle acquisire al Giudicante.

 Sempre con riferimento alle norme  di cui all’art.342 ter c.c va segnalato che andrebbe soppresso , o almeno si dovrebbe  dar atto che  vi è contrasto con l’art.48 della Convenzione  di Istanbul nella parte in cui si prevede la possibilità di disporre l’intervento di un centro di mediazione famigliare .

Comunque  considerando che vi possano essere situazioni   gravi ma non non tali  da far sussistere le condizioni  per  la richiesta di misure  cautelari,  le soluzioni per creare una condizione  di protezione potrebbero  essere altre e tutte facilmente praticabili: prevedere ad esempio  una corsia preferenziale  per la trattazione dei procedimenti   di famiglia che si presentini caratterizzate  da comprovate condizioni  di violenza .

Lo farà il nuovo 473 bis .15 c.p.c ?

Pur non riconoscendo   alla funzione dei protocolli  alcun effetto salvifico e tantomeno diretto all’ottimizzazione della procedura , pur tuttavia considerando l’evidente  tendenza dei Tribunali ad adottarli si chiede almeno che essi diano applicazione alle norme  ed ai principi enunciati  nelle Convenzioni internazionali ed in quella di Istanbul   che per completezza ed esaustività si pone come una vera e propria guida e sicuro criterio di orientamento .

E’ necessario,  pertanto,  che i Tribunali abbiano il coraggio di distinguere  tra situazioni  di conflitto e situazioni  di violenza e la affrontino in modi e con strumenti diversi .

E’ solo nel primo caso infatti che si potrà pensare ad un invito ad una consensualizzazione del procedimento come risultato  di una riflessione di entrambe le parti, non certo  come  modo per negare o ancor peggio mistificare una situazione relazionale violenta .

La mancanza  di coordinamento tra le istituzioni  i in principalità ma anche tra tutti i soggetti che si occupano  del contrasto alla violenza di genere è un elemento che è stato ripetutamente  sottolineata già nel 2012 ( esattamente  11 anni)  fa da Radshida Manjoo che in qualità di   Special Rapporteur ONU  aveva visitata l’Italia e nella sua relazione  conclusiva aveva dichiarato  che : “Il Governo italiano ha fatto molti sforzi per affrontare  la questione della violenza contro le donne anche attraverso l’adozione di leggi e politiche rivolte alla promozione e alla tutela dei diritti delle donne. Tuttavia queste iniziative non hanno portato alla riduzione  del fenomeno del femminicidio o al miglioramento delle condizioni di vita di molte donne soprattutto straniere o disabili

Tra le varie raccomandazioni   valide ancor oggi anche nella successiva e richiamate  nel più recente rapporto del Grevio l’invito , tra i molti , alla creazione di una struttura governativa dedicata alla parità di genere ed alla lotta contro la violenza con funzioni di coordinamento tra tutte le varie istituzioni coinvolte , a promulgare una legge specifica che consenta di superare la frammentazione ed i ritardi  spesso conseguenti proprio  a questa manca di unitarietà e difetto di collegamento tramite un costante scambio di informazioni  .

Ritornando al tema ed ai Protocolli quello che verrebbe richiesto è uno sforzo minimo non solo per una efficace ed ritengo obbligatoria   applicazione delle norme ma anche per  dare realizzazione a quegli interventi che le norme  stesse richiedono siano esse nazionali che sovranazionali ed ai principi che esse contengono .

Questo non tanto e non solo al fine di creare un comune sentire o semplicemente e riduttivamente una maggiore sensibilità ma una comune cultura giuridica ed uno stile professionale per magistrati e avvocati attento, sensibile e rispettoso del genere.

 

h) Riflessioni e proposte in merito alla legge 11 gennaio 2018 al n. 4 e decreto 22 maggio 2020 n.71

 

la Legge per gli Orfani di crimini domestici  deve essere letta anche quale assunzione  di responsabilità  da parte dello Stato per la sua incapacità di essere riuscito a evitare  l’evento luttuoso   che ha reso poi questi figli “Orfani” .

Sempre di più i femminicidi  infatti  vengono  assimilati  a reati di tipo mafioso in cui  erano emersi segnali di pericolo, registrate  minacce , comportamenti violenti e/o aggressivi : si erano cioè evidenziati anche in tempi ristretti  tutti quegli  elmenti dai quali poter desumere   che “potesse succedere qualcosa d’altro “ e che l’epilogo  “avrebbe  potuto essere tragico ed irrimediabile”.

Non si può disconoscere che molto è stato fatto e che vi sia una maggiore attenzione ,  ma la sensibilità personale e la stessa formazione  specifica  viene vanificata se non  vi sono risorse economiche adeguate e  se la formazione  stessa non viene estesa  ,ma anche  costantemente rinnovata  e ridiscussa ,  a tutti coloro che hanno modo per lavoro o per  impegno  politico e di militanza di entrare in contatto con situazioni   di violenza  contro le donne.

Non possiamo avere delle eccellenze e poi nella quotidianeità e cosa ben più grave  nelle aule di giustizia,  scontrarci   con la costante  mancata “valutazione del rischio”  anche nelle Ctu o ancor peggio nelle Relazioni dei Servizi sociali , con il continuo invito alla mediazione tra le parti,  con la  evidente difficoltà di molte istituzioni  di riconoscere e poi nominare la violenza come tale .

E ovviamente cercare di porvi rimedio. 

Lo Stato ha quindi cercato di ovviare ad un sua inefficienza e talvolta inerzia , andando a tutelare coloro che sono a tutti gli effetti esse stesse vittime dirette di  quanto accaduto.  

Ma c’è un altro aspetto che va tenuto  presente per le conseguenze  che  viene ad avere  nella stessa applicazione  della legge e del suo regolamento  attuativo ( di due anni successivo peraltro ) e riguarda invece più specificatamente  l’attenzione da porre agli autori dei fatti.

Essa attiene alla circostanza che i femminicidi  non possono essere riportati ad atti compiuti da uomini disturbati mentalmente  o affetti da malattia.

Talvolta, ma in casi rari, è accaduto che si presentasse un profilo depressivo, dei  disturbi paranoidi o di ansia , ma raramente ci si è trovati in presenza  di un vera forma di schizofrenia  o di psicosi  tali da inibire il contatto dell’autore di reato  con la realtà o di un disturbo talmente grave da incidere  sulle capacità di discernimento  così da far ritenere che il soggetto non avesse capacità  di intendere e volere.

Ricordiamo che la Cassazione a Sezioni unite con sua sentenza n.9163/2005 ha affermato espressamente che non hanno rilievo ai fini della imputabilità anomalie caratteriali, disarmonie  della personalità , alterazioni di tipo caratteriale, deviazioni  del carattere  che non abbiano rilievo  sulla capacità di autodeterminazione   dell’ agente.

Né tantomeno hanno rilievo gli stati emotivi e passionali per la espressa disposizione  di cui all’art.90 c.p.

Abbiamo quindi l’autore di un femminicido che è stato il compagno , il fidanzato, il  marito  ed è un padre sano di mente .

E questo se da un lato rende più difficoltoso per coloro che hanno perso un genitore per mano di un altro , comprendere perchè proprio quello violento  sia il sopravissuto costringe a confrontarsi , anche sul  piano giuridico  con colui  che può farsi portatore di proprie autonome richieste  nei riguardi  di quei figli che abbia reso orfani. 

La Legge n. 4/2018 rappresenta una conquista recente  di civiltà  giuridica  nel nostro panorama  e nel nostro Paese che deve comunque prendere atto delle normative internazionali e della loro pari efficacia ex art.117 della Costituzione  alle norme  interne.

Tra tutte la Convenzione di Istanbul. 

Ma lo fa subendo anche quello che è stato un passato recente  ma non certo giuridicamente  accettabile in una Società democratica   di cui non possiamo non tenere  conto ,anche con riferimento  alla Legge 4/2018.

E’ sufficiente  riflettere ad esempio  che nel caso di delitto  d’onore - abrogato solo nel 1981 - gli orfani di madre , che potrebbero  ancora essere viventi data la distanza  temporale modesta e di cui il padre   si era reso colpevole  del fatto-reato erano stati costretti a prendere atto  che il loro congiunto  godeva , per legge dello Stato , di un trattamento privilegiato   riconosciutogli proprio  dalla attenuante specifica dell’ art.587 c.p che comportava   una consistente diminuzione  di pena .

Anche la legge 4/2018 presenta comunque ancora imprecisioni e carenze.   

Già confrontando   il titolo delle due disposizioni si nota tra loro  una difformità :la legge  4/2018 é intitolato “Modifiche al codice penale e di procedura penale ad altre disposizioni”  individuando quali destinatari  gli orfani di crimini domestici , norma poi estesa dall’art.8 della Legge 19 luglio 2019 n.69 che reca modifiche al codice penale e di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela  di vittime di violenza domestica e/o di genere  .

La intestazione  del Regolamento  usa invece  invece parole differenti, identificando in “orfani  di crimini  domestici e di reati di genere” ( oltrechè di famiglia affidataria )  coloro in favore dei quali vengono erogate le misure di sostegno .

Rimane quindi un vuoto nella intestazione  letterale delle della legge e  del decreto ma  al tempo stesso una notevole indeterminatezza (che genera confusione)   nell’utilizzo delle parole,  oscillando il legislatore  indistintamente tra violenza domestica e violenza di genere,  che non possono esser usate come sinonimi .

Non è inutile ricordare  differenze che tendono poi a sparire nei testi normativi,  che la violenza di genere  è un termine usato prevalentemente  in letteratura  sociologica per  individuare  la  violenza manifestata ed agita, quando essa è  legata ad stereotipi e a ruoli che la società attribuisce e assegna a uomini e donne.

E’ d’uso invece in queste materie usare il termine di “Gender based violence “ corrispondendo   tale espressione a quella   che presente  in normative  internazionali , tra tutte la Convenzione di Istanbul,  che sottolinea come la violenza e la vittimizzazione avvengano appunto  sulla “base” ed “a causa” del genere .

E’ anche vero però che questa espressione può aprire la strada ad una diversa interpretazione e cioè a far considerare vittime di violenza non soltanto  le donne , ma anche  gli uomini e per entrambi i generi , i minori,   e potrebbe  essere adeguata  per  riferirsi anche alla violenza omo e transofobica  .

Non si dovrebbe quindi  usare indistintamente il termine di violenza di genere e violenza domestica :  solo nel decreto 71/2020 troviamo all’art. 2 comma 1 lett.a) la distinzione tra i soggetti beneficiari individuati come  orfani di crimini domestici e sempre al  comma 1 lett a n.2) orfani figli minorenni  e maggiorenni  ( non autonomi) di madre vittima  di omicidio  ( art.576 comma 1 n.5.1  c.p.  ) e comma 1 lett. a.n 3) orfani, figli minorenni  e maggiorenni economicamente  non autonomi di madre vittima di omicidio a seguito dei reati di cui agli art. 609 bis e octies c.p.

Quindi con un passaggio ed una specificazione ulteriore data dalla circostanza che è in  queste norme che per la prima volta si  parla di “orfano di madre”.

Ed è questa precisazione  che a mio avviso ci offre la possibilità di orientare la ricerca esclusivamente verso “coloro che abbiano  perso la madre perchè uccisa ”. 

L’assetto normativo in generale però  presenta purtroppo alcune altre discrasie : ad esempio l’art. 1 lett. a n.1) non ricomprende tra le vittime le persone  che fossero legate solo da relazione  affettiva , poichè richiede anche la stabile convivenza, individuata la stessa  secondo alcuni specifici  criteri e venendo  ad escludere quindi dalla applicazione della normativa  quelle coppie che non avevano al momento dell’evento morte, la medesima e comune residenza .

Una mancata comune residenza  che potrebbe esser ascrivibile  a molteplici ragioni , anche del tutto indipendenti  dalla loro volontà   oppure discendere  da loro precise scelte di vita, a mio parere comunque insindacabili .

Il riferimento tra l’altro ai criteri di identificazione delle residenza comune   è  di tipo squisitamente  formale , e prescinde da fondate e spesso condivisibili   ragioni siano esse  di lavoro , di ordine  fiscale o  personale  per le quali la coppia non abbia inteso  avere  la medesima residenza ma invece mantenerne  due distinte .

A ciò aggiungasi  che la stabile convivenza viene  individuata solo dimostrando la sussistenza di  requisiti richiesti per la costituzione  di una nuova famiglia.

 

Si possono  portare comunque più esempi per chiarire anche la confusione  delle norme e nell’uso dei termini .

Consideriamo l’art.10 legge  4/2018 ove il riferimento  è sempre a persona unicamente  legata in passato da relazione affettiva, senza alcuna previsione  della stabile convivenza : quindi parrebbe che  tale problematica si possa   trovare solo nell’art.1  ove  si parla sempre di relazione affettiva e stabile convivenza, nello    l’art. 3 in tema di sequestro conservativo, nell’art.4 in tema di provvisionale e cosi ogni qualvolta si proceda all’individuazione   di quale   sia stato   il rapporto tra vittima ed autore del reato .

Altre note : il sequestro conservativo può avvenire sui beni che siano effettivamente solo dell’autore  del reato e l’art. 316 c.p.p parla di beni mobili ed immobili in proprietà , somme o cose a Lui ( all’imputato ) dovute.

Quindi è da ritenere siano comprese    anche   la  quota di partecipazione ad una società da  considerarsi   bene immateriale equiparabile a bene mobile non iscritto in pubblici  registri poichè essa va a  costituire la frazione  del patrimonio che rappresenta.

E comunque poichè si parla solo di beni  pare  evidente che siano esclusi i diritti.

Quindi in che modo andrebbe ad esempio considerato   l’usufrutto , diritto reale che pure ha un valore economico e di cui l’autore del reato sia titolare ?

Andrebbero verificati  e forse potenziati al riguardo i poteri di indagine  e di investigazione del Pubblico MInistero con attenzione anche ad eventuali intestazioni fittizie e/ o apertamente simulate  .

Va segnalata  poi anche l’ anomalia dell’ art. 12 relativa alla decadenza  della assegnazione  di alloggio  residenziale  solo per autori  di violenza domestica che abbiano  condanna anche non definitiva o definizione  del giudizio ex e art. 444 cpp.

Quindi paradossalmente abbiamo una decadenza dalla assegnazione  precedente  al giudicato : e viene da chiedere con che ricadute .

 Va anche valutata la esistenza  di una sorta  di norma di chiusura  costituita dallo art. 28 del decreto  71/2020 laddove  si stabilisce al suo secondo comma che laddove con sentenza non definitiva venga dichiarato la non ricorrenza  del crimini domestici o del  reato di genere “l’aiuto economico” non è soggetto a ripetizione  .

È singolare  però nel testo di legge ( e del decreto ) si  usino termini differenti   quali “aiuti economici” , “benefici” o ancora  “incentivi”.

Infatti al capo II  sostegno al diritto  allo studio  all’art. 4 si parla di benefici e sempre di benefici all’art. 5 e 6 , 7 al capo II invece si modifica la parola  facendo riferimento   invece ad “incentivi”, probabilmente  termine più adatto alla materia lavoristica . 

Va segnalato anche la contraddittorietà con l’art. 13 legge 15 luglio 1966 n.604  i cui si parla di licenziamento per giustificati  motivo oggettivo prevendendo   però che il datore di lavoro, in questo caso incolpevole , perda i benefici già fruiti .

Proprio l’uso indistinto dei termini crea confusione: andrebbe forse precisato quindi se per aiuto economico si debba  intendere  solo quello che viene erogato direttamente   agli orfani o  anche gli incentivi ed i benefici .

Altre problematiche che ho rilevato  riguardano  l’art.5 delle Legge n.4/2018 ove il termine  usato è di “sospensione dalla successione”  e non di capacità a succedere.

Il successivo riferimento poi all’art. 463 c.c ( casi di indegnità ) fa  interrogare   se vi sia automatismo tra la condanna o la richiesta di applicazione  ex art. 444 c.p.p e la prevista indegnità  o se non si debba invece applicare  la procedura  ordinaria,  che richiede  una sentenza  costitutiva da emettere su domanda dello interessato.

Non è di poco conto ricordare che la giurisprudenza ha comunque esteso anche ai legati la indegnità a succedere .

Altri problemi  che potrebbero insorgere riguardano invece l’art.9 intitolato “disposizioni  in tema di assistenza medico psicologica” .

E’intuibile infatti che la condizione degli orfani  ed ancora più di quelli il cui padre si sia reso autore del fatto  ( i cd Orfani speciali  secondo la definizione  di Maria Costanza  Baldry ) possono solo in parte essere paragonabili a  coloro che hanno perso un genitore in seguito ad eventi luttuosi ( catastrofi  naturali , incidenti stradali tra gli altri ) .

Senza dimenticare che ,  come si era anticipato  molto spesso l’evento luttuoso costituisce l’esito di altri comportamenti  violenti e criminali di cui l’autore  si è reso responsabile in passato e ai quali anche i figli hanno assistito , casi in cui quindi il lutto recente si aggiunge   ai ricordi.

Nè va trascurata la ipotesi non così infrequente,  che l’autore del femminicidio si suicidi o comunque sia ristretto in carcere .

Si tratta quindi  di situazioni complesse per le quali si fa fatica a comprendere cosi si intenda  per “ il tempo occorrente  a garantire il pieno recupero dello equilibrio psicologico “ come limite per garantire il sostegno psicologico e gli altri benefici sanitari.  

 Un ultimo rilievo infine riguarda la mancanza di automatismo nella  decadenza dalla  responsabilità genitoriale  .

L’art. 34 c.p.infatti prevede che la stessa sia però subordinata alla condanna ed in alcune specifiche ipotesi di reato .

Ma non  ritroviamo nella Legge n.4/2018 una norma specifica al riguardo : il che non significa ovviamente  che il genitore autore del reato possa esercitare detta responsabilità  ma che comunque  vi sia necessità di un intervento di sollecitazione  da parte dei famigliari o del Pubblico Ministero.

 

In via di conclusione  va purtroppo evidenziato come detta Legge sia poco conosciuta  e per nulla   applicata.

Per renderla attiva ed operativa si potrebbero adottare alcuni correttivi e iniziative

1)Contattare i Tribunali ordinari in illustrando il progetto e chiedendo loro quanti procedimenti di separazione  , divorzi, regolamentazione di figli non nati in costanza di matrimonio   nel quadriennio  2018/2021 si siano conclusi  con la formula di “non luogo a provvedere “a seguito del decesso di una parte, 

2)contattare gli uffici di volontaria giurisdizione per avere  indicazioni sulla nomina di tutori per minori orfani di vittime di femminicidio ,

3)sempre in volontaria giuridizione e verificare se ci siano accettazioni beneficiate in favore di minori figli di vittime di femminicidio, 

4) verificare presso il Tribunale dei minorenni se vi si siano procedimenti  “de poteste” aperti nei riguardi dell’altro  genitore colpevole di  femminicidio ,

5)  richiedere   di verificare presso il Miur  o presso Atenei se vi siano richiesta di borse di studio per le ragioni di cui all’art.4 e previsione di benefici per struttura pubbliche o anche per istituti pubblici , o se siano state stipulate  apposite convenzioni.

6) Contattare l’Inps per la verifica  di quanto abbiano ricorso / richiesto gli incentivi per le assunzioni.

7) Contattare i CAAF di zona ugualmente per ricevere  tali informazioni.

8) Contattare l’associazione   industriali  ed artigiani per sensibilizzare  ma anche per informare.

9) Contattare     anche l’Inail per accertare se vi siano state richieste ,ed eventuali concessioni di indennità , per ” morte in itinere “ della vittima di femminicidio .      

A latere andrebbe poi  valutata la necessità di una formazione obbligatoria e congiunta ,  per avvocati e magistrati , la creazione  di una banca dati a fini statistici nei vari Tribunali civili e penali e dei minorenni, i cui dati di rilievo e criterio di classificazione siano unici per tutta Italia così da avere una lettura  integrata,   coerente e conforme degli stessi.

 

 

 

17.                     L’USO DI NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI NELLE INDAGINI PENALI

 

a) Introduzione.

Il panorama tecnologico odierno fornisce nuove importanti possibilità investigative per le autorità requirenti. In particolare, i dati contenuti nei dispositivi elettronici appartenenti a una persona sottoposta ad indagini possono rivelarsi elementi probatori essenziali per l’accertamento di un reato.

Al contempo, nuove tecnologie sviluppatesi in particolar modo nello scorso decennio possono rappresentare un limite all’azione di indagine. Tra esse, in particolare, la crittografia. Tale tecnica nasconde il contenuto del dato, non permettendo la sua comprensione laddove esso sia captato posteriormente alla sua criptazione attraverso metodi tradizionali di ricerca della prova.

Nell’evidente interesse ad accedere a tali dati, le autorità requirenti utilizzano da tempo metodi d’indagine tecnologicamente innovativi, volti alla captazione diretta dei dati all’interno dei dispositivi attraverso un accesso surrettizio al sistema informatico.

Questi nuovi strumenti di indagine vengono chiamati in gergo “captatori informatici” o “trojan”.[77] Una volta inoculati nel dispositivo bersaglio, questi software permettono di operare un’ampia gamma di operazioni intrusive. Le operazioni possibili comprendono: l’accesso ai dati memorizzati nel dispositivo (con facoltà di copia), la registrazione del traffico dati in arrivo o in partenza (incluso quanto digitato sulla tastiera), la registrazione delle telefonate e delle videochiamate, e l’attivazione delle funzioni microfono e/o telecamera da remoto (con registrazione) indipendentemente dalla volontà dell’utente.

b) Le Sezioni Unite nel 2016.

Per vero, l’utilizzo dei captatori informatici come mezzo di ricerca della prova è in uso da parecchi anni (in alcuni sistemi giuridici, quali gli Stati Uniti, sin dai primi anni 2000), pur nell’assenza di una normativa in merito. L’uso dei captatori assurge a più generale attenzione nel nostro ordinamento solo nel 2016, quando le Sezioni Unite della Cassazione vengono chiamate a pronunciarsi sul tema. Nello specifico, l’oggetto del pronunciamento del Supremo Consesso verteva sull’utilizzo dei captatori per l’attivazione da remoto del microfono (o della videocamera) del sistema bersaglio. Tale utilizzo mira pertanto ad apprendere “ambientalmente” i colloqui che si svolgono nello spazio circostante, ovunque si trovi il soggetto che ha il possesso del dispositivo.

E’ noto che il comma 2 dell’art. 266 cpp esclude la possibilità di effettuare intercettazioni di conversazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora, a meno che vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, o quantomeno, ex art.13 della l.12 luglio 1991 n.203, che le indagini siano svolte in relazione a delitti di criminalità organizzata.

Secondo le Sezioni Unite del 2016 non può derivarsi a priori l’illegittimità̀ delle intercettazioni svolte con dispositivi di captazione in grado di seguire il soggetto ovunque esso si trovi, e tecnicamente impossibilitati ad interrompere la registrazione in base al luogo in cui sono posti. L’utilizzo di un dispositivo informatico con captazione “itinerante” – sulla base di un provvedimento di autorizzazione adeguatamente motivato e nel rispetto delle disposizioni generali in materia di intercettazione – costituisce, secondo la Corte, “una delle naturali modalità̀ di attuazione delle intercettazioni al pari della collocazione di microspie”. Ancora, la Corte rileva come la necessità di indicare con precisione il luogo di svolgimento delle intercettazioni tra presenti non è richiesta né dalla legge, né dalla giurisprudenza nazionale o sovranazionale, salvo quando esse debbano avvenire in un domicilio privato; nel caso in cui si proceda per i delitti di cui all’art. 13 d.l. 152/1991, tale presupposto non è mai necessario.

Tuttavia, la possibilità di porre in essere tale tipo di intercettazioni «al di fuori della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 della legge n. 203 del 1991» viene radicalmente esclusa, poiché in questo caso non si riuscirebbe a dare attuazione alla clausola prevista dall’art. 266 comma 2 c.p.p. a tutela del domicilio.

 

c) La richiesta di intervento del legislatore.

A seguito della sentenza delle Sezioni Unite, si rilevava da più parti, compresa autorevolissima dottrina[78], come tale metodo d’indagine incida fortemente sulla vita privata degli individui (intimità del domicilio, libertà e segretezza delle comunicazioni, diritto alla c.d. “privacy”), e come l’uso di tali strumenti non trovasse autorizzazione positiva in alcuna legge – come richiesto per converso dagli artt. 14 e 15 della Costituzione e dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (che contengono una riserva di legge per ogni intromissione nella vita privata, nell'intimità domiciliare e nelle comunicazioni del cittadino)[79] – basandosi esclusivamente su interpretazioni estensive operate in sede giurisprudenziale in una materia governata da un rigido principio di tassatività.

Si chiedeva pertanto di chiarire con una specifica regolamentazione legislativa come e quando potesse essere utilizzato il captatore informatico.

Venivano presentati alcuni disegni di legge, tra cui quello dell’allora deputato Stefano Quintarelli e intitolato «Disciplina dell’uso dei Captatori legali nel rispetto delle garanzie individuali», considerato anche da commentatori internazionali una delle normative più all’avanguardia d’Europa, anche dal punto di vista tecnico.[80] 

d) L’attuale regolamentazione normativa.

Sarà tuttavia solo la legge delega prevista dalla c.d. Riforma Orlando a fornire una prima regolamentazione dell’uso dei captatori (Legge n. 216 del 2017), affinata poi dal Decreto Legge n. 161/2019 e dalla Legge n. 3 del 2020 (c.d. “spazzacorrotti”), ad oggi in vigore.

La normativa delineata da tali interventi legislativi regolamenta l’utilizzo del captatore come “comando” di attivazione da remoto di microfono e videocamera del dispositivo, al fine di intercettare le conversazioni tra presenti: fuori dal domicilio; o interne al domicilio se vi è fondato motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l'attività criminosa (comma 2 dell’art. 266 c.p.p.), se si procede per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater (sostanzialmente, reati di criminalità organizzata), o se si procede per un delitto dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la p.a. con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni (ma solo “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l'utilizzo anche nei luoghi indicati dall'articolo 614 del codice penale”).

e) La situazione odierna e le correlate problematiche.

L’intervento legislativo riprende sostanzialmente i principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle Sezioni Unite del 2016 e sopra richiamati. La riforma, pertanto, appare incentrata sull’inviolabilità del domicilio fisico dei soggetti intercettati.

Non è dato rilevare considerazioni più generali sulla straordinaria potenza lesiva espressa dai captatori nei confronti della riservatezza nella vita privata e nelle conversazioni, posta la costanza dell’ascolto effettuato attraverso un microfono “itinerante”, ossia che si muove con il soggetto, e capace di intercettare sia lui sia persone terze “in scia” (ossia entranti nel raggio di ascolto del dispositivo). Altresì, mancano considerazioni relative alla proporzionalità tra tali lesioni e l’interesse di prevenzione e repressione dei reati (elemento necessario a livello sia interno sia internazionale), che dovrebbero quantomeno portare ad una limitazione qualitativa della possibilità di utilizzo dello strumento ai soli reati di particolare gravità, come d’altra parte previsto in altri Stati europei.[81]

Inoltre, continua a non essere regolamentato l’utilizzo dei captatori per perquisizioni e sequestri “digitali”, che ad oggi viene attuato attraverso un’interpretazione estensiva della normativa sui mezzi di ricerca della prova tradizionali operata per via giurisprudenziale. E’ pertanto permesso un ampio utilizzo di tali strumenti per accedere ai dati contenuti nella memoria di un dispositivo, o per intercettazione telematica – seguendo i limitati requisiti in materia (es. Cass., sez. V, 16556/09 “È legittimo il decreto del pubblico ministero di acquisizione in copia, attraverso l'installazione di un captatore informatico, della documentazione informatica memorizzata nel "personal computer" in uso all'imputato e installato presso un ufficio pubblico, qualora il provvedimento abbia riguardato l'estrapolazione di dati, non aventi ad oggetto un flusso di comunicazioni, già formati e contenuti nella memoria del "personal computer" o che in futuro sarebbero stati memorizzati”,  o ancora la Sentenza 48370/17 della quinta Sezione della Cassazione, nel famoso caso Occhionero, in cui si precisa che la pronuncia delle Sezioni Unite “Scurato” si riferiva solo a una funzione specifica del captatore, ovverosia l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti, e che per converso non riguardava affatto, limitandola, l’intercettazione telematica).

Si pensi alla quantità e alla qualità dei dati ad oggi rinvenibili all’interno di uno smartphone – es. di tipo sanitario o finanziario – apprensibili con un accesso informatico al sistema attraverso malware, senza limitazioni altre di quelle previste dalla normativa ordinaria su perquisizione e sequestro. Peraltro, si consideri come, a differenza della loro controparte “fisica”, tali attività siano occulte, permanenti, e funzionali all’acquisizione indiscriminata di beni (dati).

Ulteriore problematica attiene alle caratteristiche tecniche dei software utilizzati. Anche per una necessità di controllo di integrità e ammissibilità della prova, il codice del software utilizzato deve essere controllabile ex ante o quantomeno ex post (dal difensore), così come il metodo di inoculazione del software, le concrete operazioni effettuate nel dispositivo colpito, e la “catena di custodia” dei dati, al fine di garantirne l’aderenza ai dati originali.  Il mezzo di ricerca della prova deve poi evitare eccessive compressioni del diritto alla privacy sia del soggetto indagato, sia di soggetti terzi coinvolti nelle operazioni, i cui dati devono essere debitamente cancellati se non di interesse per le indagini. Infine, si consideri come l’uso di captatori possa portare ad una compromissione del sistema target che può essere indebitamente sfruttata da soggetti terzi per la commissione di reati informatici. L’indagato attinto da captatore deve pertanto poter conoscere – con una tempistica parametrata all’interesse d’indagine – della misura, al fine di proteggere il proprio sistema e ripristinarne la piena efficacia.

Sul punto, come previsto dalla normativa sui captatori informatici, il Ministero della Giustizia ha emanato un (piuttosto scarno) provvedimento,[82] principalmente incentrato sulle misure atte ad assicurare la permanenza e l’efficacia del captatore sul dispositivo ed impedire la rilevazione del software da parte del soggetto bersaglio. Le problematiche poc’anzi menzionate, correlate alla tutela dell’integrità del dato e dei diritti fondamentali della persona sottoposta ad indagine, sono insufficientemente condensate nell’espressione “i programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile sono elaborati in modo da assicurare integrità, sicurezza e autenticità dei dati captati su tutti i canali di trasmissione riferibili al captatore.”

f) Le proposte.

L’uso dei captatori informatici è contestabile sotto vari aspetti (proporzionalità della misura alla gravità del reato, violazione della riserva di legge ex artt. 14 e 15 cost. e art. 8 CEDU, in particolare riguardo alle funzioni non specificate dalla normativa in vigore e rimesse ad un’indebita sussunzione nei mezzi di ricerca tradizionali). A latere di questo, e delle considerazioni sopra svolte, anche a riguardo delle caratteristiche tecniche del captatore, le principali proposte di carattere “evolutivo” possono essere così condensate:

a livello di normativa ordinaria – aggredire l’articolo 189 del codice di procedura penale sulle prove atipiche, nella parte in cui non esclude prove in violazione di diritti fondamentali (nello specifico, ottenute attraverso interferenze illecite nella sfera personale del soggetto)[83];

a livello di evoluzione dei diritti fondamentali – stimolare lo sviluppo del concetto di domicilio informatico[84], già utilizzato dalla giurisprudenza per ipostatizzare il bene giuridico tutelato dall’art. 615 ter cp, riconducendolo sotto l’ombrello dell’art. 14 della Costituzione (si noti: la giurisprudenza e la normativa sul tema rimangono per contra incardinate su un principio di tutela del domicilio fisico – limitando l’uso dei captatori nel caso essi vengano utilizzati come spie ambientali all’interno della privata dimora); sviluppare un nuovo diritto fondamentale alla riservatezza informatica, e all’integrità dei dispositivi digitali, sulla scorta di quanto già operato in alcuni sistemi giuridici esteri (in particolare, si veda l’esempio tedesco)[85].

f) Considerazioni finali.

A molti anni dal primo uso dei captatori informatici, tali mezzi di indagini non appaiono ancora compiutamente normati. In alcuni casi, l’ordinamento permette agli organi requirenti di dotarsi di mezzi altamente lesivi della privacy dell’individuo sulla base di mere interpretazioni giurisprudenziali. La scarna legislazione in merito appare fortemente lacunosa: lentamente, si prendono in considerazione limitati aspetti di tale utilizzo, ignorando (volutamente?) un dovuto approccio olistico al tema.

Intanto, nuovi strumenti digitali di indagine prendono piede. Anche in Italia, vengono implementati sistemi di riconoscimento facciale che permettono, dopo una “schedatura” d’immagine (sia con fotografie dirette del viso operate in sede di identificazione, sia con l’utilizzo dei dati pubblici raccolti sul web, e in particolar modo sui social media), di identificare gli individui attraverso telecamere installate nei luoghi pubblici. Anche in questo caso, manca qualsiasi normazione del fenomeno, a latere dei timidi tentativi del diritto unionale di porre limiti alla volontà statale di controllo tecnologico.[86]

Il ritorno entro dei confini positivi, determinati dal legislatore con un’attenta disamina della questione, anche attraverso le lenti dei diritti fondamentali dell’individuo, appare oggi una necessità impellente, come argine alla creazione di un sistema di controllo orwelliano. A noi rimane il compito della sensibilizzazione pubblica, della pressione politica, e della sollevazione della questione nelle aule giudiziarie, come singoli cittadini, come professionisti, come associazioni che si battono per il rispetto dei diritti fondamentali all’interno di uno Stato di Diritto che limiti l’arbitrarietà dell’azione statale.

 

18.                     LA PARTE OFFESA

La figura della parte offesa del reato è delineata nel libro I, parte I del C.p.p., titolo VI persona offesa dal reato, all’art.90, dove vengono indicati i diritti e le facoltà della stessa nel procedimento penale: può indicare elementi di prova, presentare memorie, se minore può essere assistita dalle figure di cui agli artt.120e 121 del C.P. e, se deceduta a seguito della commissione del reato, i diritti e le facoltà sono esercitabili dai congiunti.

All’art.90 bis sono destinati l’indicazione delle informazioni sui diritti che deve disporre l’Autorità giudiziaria.

Nei codici penali e di procedura penale vigenti prima del 1989, data di pubblicazione del Nuovo Codice , la figura della parte offesa godeva di una serie di prerogative, ormai dimenticate e scomparse con la redazione del Nuovo codice di p.p.:

La p.o. dal reato, poteva partecipare a tutta la fase delle indagini condotte dal Giudice Istruttore, fin dall’inizio del procedimento, partecipava all’interrogatorio successivo all’arresto dell’ indiziato, si poteva costituire parte civile in quella fase e seguiva, in pratica, tutte le fasi del procedimento.

Oggi, nonostante le numerose innovazioni introdotte nella nuova procedura, la posizione processuale della parte offesa ha visto restringersi il campo delle facoltà e dei diritti in capo alla stessa e alla sua difesa.

Durante tutto il corso delle indagini, dalla denuncia alla richiesta di rinvio a giudizio, non ha alcuna informazione in ordine alle stesse, salvo avvisi per atti irripetibili;

nell’incidente probatorio il suo avvocato non può porre domande, ma solo memorie o precisazioni;

In caso di vittima di violenza di genere, è esposta a quella che può essere esercitata dall’imputato o indagato, che viene avvisato, anche in sede di colloquio con la PG, della denuncia subita, con contestuale diffida spesso richiesta dalle vittime. Non sono pochi i casi di ritorsione pericolose per le denuncianti.

Il progetto di riforma della Ministra della giustizia non presenta novità rilevanti, né adiuvanti alla piena partecipazione attiva della parte offesa, soprattutto nella fase cautelare, disciplinata dall’art.293 e commi collegati, che dispongono il diritto ad avere informazione delle modalità di denuncia o querela, diritto a conoscere la data e il luogo del rinvio a giudizio e di avere copia o estratto dell’eventuale sentenza di condanna , nonché il diritto ad avere la richiesta di archiviazione del PM, di poter usufruire del patrocinio a spese dello Stato, la traduzione degli atti, anche se all’estero, e di avere notizia delle eventuali misure di protezione se richieste dal PM (Art.90 bis lett.a)b)c)d)e)f) g) ). Quest’ultima comunicazione, importante per le vittime di violenza di genere, non sufficiente alla piena partecipazione della vittima al processo, per le successive osservazioni.

L’ art. 90 ter dispone l’obbligo di comunicare, alla p.o. o al suo difensore, le variazioni delle condizioni delle misure che si dispongono nei confronti dell’indagato e/o dell’imputato, per rendere edotta la parte delle circostanze che potrebbero incidere sulle vicende della parte offesa, ad esempio, in caso di pericolo alla persona, se l’indagato è a conoscenza della persona del denunciante, a lui indicato nell’esecuzione di una misura cautelare.

Ma ciò non è sufficiente alla completa cognizione degli eventi che avvengono durante le indagini, come l’avere avviso dell’esecuzione delle misure coercitive, dell’interrogatorio e dell’esito della convalida, così come il deposito degli atti che spetta al difensore e all’indagato, ma non alla parte offesa o al suo difensore.

Nè la parte offesa, fino alla possibilità di costituzione di parte civile, al Giudice dell’udienza preliminare, quando è previsto, o al dibattimento, prima dell’esplicarsi di tutte le formalità di apertura dello stesso, è messa in condizione di partecipare, dopo averne avuto avviso, all’udienza del tribunale della Libertà , se adito dall’arrestato, o all’appello contro il diniego della libertà espresso dal Gip, o al ricorso in Cassazione sulla revoca o modifica dello status proposta dall’indagato/imputato.

Pertanto, al fine di conciliare tutti i diritti e le prerogative delle parti partecipanti al processo penale, è importante modificare gli articoli che disciplinano le prerogative della parte offesa, adeguandone la partecipazione egualitaria con quella dell’indagato/imputato e si propone:

1) All’art.293 ter si aggiunga l’obbligo di comunicazione alla parte offesa dell’esecuzione delle misure cautelari, del diritto a consultare e estrarre copia della richiesta di misura del PM, del diritto ad avere copia del verbale di arresto e della comunicazione, contemporaneamente al Gip e al PM.

2) Che la parte offesa sia avvisata, o il suo avvocato, dell’interrogatorio dell’indagato, per assistervi e, come nel passato, permettere di evitare, con il confronto immediato, la negazione della partecipazione al reato, a causa del deterrente della presenza della parte offesa.

3) Così come all’art.293 c.2, disporre che le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare siano notificate all’imputato e alla parte offesa.

4) Anche in caso di trasgressione agli obblighi di PG, qualora sia fermato l’imputato, obbligo di avviso anche alla parte offesa e obbligo di comunicazione dell’esito della convalida. (art.307 C.p.p.)

 

19.                     ARTICOLI 613 E 97 CPP

 

a) Premessa

Come noto, l'originaria formulazione dell'art. 613, comma 1, cod. proc. pen. prevedeva che il ricorso per cassazione potesse essere presentato dalla parte personalmente ovvero da un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione.

La riforma Orlando (L.103/17) ha espunto dal 613 cpp le parole “salvo che la parte non vi provveda personalmente…”.

La novella legislativa ha, quindi, eliminato la possibilità per la parte di presentare il ricorso personalmente stabilendo che «l'atto di ricorso, le memorie e i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell'albo speciale della Corte di cassazione»; ha invece lasciato immutata per le impugnazioni diverse dal ricorso per cassazione, la legittimazione personale dell'imputato a proporle, non modificando  l'originaria previsione dell'art. 571 cod. proc. pen.

La norma ha chiaramente finalità deflattive, è vero che il numero dei ricorsi in cassazione era alto- a volte erano strumentali per prolungare il periodo di misura cautelare successivamente da scontare alla pena definitiva- ma va anche detto che è stata formata una sezione ad hoc – settima- che in camera di consiglio senza la presenza delle parti dichiara l’inammissibilità dei ricorsi, censurandone un 70/80 percento senza quindi un grande dispendio di energie.

La riforma è stata analizzata più volte dalla Corte di cassazione, un orientamento restrittivo applicava il 613 novellato solo ai ricorsi in Cassazione “ordinari”, un diverso orientamento a tutti ricorsi in cassazione, la questione è andata alle Sezioni Unite, le quali con sentenza n. 8914 del 23 febbraio 2018 [87] hanno aderito all’ultimo orientamento.   

Secondo il supremo collegio la riforma non inciderebbe sulla legittimazione a proporre ricorso da parte dell’imputato, cioè sulla titolarità del diritto ad impugnare, ma atterrebbe esclusivamente al profilo dinamico del suo esercizio concreto che l’art. 613 c.1 riserva esclusivamente al difensore iscritto nell’albo speciale. La riforma non avrebbe determinato l’abrogazione delle norme che contemplano il ricorso per cassazione dell’imputato, ma avrebbe solo ricondotto tali fonti di attribuzione della mera legittimazione soggettiva nell’alveo del principio di rappresentanza tecnica nel giudizio di cassazione. Non vi sarebbe alcun profilo di incompatibilità con i principi sanciti dagli artt. 13,24 e 111 c.7 Cost, e con le previsioni dell’art.6 par.3 lett.b e c), della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, poiché l'esercizio del fondamentale diritto di difesa deve essere differenziato in relazione alle varie fasi e tipologie di processo in modo tale da assicurare un livello di professionalità, adeguato all'importanza e alle difficoltà del giudizio. Il 613 sarebbe una norma di esclusione, espressa e generalizzata, della possibilità di sottoscrizione personale del ricorso per cassazione da parte dell’imputato e dei soggetti a lui equiparati, così eliminando qualsiasi deroga alla regola generale che richiede la rappresentanza tecnica da parte di un difensore abilitato.

Le SSUU, consapevoli che di fatto ad un’amplia fetta di condannati viene automaticamente precluso il sindacato di legittimità, arrivano a sostenere che il difensore d’ufficio, non iscritto all’albo speciale può nominare -ai sensi dell’art.102 cpp- un sostituto cassazionista.

Chi conosce gli importi, i tempi di liquidazione delle difese d’ufficio, il numero di ricorsi che in cassazione vengono dichiarati inammissibili e quindi ai quali è precluso il p.s.s., il fatto che la liquidazione verrebbe corrisposta al titolare e non al sostituto, si rende perfettamente conto che l’ipotesi ventilata è puramente teorica: il sostituto dovrebbe accollarsi un corposo lavoro, con la speranza che se il ricorso fosse dichiarato ammissibile, il titolare liquidato, a distanza di anni, a volte di lustri, forse potrebbe essere  retribuito dal titolare della difesa.

Mi permetto di citare due nostri referenti: Domenico Gallo che ha parlato di “sistema penale  a ferro di cavallo, nemico- amico”, Livio Pepino  “teoria penale per tipo di autore”.

Ebbene la riforma Orlando sulla ricorribilità in Cassazione consente il sindacato di legittimità solo per determinati autori o amici, i benestanti che si pagano il difensore di fiducia o perlomeno i ben integrati che hanno collegamenti con difensori fuori dal carcere. Gli emarginati, tra cui molti stranieri che spesso non conoscono bene la nostra lingua, sono sostanzialmente esclusi dalla dal terzo grado di giudizio se non hanno avuto la fortuna di trovare un difensore d’ufficio cassazionista.

Si è creato nel nostro ordinamento una sorta di terra di nessuno, una zona d’ombra, un limbo, l’imputato indigente è sostanzialmente escluso dalla possibilità di ricorrere in cassazione.

b) de iure condendo

La via maestra: una ulteriore riforma del 613 cpp sarebbe sicuramente la più semplice, ma anche la più improbabile: vedrebbe la netta ostilità di una parte dell’opinione pubblica e della Magistratura, assillata dal numero dei ricorsi in Cassazione che fino al 2018 hanno provocato una quasi paralisi dell’Ufficio e dal costo degli stessi. 

L’orientamento assunto dalle SSUU, anche alla luce della Carta Costituzionale e della CEDU, sembra difficilmente demolibile, fosse solo per l’autorevolezza dell’autore, però si rinviene uno spiraglio nell’art.97 cpp ove dispone:” l’imputato che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore d’ufficio”.

c) proposta

Il difensore d’ufficio inabilitato al ricorso in Cassazione non è un difensore con i poteri necessari a svolgere il suo ufficio, non può nulla contro l’atto, anche se lo ritiene illegittimo. Di fronte ad una sentenza della corte di appello di condanna, o ad un provvedimento ricorribile in Cassazione, ove vi sia l’assistenza di un difensore d’ufficio non cassazionista, la magistratura dovrebbe nominare un difensore d’ufficio iscritto nell’albo speciale, legittimato al ricorso, per consentire che effettivamente il diritto di difesa sia esercitato in ogni grado del giudizio anche per gli imputati più deboli.

Senza tendere ad una riforma legislativa, che appare oggi improbabile, una lettura estensiva e garantista dell’art.97 cpp eliminerebbe gli ostacoli suddetti alla difesa, garantirebbe anche in cassazione ai soggetti deboli la possibilità di ricorrere avverso un provvedimento ritenuto illegittimo.

La ricostituita integrità del diritto di difesa contemporaneamente darebbe lavoro agli avvocati- categoria particolarmente sofferente in questo periodo- e non comporterebbe alcun ingolfamento alla Cassazione, che vedrebbe un modesto incremento dei ricorsi, questa volta formulati da soggetti qualificati, solo nei casi di altamente probabile illegittimità.

La possibilità di aumentare il lavoro potrebbe incontrare il favore di molti colleghi e delle istituzioni rappresentative.

Potremmo redigere un elaborato difensivo che proponga l’applicazione “estensiva” dell’art. 97 cpp, nei termini suddetti, da utilizzare in tutti i casi in cui le corti d’appello non nominino un difensore d’ufficio abilitato in cassazione, quale memoria, nella quale proporre la nuova interpretazione del codice o in subordine sollevare la questione di legittimità costituzionale. Lo strumento potrebbe essere l’art.175 cpp restituzione nel termine. 

Pubblicizzare l’iniziativa presso i colleghi, i magistrati e i consigli dell’Ordine darebbe lustro alla nostra associazione e ci consentirebbe di individuare rapidamente un di ricorso nel quale proporre la nostra lettura dell’art. 97 cpp.

 

20.                     CARCERE

a)     Premessa

L’analisi delle condizioni di vita nelle carceri italiane e del rapporto intercorrente tra custodia cautelare e pena rappresenta la cartina di tornasole di un sistema penale sempre più inosservante il principio di uguaglianza e quello della funzione rieducativa della pena, che appare, negli ultimi anni, sempre più connotarsi per essere inutilmente afflittiva. È ormai noto che l’attuale condizione degli istituti di pena nazionali contraddice radicalmente l’intento delineato dalla Costituzione. Si è, infatti, in presenza di un sistema che ha decisamente spostato l’asse dalla prevenzione alla penalizzazione, tanto è che, da più parti, si parla di funzione pan-carceraria della pena.

Il carcere si configura sempre di più come contenitore del conflitto, come discarica sociale e strumento atto a confinare donne e uomini delle classi sociali meno abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa l’80 per cento della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate.

Le cause principali di tale situazione discendono, in sintesi, da due fattori che si snodano lungo due differenti direttrici.

Il primo è quello normativo, laddove alcune novelle legislative adottate in ambito penale hanno cominciato a dare frutti a pieno regime, in particolare, la c.d. Bossi–Fini, in materia di immigrazione (particolarmente dopo le modifiche introdotte dalla L. n. 94/2009), la Fini–Giovanardi (L. n. 49/2006) in materia di contrasto al traffico di stupefacenti e la c.d. ex Cirielli (L. n. 251/2005) che inasprisce sensibilmente le sanzioni penali e rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi, che costituiscono la grande maggioranza dei detenuti nelle carceri, detenzioni, queste ultime, molto spesso legate alla piccola e piccolissima criminalità, di cui la recidiva è fattore caratterizzante.

Il secondo fattore è quello culturale, che vede competere alcune forze politiche nel chi grida più forte alla sicurezza pubblica ed alla tolleranza zero. Si è, in definitiva, smarrito il senso del risolvere i problemi dei cittadini con strumenti diversi da quello carcerario. Se questo è il messaggio che viene dalla politica è evidente la ricaduta che ciò può avere sull’operato delle forze di polizia e della magistratura. Con ciò si spiega anche il dato relativo al numero di soggetti sottoposti alla misura cautelare massima.

D’altronde è evidente che il tema della sicurezza rappresenta un leitmotiv utilizzato da una parte della politica nazionale e locale quotidianamente ed ossessivamente, attraverso la costruzione dell’ideologia della paura dell’altro e del diverso, che si traduce in scelte politiche che, ispirate da pure ragioni demagogiche e di consenso, prendono a pretesto un supposto bisogno di sicurezza dei cittadini, artificialmente creato ed amplificato dagli organi di stampa, per introdurre nel nostro ordinamento norme palesemente antidemocratiche – così determinandone un arretramento intollerabile del livello di civiltà – rivelatrici di un atteggiamento discriminatorio, selettivamente orientato a colpire soprattutto i migranti e le persone che versano in situazioni sociali ed economiche disagiate.

In questo contesto, si segnala negativamente l’abbandono definitivo dei principali progetti di riforma del codice penale, per inseguire rimaneggiamenti legislativi settoriali tutti orientati all’inasprimento delle pene ed alla creazione di nuove fattispecie di reato, così mandando in soffitta ogni tendenza, da un trentennio, in più occasioni, caldeggiata da magistratura ed avvocatura, volta alla creazione di un diritto penale «minimo», volto ad individuare proposte tese alla decarcerizzazione, alla introduzione di sanzioni sostitutive, alla elaborazione di progetti di mediazione penale, alla instaurazione di prassi avanzate all’interno delle carceri.

Gli istituti di pena nazionali sono così pervenuti ad una situazione non più sostenibile.

I Giuristi democratici intendono mantenere l’orizzonte di una riforma sostanziale del codice penale che promuova una drastica riduzione dei reati e delle pene e la riconduzione del carcere ad extrema ratio attraverso la tutela del principio della riserva di codice, la concessione più equilibrata e diffusa del beneficio della pena sospesa. La previsione di misure extrapenali e la riduzione dei minimi e dei massimi edittali possono rappresentare soluzioni ben migliori se affiancate alla disponibilità a rivedere normative altamente criminogene.

Una politica criminale lungimirante dovrebbe guardare alle cause del sovraffollamento ed intervenire sulle disposizioni che creano un incremento dei detenuti, senza, peraltro, far accrescere la sicurezza pubblica. La riforma del codice penale rappresenta, in questo quadro, la strada maestra per eliminare la centralità della pena detentiva, per introdurre pene alternative e sostitutive alla detenzione e valorizzare l’utilizzo delle misure alternative, in una prospettiva di lungo periodo in cui si pervenga alla definitiva abolizione dell’istituto carcerario.

È, in definitiva, indispensabile cambiare approccio, abrogare le leggi che hanno, di fatto, creato criminalizzazione e carcerazione crescenti, per delineare il ritorno ad una nuova stagione del «diritto penale minimo», capace di comprendere e incidere sulle effettive ragioni sociali della devianza e del crimine.

 

b)    Proposte

In disparte dalle più articolate proposte di riforma della intera materia, a titolo di urgenza, i Giuristi Democratici hanno sottoscritto alcune proposte minime di riduzione del danno da sovraffollamento carcerario, sia per i detenuti che per le loro famiglie, indirizzate ai Provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria, ai direttori delle carceri, ai magistrati di Sorveglianza.

In via preliminare, in termini generali, ove non sia rispettato lo spazio che per legge deve essere garantito ad ogni detenuto ridotto dietro le sbarre, devono essere concesse le misure alternative al carcere. Non è infatti consentito che, a quella restrittiva della libertà personale, sia illecitamente aggiunta la pena delle sofferenze provocate dal vivere in un ambiente molto ristretto, con spazio insufficiente.

A ciò si aggiungono le proposte elaborate dalla redazione di Ristretti Orizzonti e dall’associazione Antigone Padova, molto semplici (attuabili da subito e a costo zero) già in parte presenti nella lettera circolare del 24/04/2010 (Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire i fenomeni auto aggressivi) e in quella del 7/7/2010 (Ulteriori iniziative per fronteggiare il sovraffollamento), che non dovrebbero però costituire un “invito alle Direzioni” a metterle in pratica, ma essere recepite come misure fondamentali per riportare un minimo di legalità nelle carceri.

Chiediamo quindi che le indicazioni presenti nelle circolari diventino disposizioni vincolanti per le Direzioni e non suggerimenti da attuare a discrezione. · Apertura 24 ore su 24 dei blindi per favorire la ventilazione e il ricambio di aria nelle celle sovraffollate; · apertura delle celle nel corso di tutta la giornata con libero accesso alle docce; · utilizzo più ampio possibile dell’area verde per i colloqui; · concessione dell’aria estiva: un’ora aggiuntiva di passeggi dalle 17:00 alle 18:00; · aumento delle ore di attività sportive (campo e palestra) e predisposizione di attrezzi nelle aree dei passeggi per permettere alle persone, compresse per ore nelle celle in spazi ridottissimi, di fare almeno un minimo di esercizio fisico; · utilizzo di tutti gli spazi comuni nelle sezioni per attività che coinvolgano i detenuti, che non lavorano e non sono impegnati in nessuna attività; · accesso del volontariato nelle carceri almeno fino alle 18; · autorizzazione all’acquisto di frigoriferi per conservare i generi alimentari acquistati o portati dalle famiglie, da installare all’interno delle celle (come già avviene nella Casa di reclusione di Padova e nella Casa circondariale di Trieste); Piccole proposte per non distruggere anche le famiglie, oltre che le persone detenute: · in considerazione del sovraffollamento in strutture, pensate e attrezzate per ospitare meno della metà dei detenuti presenti, per cercare di “salvare” almeno le famiglie sarebbe opportuno portare a otto le ore mensili previste per i colloqui; · dovrebbero essere migliorati i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani o i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici); · sarebbe importante predisporre nelle sale colloqui ventilatori o condizionatori in numero sufficiente per rendere sopportabile alle famiglie, e soprattutto ai bambini, la permanenza in tali aree; · dovrebbero essere concessi con maggior rapidità i colloqui con le terze persone; · dovrebbero essere concesse a tutti i detenuti due telefonate supplementari, in considerazione delle condizioni disumane in cui stanno vivendo: E forse telefonare più liberamente ai propri cari, mantenere contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, ma anche quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire una forma di prevenzione dei suicidi; · dovrebbero essere rese più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile.

 

21.                     ERGASTOLO OSTATIVO

I Giuristi Democratici propongono una riforma dell’istituto dell’ergastolo ostativo, in una prospettiva di un «adattamento costituzionale» della disciplina dell’art. 4 bis o.p.. Il regime ostativo applicato all’ergastolo ha come fine (inteso come scopo) quello di indurre il reo alla collaborazione con la giustizia.

L’ergastolo ostativo, a differenza del comune ergastolo, non consente benefici penitenziari. Negati quindi benefici come: i permessi premio, la liberazione condizionale, il lavoro esterno, la semilibertà e qualsiasi misura alternativa alla detenzione. Non è un assoluto, in quanto i detenuti potrebbero beneficiarne a condizione che, ai sensi dell’art. 58-ter o.p., collaborino con la giustizia.  La Corte costituzionale con un comunicato emesso il 15 aprile 2021, dichiara che l’ergastolo ostativo è anticostituzionale e rimanda la questione alle delibere in merito del Parlamento.

Si né quindi ulteriormente sviluppato il dibattito sulla possibile riforma dell’istituto. Fermi restando, ovviamente, i normali requisiti legislativi (sia di ordine temporale, sia legati alla progressione trattamentale del condannato) per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative, tutte le proposte mirano a rimuovere le attuali preclusioni, seguendo però strategie normative differenti e alternative: [1] eliminare l’obbligo della condotta collaborante, condizionando l’accesso ai benefici penitenziari esclusivamente all’accertata mancanza di legami con la criminalità organizzata; [2] mantenere l’attuale funzione premiale della condotta collaborante, prevedendo nell’ipotesi di mancata collaborazione quote aggiuntive dei periodi di pena da scontare prima di poter chiedere l’ammissione alle misure alternative; [3] trasformare le attuali presunzioni legali da assolute a relative, consentendo la concessione dei benefici nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere degli altri presupposti di legge, diversi dalla collaborazione medesima; [4] escludere dalle preclusioni penitenziarie l’istituto della liberazione condizionale, quale misura estintiva dell’ergastolo.

Quanto alla dimostrazione dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, si invoca un mutamento di paradigma: dall’attuale prova negativa (spesso diabolica), alla prova in positivo a seguito di attività istruttoria svolta dalla magistratura di sorveglianza.

Occorre, in sostanza ammettere ai benefici il soggetto che, avendo portato avanti un proficuo percorso trattamentale e di autentica critica verso il proprio passato, pur senza poter fornire elementi investigativi utili (magari, a distanza di 15-20 anni dai fatti), attualmente non può accedere a misure alternative alla reclusione e vede come unico destino quello di una pena perpetua.

Simili modifiche, ridefinendo nel complesso il regime ostativo di cui all’art. 4-bis, avrebbero conseguenze dirette anche sotto il profilo della «neutralizzazione» dell’ergastolo ostativo, che non sarebbe più senza scampo per il condannato: se oggi la pena dell’ergastolo ostativo «non finisce mai, salvo che…», domani si vorrebbe che quella pena «finisse sempre, salvo che…».

 

22.                     IL REGIME DETENTIVO SPECIALE EX ART. 41-BIS O.P.

All’inizio di febbraio 2019, il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha pubblicato un “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario”, contenente le risultanze delle quattordici visite effettuate da tale organo collegiale, tra il 2016 e il 2018, presso le dodici Sezioni per detenuti in regime speciale previste dal predetto art. 41-bis.

In tali Sezioni risultavano detenuti 738 uomini e 10 donne; al 19 gennaio del 2019, solo 363 su 748 di essi – di cui quattro donne - avevano una posizione giuridica definitiva (erano cioè stati condannati con una sentenza penale passata in giudicato); 51 di esse risultavano detenute in “Aree riservate”.

Il Rapporto reca diciotto Raccomandazioni in ordine ad altrettanti profili di criticità riscontrati; esse tengono conto, fra l’altro, delle pronunce della Corte costituzionale che hanno riguardato l’art. 41-bis e delle prescrizioni impartite in materia dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), della quale lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, Mauro Palma, ha fatto parte fino al 2011.

È bene ricordare che la Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, ha ritenuto il regime detentivo speciale ex art. 41-bis non incompatibile con i principi costituzionali in materia di diritti fondamentali della persona (art. 2), di inviolabilità della libertà personale (art. 13) e di finalità rieducativa della pena (art. 27) a due precise condizioni

  1. che nessuna misura sospensiva dell’ordinario trattamento penitenziario (quale l’art. 41-bis) comporti restrizioni della libertà ulteriori rispetto a quelle derivanti dalla detenzione;
  2. che, in ogni caso, la relativa applicazione non determini mai la violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti, ovvero vanifichi la finalità rieducativa della pena.

 È importante tener presenti tali presupposti perché è proprio l’eventuale conflitto con gli stessi, empiricamente verificato, a chiarire se ed in quali casi una misura cui è assegnata una funzione asseritamente cautelare assolva, in realtà, ad una finalità ulteriormente —ed illegittimamente— afflittiva nei confronti del detenuto.

 

Il regime detentivo speciale noto come “41-bis” nasce nel 1995 come misura emergenziale e provvisoria, al fine dichiarato di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, ancorché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione rispetto ad attività criminali poste in essere da altri criminali in libertà.

Nella formulazione originaria, pertanto, era prevista la sospensione temporanea del trattamento detentivo ordinario “quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza”; tuttavia, dopo una serie di proroghe, nel 2002 il 41-bis è entrato a regime nell’Ordinamento penitenziario, trasformandosi pertanto da misura straordinaria in istituto ordinario.

Tale normalizzazione ha trovato uno straordinario —e probabilmente calcolato— supporto nella valenza simbolica assunta presso l’opinione pubblica dal c.d. “carcere duro”, quasi che dichiararsi a favore o contro di esso implicasse, per ciò solo, lo schierarsi contro la criminalità organizzata ovvero il non prenderne sufficientemente le distanze. Plausibilmente, è proprio la difficoltà di ricondurre la trattazione del tema su un piano razionale a rendere arduo e impopolare ogni tentativo di affrontarne le ricadute sul versante della legittimità: ne ha fatto le spese lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, il quale, a seguito della pubblicazione sulla pagina Facebook “Polizia penitenziaria – Società, Giustizia e Sicurezza” di un articolo che richiamava alcune criticità da lui evidenziate nel Rapporto sul regime detentivo speciale del 41-bis, è divenuto bersaglio di minacce e intimidazioni.

Tra le prassi carcerarie rispetto alle quali l’Autorità Garante ha formulato specifiche Raccomandazioni troviamo, a titolo esemplificativo: la presenza di sezioni o raggruppamenti costituiti da meno di tre persone detenute (n. 3); la ritardata esecuzione dei provvedimenti della Magistratura di sorveglianza (n. 7); l’apposizione di schermature stratificate alle finestre, sì da ridurre al minimo il passaggio di luce e aria fresca (n. 8); l’irrogazione di misure disciplinari ai detenuti che salutino un’altra persona ristretta chiamandola per nome (n. 12); il ricorso eccessivo alla misura dell’isolamento (n. 13); la concorrenza fra il tempo destinato alla lettura per mezzo del computer fisso e quello riservato ad attività esterne, sì da renderli alternativi fra loro (n. 15); l’imposizione di preclusioni eccessivamente rigorose alla fruizione dei canali televisivi (n. 6) e all’acquisto e alla disponibilità di organi di stampa e pubblicazioni (n. 16).

Nessuna, fra le predette prassi, risulta funzionale all’esigenza cautelare che costituisce presupposto e limite all’applicazione del regime detentivo speciale del 41-bis; molte di esse, al contrario, interferiscono con il percorso di recupero cui la Riforma del 1975 finalizza la detenzione, di fatto precludendo la rieducazione del condannato.

Il contrasto stridente tra la finalità dichiarata e quella effettivamente perseguita dal c.d. “carcere duro” (di fatto, indurre il detenuto alla collaborazione, fungendo altresì da deterrente nei confronti di coloro che operano nell’ambito della stessa o di altre associazioni criminali) impone pertanto, se non la totale espunzione dall’ordinamento del regime detentivo speciale ex art. 41-bis, quantomeno una significativa rivisitazione delle sue concrete modalità applicative, affinché le stesse non si traducano in una afflizione aggiuntiva e lesiva della dignità umana, oltre che confliggente con i principi costituzionali in materia di responsabilità penale e finalità rieducativa della pena.

Non sfugge, difatti, che una simile modalità di espiazione della pena (estesa, ricordiamolo, anche a soggetti la cui posizione giuridica non è ancora definitiva) prescinde da ogni valutazione in concreto circa il percorso di recupero più idoneo alla rieducazione del detenuto: giungendo addirittura a vanificarla quando, come spesso avviene, la cessazione del 41-bis e quella della pena detentiva avvengono contestualmente o a breve distanza l’una dall’altra. In tale ottica, ogni automatismo che correli la pena al reato anziché al reo, impedendo la sua individualizzazione, la priva, per ciò stesso, della sua finalità rieducativa, finendo per assolvere a una funzione meramente retributiva.

Ammesso, poi, che possa stilarsi una graduatoria delle pratiche degradanti, è la prassi richiamata dalla Raccomandazione n. 1 a suscitare la maggiore esecrazione: la previsione di apposite sezioni di “Area riservata” all’interno degli Istituti che ospitano Sezioni di regime detentivo speciale.

Tali Aree sono separate dalle altre che accolgono detenuti sottoposti al 41-bis, e sono destinate alle persone ritenute “apicali” dell’organizzazione criminale di appartenenza; vi si applica un regime detentivo ancora più rigoroso e al limite della tollerabilità, con limitazioni che talora comportano il quasi sostanziale isolamento della persona detenuta.

Proprio per evitare di incorrere nella violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’Area riservata anche un altro detenuto che non avrebbe titolo a starvi, ma che —nel crudo e spietato gergo carcerario— assolve alla funzione di “Dama di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi.

La legittimazione formale di tale segregazione risiederebbe, secondo il Governo italiano (interpellato al riguardo dal CPT), nell’art. 32 del dPR 230/2000, che tuttavia concerne “la collocazione più idonea di quei detenuti e internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni”. Tale esigenza cautelare, tuttavia, non risulta allegata né comprovata rispetto ai detenuti collocati nelle Aree riservate; e, men che meno, nei confronti dei detenuti loro assegnati per compagnia, i quali si trovano pertanto assoggettati a un regime detentivo di estremo rigore in modo del tutto ingiustificato (oltre che lesivo del principio di personalità della responsabilità penale).

Come ricordato dall’insigne giurista Andrea Pugiotto, Cesare Beccaria ebbe ad affermare che “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Se ciò è vero, un sistema detentivo incentrato solo sul contenimento delle persone in uno spazio e nella loro sottoposizione a limiti e obblighi (aggiuntivi alla pena detentiva e non giustificati da esigenze concrete) riduce le persone a cose, ed è offensivo della dignità umana tanto nella sua accezione statica quanto nella sua proiezione dinamica, come meta da riconquistare. È un sistema, dunque, di per sé destinato a inverare quel “trattamento disumano e degradante” che l’art. 27 della Costituzione e l’art. 3 della CEDU espressamente vietano. 

 

23.                     RIPORTARE LA COSTITUZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO

 

 

L’obiettivo che si propone questo lavoro è quello di suggerire soluzioni migliorative nel campo del diritto del lavoro e del suo sviluppo processuale.

Per fare ciò appare necessario, peraltro, partire dalle leggi fondamentali che hanno interessato il settore negli anni ’70 e che hanno costituito il fiore all’occhiello del welfare italiano, realizzando, quanto meno in parte, il dettame della nostra Costituzione secondo cui il diritto al lavoro è il diritto fondante della nostra Repubblica.

Le norme-cardine di quella costruzione sono state, e lo sono in parte anche oggi, lo Statuto dei Lavoratori e la legge 533/73 sul processo del lavoro.

Con queste due norme, una di diritto in buona parte sostanziale ed una di diritto processuale, si era realizzata una situazione di favore per i lavoratori, considerati l’anello debole e dunque da tutelare, del rapporto di lavoro.

Creazione di specifici diritti, loro tutela, rapidità nel loro accertamento, favor lavoratoris nel processo, pubblicità dello stesso, oralità del processo erano tutti elementi che miravano a garantire il lavoratore circa il rispetto dei suoi diritti che sarebbe stato accertato in maniera pubblica, rapidamente e tenendo conto, appunto, della sua posizione di tendenziale inferiorità rispetto al datore di lavoro.

 Il 20 maggio sono decorsi cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, non a caso, si intitolava “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. L’oggetto principale della legge riguardava proprio la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà dell’attività sindacale. Con esso, la Costituzione riuscì a superare lo steccato dei poteri privati e a penetrare in territori dai quali era stata lungamente e tenacemente esclusa.

Lo Statuto si rivolgeva al settore principale dell’universo del lavoro, quello del lavoro subordinato, però poneva dei principi che superavano tale ambito, costituiva un punto di orientamento nei rapporti economico sociali mirante al riconoscimento della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art.35Cost), quale espressione della centralità della persona umana. Insomma il valore insuperabile dell’elemento umano che rende il lavoro un fattore di produzione non assimilabile ad una merce.

Non si trattò di una riforma indolore: essa incise con il bisturi sul bubbone di pratiche discriminatrici dure a morire e segnò l’avvento di una stagione di maggiori diritti, maggiori protezioni, migliori condizioni di vita per l’homofaber.

Da molto tempo questa stagione si è rovesciata per vicende relative alle modalità di sviluppo della globalizzazione, incentrata su un insensato modello di competizione al ribasso fra gli ordinamenti. La libertà di circolazione dei capitali, la delocalizzazione delle attività produttive alla ricerca delle condizioni ambientali di miglior favore per gli investitori, l’utilizzo esasperato della tecnologia per sostituire il lavoro umano, l’eliminazione progressiva dei vincoli che la politica utilizzava per mediare il conflitto economico-sociale, le privatizzazioni e l’affermazione della incontestabile egemonia del mercato sulla società, hanno portato ad una progressiva mortificazione dell’elemento umano.

 

Analoga controriforma si è, nei fatti, verificata sotto il profilo processuale, e per assurdo in un momento in cui si è riconosciuto ormai universalmente al processo del lavoro una validità che ha imposto l’applicazione di quel rito anche ad altre fattispecie: peccato, però, che nel frattempo siano  andati perduti i caratteri principali di quel processo, costituiti non solo dalla sua celerità, ma anche dall’oralità, dalla pubblicità e dal favor lavoratoris, come già sopra affermato.

La responsabilità di ciò è da addebitarsi, da un lato, alla magistratura che non è stata in grado in molti distretti, di garantire la corretta applicazione del rito, dall’altra, alle forze  imprenditoriali che hanno abilmente svolto una funzione di progressivo sgretolamento del sistema di garanzie fondato sulle due leggi fondamentali sopra richiamate, sgretolamento cui le forze sindacali e del centro-sinistra non sono state in grado di opporsi, alcune volte, addirittura, appoggiando quasi inconsciamente le iniziative padronali (ma altre volte facendolo consciamente!).

Si è giunti, così, all’entrata in vigore di norme che hanno indebolito la posizione dei lavoratori, che oggi si trovano privati tendenzialmente di molti dei loro diritti; ciò è avvenuto principalmente con l’approvazione  del Collegato Lavoro, della Legge Fornero e del Jobs Act e di molte altre innovazioni normative.

La sostanziale modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, invocata da anni dal centro-destra e dal mondo dell’imprenditoria e respinta in passato dalla dura opposizione dell’opinione pubblica, si è infine realizzata proprio grazie all’azione di un governo di centro-sinistra.

A poco a poco la tutela del lavoro umano incentrato sul modello del lavoro subordinato è stata ridimensionata svuotando il contenitore del lavoro a tempo indeterminato attraverso l’invenzione di una miriade di forme contrattuali a titolo precario, fino alla quasi totale liberalizzazione del lavoro a tempo determinato. Alla fine, grazie al Job’sAct di Renzi, è stata rimossa anche la garanzia che teneva in piedi tutto l’impianto dei diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori attraverso la sostanziale cancellazione dell’art. 18, la norma che reprimeva il licenziamento illegittimo, assicurando un regime di cosiddetta stabilità reale.

A questo progressivo degrado della tutela dei diritti dei lavoratori hanno, a volte, posto un argine la Magistratura del Lavoro e la Corte Costituzionale che hanno impedito il totale crollo dell’impianto delle garanzie per i lavoratori.

Ma la situazione resta gravissima, al punto di portare molti studiosi della materia ad affermare che il diritto e processo del lavoro sono morti!

Non possiamo e non dobbiamo arrenderci di fronte a questa situazione.

Occorre recuperare un’iniziativa che, da un lato, ribadisca la centralità del rapporto di lavoro e della sua tutela nella realizzazione di uno Stato di diritto e del suo welfare; dall’altro, proponga iniziative sul piano legislativo e giurisprudenziale che consentano di rimettere in piedi e di migliorare quella tutela che il legislatore degli anni ’70 aveva introdotto.

Per fare ciò, è indispensabile un’operazione culturale e politica, volta a ricostruire  una alleanza di quella parte della cultura giuridica che crede nel  ruolo di demercificazione del diritto ed in particolare dei valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore, con quella parte organizzata dei lavoratori che crede nel ruolo della democrazia sindacale e del conflitto così come disegnato nella Carta costituzionale.

Le «controriforme» del lavoro degli ultimi anni hanno abrogato le normative a tutela dei lavoratori faticosamente conquistate negli anni 60 e 70 e che davano attuazione ai principi e diritti di cui agli artt. 1, 2, 3, 4 e 41, 2º comma della Costituzione.

Con la legge più importante di quegli anni, lo Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300/70), finalmente «la Costituzione varcava i cancelli delle fabbriche», come significativamente affermò l’allora Ministro socialista del lavoro On. Brodolini.

Con la eliminazione delle norme fondamentali dello Statuto (art.18, reintegrazione nel posto di lavoro; art. 13, divieto di demansionamento; art. 4, divieto di controllo a distanza della attività lavorativa) operata con gli otto decreti legislativi attuativi del c.d. «Jobs Act», la Costituzione è stata di nuovo estromessa dai luoghi di lavoro.

E noi vogliamo lì riportarla.

* * * * * *

Facciamo precedere le considerazioni sull’opera dei nostri tardi epigoni del neoliberismo con il lucido giudizio dello storico inglese David Kynaston sulla più duratura, drastica (e fallimentare) applicazione governativa del neoliberismo:

«…se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’uguaglianza…».

 

a) Tutela reale contro ogni licenziamento illegittimo

Considerazioni preliminari circa “la civiltà giuridica di questo paese”

La stabilità del rapporto di lavoro come principio fondamentale del nostro ordinamento è così descritta da uno dei più grandi giuristi  del dopoguerra,  Massimo D’Antona.

 Nel libro di insuperata lucidità, rigore scientifico e afflato etico-sociale, «La reintegrazione nel posto di lavoro» (Padova – Cedam 1979) a pagina 13 così argomenta:

“… E’ lecito affermare che la tutela reintegratoria costituisce l’unica risposta possibile  ai bisogni di tutela che l’abuso del potere di licenziamento mette in evidenza; l’unica coerente sia con l’ampia ridefinizione del potere organizzativo dell’imprenditore che l’evoluzione della legislazione e della contrattazione collettiva ha portato con sé, …sia con la più generale esigenza di una rigorosa effettività degli interventi legislativi sul mercato del lavoro. Retrocedere, anche surrettiziamente, verso un sistema di garanzia risarcitoria, restituendo all’imprenditore l’ultima parola nella vicenda del licenziamento…costituirebbe un sintomo grave. Ripercorrendo il lungo cammino che ha portato l’ordinamento italiano a realizzare – con più di ventanni di ritardo sulla costituzione – un dignitoso livello di tutela giuridica contro i licenziamenti arbitrari, non si può fare a meno di aggiungere …che ogni passo indietro sarebbe certo una sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor più, una sconfitta per la civiltà giuridica di questo paese”.

In queste parole si esprime la esemplare sintesi del significato e del valore della tutela reale del posto di lavoro introdotta con l’art. 18 l. 300/70: quello che ci occuperà di seguito è la ricognizione sul livello di barbarie giuridica in cui è stata precipitata l’Italia con le controriforme della legislazione del lavoro.

* * * * * * *

b) I principi di diritto comune

Il nostro ordinamento giuridico si fonda sulla tendenziale stabilità del contratto: l’art. 1372 del codice civile stabilisce infatti che “il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.

Per quanto attiene, in particolare, i contratti a prestazioni corrispettive è la legge a regolare le ipotesi scioglimento dei vincoli contrattuali: per “rescissione”, collegata ad anomalie all’atto della loro formazione (artt. 1447 – 1452 c.c.), per “risoluzione per inadempimento” (artt. 1453 – 1462 c.c.), per impossibilità sopravvenuta” (artt. 1463 – 1466 c.c.) e, infine, per “eccessiva onerosità”, con ciò confermandosi sia il principio generale di stabilità del contratto che di tassatività delle  ipotesi del suo scioglimento.

Una sola vistosa eccezione era rappresentata nel vigente codice civile emanato nel 1942: il c.d. “recesso ad nutum” dell’art. 2118 c.c. secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato poteva essere liberamente risolto in ogni momento.

Tale norma riproduceva il contenuto dell’art. 1628 del codice civile del 1865 che vietava la perpetuità della locazione di “operae”. A metà del novecento dunque si attua la tendenziale stabilità dei vincoli contrattuali ma si mantiene la sola sua deroga rappresentata dalla libera recedibilità del contatto di lavoro di origine ottocentesca.

L’ulteriore, significativo corollario della stabilità dei contratti a prestazioni corrispettive deriva sia dall’art. 1453 c.c., secondo il quale la parte  adempiente “può a sua scelta chiedere l’adempimento …salvo in ogni caso, il risarcimento del danno”, sia dall’art. 2058 c.c. che consente al danneggiato di richiedere «la reintegrazione in forma specifica, qualora  sia in tutto in parte possibile». Insomma la illegittima risoluzione del contratto non consentiva la estinzione del rapporto.

Decisivo risulta essere il passaggio che il codice civile propone dall’art. 1218 all’art. 1453 c.c. E’ opportuno notare come il legislatore   ha volontariamente ampliato lo spettro rimediale nel passaggio dall’“inadempimento dell’obbligazione” all’“inadempimento del contratto”, riconoscendo l’adempimento in forma specifica quale strumento rimediale alternativo soltanto nell’ultima fattispecie. Tale rilievo conferito alla struttura contrattuale, la quale viene elevata rispetto alla semplice obbligazione, conferisce carattere vincolante alla stessa in maniera superiore rispetto alla semplice obbligazione.  Negare tale distinzione, attraverso la comparazione tra contratto e obbligazione, significa ridurre ad una metonimia quelle che dogmaticamente rappresentano autonome e differenziate fattispecie. 

Ecco quindi che il “ripristino” del rapporto e la “reintegrazione” sono considerati come normale conseguenza nel diritto comune, per la illegittima privazione di un bene, di una servizio o di una utilità previste nel contratto. Lo stesso codice civile, prevede la azione di “reintegrazione” di chi sia stato privato del possesso di una cosa contro la sua volontà o che sia impedito nella pacifica attività di godimento del bene (artt. 1168 e 1169 c.c.).

In ambito comparativo, è attuale l’introduzione di istituti a carattere compulsorio, tanto di natura indennitaria come l’astreinte di derivazione francese, tanto di matrice penalistica come il Contempt of Court in ambito anglosassone, ovvero la Geldstrafe di matrice austro-tedesca.

Tale approccio consente di concepire l’obbligazione succedanea di ripristino come un ordinario vincolo obbligatorio, la cui precettività deve essere affidata al mezzo di tutela in forma specifica, prima ancora del rimedio risarcitorio. Nell’ambito del credito, che per relationem può essere facilmente esteso a tutta la materia contrattualistica, l’esclusione della tutela reintegratoria condurrebbe alla mancata vincolatività per il contraente inadempiente dell’obbligazione primaria come dedotta all’interno del contratto, con la remissione in favore dello stesso inadempiente circa l’esatta esecuzione di ripristino.

La natura coercitiva del ripristino e della reintegrazione assumono caratteri dogmatici imprescindibili nell’applicazione pratica dell’apparato sanzionatorio dell’inadempimento: difatti, contravvenendo a tale principi, il rischio sarebbe quello di delegittimare il grado di effettività dei rimedi a disposizione nell’ambito della disciplina contrattualistica.

In definitiva, il diritto al ripristino del rapporto contrattuale rientra in maniera ineludibile tra i rimedi contro l’inadempimento, rappresentando un caso di adempimento successivo che si atteggia quale naturale sviluppo, in forma rimediale, dell’originaria pretesa alla corretta esecuzione del contratto.

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E’ ancora il caso di rilevare che da millenni la “restitutio in integrum” (da cui deriva la “reintegrazione”) è la principale e generale conseguenza della privazione illegittima di un qualunque bene.

Nel diritto romano la “in integrum restitutio” era il provvedimento del magistrato mediante il quale si poneva nel nulla un effetto giuridico pregiudizievole, reintegrando il preesistente stato di diritto.

Con essa, insomma, si attua la giustizia come riconoscimento e attuazione dei principi millenari su cui si fonda la nostra civiltà.

  1. KANT affermava che: “……se la giustizia scompare non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra……”.

E così si evoca la scoperta fondamentale di PLATONE: nessuna vita umana ha più valore se “normale” diventa la ingiustizia, nel senso che il torto fatto a qualcuno non appare come torto fatto a ciascuno, un’offesa a quei basilari rapporti di valore su cui si fonda l’esercizio di una vita degna del nome di umana.

E il concetto di giustizia si sostanzia, nella affermazione di Platone, nel rispetto del “dovuto” a ciascuno. Il “dovuto” come sinonimo del giusto compare continuamente nel 1° libro della “Repubblica”: si potrebbe ricostruire da questa nozione così pervasiva della nostra storia intellettuale e civile, il concetto di norma o di obbligazione, a partire dalle sue umili origini.

Compare, sempre nel 1° libro della “Repubblica”, nelle parole del vecchio Cefalo, in relazione ai depositi ricevuti o ai debiti: giusto è restituire il “dovuto”.

Ecco dunque la formula più fortunata della meditazione occidentale sulla giustizia, che Platone attribuisce ad un poeta, Simonide: giusto è “……dare a ciascuno ciò che gli è dovuto……” (Platone, Repubblica, I, 331).

SOCRATE  parte  da   qui per   attuare   il passaggio   dalle   relazioni debitorie   a  tutti   gli ambiti   della vita. Così la riflessione  greca   si  trasmette al mondo romano: CICERONE nel 3° libro del “De re pubblica” affronta il tema della giustizia nella città e con diretto richiamo a Platone ed Aristotele, al loro elogio della giustizia, arriva alla sintesi: giustizia come virtù che “……dà a ciascuno il suo perché conserva l’eguaglianza fra tutti……” e che è l’unica virtù a non starsene “isolata di per sé né nascosta” perché “tutta emerge all’esterno”, si manifesta cioè pubblicamente, socialmente fra gli altri: è virtù sociale (De re pubblica, II, 43, 69).

Osserva al riguardo R. De Monticelli nel saggio “La questione civile”: “……Questa virtù risulta costitutiva dell’associazione che dà luogo a una res publica: il popolo di cui uno Stato è la “res” non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi”. Così la sintesi della lezione ciceroniana compare nei tre principi che sono secondo Ulpiano (III secolo d.C.) alla base dell’intero diritto romano, dove i tre principi sembrano seguire le specificazioni della giustizia da virtù sovrana a virtù “completa” a equità: “Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere”. E che sono poi ripresi nel Corpus iuris civilis o nel Digesto giustinianeo, in particolare il terzo, per la definizione della giustizia: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi……”.

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c) La equiparazione del contratto di lavoro a tutti gli altri

Con la Costituzione Repubblicana il «lavoro» viene posto tra i principi fondamentali (artt. 1 – 12) e all’art. 4 è espressamente riconosciuto per tutti il “diritto al lavoro” e stabilito il compito della Repubblica: “promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”.

Anche laddove si pongono i principi regolatori dei “rapporti economici” (artt. 35 – 47) si prevede che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost.) e che l’iniziativa economica privata è si libera ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana” (art. 41 Cost.).

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È apparso subito evidente a tutti i giuristi il contrasto frontale con la Costituzione della libera ed incondizionata recedibilità del contratto di lavoro e la insostenibilità, in uno stato di diritto, della sopravvivenza della unica eccezione alla generale stabilità dei contratti.

Già autorevoli giuristi (Cessari, Mancini, Natoli) avevano sostenuto la tesi della necessaria “causalità” anche del licenziamento argomentando che la ampia autonomia è riconosciuta alle parti nella conclusione dei contratti (e le norme sui contratti si applicano anche ai negozi unilaterali - tra i quali la risoluzione del rapporto di lavoro) «…purchè siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (art. 1322 c.c.).

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Ecco dunque la legge 604 del 1966  che, puramente e semplicemente, estende la previsione dell’art. 1372 c.c. anche al contratto di lavoro, con la previsione che può essere sciolto solo per colpa grave costituente giusta causa ovvero per giustificato  motivo oggettivo e soggettivo.

Con il successivo art. 18 della l. 300/70 si completa la fine della eccezione e si attua l’uguaglianza: il licenziamento illegittimo non estingue il rapporto di lavoro e ad esso consegue la “restitutio ad integrum”.

Viene dunque, con più di 20 anni di ritardo sulla Costituzione, stabilito “un dignitoso livello di tutela giuridica contro i licenziamenti arbitrarti”.

E’ appena di aggiungere che l’ordinamento di diritto comune consente solo alle parti la possibilità di scioglimento del vincolo contrattuale (ex art. 1372 c.c.”per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”)  e solo le parti sono in via generale legittimate ex art. 1321 c.c. a “costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”: ai Giudici spetta solo il controllo di legalità sull’operato negoziale delle parti.

Tale aspetto è suffragato dal fatto che il mutuo dissenso di cui tratta l’art. 1372 c.c., nei fatti, conferma il valore del vincolo contrattuale intercorso tra le parti, accentuando l’esclusività vincolante per i contraenti. Difatti, lo stesso mutuo consenso deve essere qualificato alla stregua di un contratto autonomo mediante il quale le stesse parti ne estinguono uno precedente, mutando il vincolo contrattuale originario attraverso una traslazione obbligatoria e affermando, al pari, la liberazione dal relativo vincolo negoziale. D’altronde l’esistenza stessa del sinallagma a fondamento del rapporto negoziale e la necessità che lo stesso debba essere attuale e privo di vizi in tutta la fase esecutiva del contratto, rende ancora più forte quanto sostenuto all’interno del citato art. 1372 c.c.: sinallagma significa mutualità, anche nella fase risolutoria del contratto nella quale la volontà delle parti modifica in maniera bilaterale il negozio, dando vita ad un nuovo contratto di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale, ma contrario, a quello del contratto originario. L’argomentazione è tanto più forte se si prende a mente che, dopo lo scioglimento, le parti (e solo le parti) potranno invocare la risoluzione per inadempimento relativamente al contratto solutorio e non per quello estinto. Da tali argomentazioni risulta evidente che solo le parti hanno la facoltà (rectius diritto) di gestire il negozio nelle diverse fasi, financo quella patologica o estintiva.

Il potere del  Giudice  rimane   esclusivamente di accertamento della condotta   delle  parti e  dichiarativo sotto il profilo sostanziale. Basti pensare che gli effetti   della   risoluzione,   una   volta intervenuta la sentenza di accoglimento della domanda giudiziale, decorrono sin dal momento della proposizione della   domanda  stessa   e   non   dalla   data   della   pubblicazione    della sentenza (art. 1458 c.c.).
Questo in quanto la sentenza di risoluzione per inadempimento di un contratto di durata, ove l'azione di risoluzione sia esercitata ai sensi dell'art. 1453, vede verificarsi i suoi effetti in punto di accertamento della cessazione degli effetti negoziali fin dal momento della proposizione della domanda giudiziale, una volta che sia accolta la domanda di risoluzione non essendo l'azione stessa, pur costitutiva, espressione di una giurisdizione costitutiva necessaria.

Ciò per evidenziare, da subito, la vera e propria aberrazione giuridica, in frontale contrasto con i principi dello stato di diritto liberale, introdotta con la c.d. riforma Fornero e riprodotta nel c.d. contratto a tutele crescenti secondo cui “il Giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro” (art. 3 e 4 D.Lgs.). e ciò nel solo caso in cui lo stesso Giudice abbia accertato e dichiarato illegittimo il licenziamento intimato

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E’ bene ancora aggiungere che mentre ogni inadempimento contrattuale e la illegittima risoluzione comporta anche l’integrale risarcimento del danno, sia patrimoniale – che comprende il lucro cessante ed il danno emergente, ai sensi dell’art. 1223 c.c. e nei casi di cui agli artt. 1479, 1480, 1489, 1492, 1497 c.c. – che non patrimoniale ex art. 2059 c.c.; di contro al lavoratore che  subisce un licenziamento illegittimo spetta il solo risibile “indennizzo” stabilito in qualche mensilità di retribuzione.

Anche qui una odiosa disparità ed un trattamento discriminatorio (che si può definire classista) per il contratto di lavoro.

Tale limitazione del diritto al pieno risarcimento nell’ambito giuslavoristico, come conosciuto in termini civilistici dall’art. 1223 c.c., concretizza nei fatti un’inversione della logica di sistema della disciplina generale in tema di contratti che non ha precedenti nel diritto civile.

Difatti, la logica sistematica del Codice Civile, così come quella della normativa ad esso complementare, è da sempre stata quella di riallineare gli squilibri sinallagmatici congeniti alla formazione del contratto, la maggior parte delle volte dovuti alla posizione di maggiore o minore capacità economico/cognitiva delle parti negoziali. Soltanto sotto il profilo esemplificativo occorre ricordare la tutela introdotta con il Codice del Consumo che si pregia di rinvenire un ambito applicativo speciale, superando il principio dell'unitarietà dei rapporti e pariteticità degli stessi, dettando una normativa specificamente applicabile ai contratti tra figure squilibrate sotto il profilo dell’accesso alla contrattazione, ossia il consumatore (parte debole) a fronte del professionista (parte privilegiata). Nella stessa direzione volgono gli artt. 1341 e 1342 del c.c., l’introduzione della Class Action a tutela di interessi collettivi, il T.U. in materia bancaria e creditizia (D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), la legge antitrust italiana n. 287 del 1990, il Codice degli Appalti, il quale predispone una serrata tutela dell’imprenditore a scapito della libertà negoziale della Pubblica Amministrazione, nonché lo stesso istituto della rescissione contrattuale.

Il Codice Civile norma il rilievo dello status contrattuale dei contraenti, nonché la loro qualifica soggettiva, attraverso la stesura del secondo comma dell’art. 1176 c.c., il quale, nel disciplinare il livello di diligenza esigibile nell’adempimento dell’obbligazione, fa implicito riferimento alla figura del professionista, con se veicolando il pregio assunto dalla natura del contraente, prima ancora del negozio stesso.

Un intervento illuminato nella determinazione dell’importanza che riveste il diritto nella ortopedia contrattuale dei disequilibri socio-economici viene offerta da Lorenzo Delli Priscoli, il quale afferma che la libertà contrattuale “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41, secondo e terzo comma): e tali vincoli sono fatalmente scavalcati o elusi in un ordinamento che consente l'acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo. L'utilità ed i fini sociali sono in tal modo pretermessi, giacché non solo può essere vanificata o distorta la libertà di concorrenza - che pure è valore basilare della libertà di iniziativa economica, ed è funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori (sentenza Corte Costituzionale n. 223 del 1982) - ma rischiano di essere pregiudicate le esigenze di costoro e dei contraenti più deboli, che di quei fini sono parte essenziale. Ciò ostacola, inoltre, il programma di eliminazione delle diseguaglianze di fatto additato dall'art. 3, secondo comma, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l'altro controlli sull'autonomia privata finalizzati ad evitare discriminazioni arbitrarie”.

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La traslazione dal risarcimento al mero indennizzo, in caso di licenziamento illegittimo, comporta un’eccezione riduttiva che non può trovare accoglimento nel sistema normativo dei contratti, in tema di principi regolatori e di applicazione pratica. Tale impostazione porta all’assurdo secondo il quale la tutela risarcitoria, in termini di danno emergente e lucro cessante, viene accordata tanto in tema di inadempimento contrattuale (artt. 1218, 1223, 1453 c.c.), quanto, soprattutto, in tema di responsabilità extracontrattuale (art. 2056 c.c.), senza essere estesa ad una particolare categoria di contratti, quali quelli di lavoro subordinato. Tralasciando l’impossibilità di escludere l’applicazione di un principio direttivo dei contratti, quale è il risarcimento nel campo dell’inadempimento, ad uno specifico negozio (rectius lavoro), accettando tale impostazione si arriverebbe all’aberrazione giuridica di accordare una tutela risarcitoria maggiore alla responsabilità extracontrattuale rispetto a quella contrattuale in materia di lavoro. L’assurdità di tale discriminazione è evidente comparando il maggiore valore che il legislatore in realtà conferisce al vincolo contrattuale rispetto a quello extracontrattuale: in tal senso basti pensare ai più favorevoli termini prescrizionali per far valere un diritto in ambito contrattuale ovvero l’onere probatorio semplificato della parte in bonis del contratto rispetto al soggetto leso da un fatto illecito.

In definitiva, accettare la limitazione del risarcimento nella completezza delle sue voci (danno emergente e lucro cessante) nelle ipotesi di licenziamento illegittimo, quale fattispecie pratica dell’inadempimento contrattuale, significa negare la stessa natura contrattuale del contratto di lavoro (di per sé impossibile per evidenti ragioni tautologiche), ma soprattutto di confinare tale tipologia negoziale in un alveo di tutele rimediali minori rispetto a qualsiasi altro istituto civilistico. Viene pertanto ribaltata l’eccezione rappresentata dalla disciplina, sostenuta negli anni passati da leggi speciali, del contratto di lavoro subordinato di cui agli artt. 2096 ss. c.c., in virtù della quale al lavoratore (e solo a lui), in virtù della sua particolare condizione soggettiva ritenuta particolarmente meritevole di tutela, venivano riconosciute particolari garanzie.

La parte tutelata diviene quella “forte” (il datore), alla quale viene riconosciuta la facoltà ad libitum di interrompere un rapporto contrattuale attraverso la semplice corresponsione di un irrisorio “indennizzo” predeterminato: si ribaltano i principi costituzionali e di diritto comune.

E’ evidente che, di fronte a situazioni di squilibrio di potere contrattuale, lasciare alle parti la completa libertà di determinare autonomamente il contenuto del contratto significa non tanto consentire alle parti di raggiungere il miglior assetto di interessi possibile, quanto, soprattutto, agevolare il contraente forte: tanto più nel caso di licenziamento illegittimo, in cui l’assetto rimediale invece di essere rafforzato in favore della parte debole, viene svilito a mero indennizzo, derubricando il rapporto (non potendosi chiamare contratto) di lavoro in un terzo genus di responsabilità, più debole rispetto a quella contrattuale ed extracontrattuale.

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In definitiva, la reintegrazione del lavoratore deve essere inquadrata alla stregua di un’ordinaria tutela rimediale da riconoscersi al contratto di lavoro, esattamente nei stessi termini in cui si permette la manutenzione del contratto, ossia l’esecuzione in forma specifica, nelle ipotesi di inadempimento (art. 1453 c.c.). Non si è alla ricerca di una maggiore tutela, seppure da ritenersi dovuta alla luce dei  principi costituzionali e della normativa vigente in settori similari viziati ontologicamente da uno squilibrio contrattuale, bensì semplicemente alla applicazione della normativa generale in tema di contratti.

In questo ordine di idee si è giunti a sperare che venga concesso ciò che invece spetterebbe di diritto quale tutela minima, in una società in cui (ormai) ci si rassegna a non avventarsi in richieste dovute, ma ad accontentarsi di quanto (non) ci viene concesso, dimenticandosi che è la parte debole che deve essere sostenuta nella fase patologica (contrattuale e non) e non certo il contraente forte.   

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Massimo D’Antona conclude, nel libro citato, il capitolo “Limiti dell’attività  economica e diritto al lavoro. Interpretazioni dell’art. 41 Cost.: il nesso tra diritto al lavoro e legislazione limitativa del licenziamento” (pag. 82 – 92), con una originalità di concetti che ben descrivono il livello di civiltà giuridica raggiunto con la normativa statutaria del 1970.

“L’ordine di reintegrazione tende visibilmente a riportare il lavoratore nelle specifiche condizioni materiali e giuridiche dalle quali l’atto illegittimo di estromissione l’aveva escluso. Tuttavia questa particolare tutela non rispecchia né un diritto di tipo reale al posto di lavoro né un diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa. Di più. Essa non rispecchia neppure un interesse propriamente contrattuale del lavoratore, nel senso che il bene protetto non fa parte dello scambio che sta alla base del rapporto di lavoro. Il bene tutelato dalla reintegrazione non è oggetto di scambio perché esso è già nel patrimonio di ciascun lavoratore; e il datore di lavoro deve solo astenersi da atti che, configurando esercizio illecito dei suoi poteri, ne producono la lesione.

L’estromissione dal posto di lavoro, quando ne sia stata accertata la illegittimità, configura una violazione dell’obbligo di comportamento che l’art. 41 Cost. impone all’imprenditore, ed è perciò un illecito che ha tutte le caratteristiche del «danno»  di cui parla l’art. 41 cpv.: per questo esso non va soltanto risarcito, prima di tutto deve cessare… .

La tutela dell’art. 18 include dunque un’articolazione di obblighi. Il ripristino integrale della situazione preesistente dipende dalla rimozione degli effetti materiali della estromissione, attraverso un conveniente, adeguamento della struttura organizzativa dell’impresa, ma dipende poi a maggior ragione dalla ripresa della corretta amministrazione del rapporto dal parte dell’imprenditore, dal «divenire in quiete» del rapporto stesso, e quindi dall’attuazione dell’obbligo negativo che l’art. 41 Cost. connette agli svolgimenti dell’attività d’impresa in funzione di una garanzia personalistica”.

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Per circa un trentennio, tra il 1970 e 1990 vi è stato nel paese notevole un sviluppo economico, benessere diffuso, attenuazione delle diseguaglianze, retribuzioni dignitose che hanno sostenuto  la domanda e quindi molta produzione e buona occupazione, uno stato sociale all’avanguardia nel mondo occidentale, un  complessivo progresso civile.

Tutto questo con una legislazione del lavoro che correggeva le asimmetrie del  rapporto sociale e le diseguaglianze di potere  nel contratto lavoro con norme dettate  dal senso civile e morale di una epoca democratica.

Si può senza enfasi sostenere che il diritto del lavoro ha salvato in Europa le  esangui democrazie liberali uscite da due guerre mondiali: gli ha dato nuovo impulso, con un ampio consenso e legittimazione  popolare.

E questo perché anche per la classe lavoratrice la democrazia ha previsto tutele e diritti, inserendoli nelle Costituzioni.

Insomma  per la uguaglianza e l’emancipazione sociale c’era una alternativa alla rivoluzione bolscevica: la democrazia costituzionale.

Lo Statuto dei lavoratori rappresenta il punto più alto della parabola garantista: secondo l’efficace affermazione di Brodolini, allora ministro del lavoro, con la Statuto la “Costituzione entra nei luoghi di lavoro”.

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d) L’opera di demolizione della civiltà giuridica

Dalla fine degli anni novanta inizia il lento ma progressivo smantellamento del diritto del lavoro, anche con la tecnica che nel bel  libro di due magistrate del lavoro, Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo “E lo chiamano lavoro…”, viene descritta come  «FRANCKING: frantumazione sotterranea delle regole poste in  attuazione della Costituzione, con la generale svalorizzazione del lavoro in tutte le sue forme: ennesima manifestazione delle tendenza radicata  nel paese a «lasciar soccombere il giusto sotto l’ambizione  di perseguire l’utile».

Inizia con il c.d. «pacchetto Treu», e l’introduzione del lavoro interinale (governo di centrosinistra), il primo attacco   ad uno dei pilastri del nostro ordinamento secondo cui è “datore di lavoro chi utilizza le prestazioni del lavoratore”.

«Si spezza il rapporto, diretto tra datore di lavoro e lavoratore l’oggetto del contratto è di fatto reso merce»: come tale può essere oggetto di compravendita e persino di scambio  (distacco, esternalizzazioni ecc.).

Gli esponenti delle stesse forze politiche, dopo aver legalizzato la “interposizione parassitaria nelle prestazioni di lavoro”(secondo l’efficace – e corretta - definizione della Corte di Cassazione) piangono oggi lacrime di coccodrillo di fronte al dilagare dello sfruttamento nel lavoro agricolo ed al ritorno, oggi, del lavoro servile che arriva persino ad uccidere di fatica nei campi lavoratori italiani ed extracomunitari.

Era scritto nella logica della “controriforma” tale esito: il profitto non pone limiti né al numero degli intermediari né al livello di sfruttamento della manodopera che con l’interposizione parassitaria può essere attuata.

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Il   successivo governo di centro destra con il D.Lgs. 276/2003 spalanca l’uscio socchiuso con il lavoro interinale: viene abrogata la l. 1369/60 (divieto di interposizione  nelle prestazioni di lavoro), istituita la somministrazione anche a tempo indeterminato,  previste nuove tipologie contrattuali tutte precarie, agevolate le esternalizzazioni    e internalizzazioni con la normativa sugli  appalti; viene attuato anche un insidioso tentativo di manomettere  l’art.  2112 c.c. trasformandolo da norma  «garantista» nel suo contrario: minaccia al posto  di lavoro  (con le cessioni di ramo di azienda “identificata come tale al  momento del trasferimento”)  invece che garanzia della sua prosecuzione! Ed infatti la maggior parte delle controversie promosse dai lavoratori in questi anni riguardano la insussistenza del fenomeno successorio regolato dall’art. 2112 c.c. con conseguente legittima negazione del consenso alla cessione del contratto ex art. 1406 c.c.. 

Si diffondono negli anni successivi i processi  di esternalizzazione e terziarizzazione con i quali si concretizza la scelta imprenditoriale di frammentare la organizzazione produttiva e di realizzare finalmente il sogno di una impresa senza dipendenti (propri) e quindi senza  la seccatura di dover rispettare i loro diritti.

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Inizia poi nel 2001 il progressivo scardinamento della normativa sui contratti a termine (la buona legge 230 del 62) con il pretesto di attuare la famosa direttiva CEE del 99.

Al riguardo è utile ricordare l’intervento molto rilevante della Corte Costituzionale (sent. 41/2000), i cui principi torneranno attuali quando  inevitabilmente il D.Lgs. 34/14 (c.d.Poletti) ci tornerà.  La Corte ammettendo per la prima volta la partecipazione al giudizio di associazioni e privati che contrastavano la richiesta referendaria, ha dichiarato “inammissibile” il referendum abrogativo della l. 230/62, essendo essa “conformazione anticipata” alla Direttiva comunitaria  sul contrasto agli abusi del contratto a termine: non si può abrogare  una normativa che il legislatore deve adottare per come obbligo comunitario.

Sentenza di portata enorme: se infatti alla sovranità popolare è sottratto il potere di abrogare una legge tantomeno ciò può essere consentito al legislatore, per di più con il pretesto di attuare la direttiva comunitaria contro gli abusi che la legislazione già vigente impediva e sanzionava; e ciò addirittura in contrasto con la clausola “di non regresso” posta dalla direttiva stessa.

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Con quel “supermarket della precarietà” rappresentato dal D.Lgs. 276/2003 si realizza anche “la fuga dalla subordinazione” come elusione delle tutele, soprattutto dalla tutela reale dal licenziamento vero e proprio “perno”, “diritto stipite”, che garantisce l’esercizio di tutti gli altri diritti (Giorgio Ghezzi affermava: «senza la tutela reale tutti i diritti del lavoro  sono scritti sulla sabbia»).

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L’opera di demolizione continua con il collegato lavoro (l. 183/2010), dove si attua (con l’art. 32) la generalizzazione delle “decadenze” per ostacolare l’esercizio dei diritti. Mentre nel diritto comune la decadenza è eccezione per ipotesi tassativamente previste alla prescrizione, nel diritto del lavoro  le decadenze diventano la regola; e poi sono poste norme “retroattive” e si penalizza il lavoratore vittima degli abusi del contratto a termine nel risarcimento assai limitato, con  sostanziale premio all’illecito datoriale.

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e) La norma dichiaratamente classista di cui all’art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare)

La legislazione discriminatoria a danno del lavoratore attinge a vertici inauditi anche in sede processuale, nel silenzio, quasi totale, della dottrina giuridica e delle parti sociali.

Con la legge 69/2009 viene introdotto l’art. 614-bis c.p.c., che prevede la possibilità per il giudice di fissare, con il provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Si tratta di una misura coercitiva indiretta che attinge all’istituto francese delle «astreintes» (dal latino “adstringere”, ossia costringere), e il cui scopo è quello di garantire l’attuazione degli obblighi di fare infungibili e degli obblighi di non fare da parte del debitore.

Il legislatore però sancisce espressamente l’inapplicabilità  della norma “alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”.

Tale limitazione, che toglie effettività alle sentenze di reintegrazione per i licenziamenti ma anche per l’ordine di adibizione alle mansioni nella dequalificazione, si presta a una duplice censura di incostituzionalità: innanzitutto, perché riservare un trattamento differenziato ad alcune controversie sulla base della qualifica soggettiva del destinatario del provvedimento di condanna appare contrario ai principi di ragionevolezza, nonché a quello di pienezza ed effettività della tutela; in secondo luogo, perché la esclusione comporta un indebito privilegio in favore del datore di lavoro, pubblico o privato, tanto da essere stata definita “una scelta tipicamente classista” (A. Proto Pisani, "La riforma del processo civile: ancora una riforma a costo zero (note a prima lettura)", in Foro Italiano V, 2009, pag. 221).

Ulteriori rilievi in ordine alla natura irragionevole e discriminatoria di tale esclusione erano stati altresì formulati dal C.S.M., in sede di redazione del Parere sulle disposizioni contenute nel corrispondente disegno di legge (delibera del 30 settembre 2008).

Inspiegabilmente, tuttavia,  la limitazione contenuta nell’art. 614-bis c.p.c. non ha mai costituito oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale, nonostante abbia introdotto un anomalo squilibrio nel sistema delle tutele, con  la conseguenza che la funzione deterrente cui la norma dovrebbe assolvere risulta sostanzialmente vanificata nei confronti del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro o nelle mansioni.

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Arriva quindi la legge 92/2012 (c.d. riforma Fornero) che riduce  la generale applicazione dell’art. 18 l. 300/70 ad ogni  ipotesi di licenziamento inefficace ed illegittimo limitandolo ai solo casi di «manifesta insussistenza» del giustificato motivo, alla inesistenza della mancanza disciplinare nel licenziamento per giusta causa ovvero alla sua non proporzionalità secondo le previsioni della contrattazione collettiva.

Sono dunque intaccati alcuni principi fondamentali di democrazia economica cui è ispirata la Costituzione.

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f) Il Jobs Act, ossia il trionfo del neoliberismo: dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti.

Con il governo Renzi sostenuto dal voto di fiducia di tutto il suo partito, l’estremismo neoliberista porta a compimento la distruzione del diritto del lavoro, minandone i suoi fondamenti.

Scompare per i nuovi assunti la tutela reale per licenziamenti illegittimi sostituita da un irrisorio indennizzo, viene consentita per tutti (nuovi e vecchi assunti) la dequalificazione professionale; viene abolito il divieto del controllo a distanza sullo svolgimento della prestazione lavorativa ed eliminata per 36 mesi la causale nei contratti a termine e nelle proroghe.

Un’opera dettagliata e feroce che non risparmia nemmeno gli invalidi: viene generalizzata la chiamata nominativa nel collocamento “obbligatorio” con eliminazione della modesta quota numerica nelle assunzioni per le aziende medio-grandi.

E’ bene anche qui evidenziare la totale alterazione delle regole dello stato costituzionale di diritto.

I decreti legislativi del c.d. Jobs Act non sono attuazione della legge delega del Parlamento; dov’è prevista l’abrogazione dell’art. 18 per i nuovi assunti e la possibilità di dequalificazione e di controllo a distanza per fini disciplinari?

È puramente e semplicemente l’attuazione del programma della Confindustria riportato nel documento “Proposte per il mercato del lavoro” del maggio 2014; alla pag. 7 sono precisate le tre richieste: abolizione della reintegrazione come conseguenza del licenziamento illegittimo, eliminazione del divieto di dequalificazione e del controllo a distanza.

Dunque: il governo legislatore delegato ex artt. 76 e 77 della Costituzione (con legge delega sostanzialmente «in bianco» e votata con la fiducia!) ignora il Parlamento e approva le norme dettate dalla Confindustria. Di più e di peggio: non degna di alcuna considerazione le osservazioni delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato che hanno mosso obiezioni sulla eliminazione dell’art. 18 per i licenziamenti collettivi illegittimi per i nuovi assunti e sulla sostanziale abrogazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori per tutti! Una tale umiliazione del Parlamento non si era mai vista nell’era repubblicana.

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g) “Sorvegliare e punire”: il panottico come modello e figura del potere  nella società contemporanea.

 

Il tratto emblematico delle riforme renziane si può cogliere dalla eliminazione del divieto di controllo a distanza anche ai fini disciplinari.

Nel 1791 il filosofo, giurista e imprenditore Jeremy Bentham progettò il «panottico» come carcere ideale: permettere ad un sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere loro di capire se in un determinato momento fossero  o no controllati.

L’idea del panottico ha avuto una grande risonanza successiva come metafora di un potere invisibile e permanente, ispirando pensatori e filosofi come Michel Foucault, Noan Chomky, Zygmund Bauman e  lo scrittore britannico George Orwell nell’opera “1984”.

Nell’anno 1794 Bentham decise di applicarlo alla sua fabbrica in cui lavoravano i carcerati poi sostituiti dagli operai (Gilbert’s Act).

I lavoratori, sapendo di poter essere tutti controllati e osservati in ogni momento da un preposto, avrebbero assunto comportamenti disciplinati ed eseguito con diligenza ogni direttiva datoriale.

Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il retto comportamento imposto sarebbe entrato nella mente degli operai come unico possibile modo di comportarsi, modificando così il loro carattere in modo definitivo. Lo stesso filosofo descrisse il panottico come “un nuovo modo per ottenere potere sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima”  (Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Focault e M. Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983).

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Ammettiamolo onestamente: nessun avrebbe mai immaginato una tale devastazione nella tutela dei lavoratori e dello stesso Stato di diritto costituzionale, con il maggior partito di sinistra in posizione dominante nel governo!

Ed infatti il fallimentare esito sul contrasto alla disoccupazione delle numerose contro-riforme del mercato del lavoro realizzate prevalentemente dai governi di centro - destra negli ultimi 15 anni, tutte improntate alla riduzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori, non faceva in alcun modo presagire ulteriori interventi di tale portata.

Il livello di disoccupazione è drammatica, la precarietà è dilagata divenendo ormai regola di gran lunga prevalente nei rapporti di lavoro.

Il fallimento è certificato da tutti gli economisti, (anche quelli “mainstream”) e che imputano alla austerità, alla precarietà nel lavoro e alla drastica riduzione del potere di acquisto delle retribuzioni non la soluzione alla crisi economica, bensì la sua causa principale, originata dal crollo della domanda e da una conseguente recessione ormai duratura.

Eppure i perdenti, e falliti, colgono ora il loro più grande e “storico” risultato: la eliminazione della reintegrazione nel posto di lavoro nel licenziamento illegittimo individuale e collettivo oltre alla abrogazione dei divieti di dequalificazione e di controllo a distanza a fini disciplinari della attività lavorativa: insomma i pilastri della legislazione del lavoro.

«Nel regime giuridico duale, cioè con la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali  di ricatto sul lavoro, diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’Ufficio legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al costituzionalismo della Repubblica…E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro è sconfitto ma non vinto»  (Michele Prospero, “Jobs Act: si spengono  i diritti. Un premier che marcia spedito verso l’800”,  Il  Manifesto 10.03.2015).

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h) La istituzionalizzazione della precarietà

La vicenda dei contratti a termine è anch’essa emblematica. Si parte da un assunto non detto ma assolutamente evidente: la precarietà è una condizione generale che è destinata ad abbracciare tutta la vita lavorativa e non solo la fase di inserimento nel mondo del lavoro. Non c'è più bisogno di fidelizzare, formare e inserire nella propria compagine aziendale proprio nessuno. Il “precario massa” entra ed esce dal mercato del lavoro con un bagaglio di competenze sempre più qualificato, aggiornato e competitivo. Altro non serve. Si passa continuamente da una situazione lavorativa a un'altra: questo comporta per le imprese la condizione ottimale per sfruttare il turn over continuo. Ed ecco dunque che la fonte del profitto passa per la possibilità di poter assumere liberamente e sbarazzarsi, altrettanto liberamente, dei prestatori di lavoro.

Il legislatore del 2001 (D.Lgs. 368/01) ha provato ad ampliare la possibilità di assunzione a termine, ritenendo la disciplina normativa previgente (L.n. 230/62) troppo rigida. Per una rara eterogenesi dei fini l'operazione non è andata in porto, in quanto la Direttiva 1999/70/CE, in strumentale applicazione della quale si è introdotta la norma, ha imposto delle interpretazioni giurisprudenziali restrittive tali da vanificare il tentativo di liberalizzazione. Il secondo assalto viene mosso con la Legge Fornero (L.n. 92/12) con la quale è per la prima volta introdotta la possibilità di stipulare il primo contratto di durata (per un massimo di un anno) come "acausale": vale a dire che non viene più richiesta alcuna occasione temporanea di lavoro in grado di giustificare la durata del termine, viene cioè scardinato il perno del vaglio di legittimità del contratto di durata, offrendo così l'occasione alle aziende di esercitare un profittevole turn over su base annua. L’acausalità implica la possibilità di stipulare un contratto di durata ed anche il più stabile dei lavori può dunque essere oggetto di un contratto a termine sottoponendo al ricatto della scadenza chi vi è inquadrato. Tutto ciò – ripetesi - andando in frontale conflitto con la Direttiva europea sopra richiamata, la quale ha espressamente previsto l’eccezionalità del contratto a termine (rispetto a quello a tempo indeterminato) e la necessità di disporre misure legislative contro l’abuso. La direzione intrapresa ha quindi l’evidente effetto di erodere segmenti di lavoro potenzialmente stabile e di incentivare dinamiche sostitutive dei lavoratori a tempo indeterminato.

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i) La disciplina dei licenziamenti

Nel decreto legislativo che introduce il contratto a tutele crescenti si attua il completo rovesciamento dei principi costituzionali: non si tutela più il diritto al lavoro ma quello al licenziamento «…trasformato da potere da limitare in privilegio da garantire anche con le risorse della collettività» (U. Romagnoli). Infatti, è previsto nell’art. 6 del Decreto Legislativo che instituisce il c.d.  contratto a tutele crescenti (è l’articolo più lungo e circostanziato con ben tre corposi commi) che venga eliminato l’onere fiscale nell’indennizzo offerto dal datore di lavoro ai fini conciliativi nella ipotesi di impugnativa del licenziamento.

A ciò vengono destinate imponenti e progressive risorse collettive (oltre 216 milioni di euro!) attinte dall’art. 1, comma 107 della legge 23 dicembre 2014 n. 190 che istituisce un fondo per le “politiche attive del lavoro… nonché per fare fronte agli oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti…”.

Non solo l’indennizzo per i licenziamenti illegittimi è irrisorio, ma incentivato con soldi pubblici.

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l) Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico.

 

In questi anni c’è stata la guerra all’art. 18 ed ecco la sua rappresentazione come un “tabù” che annulla la  libertà di licenziare i fannulloni, impone rigidità, sconsiglia gli investimenti in Italia e quindi genera disoccupazione, soprattutto giovanile, crisi economica e miseria.

I professionisti della disinformazione hanno fatto tesoro della lezione impartita dal ministro nazista.

Ed infatti (quasi tutti) coloro che discutono dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori non richiamano mai il tenore letterale della norma, esattamente come (quasi tutti) i giornalisti  e conduttori televisivi non ne illustrano mai il suo reale contenuto, esattamente come mai attuano un contraddittorio effettivo con i giuslavoristi che conoscono la materia.

Insomma l’estremismo neoliberista cancella i diritti costituzionali del lavoro accompagnandosi con il fascismo mediatico. Tutti i telegiornali, che oggi propagandano l’operato del governo sono uguali ai cinegiornali dell’Istituto Luce degli anni trenta.

Una gigantesca ipocrisia ha accompagnato l’assalto finale all’art. 18, indicandolo come ostacolo alla maggiore occupazione, soprattutto per i giovani: l’assioma secondo cui con più licenziamenti arbitrari (senza art. 18) – per quelli legittimi, ripetesi, il datore non ha niente da temere – si avrà più occupazione e meno precarietà, è chiaramente falso: anche la legge c.d. “Biagi” è stata approvata con questi fini e gli esiti disastrosi sono ora sotto gli occhi di tutti.

Gli slogan ossessivamente ripetuti in questi mesi: l’art. 18 non è “tabù intoccabile”; ovvero bisogna “riformare” contro il “conservatorismo”, appaiono privi di senso.

La vita, la salute, la libertà, la sicurezza, la dignità, il diritto al lavoro e ad una esistenza libera e dignitosa sono “tabù intoccabili”?.

No, semplicemente diritti costituzionali; volerli ora ripristinare non é bloccare le riforme o lo sviluppo economico: semplicemente realizzare un accettabile livello di civiltà, di coesione sociale,  di garanzie e di tutele anche per i lavoratori, attuando la Costituzione.

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Con il c.d. decreto Poletti (che elimina la causale oggettiva nel contratto a termine) e con il nuovo contratto a tutele crescenti (che elimina la tutela reale e che comporta sempre  la perdita del posto di lavoro anche a fronte del licenziamento illegittimo) si è puramente e semplicemente generalizzata e resa strutturale  la precarietà permanente lo stato di soggezione del dipendente.

L’imbroglio è addirittura semantico: quali sono le “tutele crescenti” nel nuovo contratto a tempo indeterminato?

La proposta originaria  (Boeri)  che aveva avuto il sostanziale consenso delle parti sociali e di quasi tutte le forze politiche,  prevedeva per un certo periodo  un salario  d’ingresso e un inquadramento inferiore rispetto al CCNL, la tutela solo   obbligatoria nei  licenziamenti illegittimi con un risarcimento che aumentava nel tempo, con l’approdo finale alle  tutele piene, al pari degli altri dipendenti già occupati: alla fine  tutti uguali nelle tutele.

E’ tutto sparito nel “contratto a tutele crescenti” che cristallizza, contrariamente alle premesse,  il “dualismo” delle tutele tra vecchi e nuovi assunti.

 

m) Ripristinare lo stato costituzionale di diritto

I grandi avanzamenti della tutela del lavoro sono avvenuti in un periodo di sovrarappresentanza del lavoro, così come i più disastrosi arretramenti si sono verificati nel punto più basso di connessione tra il lavoro e le organizzazioni tradizionalmente chiamate a rappresentarlo.

In altri termini, occorre coinvolgere forze sindacali e politiche in un lavoro di rivisitazione della legislazione del lavoro per riportarla  a quelle caratteristiche tali da consentirle di far prevalere il suo valore fondante, ai sensi dell’art. 1 della Costituzione, rispetto ad altri diritti eventualmente contrapposti.

Si potrà, così, puntare ad una pars destruens che elimini quelle norme che hanno portato all’attuale situazione di crisi e successivamente ad una pars construens che consenta di realizzare anche quelle parti della Costituzione rimaste inattuate.

Occorre, poi, ribaltare i ruoli tra parte costituzionale e parte promozionale. E’ necessario, infatti, ricostituzionalizzare la legislazione sulla rappresentanza sindacale e sullo sciopero quale diritto di ogni singolo lavoratore di aggregarsi, contrarre e confliggere collettivamente. Occorre cioè rovesciare l’impostazione: passare dalla cancellazione degli art. 39 e 40 Cost operata con lo Statuto, alla cancellazione dell’art. 19 e ricostituzionalizzazione del diritto sindacale basato, come ha detto sin dal 1974 la Consulta, sul «riscontro di  un’effettiva capacità di rappresentanza degli interessi sindacali “ e su  “una reale effettività rappresentativa”.  Ed occorre infine passare ad una legislazione “promozionale” nel rapporto di lavoro a partire  dal dramma del lavoro povero con l’applicazione coatta di un salario minimo, con regole stringenti sulla continuità del rapporto in caso di cambio appalto e di contrasto al ricorso al part time involontario.

Le modifiche sviluppatesi negli ultimi anni, con il prevalere del lavoro precario  e interinale sul rapporto di lavoro subordinato deve indurre, poi, a sviluppare un’azione che consenta l’estensione a quei lavoratori precari (il caso dei rider rappresenta il caso più eclatante) delle garanzie previste per i lavoratori subordinati, seguendo in ciò quanto meno ciò  la Suprema Corte ha recentemente statuito sul caso Uber: non è tanto importante qualificare quel rapporto come autonomo o subordinato, l’importante è che a quei lavoratori sia riservato lo stesso trattamento del rapporto di lavoro subordinato.

In questo senso, forse, può avere senso parlare di Statuto del Lavoro allargato a tutti i lavoratori, a condizione, però, che questa modifica non si trasformi in occasione per indebolire le garanzie già presenti.

 

Ecco dunque la proposta per la stabilità del contratto a tempo indeterminato, e, dunque, la tutela per licenziamenti ingiustificati.

Abbiamo preferito seguire la impostazione della Costituzione Europea (la Carta fondamentale dei diritti di Nizza oramai inserita nei trattati) che all’art. 30 prevede la tutela del lavoratore a fronte di ogni licenziamento ingiustificato.

Questa l’ipotesi normativa:

Art. 18: tutela contro il licenziamento invalido

1. A fronte di ogni licenziamento individuale o collettivo invalido (per nullità, illegittimità o inefficacia) il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento della retribuzione, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, dal recesso alla sentenza del Giudice del lavoro.

  1. Nel caso di inottemperanza all’ordine di reintegrazione nel  posto di lavoro, o del ritardo nella sua attuazione superiore a giorni dieci dalla sentenza, il datore di lavoro è tenuto a versare al fondo di cui all’art. 1, comma 107 legge 23 dicembre 2014 n. 190, o ad analoghi fondi per le politiche attive del lavoro e di sostegno alla disoccupazione istituiti presso l’INPS, la somma di euro cinquecento al  giorno.
  2. Il lavoratore e, nel solo caso di licenziamento annullabile, il datore di lavoro che occupi sino 8 dipendenti, hanno facoltà di optare, in sostituzione della reintegrazione, per il pagamento di una indennità pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto; solo l’effettivo pagamento determina la risoluzione del rapporto di lavoro”.

(Ovviamente anche il ripristino dell’art. 18 del 1970, abbassando il limite della sua applicazione a 5 dipendenti, è proposta positiva).

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n) Proposte

 

  • Artt. 1, 3, 4 e 41, 2º comma Cost.: tutela reale per ogni licenziamento illegittimo.
  • Artt. 2, 3, 4  e 41, 2º comma Cost.: dignità, libertà  e stabilità per chi lavora.
  • tutela della professionalità e divieto di dequalificazione;
  • diritto alla riservatezza e divieto di controlli a distanza della attività lavorativa a fini disciplinari;
  • contrasto della precarietà con ipotesi tassative per le assunzioni a termine e somministrazione di manodopera.
  • Art. 24 Cost.: tutela giurisdizionale dei diritti.
  • eliminazione delle decadenze generalizzate per l’esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro.

Quanto, infine, al processo del lavoro, esso deve tornare, come detto, ad essere quello strumento agile ed incisivo, valido per tutti i lavoratori, caratterizzato da:

1)        Rapidità nello svolgimento del processo;

2)        Concentrazione nell’assunzione della prova;

3)        Ricerca della verità sostanziale, con recupero dei poteri istruttori d’ufficio del Giudice;

4)        Pubblicità del processo che deve svolgersi in pubblica udienza, come il processo penale, onde consentire la presenza di osservatori e parti interessate;

5)        Recupero del sostanziale favor lavoratoris, nella conduzione del processo;

6)        Oralità;

7)        Gratuità totale del processo per il lavoratore;

8)        Eliminazione del principio generalizzato di soccombenza nell’ipotesi di sconfitta del lavoratore.

 

24.                     TRASFERIMENTO E CESSIONE D’AZIENDA

 

Nel 1942, con la promulgazione del codice civile, all’art. 2112 c.c. si prevedeva che in caso di vendita di un’azienda ai lavoratori si poteva dare la “disdetta”.

Questa norma, in realtà, incarnava ed incarna tutt’ora il desiderio profondo dell’imprenditoria nazionale nonché il punto di equilibrio delle forze politiche che la sostengono.

 La Comunità Europea il giorno di San Valentino del 1977 promulgava la Direttiva 187 con cui affermava che in caso di cessione d’azienda o di suo ramo, il rapporto di lavoro deve passare dal venditore all’acquirente, sempre salva —si intende— la libertà dell’acquirente di licenziare se ne ricorrono i motivi.

 Insomma una previsione di puro buon senso ma talmente perturbante per la sindrome italiana che l’inconscio politico giuridico del paese la rimuoveva nella speranza che, ignorandola, scomparisse da sola. Ma ecco che 9 anni dopo, il 10 luglio 1986, la Corte di Giustizia condannava l’Italia per mancata attuazione della Direttiva. Beh e a questo punto cosa ha fatto l’Italia? Nulla per ben altri quattro anni, e cioè sino al 29 dicembre 1990 quando, schiacciata dal rischio della procedura di infrazione, capitolava riformulando con la Legge 428 l’art. 2112 c.c. ed affermando finalmente che in caso di cessione d’azienda il rapporto dei lavoratori prosegue con l’acquirente. Ma attenzione, si trattava solo di una ritirata strategica. E infatti i nostalgici della “disdetta” si acquartieravano sul fronte dell’azienda in crisi (che non hanno più mollato) aggiungendo all’art. 47 il co. 4-bis, con la previsione per cui in caso di vendita di un’azienda in stato di crisi (senza distinguere tra la più lieve e cioè quella accertata in sede ministeriale per la concessione della cassa integrazione sino alla più definitiva quale il fallimento) se è “stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'articolo 2112 del codice civile”.

La questione ovviamente tornava subito alla Corte di Giustizia che si pronunciava con svariate sentenze, tutte dello stesso tenore. La prima era la sentenza D’Urso (del 25 luglio 1991, Causa C-362/89), e si occupava proprio di un’azienda ceduta da una società in amministrazione straordinaria che continuava l’attività, esattamente come l’Alitalia oggi. E cosa dice la Corte in tale sentenza del 1991? Dice che la procedura di amministrazione straordinaria non implica necessariamente variazioni sul piano dell’occupazione e quindi permane il diritto del lavoratore a passare automaticamente alle dipendenze dell’acquirente fin quando (leggo testualmente) c’è “il proseguimento dell'attività dell'impresa[88]

L’Italia non si adegua. Tanto che la Commissione decideva che, se alcuni paesi membri proprio non volevano capire ciò che dice la giurisprudenza della Corte di Giustizia, era opportuno un suo intervento. Ed emanava la Direttiva n. 23 del 2001 affermando al punto 7 della premessa che "detta direttiva è stata …. modificata alla luce … della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee", in quanto “la sicurezza e la trasparenza giuridiche hanno richiesto un chiarimento”. Insomma hanno preso le sentenze e le hanno riportate al nuovo articolo 5 della Direttiva, che ribadisce come:

- o la società che vende l’azienda è in una “bankruptcy proceeding” è cioè in una procedura riservata alle società fallite, chiuse, morte, in bancarotta, allora chi compra può non assumere gli ex dipendenti di chi vende;

- oppure, se invece è un’attività che si trova in una “insolvency proceeding” ovverosia in una procedura aperta per una crisi più lieve che consente —pur sotto il controllo dell’autorità amministrativa o giudiziaria— di proseguire l’attività, allora si può, con l’accordo sindacale, modificare in peggio le condizioni di lavoro ma permane comunque il diritto dei lavoratori di proseguire l’attività alle dipendenze di chi acquista.

L’Italia si sarà adeguata, si sarà portati a pensare. E invece no. L’Italia continua a non fare nulla, tanto che la Commissione nuovamente, con lettera del 23 marzo 2007, invitava la Repubblica italiana ad ottemperare alla direttiva 2001/23 e ad adeguare il proprio diritto interno nel senso che nei casi di mera “insolvency”, come certamente è l’amministrazione straordinaria in continuità, fosse riconosciuto il diritto di tutti i lavoratori all’applicazione dell’art. 2112 c.c. con prosecuzione del rapporto. Ebbene, questa volta l’Italia decide di attivarsi con decreto legge e farlo a un mese dalla prima cessione di Alitalia. E cosa dice questo decreto, forse che si applica l’art. 2112 c.c.? No: il Governo (allora presieduto dall’On. Silvio Berlusconi), con il decreto legge 185 del 29 novembre 2008 prevedeva che per le aziende in amministrazione straordinaria (cito testualmente) le operazioni di “cessione dei complessi aziendali … non costituiscono comunque trasferimento di azienda ... agli effetti previsti dall’art. 2112 c.c.”. E oplà, la Cai si sceglieva chi assumere lasciando gli altri nella bad company da cui 4 anni dopo venivano licenziati in blocco. Intanto la Commissione perdeva ovviamente la pazienza rivolgendosi nuovamente alla Corte di Giustizia che con la sentenza, n. 561/07 dell’11 giugno 2009 condannava l’Italia proprio perché non applicava l’art. 2112 c.c. ai casi di crisi più lieve. Ma questa volta la sentenza era direttamente contro il nostro paese e la inottemperanza avrebbe portato a sanzioni pesanti e quindi finalmente con la legge 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare attuazione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee”, si introduceva un comma 4-bis al predetto articolo 47 della L. 428/90: la distinzione tra i casi di bankruptcy, e cioè di morte dell’azienda, in cui non si applica l’art. 2112 c.c., (quali il fallimento, l’omologazione di concordato preventivo con cessione dei beni, o anche l’amministrazione straordinaria senza continuazione dell’attività). E precisando come invece per tutte le altre crisi più lievi, anche e soprattutto per “l’amministrazione straordinaria …. in caso di continuazione … dell’attività … l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione”, aggiungendosi però poi: “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo sindacale”. Frasetta apparentemente innocua dato che —come detto— l’art. 5 della Direttiva 23 del 2001 prevedeva proprio che era possibile con accordo sindacale operare (testualmente) “modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali”. E però c’era un aspetto della sindrome italiana che avevamo sottovalutato, e cioè il gusto (oltre che per i decreti legge ad Alitaliam emessi a un mese dalla cessione) anche per lo sfottò, per il gioco di parole irridente insomma. Ed allora in occasione della seconda cessione da Cai ad Etihad, succedeva che compratore ed alienante facevano finta che con rinvio fatto dalla legge all'”accordo sindacale” con cui si dovevano applicare l’art.2112 e la Direttiva Europea, si poteva in realtà fare tutto, anche disapplicare l’art. 2112 e la Direttiva europea. E con accordo sindacale redigevano una lista di coloro che proseguivano e scartavano gli altri che venivano licenziati, come nella prima cessione. Ma questa volta non occorreva neanche andare a Bruxelles, era sufficiente andare a piazza Cavour, incaricandosi la Cassazione di precisare con molte sentenze del 2020 che “in caso di trasferimento che riguardi aziende … per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività … l'accordo sindacale … può prevedere deroghe all'art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”.

Finalmente dopo 43 anni si allineavano tutti i pianeti: legislazione comunitaria, giurisprudenza comunitaria, legislazione nazionale, giurisprudenza nazionale! Tutti d’accordo a dire che quando c’è una società in amministrazione straordinaria con continuazione si applica l’art. 2112 per quanto attiene al diritto di tutto il personale di proseguire il rapporto. E quindi, ingenuamente, pensavamo che nella terza cessione Alitalia almeno questo problema, dopo due direttive, due sentenze di condanna della Corte di Giustizia (e svariate altre interpretative), una novella di adeguamento alla legislazione comunitaria e alcune decine di pronunce della Cassazione, era smarcato. Ma avevamo nuovamente sottovalutato la sindrome italiana e i nostalgici della disdetta del 1942. E infatti, nel verbale di accordo non firmato da tutte le organizzazioni sindacali, alla lettera B si “esclude l’applicazione dell’art. 2112 c.c.”. Ancora? Sì, ancora. E come è possibile? Lo è grazie al gusto tutto italiano per Decreti legge ad Alitaliam ad un mese dalla cessione e per i giochi di parole irridenti. Ed ecco infatti che nel corso della trattativa con i sindacati, ad un mese dall’avvio dell’attività di Ita, giungeva puntuale il Decreto legge, in particolare il cd. Decreto infrastrutture del 2 settembre 2021, che all’art. 7 procede con il solito gioco di parole e cioè dice che quello che Ita comprerà e Alitalia venderà non si chiama più “azienda” ma si chiama da ora in poi “singoli beni” ancorché organizzati tra loro e acquisiti dallo stesso venditore nello stesso momento. E così è possibile il miracolo: fino al Decreto ciò che veniva venduto era un’azienda e si doveva applicare l’art.2112 c.c., dopo il 2 settembre ciò che viene venduto (che è ovviamente sempre lo stesso compendio) si chiama pluralità di “singoli beni” e così si può disapplicare ancora una volta il diritto alla prosecuzione del rapporto. C’è anche una sola possibilità che questo sia conforme al diritto nazionale e comunitario? La risposta viene da sola, la Corte di Giustizia ha già chiarito la distinzione tra singoli beni e azienda proprio nel trasporto aereo con la Sentenza Ferreira da Silva del 9 settembre 2015 (in Causa C-160/14). In quel caso c’era  “un’impresa attiva nel mercato dei voli charter” che è stata “liquidata” e un’altra compagnia aerea (e cioè la portoghese Tap) che ha provveduto a “riassume(re) i contratti di locazione di aerei e i contratti di voli charter in vigore, svolge(re) l’attività precedentemente svolta dalla società liquidata, riassume(re) alcuni dipendenti fino a quel momento operanti per tale società e riprende(re) piccole apparecchiature di detta società”.

Ebbene la CGE ha detto che non sono singoli beni ma è un’azienda, in quanto ciò che conta non è “il mantenimento … della struttura organizzativa specifica imposta (precedentemente) … ai diversi fattori di produzione trasferiti, bensì del nesso funzionale di interdipendenza e complementarità fra tali fattori a costituire l’elemento rilevante per determinare la conservazione dell’identità dell’entità trasferita”. Insomma in quel caso non è stato direttamente acquistato neppure un aereo (ma solo i contratti di leasing), non sono passati gli slot, non è passato il brand, ed il tutto è stato integrato in una compagnia già esistete ed assai più grande senza la quale il servizio non sarebbe stato reso; cionnondimeno, la Corte di Giustizia Europea ha rinvenuto la “continuità”.

In questo contesto la prima vera discontinuità che si chiedeva al Governo ed ai vertici di Ita, e che ad oggi è stata drammaticamente fallita, era di farla finita con la propensione italiana al trucchetto, all’elusione, alle leggi ad personam, alle scorciatoie, alla cultura dell’oggi facciamo così poi si vedrà tanto sarà qualcun altro a gestire il fallimento, e con lo scaricamento sulla magistratura di tutto il peso del rispetto delle normative nazionali e comunitarie. Anche se non si vuole dire (per motivi cabalistici) il numero 2112 è possibile attuare nei fatti l’art. 5 della direttiva europea 2001/23 con un buon accordo sindacale che preveda una ragionevole tempistica di assorbimento scaglionato del personale che nell’attesa del passaggio dovrà godere di adeguati ammortizzatori, e che preveda condizioni economiche e normative che consentano ad Ita un avvio più lieve per poi tornare progressivamente a regime in un tempo ragionevole. Questo consentirebbe una rinnovata alleanza tra lavoratori, cittadini e la loro ritrovata compagnia aerea nazionale, garantirebbe un avvio efficiente e con basso costo del lavoro, consentirebbe di evitare il disastro sociale e la disperazione di massa, blinderebbe giuridicamente l’avvio evitando migliaia di cause, e segnerebbe un possibile nuovo inizio di cui questo paese ha disperatamente bisogno.

 

25.                     DELOCALIZZAZIONI

 

Delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione. Ciò è tanto meno accettabile se avviene da parte di un’impresa che abbia fruito di interventi pubblici finalizzati alla ristrutturazione o riorganizzazione dell’impresa o al mantenimento dei livelli occupazionali Lo Stato, in adempimento al suo obbligo di garantire l’uguaglianza sostanziale dei lavoratori e delle lavoratrici e proteggerne la dignità, ha il mandato costituzionale di intervenire per arginare tentativi di abuso della libertà economica privata (art. 41, Cost.).

Alla luce di questo, i Giuristi Democratici hanno contestato i licenziamenti annunciati da GKN, i quali si pongono già oggi fuori dall’ordinamento e in contrasto con l’ordine costituzionale e con la nozione di lavoro e di iniziativa economica delineati dalla Costituzione.Tale palese violazione dei principi dell’ordinamento, impone che vengano approntati appositi strumenti normativi per rendere effettiva la tutela dei diritti in gioco. Per questo motivo è necessaria una normativa che contrasti lo smantellamento del tessuto produttivo, assicuri la continuità occupazionale e sanzioni compiutamente i comportamenti illeciti delle imprese, in particolare di quelle che hanno fruito di agevolazioni economiche pubbliche. Tale normativa deve essere efficace e non limitarsi ad una mera dichiarazione di intenti. Per questo motivo riteniamo insufficienti e non condivisibili le bozze di decreto governativo che sono state rese pubbliche: esse non contrastano con efficacia i fenomeni di delocalizzazione, sono prive di apparato sanzionatorio, non garantiscono i posti di lavoro e la continuità produttiva di aziende sane, non coinvolgono i lavoratori e le lavoratrici e le loro rappresentanze sindacali. Riteniamo che una norma che sia finalizzata a contrastare lo smantellamento del tessuto produttivo e a garantire il mantenimento dei livelli occupazionali non possa prescindere dai seguenti, irrinunciabili, principi.

  1. A fronte di condizioni oggettive e controllabili l’autorità pubblica deve essere legittimata a non autorizzare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.
  2. L’impresa che intenda chiudere un sito produttivo deve informare preventivamente l’autorità pubblica e le rappresentanze dei lavoratori presenti in azienda e nelle eventuali aziende dell’indotto, nonché le rispettive organizzazioni sindacali e quelle più rappresentative di settore.
  3. L’informazione deve permettere un controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, al fine di valutare la possibilità di una soluzione alternativa alla chiusura.
  4. La soluzione alternativa viene definita in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate.
  5. Il Piano viene approvato dall’autorità pubblica, con il parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori coinvolti, espressa attraverso le proprie rappresentanze. L’autorità pubblica garantisce e controlla il rispetto del Piano da parte dell’impresa.
  6. Nessuna procedura di licenziamento può essere avviata prima dell’attuazione del Piano.
  7. L’eventuale cessione dell’azienda deve prevedere un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali. In tutte le ipotesi di cessione deve essere garantita la continuità produttiva dell’azienda, la piena occupazione di lavoratrici e lavoratori e il mantenimento dei trattamenti economico-normativi. Nelle ipotesi in cui le cessioni non siano a favore dello Stato o della cooperativa deve essere previsto un controllo pubblico sulla solvibilità dei cessionari.
  8. Il mancato rispetto da parte dell’azienda delle procedure sopra descritte comporta l’illegittimità dei licenziamenti ed integra un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970

 

Riteniamo che una normativa fondata su questi otto punti e sull’individuazione di procedure oggettive costituisca l’unico modo per dare attuazione ai principi costituzionali e non contrasti con l’ordinamento europeo. Come espressamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia (C-201/2015 del 21.12.2016) infatti la “circostanza che uno Stato membro preveda, nella sua legislazione nazionale, che i piani di licenziamento collettivo debbano, prima di qualsiasi attuazione, essere notificati ad un’autorità nazionale, la quale è dotata di poteri di controllo che le consentono, in determinate circostanze, di opporsi ad un piano siffatto per motivi attinenti alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’articolo 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE

Riteniamo altresì che essa costituisca un primo passo per la ricostruzione di un sistema di garanzie e di diritti che restituisca centralità al lavoro e dignità alle lavoratrici e ai lavoratori.

 

26.                     PROCESSO DEL LAVORO SPESE DI GIUSTIZIA

 

Un tema che vale senz’altro la pena di affrontare è quello delle spese di giustizia nel processo del lavoro, per stimolare una riflessione della magistratura sull’argomento.

Sin dal 2009 è stato reintrodotto l’obbligo della condanna alle spese per il soccombente senza eccezioni, con l’obiettivo manifesto di deflazionare il contenzioso. Il legislatore del 2014 ha condizionato la compensazione delle spese alla sussistenza di due dati netti: la assoluta novità della questione trattata; la novità giurisprudenziale su una questione dirimente .

La sentenza della Consulta n. 77/2018 che ha reintrodotto la possibilità di compensare le spese per gravi ed eccezionali motivi non ha comportato alcun mutamento di rotta tra i giudici del lavoro che continuano, a condannare puntualmente i lavoratori soccombenti a rimborsare le spese ai datori di lavoro.

L’effetto empirico indiscutibile di tutto ciò è che dal 2014 non c’è una causa (tranne rarissime eccezioni) in cui il lavoratore soccombente non  viene condannato alle spese.

In questo contesto, è però evidente il differente impatto delle spese di soccombenza per il datore di lavoro, che può scaricarne il costo, e che 99% è assicurato per le vertenze legali, rispetto ad un lavoratore per il quale le spese di giustizia sono una perdita secca di un budget necessario alla sopravvivenza.

Un cambio di rotta non può che passare, in assenza di modifiche legislative, da una profonda riflessione ed una presa di coscienza dei magistrati in ordine alla effettività dell’accesso alla tutela giurisdizionale, ed alle conseguenze dei loro dispositivi, sempre più frequentemente sfavorevoli ai lavoratori, salvo cause temerarie, ritorsive, vendicative.

Il rischio di lite è peraltro gestibile dal datore ricorrendo ad una assicurazione legale, che rientra nella gestione del rischio di impresa, mentre sono insostenibili per un lavoratore che venga condannato a pagare l’equivalente di 10 mesi di retribuzione che gli serve per sopravvivere, tanto più se si tratta di causa di licenziamento.

I Giuristi Democratici sono quindi contrari ad abolire la possibilità di compensare completamente o parzialmente le spese del giudizio.

La proposta è di inserire un ulteriore comma all’art 152 delle disposizioni di attuazione al cpc del seguente tenore:

Nei giudizi promossi dal lavoratore ai sensi degli articoli 409 e ss del cpc,, ove questi goda delle condizioni di esenzione dal pagamento del contributo unificato, nel caso di sua soccombenza le spese sono di norma compensate fatti salvi i casi di cui all’art 96 comma 1 cpc.

Nel caso in cui il Giudice per motivate ragioni ritenga di non potersi discostare dal principio di soccombenza, sarà tenuto ad attenersi ai valori minimi di cui al dm 55/2014 e successive modificazioni

 

27.                     PRECARIATO NEL PUBBLICO IMPIEGO

a) Premessa

Il precariato nelle pubbliche amministrazioni è frutto di molteplici forme di lavoro flessibile i cui limiti e regole sono quasi sempre superati e sanati da successive procedure di stabilizzazione, in presenza di determinati requisiti.

  Le procedure di reclutamento del personale precario e le aspettative di stabilizzazione costituiscono rilevanti bacini clientelari e blocco di concorsi pubblici per l’accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato ex art. 97 Cost..

Sarebbero, pertanto, auspicabili riforme legislative volte ad espungere dall’ordinamento ogni tipologia contrattuale che non garantisca parità di accesso al pubblico impiego, in ossequio al principio di imparzialità della P.A. e diritto alla stabilità del posto di lavoro.

 Nel tempo si sono resi necessari interventi legislativi, anche su impulso della Magistratura contabile, per rendere quantomeno trasparenti e imparziali i criteri di selezione del personale precario nelle pubbliche amministrazioni (come l’obbligo di procedere a selezioni pubbliche anche per l’assunzione delle società partecipate e in house).

 

b)I contratti ex art 110 tuel

Permane nel Testo Unico Enti Locali (D. Lgs. 267/2000) una forma di contratto ex art. 110 con il quale gli enti locali possono conferire incarichi di responsabili dei servizi e uffici, qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione.

Secondo l’art. 110 D. Lgs. 267/2000 e succ. mod. e int. “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato. Per i posti di qualifica dirigenziale, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi definisce la quota degli stessi attribuibile mediante contratti a tempo determinato, (…). Fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire, gli incarichi a contratto di cui al presente comma sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico.

  1. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. (…). Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. (…)
  2. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. (…).
  3. (…). 5. (…).
  4. Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità.

L’incaricato di funzioni di alta specializzazione è stato configurato come una sorta di figura intermedia tra le posizioni organizzative e i dirigenti, ossia come una sorta di super posizione o sub dirigente. Molte amministrazioni locali hanno applicato ed applicano l’articolo 110 del Tuel non come norma assolutamente eccezionale, posta a rimediare in modo transeunte a mancanze di professionalità da acquisire, poi, stabilmente nel rispetto dell’articolo 97 della Costituzione, ma, al contrario per aggirare l’obbligo di concorso, ed assumere per chiamata diretta, intuitu personae, dirigenti a loro graditi.

In particolare, il ricorso al contratto ex art. 110 TUEL è spesso utilizzato, anche nei piccoli enti, laddove si manifesti un contrasto tra l’Amministrazione ed il dipendente, titolare di posizione organizzativa (quasi sempre dell’Area Tecnica), per cui, come una sorta di spoil system il dipendente viene sostituito da un dirigente esterno di esclusiva fiducia del Sindaco.

Detta sostituzione costituisce spesso l’inizio di percorsi mobbizzanti nei confronti di dipendenti, ai quali viene prima revocato l’incarico di posizione organizzativa e poi gradualmente le mansioni della propria qualifica ecc.  

La previsione, introdotta nel 2014, di un limite del 30% non ha certamente scalfito il modo di guardare all’articolo 110, mentre la previsione, sempre inserita nel 2014, di far precedere gli incarichi da una “selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico”, non trattandosi di vera e propria procedura concorsuale, si è sostanzialmente tradotta in acquisizione di curriculum in seguito a pubblicazione di avvisi per pochi giorni, con scelta della persona gradita dal Sindaco- (Le SS.UU. della Corte di Cassazione sent. 04/09/2018, n. 21600  hanno confermato che La controversia in materia di selezione per il conferimento di incarichi di natura direttiva ai sensi dell'art. 110 Tuel è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, difettando tale procedura dei requisiti del concorso e connotandosi, per contro, per il carattere fiduciario della scelta da parte del sindaco, nell'ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei sulla base dei requisiti di professionalità.)

Peraltro, in considerazione della natura prevalentemente “fiduciaria” degli incarichi che possono avere anche la durata del mandato sindacale, il legislatore ha escluso tali contratti dai percorsi di stabilizzazione, determinandosi un ulteriore genere di precariato.

E’ necessario, pertanto, nell’ambito di progetti di riforme contro ogni lavoro precario, ivi compreso quello maturato nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, il cui abuso non è assistito dalla garanzia della conversione del rapporto a tempo indeterminato, intervenire a livello normativo abrogando l’art. 110 TUEL, riportandolo nell’alveo della normativa dei contratti a tempo determinato preceduto da concorso pubblico.

 

c) Problemi di coordinamento del quadro normativo dopo il Decreto Dignità

Il testo del decreto-legge recante disposizioni urgenti <<per la dignità dei lavoratori e delle imprese>> prevede all’art. 1, comma 3, che la disciplina normativa di cui agli articoli 1, 2 e 3 non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali <<continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore>> del decreto “Dignità”. La disposizione introdotta con lo scopo di chiarire l’estensione del campo di applicazione della riforma non ha risolto i numerosi dubbi interpretativi determinati dalla stratificazione degli interventi legislativi con riguardo alla regolazione del rapporto di lavoro atipico/precario alle dipendenze della P.A..

 

d) Sulla causalità dei rapporti/contratti

Vi è un problema di coordinamento ed armonizzazione tra le disposizioni del Jobs Act, il Decreto Dignità e l’art. 36 TUPI.

Il Decreto Dignità ha inteso porre limitazioni, anche se molto parziali, nel settore privato al ricorso al contratto a termine (che resta atipico rispetto alla forma comune del contratto di lavoro di cui alla disposizione – preambolo dell’art. 1 D. Lgs. 368/2001) reintroducendo l’obbligo di specificazione della causale per i contratti di durata superiore ai dodici mesi e nelle ipotesi di rinnovo e proroghe che superino detta durata.  Intervento modificativo della precedente disciplina che, illogicamente, è escluso per gli stessi contratti atipici con le pubbliche amministrazioni.

 Non si comprende la ragione di tale scelta del Legislatore che, da un lato, pare intenda ridurre l’abusivo utilizzo di prestatori precari e, dall’altro, consente alle P.A. di farvi ancora incontrollato ricorso.  Opportuno, quindi, un intervento legislativo abrogativo del citato comma 3 art. 1 D.L. 87/2018 e introduttivo di una disposizione modificativa della disciplina dei contratti atipici / precari con le pubbliche amministrazioni, introducendo la causalità/ragioni giustificative del ricorso agli stessi contratti così da armonizzare il nuovo impianto normativo con i limiti e le condizioni/modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35 TUPI.

 

e) Sulla decadenza

Problema di coordinamento/armonizzazione vi è anche con riferimento alla disciplina della decadenza per le impugnazioni/contestazione dei contratti atipici nella pubblica amministrazione. Infatti, sempre il citato comma 3 dell’art. 1 D.L. 87/2018 nell’escludere l’applicazione delle disposizioni modificate ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni include anche quella apportata all’art. 28, comma 1 D. Lgs. 81/2015 (termine decadenziale da 120 giorni a 180 giorni) così ingenerando nell’interprete la possibile convinzione che anche i contratti con le PP.AA. soggiacciono a termine decadenziale nonostante la preclusione legislativa alla “conversione2 dei contratti di cui all’art. 97 Costituzione e all’art. 36 TUPI.

L’introduzione del termine decadenziale da parte del legislatore del 2010 rispondeva all’esigenza (più dal lato del datore/imprenditore) di ottenere in tempi ragionevoli la definizione di un contenzioso incidente (con l’eventuale conversione del rapporto/contratto a tempo indeterminato) sul proprio organico aziendale.

Alla luce di quanto sopra, una lettura finalistica delle norme in esame porterebbe ad escludere l’assoggettabilità al termine decadenziale dell’impugnazione del contratto atipico/precario stipulato con le PP. AA.. Di contro, una interpretazione letterale della succitata disposizione (comma 3 art. 1 D.L. “Dignità”) potrebbe condurre all’applicazione dei termini decadenziali anche ai contratti atipici nel settore pubblico.

Difficoltà interpretative evidenti, dunque, tra l’altro manifestatesi in giurisprudenza con divergenti orientamenti. Solo da ultimo, la Suprema Corte (con sent. n. 5740/2020) ha precisato che il risarcimento del danno in tema di pubblico impiego ha natura contrattuale ed in quanto tale non è assoggettabile a termini di decadenza soggiacendo all’ordinario termine prescrizionale. Anche sul punto sarebbe auspicabile un intervento normativo con la chiara esclusione di termini decadenziali in tema di impugnazione di contratti atipici / precari stipulati con le PP.AA.

 

28.                     IL RAPPORTO DI LAVORO NELLE COOPERATIVE

 

Ci sono alcuni datori di lavoro che hanno una veste formale “particolare” adottata con l’interesse primario di accedere a facilitazioni di tipo fiscale e tributario. Nascono da tradizioni sociali, storiche e geografiche del nostro Paese e hanno conservato nel tempo regimi peculiari e privilegiati.

Pensiamo alle Associazioni Sportive Dilettantistiche, da ultimo alle Società Sportive Dilettantistiche, a forme svariate di Associazioni anche di volontariato, al mondo delle Cooperative, dei loro Consorzi e in particolare le Cooperative di produzione lavoro.

Tutte forme astrattamente virtuose, fortemente volute e tutelate in Costituzione (non sempre realizzate),  tradite dalla voracità imprenditoriale.

Esimendoci da una analisi – di fatto e giuridica - sull’acritico favore legislativo ed economico a loro riservato, in questa sede preme evidenziare come, all’interno di queste forme di organizzazione economica, anche il rapporto di lavoro che si istaura con chiunque a qualunque titolo “si obbliga mediante retribuzione” e in diverse forme presta “il proprio lavoro intellettuale o manuale”, perde le originali e ormai residue forme di tutela, garantite al classico rapporto di lavoro di natura subordinata. Cooperative come forme, neanche tanto mascherate ma sicuramente impunite, di caporalato o come forme di intermediazione di manodopera scomposte dentro strutture di appalto e subappalto (il)lecito.

E’ necessario ripensare e individuare un nucleo indissolubile di diritti, garanzie e norme che garantiscano a chiunque lavori le medesime tutele. Invero l’esperienza anche professionale ci ha dimostrato come il sovrapporsi di normative non armoniose e l’incoerente applicazione giurisprudenziale, aggravino l’esercizio del diritto e dei diritti e pongano sempre il lavoratore in una posizione di sudditanza e fragilità giuridica come di sminuita tutela economica.

La legge 142/2001 aveva disegnato il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Cooperative distinto dal rapporto associativo che, in genere, si sommano e aveva tentato di valorizzare il ruolo del lavoratore. In realtà, il rapporto di lavoro rimane sempre assoggettato e condizionato a quello associativo come già indicava la circolare del Ministero del lavoro nr. 10/2004. Nella concretezza dei fatti e nell’evoluzione normativa (L. 30/2003) il lavoro alle dipendenze di una cooperativa è una delle forme più sottopagate di lavoro, quasi esclusiva di una manovalanza meno qualificata, priva di molti dei diritti riservati “agli altri lavoratori”. E’ un rapporto di lavoro più instabile perché risente del ricatto della condizione di socio e delle obbligazioni economiche nascenti dal rapporto associativo.

In genere il socio non partecipa all’attività associativa ma subisce le conseguenze delle scelte delle assemblee a cui di rado partecipa proprio per la mistificazione della vita sociale.

Si rende necessario, quindi, intervenire a livello normativo per ridimensionare il sistema di sfruttamento lavorativo che le Cooperative, anche sociali e di produzione e lavoro, hanno agevolato con una serie di correzioni volte ad assicurare:

1) Applicazione chiara e univoca dei regimi giuridici di socio e di lavoratore, eliminando l’interdipendenza ai fini dell’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro,

2) Solidarietà sicura tra committente e cooperativa per retribuzioni, contribuzioni, diritti del lavoratore;

3) Parità di trattamento retributivo e normativo tra lavoratori di cooperativa e lavoratori del committente;

4) Regole uniformi di sicurezza sul lavoro per tutti i soggetti che lavorano, in qualsiasi veste, in un medesimo ambiente di lavoro;

5) Possibile indagine di merito sulla genuinità delle esternalizzazioni e cessioni di rami d’azienda da parte dei lavoratori;

6) Sistemi di contenimento per il ribasso dei costi del lavoro

7) Forme di garanzia per gli accordi tombali con il lavoratore tra un cambio di appalto e l’altro.

8) Maggiore chiarezza sui CCNL applicabili

9) Rafforzamento dei diritti dei soci di controllo delle scelte dell’amministrazione sociale, anche su un piano processuale.

10) Possibilità rafforzate di controllo contabile e di nomina e/o variazione della compagine amministrativa in seno alle cooperative.

 

29.                     IL DIRITTO DI CITTADINANZA SOCIALE

DIRITTO AL LAVORO E REDDITO

 

a) Premessa

Il processo di trasformazione che è avvenuto negli ultimi trent’anni nel mondo del lavoro, a causa dell’introduzione delle nuove tecnologie, sembra produrre un preoccupante calo occupazionale.

Negli anni 'Novanta, Jeremy Rifkin affrontava il tema della terza rivoluzione industriale nel suo "La fine del lavoro"[89]. Da allora il lavoro ha continuato, progressivamente, a diminuire. L'introduzione delle nuove tecnologie ha radicalmente spazzato via una serie di lavori, ancora esistenti pochi anni fa.

Il processo è quello di desertificazione crescente, che interessa soprattutto i profili lavorativi meno qualificati.

Di recente, sul tema, sono state pubblicate, sul piano internazionale, talune ricerche di grande importanza.

Nel 2013 due ricercatori dell'Università di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne[90], hanno calcolato che il 47% dei posti di lavoro nel mercato americano rischiano di sparire nei prossimi vent'anni a causa dell'automazione. Secondo Mark Haefele[91] il dato va esteso a tutte le economie avanzate.

Secondo tesi più ottimistiche[92], nei paesi che investono maggiormente nella produzione tecnologica sarebbero ‘solo’ il 9% i lavoratori a rischio ‘sostituzione’.

E infatti, tali paesi generano posti di lavoro nel campo delle tecnologie informatiche, che, entro una misura ben determinata, sostituiscono i posti di lavoro perduti. In ogni caso, anche la tesi più ottimistica, restituisce uno scenario drammatico, soprattutto in paesi che già in partenza non godevano della piena occupazione.

Ad esempio, sino a pochi anni fa, tutti gli studi legali, anche quelli più piccoli, avevano un segretario che provvedeva a battere a macchina e a svolgere incombenze in tribunale. Oggi, con pc, email, Pec e processo telematico solo gli studi più grandi, di fatto, hanno il supporto di un segretario (e comunque ne hanno ridotto il numero rispetto a quindici anni fa). In Italia, quindi, il settore degli studi legali (e professionali in genere) ha espulso del lavoro non meno di 50.000 figure professionali, che non sono state rimpiazzate in nessun modo.

Si riduce drasticamente il lavoro nelle banche (soppiantato dall’home banking), nelle compagnie assicurative (le assicurazioni ormai sono pressoché tutte on line), nelle agenzie di viaggi, nei giornali, etc.

Il meccanismo prefigurato dagli economisti liberisti, nel contempo, mostra tutti i suoi limiti. Si riteneva che a un aumento della produttività, conseguisse un calo dei prezzi, e un conseguente aumento della produzione e vendita, che compensava la accresciuta produttività marginale. Non è stato così (o comunque è avvenuto in minima parte). Si pensava che si potesse agire sulla leva monetaria e del tasso di interesse; ma ciò non ha sortito i frutti sperati[93].

Occorre poi accennare a due fenomeni connessi: il calo delle ore lavorate, e l’aumento del part time[94] (spesso connesso a lavori non garantiti), e una sorta di esplosione del lavoro informale (si pensi ai ciclofattorini, anche detti rider, o a piattaforme come Uber)[95].

Per effetto di tutto questo, in Italia, il reddito medio delle famiglie (a prezzi costanti) nel 2016 era inferiore dell’11% rispetto al reddito medio del 2006[96]. Inoltre, è aumentata la quota di persone a rischio di povertà, ossia che dispongono di un reddito-equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano: si tratta del 23%[97].

Il tutto, in un quadro in cui il PIL italiano è in effetti, nel 2016, inferiore solo del 3% a quello del 2006[98].

Insomma, il reddito delle famiglie si abbatte e la povertà cresce notevolmente, anche se il PIL non è decresciuto in modo rilevante. Si è quindi verificato l’effetto prefigurato dall'economista francese Thomas Piketty ("Il capitalismo del XXI secolo"[99]): la ricchezza mondiale ed italiana si accumula sempre di più nelle fasce alte del reddito, schiacciando il ceto intermedio (in particolare quello a bassa qualificazione) e lasciando la fascia più povera della popolazione senza redditi e inesorabilmente senza lavoro[100]. Nel contempo si assiste alla diminuzione dei lavoratori permanenti, a vantaggio di forme lavorative sempre più precarie e volatili[101].

Per quanto attiene alle possibili contromisure, occorre in primo luogo confutare la tesi finora dominante. Quella per cui il sistema genererà nuove utilità tali da assorbire tutti i disoccupati, oppure che sia sufficiente agire sulla leva dei costi del lavoro.

In primo luogo occorre capire che oggi il costo del lavoro incide ben poco sugli utili. Google o Amazon non hanno alcun problema a pagare bene quei pochi lavoratori che impiegano, stanti gli enormi margini di utile. In un quadro in cui, per la grande parte dei beni, i costi del lavoro incidono in parte minima sui costi, la riduzione di un punto dei suddetti costi produce un effetto irrisorio[102].

Le analisi dei liberisti, che vantano una presunta modernità, sono ferme all’Ottocento.

Ma anche le analisi della scuola keynesiana mostrano i loro limiti. Per molti aspetti le analisi sono ferme a un tempo in cui i bisogni primari degli esseri umani erano virtualmente infiniti, insoddisfatti e l’ambiente sembrava senza limiti di sfruttamento.

Oggi si deve comprendere che la via d’uscita dalla crisi non può essere quella di un aumento indiscriminato della produzione di beni. Se la produttività del lavoro aumenta di dieci volte, per compensare i posti di lavoro sarebbe necessario aumentare (almeno) di dieci volte la produzione[103]. Ma ciò è impensabile per diverse ragioni. Il sistema non è in grado di assorbirli, l’ambiente naturale non lo sopporterebbe.

Ciò che va compreso è che il livello di servizi e prestiti bancari (da cui le banche traggono i loro utili) non dipende affatto dal costo dei servizi medesimi (bensì dal livello dell’economia, dal saggio di interesse etc.). Stesso dicasi per gli studi professionali: il numero di cause che patrocina un avvocato non dipende dalle tariffe (ma dall’indice di conflittualità giuridica, dalla chiarezza delle norme etc.), e lo stesso vale per i progetti che disegna un architetto (che sono funzione della necessità di costruire nuovi immobili).

Inoltre l’espulsione dei lavoratori casellanti autostradali, dovuta all’automazione, non solo non genera né una diminuzione dei prezzi, né un aumento dei viaggi autostradali, ma soprattutto —anche ove i viaggi stessi aumentassero— non genera in ogni caso un aumento di posti di lavoro, perché si arriva ad un punto di progresso tecnologico in cui anche l’aumento macroscopico di vendita del bene o del servizio non genera alcun posto di lavoro (in quel determinato comparto). Si arriva ad un punto di sviluppo tecnologico, in cui è la stessa tecnologia a far fronte a un aumento di produzione (ed, a monte, da un aumento della domanda aggregata). E dunque saranno sempre i caselli automatizzati, ad assorbire il maggiore traffico, e sarà sempre l’home banking a gestire le aumentate transazioni bancarie.

Possiamo definirla la trappola dell’automazione.

Solo in relazione a beni ad alta incidenza di manodopera (sempre meno), una diminuzione dei costi genera un corrispondente calo dei prezzi e un aumento della produzione sufficientemente compensativo in termini occupazionali. Se però la produzione è funzione della domanda (come dimostrato da Keynes), e la domanda di un medesimo bene non è infinita, ma giunge a saturazione, dall’aumento di produttività non può che derivarne una disoccupazione strutturale, come la recente storia si è incaricata di dimostrare.

Inoltre, anche le politiche di stampo keynesiano, di sostegno alla domanda, perdono parte della loro efficacia in un mondo globalizzato[104].

Occorre allora giungere a una conclusione.

Il liberismo funziona discretamente bene nella prima fase, di soddisfazione di alcuni bisogni materiali primari. Poi tende a iper soddisfare sempre i medesimi bisogni, consumando oltremisura l’ambiente. È un discorso che porterebbe lontano. Ciò che conta è che non si può moltiplicare per dieci la produzione di hamburger per assorbire l’impatto delle nuove tecnologie.

Quindi, l’iper-produzione di beni privati ad alto consumo ambientale deve essere sostituita dalla produzione di beni sociali compensativi.

 

b) Il nuovo patto sociale

 

Nei grandi momenti di crisi le risposte sono solo due, o accettare il declino civile, o rilanciare e provare ad evolversi. Il dramma che la storia insegna è proprio questo: non c’è una terza via, chi non si evolve, declina irrimediabilmente.

La nostra società ha drammaticamente cessato di credere nelle proprie possibilità di evoluzione.  Curiosamente, questo avviene proprio quando la tecnologia ci permetterebbe di fare un notevole salto.

Occorre dunque uno sforzo collettivo, che impegni tutte e tutti, nessuno escluso. Ciascuno deve conferire in misura maggiore alla collettività. L’incremento dei beni comuni, tornerà a giovamento di tutti.

L’obiettivo è un più alto punto di convergenza, un più elevato livello di civiltà ed un nuovo patto sociale.

Il principio guida è collettività contro egoismo sociale.

 

c) Il diritto al lavoro

Art. 4 Cost.: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

È giunto il momento di dare una lettura diversa di questo fondamentale principio costituzionale.

L’interpretazione tradizionale afferma che lo Stato deve limitarsi a favorire condizioni economiche e giuridiche generali che possano poi spontaneamente creare posti di lavoro.

Sotto questo profilo, la prima conclusione che deve trarsi, dall’analisi condotta in precedenza, è che è evidente che l’orario di lavoro va limitato, per consentire la generazione di nuovi posti di lavoro.

Questa proposta, tuttavia, vuole introdurre un elemento ulteriore, perché si basa sull’assunto per cui, se il mercato spontaneamente non crea sufficienti posti di lavoro, deve essere lo Stato ad intervenire in modo diretto, per combattere la disoccupazione strutturale.

Interessanti anche le tesi del BIN, Basic Income Network Italia, che sostiene la corresponsione a tutti di un reddito base, tale da liberare definitivamente le persone dallo stato di bisogno.

La presente proposta vuole rappresentare una sintesi e un passo in avanti. Oltre al diritto al reddito va, infatti, riconosciuto un diritto al lavoro.

Sotto il profilo del diritto, il lavoro è un modo fondamentale di esplicazione della personalità. Il lavoro è il contributo dell'individuo alla costruzione della società in cui vive. È una fondamentale modalità relazionale. Nel lavoro l'individuo cresce, si forma, si organizza. Hegel afferma che «L'uomo è l'essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso».

 

d) La proposta

Si tratta di una proposta radicale, con forte valenza simbolica: lavoro per tutte e per tutti[105].

Non come promessa generica, o come mero diritto politico, ma come diritto soggettivo. E dunque del diritto al lavoro come diritto di credito, nei confronti dello Stato, azionabile in giudizio.   

Chiunque deve potersi presentare e dire: «Io domani voglio lavorare». E lo Stato, per legge, deve dare un lavoro.

Come detto, l'articolo 4 della Costituzione afferma: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».

Occorre poi superare la contrapposizione tra lavoro e reddito.

Il reddito è temporaneo, nel tempo necessario per la riqualificazione e la ricerca del nuovo lavoro. Non solo. Si può senz’altro immaginare, nel quadro di un più elevato livello di civiltà, che alla persona sia conferito un reddito anche solo per godere di una pausa, per riposo, per un lungo viaggio, per occuparsi di qualcuno o per scrivere un romanzo o una sinfonia.  L’aumento di produttività, dovuto alla tecnologia, oggi ci permette tutto questo, e dobbiamo credere e volere fortemente una società che garantisca a tutti una vita più umana. 

Tuttavia il reddito resta una soluzione di passaggio, ma non appare una risposta al cambiamento epocale che abbiamo vissuto.

Il centro della proposta è il diritto al lavoro.

Occorre quindi superare la posizione tradizionale, che non vede nel diritto al lavoro attribuito dalla Costituzione un diritto “perfetto”, ossia, uno di quelli azionabili in sede giudiziaria. Secondo la lettura data finora, il diritto al lavoro, come gli altri diritti sociali è “azionabile in sede politica attraverso il processo democratico". Insomma, il cittadino ha solo la via elettorale per ottenere la speranza di un posto di lavoro. La responsabilità di un sistema pubblico che, alla prova dei fatti, non risolve il problema della disoccupazione, resta sempre solo politica.

A fronte del cambiamento epocale che stiamo vivendo, quella canonica è una risposta insufficiente, e va cambiato il paradigma.

Il lavoro è (diventa) un diritto soggettivo pieno - perfetto- azionabile in ogni sede. Debitore è lo Stato, creditore chi non lavora. 

Fondamento giuridico, peraltro, rinvenibile nella stessa Costituzione, non solo nel primo comma dell'art.4, ma soprattutto nel secondo, laddove è scritto 

"Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società"

Se come cittadino ho anche il dovere di svolgere una 'attività o funzione', vuol dire che lo Stato mi deve mettere in condizione di adempiere.   

Altro punto essenziale: il lavoro cessa di essere solo un mezzo per produrre altri beni sociali, ma è esso stesso bene sociale che deve essere prodotto dalla collettività.  

Si è constatato che il sistema capitalista, senza intervento pubblico, non produce spontaneamente sufficiente lavoro per tutte/i.

Lo Stato, quindi non si deve limitare ad usare lavoro come un mezzo di produzione, ma deve intraprendere iniziative volte, semplicemente, a crearlo. E’ questo il cambio di prospettiva. 

Anche il lavoro deve essere un servizio pubblico.  Garantire ai cittadini il benessere attraverso la possibilità di esplicare le loro potenzialità attraverso attività di contribuzione al bene pubblico.

Come conseguenza di questo processo lo Stato otterrà anche altri beni pubblici come effetto del lavoro È il cuore della proposta.

Il lavoro di cittadinanza è un lavoro di (almeno) 5/6 ore al giorno, pagato con una somma tale da permettere non solo la mera sopravvivenza, ma un relativo agio (e con importi, comunque, non inferiori a quelli da CCNL).

Nel momento in cui il lavoratore fa richiesta, sceglie il proprio percorso di lavoro, sulla base di aspirazioni, competenze e necessità. Le competenze possono essere acquisite anche nel percorso formativo che egli stesso sceglie. Questo significa che occorrerà tenere conto delle inclinazioni di ciascuno.

Facciamo degli esempi concreti per comprendere meglio. Il violinista suonerà nella stanza del museo, gli attori formeranno una compagnia teatrale che girerà per le scuole per far conoscere la tragedia greca e latina. Altri terranno aperte le scuole dopo l’ora di pranzo, permettendo agli studenti di fermarsi a studiare e ad altri lavoratori di dare delle ripetizioni.

Il nodo essenziale deve, però, essere: le prestazioni di lavoro non devono sostituire lavori o servizi esistenti, ma creare una nuova utilità sociale, che prima non esisteva. Un’utilità che andrà a beneficio dei cittadini, ma che favorirà anche il sistema produttivo. In modo partecipato e, per quanto possibile, autogestito, s‘individuano bisogni sociali ed ambientali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative. Un esempio potrebbe essere quello di proporre di tenere aperto un bene culturale, o ambientale, fino a quel momento non fruibile.

Ma va dimenticata la ricerca speculativa, la produzione artistica, musicale e culturale in genere. 

A questo punto, il lavoratore chiamato potrà rimanere nella condizione quanto vuole, anche per tutta la vita, se trova un equilibrio. Lui restituisce alla società più di quello che riceve.

Sia in fase iniziale, sia in fase successiva, il singolo lavoratore o un gruppo di soggetti può presentare progetti, in cui si individuano bisogni sociali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative.

In sostanza, i singoli o i gruppi di lavoratori, potrebbero redigere delle proposte (o delle controproposte) di lavoro, sviluppando quello che oggi viene costruito come il nuovo mutualismo.

Ad esempio: un gruppo di lavoratori sviluppa un progetto di recupero e visite guidate al parco della Marcigliana, fino a quel momento abbandonato a se stesso. O un progetto di apertura giornaliera delle case romane di S. Paolo alla Regola, fino a quel momento rimaste chiuse. O un progetto per rappresentazioni teatrali nelle scuole, o per recitare poesie sulla spiaggia di Ostia nelle notti d'estate.

Nel progetto vanno indicati anche costi, tariffe ed utili per il pubblico (biglietto che si può richiedere).

L'attività di organizzazione dei lavori, di approvazione e controllo dei progetti è rimessa ad altri lavoratori di pubblica utilità. Questi stessi lavoratori potrebbero aiutare gli altri a sviluppare progetti di lavoro.

 

e) Il campo di lavoro

 

Si è detto come si debba trattare della valorizzazione di beni e servizi attualmente improduttivi o sotto-utilizzati.

L'obiettivo è quello di generare utilità in attesa di realizzazione e concretizzazione. I beni pubblici "improduttivi" sono, evidentemente, la prima risorsa da sfruttare.

Alcuni esempi.  In primo luogo tutte le occupazioni artistiche, di cui si è detto.  Ci sono moltissimi beni culturali in attesa di valorizzazione e che necessitano di manutenzione. Beni ambientali: parchi, riserve naturali, spesso rimangono chiuse perché possono essere fruite solo con visite guidate. Piano per la formazione ed istruzione, di supporto alle famiglie. Le famiglie sono chiamate sempre più al supporto dei figli che studiano.  Assistenza ad anziani e invalidi; servizi per l'infanzia. Si pensi a un pulmino che prelevi bambine e bambini da casa, conducendoli a scuola e/o viceversa: riduce il traffico e l'inquinamento, aiuta le famiglie. O il classico servizio di "autobus a piedi". Ancora, un servizio di baby sitting collettivo, serale (sempre nelle scuole). Oppure l’istruzione a domicilio ed un grande piano di alfabetizzazione informatica. Formazione nel settore informatico. Realizzazione di Pec, per tutti i cittadini (promessa, ma mai attuata dallo Stato). Valorizzazione dell'usato. Grande servizio nazionale di ritiro e recupero di beni non più utili:  piano per i trasporti alternativi, per le biciclette (vigilanza e riparazione) e per la diffusione di ulteriori mezzi di trasporto sostenibili. Es.: istituzione presso ogni fermata metro e ferroviaria di servizio di custodia (di bici private) ed affitto biciclette. Settore turistico: utile impiegare lavoratori nel settore dell'accoglienza turistica. Informazioni, indicazioni, vigilanza sulle eventuali truffe ai turisti. Settore agricolo e del biologico: alcuni lavoratori potrebbero essere impiegati nel settore. Settore delle energie rinnovabili. Un piano per la residenzialità alternativa. Assistenza aiuto all’inserimento, formazione  per gli immigrati.

 È l’intera gestione del sistema che può essere affidata agli stessi lavoratori di cittadinanza

I campi di intervento sono comunque moltissimi. Sarà poi lo stesso sistema a selezionare ed immaginare altri campi di intervento.

 

f) Il diritto europeo di cittadinanza sociale

La dimensione europea è ineludibile. Solo un insieme politico ampio può garantire la pace nel continente che ha provocato ben due guerre mondiali e può essere in grado di correggere efficacemente le storture e le contraddizioni di cui è responsabile la globalizzazione.

L’Europa oggi è sostanzialmente un incontro tra Stati. Gli Stati nazionali hanno svolto un ruolo storico fondamentale per secoli, oggi non basta più, di fronte ai processi di globalizzazione occorre dare vita a sedi internazionali di governo dei processi finanziari ed economici, altrimenti gli Stati sono destinati a subire i ricatti dei gruppi finanziari ed economici che finirebbero con il dettare le regole.

Senza un deciso passo avanti, proseguendo nella strada attuale, l’Europa è destinata ad implodere. Solo una risposta politica democratica e progressista può ridare un futuro unitario credibile all’Europa, contrastando la svolta a destra e per essere tale deve innovare in profondità istituzioni, regole e politiche dell’Unione.

Occorre quindi democratizzare il progetto europeo, costruendo un sistema istituzionale realmente rappresentativo, che le attuali regole non garantiscono, mettendo il parlamento in grado di esercitare il potere legislativo e un reale controllo politico, finora appannaggio degli stati nazionali.

L’Unione, deve essere trasformata pienamente in una democrazia parlamentare.  L’Europa non può essere solo il luogo dell’incontro tra Stati, ma sede del confronto tra culture e politiche per realizzare un primo grado di reale unificazione. Occorre lavorare da subito per costruire un nuovo campo d’azione istituzionale, politico e sociale, costruendo insieme agli altri europei democratici un’azione per spingere l’Unione Europea ad una profonda inversione delle politiche economiche sociali che non solo abbandoni definitivamente le politiche di austerità ma ponga le necessarie garanzie per uno sviluppo equilibrato di tutto il continente, che abbia occupazione e coesione sociale e accoglienza come pilastri fondamentali.

Anzitutto occorre lavorare per una cittadinanza sociale europea. Occorre andare oltre la carta di Lisbona e l’individuazione dei pur indispensabili diritti fondamentali riconosciuti a tutti i cittadini europei per arrivare a concrete scelte politiche che riconoscano e garantiscano ai singoli cittadini europei i diritti fondamentali (reddito, fisco, lavoro, istruzione, salute, casa, assistenza e previdenza pubbliche, etc.) di cui la stessa Unione deve essere direttamente responsabile in modo unitario.

Dunque il finanziamento del progetto reddito/lavoro di cittadinanza deve gravare direttamente (e non attraverso il corpo intermedio Stato) sul bilancio dell’Unione.

In generale deve affermarsi che i livelli della sanità, dell’istruzione, del sostegno al lavoro e per il lavoro debbono essere obiettivi e traguardi europei, comuni a tutti i paesi. Di conseguenza il bilancio comunitario deve affrontare direttamente alcuni capitoli di entrata e di spesa,  finora lasciati a livello nazionale, in un’ottica di bilancio consolidato a livello europeo.

Il lavoro non può più rimanere un fatto esclusivamente privato, di cui lo Stato si disinteressa, ma bensì un diritto oltre che un dovere del cittadino[106].

 

30.                     REDDITO DI CITTADINANZA E RIASSORBIMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE

 

a) Premessa

L’introduzione nel nostro ordinamento di un “reddito di cittadinanza”, in concreto destinato anzitutto, anche se non esclusivamente, a disoccupati e inoccupati apre una nuova e probabilmente insperata, o comunque non pienamente valutata, prospettiva di una lotta alla disoccupazione finalmente vittoriosa.

Invero, nella corrente opinione e considerazione, il reddito di cittadinanza costituisce essenzialmente una misura di redistribuzione del reddito con secondari, e per lo più solo sperati, effetti occupazionali laddove invece – ed è quanto cerchiamo di dimostrare con questa nota – consente di redistribuire insieme, e con la stessa intensità e certezza, reddito e occupazione, a patto di saper costruire nuove e positive correlazioni tra concetti ed istituti.

La redistribuzione dell’occupazione costituisce una via obbligata per rispondere in tempi brevi alla domanda: “cosa si può fare qui e subito per ridurre drasticamente la disoccupazione giovanile?” Si porrebbe così rimedio in tempi brevi, e non medio-lunghi o lunghissimi, al dramma sociale della mancanza di lavoro, continuativamente aggravata anche dal progresso tecnologico, senza peraltro negare in alcun modo la contemporanea, parallela necessità di investimenti e politiche economiche che comportino, in progresso di tempo, un aumento assoluto del fabbisogno di forza-lavoro.

La possibile sinergia tra reddito di cittadinanza ed incremento occupazionale sembra peraltro essere sfuggita, fino ad ora, sia ai detrattori che ai sostenitori e promotori dello stesso reddito di cittadinanza ed, invero, i “detrattori” li considerano addirittura concetti agli antipodi, vedendo nel reddito di cittadinanza un istituto essenzialmente assistenziale, di mero trasferimento di reddito verso strati della popolazione certamente poveri e disagiati, ma anche sospettati o indiziati di pigrizia, di tendenza al parassitismo sociale e addirittura di probabili comportamenti simulatori e truffaldini.

Questo ingiusto e pregiudiziale atteggiamento ha in qualche modo impressionato anche i proponenti e sostenitori del nuovo istituto che hanno assunto una posizione, per così dire, “difensiva”, condizionando la percezione del reddito di cittadinanza ad una lunga serie di requisiti ed anzitutto alla soggettiva disponibilità del disoccupato percettore ad accettare, a pena di perdita del beneficio, offerte di lavoro da parte degli uffici ed organismi pubblici operanti nel mercato del lavoro.

Ma il sistema pubblico di regolazione di questo mercato ha sempre dato pessima prova nel procurare ai disoccupati posti di lavoro con la conseguenza che, a parte le intenzioni, e le “grida” circa l’obbligo di accettare le eventuali offerte, resta altamente probabile che per mancanza in concreto di offerta non si vada al di là di una, comunque positiva, misura anti-povertà. Ed invece alla fine, a ben pensarci, con la stessa spesa pubblica si potrebbe ottenere molto ma molto di più, e cioè un lavoro vero per i disoccupati/inoccupati e inoltre parallela riduzione del “tempo di lavoro” con conseguente aumento del “tempo di vita”, per un numero di lavoratori già occupati quadruplo di quello dei disoccupati che verrebbero assunti. La via è essenzialmente quella dei contratti di solidarietà espansivi, che tra breve compiutamente illustreremo.

Occorre, a nostro avviso, adottare questo punto di vista: una volta introdotto nel nostro ordinamento il reddito di cittadinanza, con il conseguente stanziamento nel bilancio statale di una somma sicuramente ingente, il legislatore, senza accorgersene, o quasi, ha anche felicemente creato la provvista per finanziare, senza spese aggiuntive, un reale aumento del numero degli occupati.

Il punto è semplicissimo, addirittura lapalissiano, ma decisivo: ogni posto in più che venisse creato dalla volontaria riduzione di orario accettata da 4 lavoratori già in forza comporterebbe un reddito di cittadinanza in meno da pagare al disoccupato così assunto, il quale godrebbe non già di un sussidio ma di un lavoro vero e di un vero reddito da lavoro normalmente più alto del sussidio stesso.

Tutto il problema di politica sociale e legislativa si riduce, insomma, al riuscire a creare un nuovo posto di lavoro spendendo lo stesso importo che si spenderebbe per corrispondere il reddito di cittadinanza a quel soggetto se restasse disoccupato o inoccupato.

Onde evitare confusione, occorre anzitutto marcare la distanza tra la via che indichiamo della redistribuzione del lavoro e quella che il legislatore ha, invece, prospettato come relazione tra reddito di cittadinanza e crescita occupazionale: l’idea cioè di destinare la parte del reddito di cittadinanza, ipoteticamente in godimento ad un disoccupato, al datore di lavoro che lo assuma, così realizzando un aumento netto del monte ore lavorative della sua azienda.

Vedremo nel paragrafo seguente, spiegando in sintesi la formula (o ricetta) dell’operazione, come ciò sia perfettamente possibile.

 

b) Formule (o “ricette”) per l’occupazione a confronto. i contratti di solidarietà espansiva.

La via ora ricordata, attraverso cui il legislatore vorrebbe legare il reddito di cittadinanza alla crescita occupazionale, è quella di incentivare direttamente i datori di lavoro all’assunzione, promettendo loro l’importo mensile del reddito di cittadinanza per il tempo di residuo godimento da parte dell’ex-disoccupato ora neo-assunto. Tale via è certo apprezzabile, pur reiterando una tradizionale tipologia di incentivo occupazionale (“soldi pubblici a chi assume”), ma i suoi effetti non potranno che essere limitati. La ricordata misura, infatti, presuppone pur sempre che il datore di lavoro abbia bisogno di forza-lavoro “in più” ossia che sussista nell’azienda un fabbisogno occupazionale superiore rispetto al passato.

Invero, nessun datore di lavoro assume se non ha necessità di lavoro in più, ancorché il posto di lavoro sia in parte “pagato” da contributi pubblici.

La via che indichiamo è diversa, senza escludere quella ora ricordata, perché non presuppone un nuovo ulteriore fabbisogno di ore lavorative, in quanto misura di tipo redistributivo ed i nuovi posti di lavoro, per così dire, “si creano e si pagano da sé” utilizzando la stessa provvista di denaro pubblico stanziata per il reddito di cittadinanza.

L’incentivazione pubblica costituita dal reddito di cittadinanza, invero, va intelligentemente utilizzata in modo, per così dire, “indiretto” o “di sponda”: occorre destinare un importo equivalente a quello del reddito di cittadinanza - che quel disoccupato/inoccupato avrebbe percepito - a quattro lavoratori, già occupati, i quali volontariamente accettino di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giornate, così “aprendo uno spazio” per l’assunzione di quel disoccupato/inoccupato e guadagnando per sé un giorno libero in più alla settimana.

L’importo che sarebbe stato destinato all’erogazione di un singolo reddito di cittadinanza dovrebbe appunto compensare, invece, quei quattro lavoratori “riducenti orario” della ovvia perdita salariale (di 1/5) conseguente alla riduzione dell’orario lavorativo da 5 a 4 giorni settimanali.

Lo strumento negoziale da usare per questa operazione è il contratto di solidarietà espansiva, previsto oggi dall’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, che è un accordo sindacale aziendale nel quale tutta la vicenda può essere convenientemente negoziata e pattuita nei particolari e che è perfettamente invocabile in giudizio nel caso di inadempimenti.

Con il contratto di solidarietà, come è noto, si riduce l’orario di lavoro di un certo numero di dipendenti già in forza: in quelli cd. “difensivi” per fronteggiare crisi aziendali e temporanea mancanza di lavoro e in quelli “espansivi” (che ci interessano) per “creare spazio” all’assunzione di nuovi lavoratori. Tuttavia, la legge vigente (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) prevede compensazioni salariali ai lavoratori, i cui orari vengano ridotti solo con riguardo ai contratti di solidarietà “difensivi” e non a quelli “espansivi”. Senza un’adeguata compensazione salariale lo strumento da noi proposto non funzionerebbe, perché i lavoratori, pur desiderando certamente un giorno libero in più alla settimana e con tutta la simpatia per i disoccupati, non potrebbero permettersi una perdita salariale del 20% (1/5 dello stipendio).

Per converso, però, con una compensazione adeguata vicina al 100% o addirittura totale della perdita si avrebbe una vera e propria “corsa alla riduzione di orario”.

Ebbene, quella compensazione altamente adeguata può derivare proprio dalla finalizzazione al suo pagamento della risorsa finanziaria che sarebbe stata assorbita dal pagamento del reddito di cittadinanza, con la precisazione – che è meglio formulare fin d’ora – che l’attribuzione della risorsa economica ai lavoratori accettanti la riduzione di orario potrebbe avvenire, per motivi anzitutto di semplificazione burocratica, sotto forma di riduzione della trattenuta fiscale IRPEF in busta paga.

Si può, dunque delineare, in via di prima sintetica conclusione, una semplice ma originale formula: per non limitarsi ad alleviare la povertà del disoccupato/inoccupato, ma per garantirgli il lavoro e relativo reddito conviene “giocare di sponda” e destinare la stessa risorsa monetaria (€ 780,00 mensili) non a lui direttamente, bensì alla compensazione salariale di quattro neo-colleghi, i quali, riducendo la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni, creano praticamente ex novo, ed in modo certo, il posto di lavoro che serve.

Con vantaggio di tutti: dello (ex) disoccupato, dei lavoratori riducenti l’orario e dello stesso datore di lavoro, come più sotto si avrà agio di dimostrare.

 

c) Avvertenze preliminari alla analisi della proposta.

Abbiamo ritenuto opportuno, per semplicità ed efficacia di comunicazione, anticipare il nucleo essenziale della nostra proposta, ma nei paragrafi seguenti sarà opportuno o addirittura necessario scendere nei dettagli e nelle esemplificazioni, per meglio spiegarla e dimostrarne la pratica fattibilità.

Bisogna, però, formulare, in via ancora introduttiva, almeno le seguenti avvertenze:

1) quando si parla di destinare ai lavoratori che accettino di ridurre il loro orario settimanale, a titolo di compensazione, il beneficio monetario che sarebbe stato corrisposto al disoccupato come reddito di cittadinanza, ovviamente non si parla di rapporti o negozi giuridici tra soggetti individualmente considerati, ma solo di un confronto di contabilità generale tra diverse partite.

Si vuol dire che per lo Stato è lo stesso pagare al disoccupato Tizio € 780,00 mensili a titolo di reddito di cittadinanza, oppure praticare uno sconto fiscale di € 195,00 mensili a quattro lavoratori, Caio, Sempronio, Mevio e Saturnino, che, riducendo il loro orario settimanale, consentono l’assunzione di Tizio.

Per questo, comunque, non è affatto necessario che i cinque lavoratori si conoscano o siano entrati o entrino in contatto tra di loro.

2) L’unico atto giuridico concretamente necessario, secondo la nostra proposta, è la stipula a livello di singola azienda di un contratto di “solidarietà espansiva” (art. 41 D. Lgs. n. 148/2015) ovvero di un accordo sindacale con il quale viene pattuito, ad esempio, che l’Impresa assumerà cinque nuovi lavoratori, visto che 20 lavoratori già in forza hanno accettato di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giorni.

3) La proposta può applicarsi non solo alle imprese ma anche alle Pubbliche Amministrazioni, seppur alle condizioni e con le limitazioni che saranno illustrate.

4) Precedenti progetti, ispirati al meccanismo dei contratti di solidarietà espansiva - messi a punto da chi redige questa nota prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza, con l’utilizzo di diversi tipi di risorse economiche per ottenere una provvista da distribuire ai “riducenti orario” - restano in sé validi, ma ormai soprattutto come possibile strumento di completamento e arricchimento della provvista implicitamente creata con il decreto sul reddito di cittadinanza.

Se ne riparlerà, pertanto, nel paragrafo 6. di questa nota, onde formulare un progetto completo.

 

d) Dati e parametri quantitativi di maggior rilievo.

Si può, dunque, iniziare l’illustrazione della proposta rammentando alcuni dati e parametri quantitativi necessari per apprezzarne il significato e la portata.

Il primo dato di interesse è costituito dal numero degli occupati e dei disoccupati, visto che gli occupati costituiscono, per così dire, “la provvista” per l’operazione di riassorbimento dei disoccupati tramite la riduzione dell’orario di lavoro settimanale del personale già in forza.

I disoccupati “ufficiali”, cioè i soggetti che si registrano dichiarando la loro disponibilità all’assunzione al lavoro presso i competenti uffici amministrativi, ammontano a circa 2,5 milioni cui va, però, aggiunto un numero difficilmente precisabile di “inattivi”, ossia di persone che non cercano o non cercano più lavoro (essenzialmente per sfiducia), ma lo accetterebbero se ne avessero l’occasione, ed il loro numero può essere stimato, almeno come ipotesi di lavoro, in 1,5 milioni di soggetti e forse di più.

Molti di questi quattro milioni di soggetti, di cui il 30-33% costituito da giovani, versano, ovviamente, in condizioni di povertà e sarebbero, dunque, in grado di candidarsi alla percezione del reddito di cittadinanza.

Passando all’altro fulcro del problema, ossia al numero degli occupati, essi sono calcolati ufficialmente in circa 23 milioni, ma di essi 5 milioni sono lavoratori autonomi, e dei 18 milioni di lavoratori dipendenti solo 15 milioni sono “permanenti”, ossia assunti a tempo indeterminato e quindi immediatamente utilizzabili per i nostri scopi.

Pur con tutte queste limitazioni ed altre diverse, i parametri quantitativi restano confortanti, perché anche nell’ipotesi che la “provvista” degli occupati utilizzabili per la riduzione d’orario scenda, per varie ragioni, all’atto pratico, da 15 a 8-10 milioni di lavoratori e la settimana lavorativa possa (sempre volontariamente) essere ridotta da cinque a quattro giorni, i nuovi posti di lavoro risultanti ammonterebbero a non meno di 2-2,5 milioni, più che sufficienti per riassorbire tutta la disoccupazione giovanile, che costituisce l’obiettivo assolutamente privilegiato dell’operazione proposta.

Altro profilo quantitativo di centrale importanza riguarda la perdita salariale da compensare ai lavoratori accettanti la più volte ricordata riduzione dell’orario settimanale.

Detta perdita sarebbe, in teoria, di 1/5 del salario sia lordo che netto, visto che l’orario viene ridotto da 5 a 4 giornate, e possiamo assumere l’ipotesi di doverla applicare ad un salario medio-minimo, che stando ai principali CCNL, è di circa € 1.300,00 mensili netti, ovvero circa € 1.600,00 lordi, importi i quali, dedotto quel 1/5, si ridurrebbero quindi ad € 1.040,00 netti ed € 1.280,00 lordi.

Si parla, comprensibilmente, di importi previsti per le fasce centrali, operaie ed impiegatizie, degli inquadramenti in qualifiche che contemplano, però, anche qualifiche più basse e più alte con relativi importi che, tuttavia, ben raramente superano i € 2.000,00 mensili, ed interessano solo marginalmente, per le ragioni che si diranno, il nostro problema.

Assumendo, quindi, un importo medio di riferimento di € 1.300,00 netti, la perdita di potere di acquisto da ripianare o da compensare dopo la riduzione di orario sarebbe di € 260,00 netti mensili (1.300/5=260).

La questione diventa, allora, di appurare in qual misura una tale perdita possa e debba essere ripianata o compensata, perché il lavoratore si proponga per la riduzionedi orario o, comunque, la accetti e poi, ovviamente, con quali risorse e modalità realizzarla.

Anche a seguito dei risultati di uno specifico studio demoscopico (realizzato in Emilia Romagna), si può affermare che con una compensazione al 100% l’adesione sarebbe totale, ma che anche con un indennizzo pari ai 2/3 della perdita salariale la netta maggioranza degli occupati interpellati accetterebbe di “passare” alle quattro giornate lavorative settimanali: va precisato che i 2/3 della perdita teorica del 20% del salario significano una riduzione del salario complessivo del 7% a fronte, però, di un giorno libero in più alla settimana.

Vedremo, allora, più sotto in dettaglio come la misura proposta di destinare ai quattro “riducenti orario” l’importo del reddito di cittadinanza (€ 780,00 mensili) che sarebbe andato al disoccupato/inoccupato realizzerebbe già di per sé, una compensazione del 75% della perdita ossia, a fronte della conquista di un giorno libero, una riduzione salariale complessiva solo del 5% dell’intero salario. Con la precisazione, però, che restino possibili e vengano proposte (cfr. paragrafo § 6) misure aggiuntive che potrebbero azzerare quella perdita.

 

e) L’utilizzo “indiretto” del reddito di cittadinanza ai fini dell’incremento occupazionale.

Conviene, ora, entrare nel merito dell’operazione, in sé semplice ma richiedente un impegno assiduo delle forze sindacali e sociali, oltre che delle istituzioni: lo strumento operativo è costituito - come detto - dal contratto di solidarietà espansiva di cui all’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015, ossia da un contratto collettivo aziendale nel quale il datore di lavoro, da un lato, e le OOSS dall’altro pattuiscono un certo numero di nuove assunzioni in determinate qualifiche (ad es. 10 assunzioni) a fronte di un numero quadruplo di riduzioni di orario da 5 a 4 giornate settimanali (quindi, nell’esempio, 40 riduzioni) volontariamente accettate da altrettanti lavoratori già in forza.

La preparazione, azienda per azienda, dei contratti di solidarietà sarebbe, dunque, per le organizzazioni sindacali un impegno organizzativo e operativo notevole, ma anche di grande soddisfazione, trattandosi di realizzare, in un solo atto, due obiettivi sindacalmente importantissimi, quali nuove assunzioni, da un lato, ed un sostanziale aumento del tempo libero per i riducenti orario dall’altro. Si tratterebbe, allora:

  1. A) di censire, in primo luogo, i lavoratori già in forza all’azienda disponibili alla riduzione di una giornata della loro settimana lavorativa, a fronte della compensazione della perdita salariale, contestualmente risultante da fonti normative e dallo stesso contratto di solidarietà.
  2. B) di censire, per converso ed in secondo luogo, in numero pari a ¼ di quello dei precedenti soggetti, i possibili neo assunti i quali appunto devono essere soggetti disoccupati/inoccupati già titolari o sicuri destinatari di un reddito di cittadinanza.

É poi altamente raccomandabile, per intuibili ragioni di ordine sindacale, economico, sociale ed umano che si tratti di giovani assumibili con contratto di apprendistato, così da fornire anche all’impresa una quanto mai vantaggiosa prospettiva di formazione mirata e di ringiovanimento degli organici.

Tuttavia non si tratta di una condizione esclusiva - saranno invero le parti sociali del contratto di solidarietà a decidere in concreto della tipologia delle nuove assunzioni - neanche sotto il profilo finanziario, dal momento che l’importantissima “decontribuzione” previdenziale dei neo-assunti è prevista sia dalle leggi sull’apprendistato dei giovani, sia comunque dalla normativa sui contratti di solidarietà espansiva per i neo assunti di qualsiasi età che trovino lavoro mediante tale strumento.

  1. C) Di prevedere il coordinamento temporale, in termini di immediatezza o, comunque, di certezza tra le due operazioni di riduzione di orario e di assunzione dei disoccupati/inoccupati già convenientemente selezionati. D) Di prevedere anche eventuali misure aggiuntive (oltre alle fondamentali detrazioni di imposta di cui subito sotto si dirà) per portare possibilmente al 100% la compensazione della perdita retributiva teoricamente subita dai lavoratori riducenti orario: pensiamo, in particolare, a benefici di “welfare” aziendale e ad un contributo regionale di importo finanziario moderato ma di grande valore politico, perché le Regioni dovrebbero essere i soggetti istituzionali promotori, garanti ed anche firmatari dei suddetti contratti di solidarietà espansiva.

Va da sé che al momento della stipula dei contratti di solidarietà dovrebbe essere già vigente la previsione normativa contemplata dalla nostra proposta e che ne costituisce “il motore”, consentendo quel “gioco di sponda” tra reddito di cittadinanza e incentivo occupazionale che, della proposta, è, a sua volta, l’anima.

La previsione, cioè, in sé semplicissima, di una detrazione di imposta, da aggiungere a quelle già elencate all’art. 13 ss. TUIR (Testo Unico Imposta sui Redditi) di € 200,00 mensili (arrotondando da € 780,00 /4=€ 195,00) per quei lavoratori che abbiano accettato la riduzione dell’orario settimanale in ragione e nell’ambito di un contratto di solidarietà espansiva.

Non vi è per il lavoratore alcuna pratica burocratica da espletare, perché sarà il datore di lavoro, avvertendo ovviamente l’Agenzia delle Entrate, a ridimensionare di € 200,00 la trattenuta fiscale mensile in busta-paga.

In questo modo, il lavoratore “recupera” € 200,00 (arrotondamento di € 780,00/4= € 195,00) sui 260,00 che ha perso (sempre su un salario netto di € 1.300,00 mensili) perché il netto corrisposto in busta-paga risalirebbe da € 1.040,00 ad € 1.240,00, ossia solo € 60,00 in meno rispetto al salario (€ 1.300,00) precedente la riduzione di orario, con una perdita salariale complessiva soltanto del 4,6%.

È assolutamente probabile e ragionevole che la grande maggioranza dei lavoratori ben volentieri pagherebbe € 60,00 mensili per avere un giorno libero in più alla settimana, ma anche questo piccolo sacrificio potrebbe essere evitato al “riducente orario” grazie alle “misure aggiuntive” di incentivazione inseribili nel contratto aziendale di solidarietà espansiva di cui tra breve diremo.

Ma il cuore dell’operazione e della proposta consiste nella misura principale ora descritta, la quale evidenzia come con la introduzione del reddito di cittadinanza e dei relativi stanziamenti di bilancio sia virtualmente già pagata la diversa, ma gigantesca e salvifica, operazione di reperire, da subito, l’occupazione per centinaia di migliaia di giovani.

Quei giovani, infatti, non riceverebbero il reddito di cittadinanza cui hanno diritto, bensì qualcosa di meglio, ossia un posto di lavoro con relativo stipendio, poiché con la risorsa finanziaria destinata all’erogazione del reddito verrebbe creato ex novo lo stesso posto di lavoro, finanziando la volontaria riduzione d’orario di quattro dipendenti già in forza all’impresa.

Non era questo il vantaggioso risultato cui pensavano coloro che hanno voluto l’introduzione nel nostro ordinamento del reddito di cittadinanza, ma è ben noto che, storicamente, molte importanti scoperte ed invenzioni sono avvenute “per caso”, a cominciare – potremmo dire - nell’industria farmaceutica…. dalla penicillina e dal Viagra.

 

f) Misure aggiuntive di compensazione economica della riduzione di orario.

Quanto ora affermato non toglie che per garantire un pieno successo dell’operazione sia opportuno cercare di eliminare anche quel modesto differenziale di € 60,00 mensili calcolato sullo stipendio medio-minimo di riferimento di € 1.300,00 mensili e di estendere l’operazione complessiva anche ai percettori di uno stipendio netto superiore, ad esempio, fino a € 2.000,00 mensili netti. Sono questi lavoratori di alta qualifica che potrebbero essere interessati alla riduzione di orario la quale, però, sarebbe per loro alquanto costosa con conseguente effetto disincentivante: su uno stipendio netto di € 2.000,00 la riduzione stipendiale mensile sarebbe, infatti, di € 400,00 compensata solo per metà (€ 200,00) dalla ricordata detrazione di imposta.

Ovviamente, sopra gli € 2.000,00 di stipendio netto le cose peggiorerebbero ancora ma, a nostro avviso, per questi livelli superiori (impiegati di alto concetto e quadri) l’intera problematica non si porrebbe in concreto, trattandosi, per lo più, di soggetti “in carriera”, non interessati a maggior tempo libero.

Possono, allora, tornare utili per coinvolgere nella riduzione di orario settimanale anche i lavoratori con stipendio netto fino ad € 2.000,00 mensili, alcune misure che chiameremo ora “aggiuntive”, ma che prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza costituivano l’asse portante di una proposta sullo stesso oggetto della riduzione di orario con effetti occupazionali nel quadro di contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Entrando nel merito, va anzitutto sottolineato, con riguardo alle fonti di finanziamento di tali “misure aggiuntive”, che il datore di lavoro, nella vicenda del contratto aziendale di solidarietà espansiva, come sopra considerato, realizza comunque un notevole vantaggio economico-finanziario per diminuzione del costo del lavoro.

Infatti, la quantità delle ore complessivamente lavorate non cambierebbe, perché la riduzione di orario dei lavoratori che la accettano sarebbe perfettamente riequilibrata dalle ore lavorate dei nuovi assunti, ma questi ultimi all’impresa costerebbero di meno, perché sui loro salari non andrebbero pagati contributi previdenziali (ai sensi dell’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015 e/o ai sensi della normativa sull’apprendistato), ed in più essi subirebbero la temporanea decurtazione retributiva prevista dal CCNL sotto la denominazione di “salario di ingresso”. Il vantaggio economico del datore di lavoro è così in realtà notevole, trattandosi di € 300,00/400,00 mensili per ogni nuovo lavoratore assunto e sarebbe, allora, equo destinare almeno la metà di tale risorsa ad aumentare la compensazione per i “riducenti orario”: si tratterebbe, in pratica, di un beneficio aggiuntivo di circa € 50,00 pro capite (€ 200,00/4=€ 50,00) che, aggiunti agli € 200,00 di detrazione di imposta, colmerebbero totalmente nella sostanza la perdita stipendiale da riduzione di orario per i percettori di un salario netto di € 1.300,00.

Nel concreto, questo beneficio aggiuntivo potrebbe convenientemente assumere la forma di una voce di welfare aziendale da aggiungersi, normativamente, a quelle già previste ed elencate dall’art. 51 secondo comma, lettera i) del TUIR.

Queste “voci” costituiscono per i lavoratori beni o servizi che dovrebbero acquistare e pagare nel mercato (es.: asili per i figli, abbonamenti a mezzi pubblici, assistenza a parenti anziani ecc..) e che, invece, ricevono gratuitamente dall’Azienda, senza, inoltre, che costituiscano reddito imponibile a fini fiscali.

Il datore di lavoro, invece, può dedurle fiscalmente come costo di lavoro e proprio questa, come si comprende, è la potente molla del “welfare aziendale”: che ciò che per il lavoratore non costituisce reddito imponibile è, invece, per il datore di lavoro, costo deducibile, con evidente vantaggio di entrambi.

La misura incentivante aggiuntiva di “welfare aziendale” potrebbe così, ad esempio, assumere la forma di “voucher” ovvero “buoni acquisto” (ora consentiti dall’art. 51, comma 3 bis TUIR) presso catene convenzionate della Grande Distribuzione con valore, cadauno, di € 50,00 per lavoratori percettori di salario netto fino ad € 1.300,00 e con due “tagli” superiori di € 100,00 ed € 150,00 per stipendi netti rispettivamente fino ad € 1.800,00 e fino ad € 2.000,00, allo scopo di coinvolgere, se lo vogliono, nella riduzione di orario anche lavoratori di più alta qualifica.

Va notato che per i datori di lavoro tali “voucher” o “buoni acquisto” avrebbero un costo di parecchio inferiore rispetto al loro valore facciale, utilizzato e goduto dal lavoratore nell’acquisto di beni e servizi, perché ovviamente i datori e le loro associazioni potrebbero ottenere dei forti sconti dai fornitori, acquistandone ingenti quantità da distribuire poi ai lavoratori “riducenti orario”.

Vale, comunque, la pena di spendere ancora qualche parola sull’argomento, perché, come già detto, sarebbe possibile costruire un progetto o formula di riassorbimento della disoccupazione tramite contratti di solidarietà espansiva anche con l’utilizzo soltanto del “welfare aziendale” e dei risparmi dei costi contributivi e retributivi dei nuovi assunti: ed un progetto di questo tipo è stato anche predisposto prima dell’entrata in vigore del reddito di cittadinanza. Resta pertanto pienamente utile quando si trattasse di assumere disoccupati non destinatari, per vari motivi, del reddito di cittadinanza.

In tale situazione occorrerebbe “surdimensionare” l’utilizzo dei risparmi dei costi sui neoassunti e la corresponsione di parte della retribuzione (fino ad 1/3 della stessa), mediante “voucher” di welfare aziendale, avendo cura che l’importo dei voucher sia superiore a quello matematico della perdita retributiva da riduzione di orario.

Per riprendere il nostro esempio di stipendio netto di € 1.300,00, ridotto teoricamente ad € 1.040,00 per la riduzione di orario settimanale, possiamo immaginare che il contratto di solidarietà aziendale possa ridurre ancora questo netto monetario ad € 800,00, ma attribuendo al lavoratore anche un “voucher” di welfare aziendale del valore di € 450,00, in modo che egli recuperi un potere di acquisto pari ad € 1.250,00.

Quei voucher di € 450,00 non costituirebbero, però, un vero sacrificio per il datore di lavoro, perché di quegli € 450,00, una quota di € 240,00 era comunque dovuta (differenza tra € 1.040,00 ad € 800,00), una quota di € 100,00 corrisponde al risparmio di costo sul nuovo assunto ripartito sui quattro riducenti orario, mentre una quota di € 100,00 corrisponde al presumibile sconto che il datore di lavoro (o associazione sindacale) otterrebbe acquistando i “voucher” all’ingrosso dai fornitori, con l’aggiunta finale di € 10,00 di contributo da parte dell’Ente Regione.

Per il lavoratore “riducente orario” la compensazione del suo potere di acquisto sarebbe così quasi completa, mancando solo € 50,00 mensili, corrispondenti al 4% dell’intero salario, “scotto” del tutto sopportabile per un giorno libero in più alla settimana.

Tutto è molto più semplice, ovviamente, quando, come nella fortunata situazione attuale, le leve finanziarie per pagare o compensare la riduzione di orario sono due e non una: non soltanto, cioè, il “welfare aziendale”, ma anche, ed anzitutto, l’utilizzo “indiretto” o “di sponda”, del reddito di cittadinanza, che consente, tramite detrazione d’imposta di € 200,00 al lavoratore “riducente orario” del nostro esempio, di abbattere la sua perdita retributiva teorica da € 260,00 a solo € 60,00, con amplissima possibilità, poi, di esaminare anche questo residuo tramite una modesta misura di “welfare aziendale”.

Per le suddette ragioni si è voluto prevedere e regolamentare nell’articolato del progetto di legge ambedue le “leve” o strumenti, che prendono la forma delle due modifiche o integrazioni al TUIR (all’art.13 e all’art.51 secondo comma): perché la leva del “welfare aziendale”, che è marginale ed una sorta di “Cenerentola”, quando opera l’altra dell’utilizzo indiretto del reddito di cittadinanza, possa all’occorrenza, quando ciò non avvenga, funzionare anche da sola, seppur con modalità più impegnative e severe.

Occorre, infine, completare il quadro delle risorse finanziarie utilizzabili per la realizzazione delle proposte ricomprendendovi un contributo regionale alle imprese firmatarie di contratti di solidarietà espansiva.

Il suo importo finanziario potrebbe essere modesto, poniamo di € 10,00 mensili rimborsate al datore di lavoro per ogni riducente orario con stipendio netto di € 1.300,00, e di € 15,00 o € 20,00 per fasce superiori, lasciando, magari, al contratto aziendale di solidarietà espansiva di prevederne l’eventuale riversamento ai lavoratori.

Ciò costituirebbe per la Regione una sorta di “titolo legittimante” per sedersi ai tavoli dei contratti aziendali di solidarietà espansiva.

 

g) Una proposta vantaggiosa per tutti.

Ci si può chiedere, a questo punto, quali sarebbero i vantaggi che deriverebbero dalla descritta proposta alle parti protagoniste o comunque coinvolte nella sua realizzazione mediante contratti aziendali di solidarietà espansiva.

Vediamo le singole categorie:

  1. A) Disoccupati/inoccupati neo-assunti.

Sono, ovviamente, i principali beneficiari, perché finalmente otterrebbero in termini di certezza un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, al posto del reddito di cittadinanza cui avrebbero altrimenti diritto.

È importantissimo e fondamentale ribadire che, a stregua di questa proposta, non ci si limita a “sperare” che il datore di lavoro, attratto dall’incentivo economico, voglia dotarsi di un posto di lavoro “in più”, dal momento che invece riduzione di orario e nuove assunzioni costituiscono una sorta di sistema “a vasi comunicanti” disciplinato come evento certo e in termini di obbligo giuridico dal contratto di solidarietà, una volta sottoscritto.

Parliamo qui di assunzioni stabili a tempo indeterminato e questa affermazione non è contraddetta dall’indicazione del preferibile utilizzo, in sede assuntiva, del contratto di apprendistato che, come si sa, resta risolubile ad nutum alla fine dei 2-3 anni di sua durata se non interviene la trasformazione a tempo indeterminato. L’esperienza insegna infatti che quando vi è un “piano di apprendistato” seguito dalle OOSS che lo abbiano versato e sottoscritto in un contratto aziendale, le disdette e mancate trasformazioni sono rarissime, anche in considerazione dei costi di formazione già sopportati dall’impresa.

L’assunzione di giovani disoccupati con contratto di apprendistato sarebbe, naturalmente, vista con molto favore dagli imprenditori che, in sostanza, potrebbero ringiovanire gli organici, realizzando i piani formativi di cui avvertono la necessità.

  1. B) Lavoratori già occupati che riducono l’orario lavorativo da cinque a quattro giornate settimanali.

È la categoria “nuova” introdotta dalla proposta e che costituisce il “motore” o la “provvista” per l’effetto di incremento occupazionale e va subito chiarito che da detta proposta i lavoratori “riducenti orario” ricevono un vantaggio solo di poco inferiore a quello dei disoccupati neo-assunti.

Per la gran parte delle persone che lavorano – ad iniziare, ovviamente, dalle donne lavoratrici – la prospettiva di un giorno libero in più a settimana è tale, letteralmente, “da cambiare la vita”, consentendo al lavoratore ed alla lavoratrice di accedere ad una quantità quasi sconfinata di attività culturali, ludiche, di cura familiare, di volontariato ecc. ecc.

E ciò a fronte di una penalizzazione salariale del 5% soltanto o, meglio ancora, probabilmente senza alcuna penalizzazione.

Al vantaggio proprio dell’acquisto di maggior tempo libero non potrebbe non sommarsi, poi, l’intima soddisfazione di aver così contribuito all’eliminazione della piaga sociale dell’inoccupazione, soprattutto giovanile.

Conviene, però, soffermarsi ancora un poco sugli aspetti tecnico-normativi della proposta, che consentono a questi lavoratori una riduzione economicamente indolore dell’orario di lavoro settimanale.

Tutto quello che occorre, dal punto di vista delle modifiche normative, sono due laconiche, ma cruciali innovazioni ed “addizioni” a due norme del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) ed esattamente all’art. 13, in tema di detrazioni di imposta per i redditi di lavoro, e all’art. 51 secondo comma che elenca le prestazioni di “welfare aziendale”, ossia di beni e servizi erogati al lavoratore, ma che non costituiscono per lui reddito fiscalmente imponibile.

  1. C) Datori di lavoro.

Questa proposta si fa carico, naturalmente, dell’atteggiamento normalmente riottoso ed “allergico” dei datori di lavoro verso prospettive di aumento dell’occupazione e/o della riduzione dell’orario di lavoro nelle (proprie) aziende e lo fa escludendo, anzitutto, che possano essere fondate eventuali doglianze di aumento del costo del lavoro.

Infatti, secondo la proposta, il monte-ore complessivo lavorato e retribuito non varia, essendo il minor orario settimanale dei vecchi assunti che passano alle quattro giornate lavorative settimanali, perfettamente riequilibrato dal lavoro dei nuovi assunti.

Anzi, il costo del lavoro diminuirebbe perché le ore lavorate dai nuovi assunti sarebbero esenti da contribuzione previdenziale (per 3 anni) e temporaneamente retribuite con l’istituto del “salario di ingresso”, di qualche punto percentuale inferiore agli “standard” contrattuali collettivi.

Soprattutto, però, i datori di lavoro avrebbero l’occasione più unica che rara di procedere, in modo sostanzialmente gratuito, alla realizzazione di una strategia di ringiovanimento degli organici e di formazione professionale mirata dei nuovi assunti mediante piani di apprendistato. Certamente questo comporta l’instaurazione di un rapporto duraturo con le Organizzazioni Sindacali, al di là della sola messa a punto del contratto di solidarietà espansiva, ma questo è, secondo l’esperienza, un vantaggio, stante la costante buona riuscita, sia in Italia che all’estero, di piani formativi concordati e controllati d’intesa con le Organizzazioni Sindacali.

Quanto alle eventuali misure aggiuntive di “welfare aziendale”, sarebbero in parte finanziate dai risparmi sul costo del lavoro dei neo-assunti e sarebbe questa l’occasione per tanti imprenditori di avvicinarsi ad una modalità di gestione “fidelizzante” dei rapporti con il personale, ormai adottata con convinzione da molte moderne imprese di medie-grandi dimensioni.

 

31.                     CASSA FORENSE

 

Gli avvocati versano i contributi alla Cassa Forense, questi variano in base al fatturato, con un contributo minimo soggettivo-per il 2020 pari a €2.890,00- al quale si aggiunge il contributo maternità e una percentuale sul volume d’affari IVA dichiarato.

Com’è noto con la riforma del 2013 Cassa Forense ha introdotto il sistema retributivo misto sostenibile aumentando il livello di copertura delle pensioni; le pensioni retributive sono caratterizzate da uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute. In alcuni casi si si tratta di un vero e proprio regalo a carico della collettività, in altri casi la differenza in più tra quanto versato con la contribuzione e quanto incassato con la pensione diventa un vero e proprio intervento assistenziale; si pensi alle numerose pensioni integrate al minimo erogate dalla Cassa Forense.

Un sistema a ripartizione è finanziariamente sostenibile solo quando restituisce al lavoratore, sotto forma di pensione, i contributi versati, capitalizzati ad un tasso non superiore al tasso di crescita dell’economia e spalmati sull’arco di vita probabile desumibile dalle tavole di mortalità pubblicate dall’ISTAT. La differenza costituisce il famoso regalo offerto dal sistema retributivo di Cassa Forense che va ad implementare il già cospicuo debito previdenziale e che viene scaricato tout court sulle generazioni più giovani, molto criticato da più parti.

Ma oltre le critiche suddette, ampliamente trattate, ci preme rilevare un altro problema, di cui si parla poco ma che è destinato ad essere sempre più pressante, esso opera contro i colleghi più deboli che possono fatturare nulla, o che fatturano al di sotto dei €20.000 annui.

Se consideriamo che il reddito medio per il 2019 è stato inferiore ai € 40.000, che i redditi più bassi si sono registrati tra le donne ed i meridionali, che il blocco per l’infezione da covid19, provocherà una crisi economica – forse la più grave degli ultimi cento anni - quindi un’ulteriore flessione dei redditi degli avvocati, il problema si prospetta di notevoli dimensioni.     

Al netto della riduzione per i giovani colleghi, della possibilità di esonero, che per malattia può essere chiesto una sola volta, della possibilità (spesso non riconosciuta) di rientrare nella pensione al minimo, ci troviamo svariati casi in cui se per una grave malattia, per qualche accidente o disgrazia non si riesca a fatturare o si fattura meno di € 20.000 annui, il collega sarà tenuto a versare il contributo minimo soggettivo, magari proprio nel  momento di estrema difficoltà della sua vita, ma l’abominio è nel fatto che questo contributo- versato nella maggior parte dei casi, con grande sacrificio- non verrà considerato ai fini pensionistici.

La disfunzione che inverte i principi assistenziali, va sicuramente rettificata, perché particolarmente odiosa e perché in agguato proprio nei momenti più difficili della vita.

Proposta

 

Si potrebbe ipotizzare l’abolizione dei contributi minimi, anche del contributo integrativo minimo momentaneamente sospeso; tale manovra provocherebbe una modestissima flessione delle entrate della Cassa Forense, ma è intollerabile che una Cassa di previdenza ed assistenza pretenda dai soggetti più deboli, dei contributi che non verranno considerati ai fini pensionistici e favoriranno esclusivamente i soggetti più agiati.

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32.                     SECONDE GENERAZIONI

 

Quando parliamo di seconde generazioni, intendiamo generalmente i figli dei primi migranti nati nel paese in cui i genitori sono emigrati, anche se con questo termine vengono inclusi  anche i figli degli immigrati che sono arrivati nel periodo dell’adolescenza o durante la prima infanzia tramite ricongiungimento familiare. Una tipologia ormai classica è quella proposta dal sociologo Rubén Rumbaut (1997), che distingue i figli dei migranti a seconda della data di arrivo nel paese di immigrazione dei genitori. Egli definisce le seconde generazioni nate nel paese in cui attualmente vivono attraverso una distinzione  così ripartita

  • Generazione 1.75: popolazione che emigra in età prescolare ( 0-5 anni) e svolge l’intera carriera scolastica nel paese di destinazione
  • Generazione 1.50: è la generazione che ha cominciato il processo di socializzazione e la formazione primaria nel paese di origine ma ha completato l’educazione scolastica all’estero
  • Generazione 1.25 soggetti che emigrano dal paese di origine tra i 13 e i 17 anni

L’Italia che può definirsi un paese di recente immigrazione assiste nell’ultimo decennio alla formazione delle seconde generazioni in cui appare prevalente la posizione occupata dalla componente minorile. Secondo i dati forniti dal MIUR “nell’anno scolastico 2016/2017 gli studenti e le studentesse di origine migratoria presenti nelle scuole italiane sono circa 826mila con un aumento di oltre 11mila unità rispetto all’A.S. 2015/2016 (+1,38%). L’aumento è di entità leggermente superiore per i maschi (+5.994; +1.41%) rispetto alle femmine (+5.246; 1,34%) che nel complesso rappresentano il 48% degli studenti con cittadinanza non italiana” ( Fonte Dossier MIUR 2018).

Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, i bambini nell’età compresa tra i 3 e i 5 anni con cittadinanza non italiana residenti in Italia presenti nelle scuole, rappresentano il 77% dei bambini con cittadinanza non italiana residenti in Italia. La scuola primaria, che sembra assorbire il maggior numero di studenti con cittadinanza non italiana ha registrato nell’anno scolastico 2016/2017 l’aumento più̀ consistente di studenti, pari a circa 4.800 unità (+1,63%). Nella scuola secondaria di I grado, l’incremento degli studenti con cittadinanza non italiana è pari a circa 3.900 unità dopo un triennio di costante diminuzione e nella scuola secondaria di II grado gli studenti con cittadinanza non italiana presenti sono circa 192.000 unità, con un aumento del 2,21% (+4.138 unità) rispetto all’anno precedente.

Interessante a tal proposito è la distribuzione delle seconde generazioni che si rivela non uniforme nel territorio italiano e si evidenzia una concentrazione maggiore nell’area del centro-nord, dove il fenomeno migratorio ha assunto una dimensione di stabilità. Secondo un rapporto della Camera dei deputati del 5 luglio 2018  “La regione in cui gli studenti con cittadinanza non italiana incidono di più nel contesto scolastico locale è l'Emilia Romagna, dove quasi il 16% degli studenti non ha la cittadinanza italiana. Seguono Lombardia (14,7%), Umbria (13,8%) Toscana (13,1%), Veneto e Piemonte (13,0%), Liguria (12,3%) e viceversa, la Campania è la regione in cui l'incidenza degli studenti con cittadinanza non italiana è la più bassa a livello nazionale (2,4%) “. ( fonte rapporto Camera dei Deputati L'integrazione scolastica dei minori stranieri , 5 luglio 2018).

Un altro campo che richiede un’analisi approfondita è quello concernente il mondo del lavoro. Nell’ultimo decennio è emerso con chiarezza che l’integrazione socio-economica delle seconde generazioni fosse tutt’altro che un processo lineare e privo di ostacoli come ipotizzato dai primi approcci teorici assimilazionisti. L’approccio assimilazionista sosteneva che il processo di inserimento delle seconde generazioni a differenza dei primi-migranti fosse un processo “automatico” e lineare in virtù dell’acquisizione delle competenze linguistiche e della socializzazione ai valori e ai modelli comportamentali della società̀ ricevente. In realtà, per l’inserimento nel mercato del lavoro sono emersi orientamenti distinti che ci possono far comprendere al meglio questa complessità.

Un primo orientamento, che sembrerebbe a oggi prevalere per alcune specifiche nazionalità, può definirsi tradizionalista, nel quale ci si pone di proseguire la carriera lavorativa iniziata e sviluppata dai genitori una volta arrivati nel paese di destinazione. Un orientamento scelto dalle seconde generazioni che intendono continuare la tradizione lavorativa familiare realizzata dai propri genitori sfruttando il capitale economico, sociale e culturale familiare e le risorse derivanti dal network etnico di riferimento nel paese di residenza.

Un secondo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro è di tipo individualista in cui le seconde generazioni scelgono un percorso formativo e di carriera lavorativa che si discosta dalle scelte familiari e sentono il forte peso delle aspettative lavorative che i genitori si auspicano per i loro figli ovvero di intraprendere ambiziose carriere lavorative, quasi rappresentassero un riscatto sociale della loro condizione economica e sociale. È molto ricorrente in questi casi che i genitori occupano i posti meno prestigiosi e remunerati nella gerarchia occupazionale, e che spesso abbiano vissuto un percorso difficoltoso nel processo di inserimento nella società italiana. Spesso questi giovani sentono non solo di non potere soddisfare tali aspettative, ma anche di non volerle soddisfare perché́ le loro ambizioni sono differenti da quelle familiari in quanto cresciuti e socializzati in un altro contesto socio-culturale. Si tratta di seconde generazioni che intraprendono in opposizione ai genitori un percorso formativo diverso come ad esempio chi sceglie di continuare a studiare raggiungendo alti livelli di istruzione - laurea e dottorato di ricerca - che lasciano presupporre opportunità lavorative più elevate rispetto a quelle dei genitori.

Un terzo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro è quello transnazionalista. Si tratta di seconde generazioni di migranti che sfruttano il proprio capitale culturale che si differenzia dalla popolazione locale e, utilizzando le reti transnazionali, riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro sia nella società in cui risiedono sia in quella da cui sono emigrati i propri genitori..

Un ultimo orientamento nell’inserimento al mercato del lavoro italiano è quello con tendenza all’isolamento con downward assimilation. Si tratta di seconde generazioni di migranti con un minore capitale economico, sociale e culturale derivante dal background familiare. Generalmente provengono da istituti professionali o tecnici oppure non sono riusciti a conseguire il diploma delle superiori. Il rischio è, tuttavia, di rimanere intrappolati in lavori precari, mal pagati con poche o nulle prospettive di carriera (bad jobs). L’inserimento lavorativo diventa oltremodo difficoltoso per coloro che non possiedono ancora la cittadinanza italiana ma solo il permesso di soggiorno.

In questo quadro una delle maggiori barriere nell’inserimento del mercato del lavoro italiano risiede nella difficoltà di ottenere la cittadinanza italiana che, com’è noto, richiede procedure burocratiche molto lunghe ed estenuanti per chi non è nato in Italia. Va però aggiunto che anche le seconde generazioni nate in Italia (2G) ottengono con molta difficoltà la cittadinanza italiana visto che vale il principio dello ius sanguinis e non lo ius soli, e sempre che dimostrino di avere risieduto continuità sul territorio nazionale. Pertanto, le seconde generazioni che, sono in possesso del permesso soggiorno, risultano fortemente penalizzate sia nel momento dell’assunzione sia nella progressione di carriera.

 

 

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33.                     I Appendice giurisprudenza antifascismo

 

Allegato n. 1

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-03-2019) 16-05-2019, n. 21409

l'imputato L.G., in occasione della seduta pubblica della Commissione congiunta del Consiglio comunale di Milano su sicurezza e coesione sociale, polizia locale, protezione civile e volontariato, politiche sociali e servizi per la salute, avente a oggetto il cosiddetto "(OMISSIS)" rom e svoltasi l'(OMISSIS), eseguiva il "saluto fascista", anche noto come "saluto romano"

Osserva il Collegio che risultano immuni da vizi logici o giuridici le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello di Milano, secondo cui il "saluto fascista" o "saluto romano" costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all'ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dal D.L. n. 122 del 1993, art.2, evidenziando che la fattispecie contestata a L. non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, che è quella propria dei reati di pericolo astratto (Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753; Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792).

Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il "saluto fascista" accompagnato dalla parola "presente" integra la fattispecie del D.L. n. 122 del 1993,art.2, per la connotazione di pubblicità che qualifica tale espressione gestuale, evocativa del disciolto partito fascista, che appare pregiudizievole dell'ordinamento democratico e dei valori che vi sono sottesi. Sul punto, è sufficiente richiamare il principio di diritto, secondo cui: "Il cosiddetto "saluto romano" o "saluto fascista" è una manifestazione esteriore propria o usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205 (misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) e inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge" (Sez. 1, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 3, n. 37390 del 10/07/2007, Sposato, Rv. 237311).

In questa cornice, deve rilevarsi che la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie delD.L. n. 122 del 1993,art.2 impone, per la sua configurazione, che sia accertata l'idoneità della condotta a offendere il bene giuridico, contestualizzando il comportamento dell'agente attraverso un giudizio ex ante. Tale contestualizzazione presuppone un accertamento finalizzato a verificare se la condotta dell'imputato è astrattamente idonea a essere percepita come manifestazione esteriore o come ostentazione simbolica ed emblematica "delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art.3(...)".

Sulla legittimità costituzionale dei reati di pericolo astratto, del resto, la Corte costituzionale si è ripetutamente pronunciata (Corte Cost., sent. n. 225 del 2008; Corte Cost., sent. n. 286 del 1974), ribadendo la loro compatibilità con le norme costituzionali, a condizione che nelle fattispecie di volta in volta considerate siano rinvenibili elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite. Occorre, pertanto, verificare se il fatto concreto possieda tali connotazioni di offensività, certamente riscontrabili nel caso di specie, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzava il comportamento criminoso di L., correttamente valutate dai Giudici di merito secondo una prospettiva ex ante.

 

Allegato n. 2

 

Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

Sezione II

Sentenza 18 aprile 2019, n. 447

Presidente: Testori - Estensore: Limongelli

FATTO

  1. Con deliberazione n. 125 del 30 novembre 2017, il consiglio comunale di Rivoli, preso atto del ripetersi sempre più frequente di "manifestazioni promosse da organizzazioni neofasciste, portatrici di idee e di valori che si collocano al di fuori del perimetro costituzionale", impegnava l'amministrazione "a non concedere spazi o suolo pubblici a coloro i quali non garantiscano di rispettare i valori sanciti dalla Costituzione, professando e/o praticando comportamenti fascisti, razzisti e omofobi", dando mandato di adeguare i regolamenti comunali a quanto espresso nell'atto di indirizzo, in particolare "subordinando la concessione di suolo pubblico, spazi e sale di proprietà del Comune, a dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall'ordinamento repubblicano".
  2. Con successiva deliberazione n. 164 del 15 maggio 2018, la giunta comunale di Rivoli dava mandato ai competenti uffici comunali di richiedere, a fronte di istanze di concessione del suolo pubblico o di utilizzo di spazi e sale di proprietà comunale, la presentazione da parte dei richiedenti di una dichiarazione espressa, redatta ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000, del seguente testuale tenore:

"Il sottoscritto (...) dichiara (...):

- "di ripudiare il fascismo e il nazismo;

- di aderire ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo; (...)".

  1. Con istanza dell'8 ottobre 2018, la signora Sara Novello, agendo "in nome e per conto di Casapound Italia", chiedeva al Comune di Rivoli l'autorizzazione ad occupare il suolo pubblico con un gazebo di mt 2x2 in via Fratelli Piol per tredici giorni non consecutivi, festivi e prefestivi, compresi tra il 1° dicembre 2018 e il 27 aprile 2019, al fine dichiarato di svolgere "propaganda politica e di promozione delle attività politiche e del pensiero politico della sig.ra Sara Novello".
  2. Alla propria istanza, la richiedente allegava la seguente dichiarazione: "La sottoscritta (...) dichiara di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all'odio", nonché "di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico".
  3. Con atto del 22 novembre 2018, gli uffici comunicavano alla richiedente che l'iter autorizzativo dell'istanza era stato "sospeso" dal momento che all'istanza era stata allegata una dichiarazione difforme dal modello-tipo approvato dall'amministrazione con le predette deliberazioni, invitando l'interessata a regolarizzare la dichiarazione e precisando che l'autorizzazione sarebbe stata rilasciata non appena fosse stata trasmessa la dichiarazione in questione.
  4. La ricorrente presentava proprie osservazioni, contestando la legittimità della richiesta dell'Amministrazione e rifiutando di rendere la dichiarazione nei termini pretesi dall'amministrazione.
  5. Alla luce di quanto sopra, con provvedimento notificato il 23 gennaio 2019 l'amministrazione dichiarava l'istanza "improcedibile", non essendo stato prodotto il documento richiesto.
  6. Con ricorso notificato il 15 marzo 2019 e depositato il 20 marzo successivo, l'interessata impugnava dinanzi a questo TAR il suddetto provvedimento di "improcedibilità", unitamente alle presupposte delibere del consiglio comunale n. 125/2017 e della giunta comunale n. 164/2018, e ne chiedeva l'annullamento, previa sospensione cautelare, sulla base di cinque motivi, con i quali deduceva vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto plurimi profili.
  7. Il Comune di Rivoli si costituiva in giudizio con articolata memoria difensiva, eccependo preliminarmente l'inammissibilità del ricorso in ragione della tardiva impugnazione degli atti presupposti, divenuti ormai inoppugnabili, e in subordine, nel merito, contestando il fondamento del ricorso e chiedendone il rigetto.
  8. All'udienza in camera di consiglio del 10 aprile 2019, dopo la discussione dei difensori delle parti, il collegio si riservava di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, sussistendone i presupposti di legge e sentite, sul punto, le parti costituite.

DIRITTO

Si può prescindere dall'esame dell'eccezione preliminare formulata dalla difesa comunale, dal momento che il ricorso è manifestamente infondato nel merito.

  1. Con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione degli artt. 2, 3, 17, 18 e 21 della Costituzione in materia di tutela dei diritti fondamentali, di eguaglianza, diritto di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero e di associazione in partiti politici; tali principi, secondo la ricorrente, non consentirebbero di subordinare l'esercizio dei diritti civili e politici a dichiarazioni di adesione ai valori dell'antifascismo, ai valori repubblicani e a quelli della Resistenza; la libera manifestazione del pensiero e il "foro interno" di ciascun cittadino non possono essere coartati attraverso l'obbligo di adesione a valori predeterminati, secondo modelli tipici dei regimi totalitari; all'atto della domanda di concessione del suolo pubblico, la ricorrente ha dichiarato di aderire ai valori della Costituzione italiana e di non avere intenzione di ricostituire il disciolto Partito Fascista, e tanto deve essere ritenuto sufficiente; secondo la ricorrente, l'amministrazione non potrebbe imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati "valori dell'antifascismo" che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a "ripudiare il fascismo e il nazismo", atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell'individuo, che non può essere coartata dall'amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali e con le leggi dello Stato.

La censura è infondata.

1.1. I valori dell'antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell'ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, non solo perché sottesi implicitamente all'affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo, ma anche perché affermati esplicitamente sia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, sia nell'art. 1 della legge "Scelba" n. 645 del 20 giugno 1952, che, nel dare attuazione alla predetta norma costituzionale, ha individuato come manifestazioni esteriori di ricostituzione del partito fascista il perseguire finalità antidemocratiche proprie del partito fascista attraverso, tra l'altro, la minaccia o l'uso della violenza quale metodo di lotta politica, il propugnare la soppressione delle libertà costituzionali, lo svolgere propaganda razzista, l'esaltare principi, fatti e metodi propri del predetto partito, il compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e il denigrare la democrazia, le sue istituzione o i "valori della Resistenza"; inoltre, l'art. 5 della stessa legge Scelba n. 645/1952 punisce le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quando siano compiute durante eventi pubblici.

1.2. I principi affermati nelle predette norme costituiscono un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui, le quali non possono esplicarsi in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del disciolto partito fascista.

1.3. Si tratta di principi che, per evidenti motivi, trovano precipua applicazione in materia di propaganda politica ed elettorale.

1.4. In tale contesto, allorquando si richieda di esercitare attività di propaganda politica ed elettorale in spazi pubblici, sottraendoli, sia pure temporaneamente, all'uso pubblico per destinarli all'utilizzo privato, non appare irragionevole che l'amministrazione richieda, al fine di valutare la meritevolezza dell'interesse dedotto, una dichiarazione di impegno al rispetto dei valori costituzionali e, in particolare, dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell'ideologia autoritaria fascista e all'adesione ai valori fondanti l'assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell'antifascismo e della Resistenza; e ciò anche al fine dell'eventuale revoca della concessione in caso di violazione dell'impegno assunto. E benché, nel caso di specie, il modello di dichiarazione predisposto dall'amministrazione comunale non appaia scevro da qualche ridondanza, non per questo è possibile rilevarne un profilo di illegittimità, tenuto conto anche della forte valenza simbolica, oltre che amministrativa, che l'amministrazione ha inteso riconnettervi e che giustifica qualche eccesso di enfasi.

1.5. Nel caso di specie la ricorrente ha richiesto all'amministrazione comunale, "quale attivista e delegata" dell'associazione "Casapound Italia", la concessione del suolo pubblico nella via Fratelli Piol - peraltro, una via pubblica di forte valenza evocativa, perché intestata a martiri della Resistenza e dell'antifascismo - per svolgere attività di propaganda politica; ma, alla richiesta dell'amministrazione di rendere la dichiarazione di impegno predisposta dalla giunta comunale, ne ha resa una diversa, nella quale ha sì dichiarato "di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostruire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all'odio", nonché "di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico", ma ha omesso, volutamente, la parte di dichiarazione relativa al "ripudio del fascismo e del nazismo" e all'adesione "ai valori dell'antifascismo".

1.6. Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell'adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica.

1.7. Non appare pertanto censurabile il comportamento del Comune che, a fronte dell'assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell'antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica.

La censura va quindi disattesa.

  1. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto vizi di violazione di legge e di eccesso di potere per sviamento; l'amministrazione avrebbe utilizzato in materia sviata i propri poteri in materia di occupazione del suolo pubblico, i quali sarebbero previsti dalla legge per finalità prettamente fiscali e di tutela della viabilità e della sicurezza pubblica; l'amministrazione avrebbe invece perseguito una finalità estranea al paradigma normativo, quella di estorcere ai cittadini dichiarazioni di adesione ideologica ad una "carta di valori" predeterminata.

Anche tale censura è infondata.

2.1. La disciplina dell'occupazione del suolo pubblico è demandata ai Comuni, sia in ordine alla individuazione dei presupposti che in ordine alla determinazione del canone. La legge, in particolare, non predetermina le finalità in vista delle quali può essere attribuito a privati l'uso esclusivo del suolo pubblico, ma rimette ai Comuni il potere di regolamentarle e valutarle caso per caso, in funzione della meritevolezza dell'interesse perseguito e della sua idoneità a giustificare la sottrazione temporanea del bene pubblico all'utilizzo collettivo.

2.2. È stato affermato, al riguardo, che la concessione di suolo pubblico "esige sempre e comunque una decisione ponderata in ordine al bilanciamento dell'interesse pubblico con quelli privati eventualmente confliggenti, di cui dare conto nella motivazione, stante il loro carattere discrezionale, con la conseguenza che la P.A., prima di concederla, deve, attraverso apposita istruttoria, effettuare una accurata ricognizione degli interessi coinvolti" (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 25 luglio 2017, n. 8934).

2.3. Nel caso di specie, la concessione del suolo pubblico è stata richiesta dalla ricorrente al fine dichiarato di effettuazione di attività di propaganda politica. L'amministrazione, nel richiedere, al fine di valutare l'assentibilità dell'istanza, una dichiarazione preventiva di adesione ai valori costituzionali dell'antifascismo e di ripudio del fascismo e del nazismo, ha bilanciato correttamente l'interesse privato della ricorrente a svolgere attività di propaganda politica con l'interesse pubblico a che ciò avvenga nel doveroso e consapevole rispetto dei valori costituzionali.

  1. Con il terzo motivo, la ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione del vigente regolamento comunale di Rivoli in materia di concessione di suolo pubblico; ha osservato la ricorrente che tale regolamento non è stato modificato a seguito degli atti impugnati, e, allo stato, non contiene alcuna norma che imponga la presentazione di una dichiarazione di adesione ai valori dell'antifascismo per poter ottenere uno spazio pubblico.

Anche tale censura è infondata.

Il diniego impugnato è stato adottato in ossequio a quanto previsto dal consiglio comunale con la deliberazione n. 125 del 30 novembre 2017.

Il consiglio comunale è l'organo competente ad approvare e modificare i regolamenti comunali.

Nel caso di specie, la delibera n. 125/2017 ha dettato un indirizzo di carattere generale ed astratto che, benché non inserito formalmente all'interno del testo regolamentare, è tuttavia idoneo ad integrarlo ab externo, sia in ragione della sua natura sostanzialmente regolamentare sia in considerazione dell'organo che l'ha adottato.

  1. Con il quarto motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000; tali norme, richiamate nella dichiarazione-tipo predisposta dalla giunta comunale, prevedono che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni possano attestare unicamente "stati e qualità", non opinioni politiche; l'amministrazione avrebbe quindi imposto una autocertificazione di carattere ideologico contraria ad ogni legge.

La censura non ha fondamento.

4.1. Benché il modello di dichiarazione predisposto dall'amministrazione richiami, in effetti, gli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000, la dichiarazione richiesta dall'amministrazione non è una vera dichiarazione sostitutiva di certificazione, ma una dichiarazione di impegno del privato al rispetto dei principi costituzionali e dei valori ad essi sottesi, in funzione della valutazione di meritevolezza dell'interesse perseguito dal richiedente attraverso l'utilizzo del suolo pubblico.

4.2. Il richiamo alle norme citate è quindi improprio, ma giuridicamente inconferente.

  1. Infine, con il quinto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 48, comma 2, del d.P.R. 445/2000, il quale prevede che, ai fini della redazione di dichiarazioni sostitutive, gli interessati hanno la facoltà, e non l'obbligo, di avvalersi dei moduli predisposti dall'amministrazione; la ricorrente ha reso effettivamente una dichiarazione sostitutiva di adesione ai valori della Costituzione, sia pure utilizzando un modulo diverso da quello predisposto dall'amministrazione, per cui l'amministrazione avrebbe dovuto ritenere assolto l'obbligo previsto dalle delibere di giunta e di consiglio.

Anche quest'ultima censura è infondata.

5.1. La ragione per la quale l'amministrazione ha respinto l'istanza della ricorrente non risiede nel fatto che la dichiarazione non sia stata resa utilizzando il modello predisposto dall'amministrazione, ma nella circostanza che il suo contenuto non corrispondeva a quanto richiesto dall'amministrazione, non contenendo, in particolare, né il ripudio del fascismo e del nazismo né l'adesione della richiedente ai valori dell'antifascismo.

  1. In conclusione, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso va respinto.
  2. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
  3. Attesa la manifesta infondatezza del ricorso, va respinta anche la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore del Comune di Rivoli, che liquida in Euro 2.000,00 (duemila/00), oltre oneri accessori.

Respinge la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

 

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Allegato 3

La sentenza della Cassazione n. 3806 del 2022

In una recente sentenza (n. 3806 del 2022 udienza 19/11/2021) 41 la Corte di Cassazione, in tema di manifestazioni usuali del partito fascista (saluto romano e intonazione della chiamata del presente) si è espressa per l’applicabilità della legge Mancino con una ampia ed esaustiva motivazione che analizza i precedenti giurisprudenziali, mette a fuoco i tratti comuni e differenziali delle due norme, applica il principio di specialità, evidenzia la presunzione insita nella legge Scelba circa il carattere discriminatorio e razzista della ideologia fascista e nazista. Nelle due norme comune è la condotta: ad esempio, in una pubblica riunione il saluto romano o la chiamata del “presente”; diverso (come si è più volte rilevato) è il pericolo paventato, in un caso la ricostituzione del partito fascista (o comunque l’adesione ad un progetto a ciò finalizzato), nell’altro raccogliere adesioni di un vasto pubblico in funzione di attività di propaganda e di istigazione per condotte discriminatorie razziali, etniche e religiose. Il pregio della sentenza in esame è che la Corte ha particolarmente evidenziato due aspetti di fondamentale importanza. Superando alcune ambiguità delle precedenti pronunce, è stata esplicita sul tipo di pericolo che in più punti della motivazione ha qualificato in termini di concretezza. Dunque, è necessario un pericolo concreto sia per la legge Scelba che per la Mancino. Ha rilevato la Corte che “ l'interpretazione degli elementi normativi presenti nella disposizione dianzi citata («propaganda di idee»; «odio razziale o etnico»; «discriminazione per motivi razziali») deve essere compiuta dal giudice tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, e da valorizzare perciò l'esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto”. Un altro punto significativo della motivazione attiene alla chiara esplicitazione del criterio di scelta tra le due norme individuato nel principio di specialità 42 di cui all’articolo 15 c.p. : “La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque, a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba, riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre, nel caso della legge n. 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicché, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione dell'art. 2 I. n. 203 del 1993”. Afferma inoltre la Corte, sempre invocando il concetto di concretezza: “una volta chiarito che, per entrambe le fattispecie, è necessaria una concreta idoneità della condotta, è utile precisare che sussiste una ipotesi di specialità ex art. 15 cod. pen. della seconda fattispecie (art. 5 I. n. 645 del 1952) rispetto alla prima (art. 2 I. n. 205 del 1993). Rileva, inoltre, la Cassazione che la legge Mancino del 1993 oltre ad introdurre l’art. 2 ha anche emendato la legge Scelba (in particolare l’art. 4) il che evidenzia che il legislatore, che ha mantenuto in vigore la menzionata legge Scelba, era ben consapevole del tenore letterale delle due norme (art. 2 legge Mancino e art. 5 legge Scelba) che evidentemente ha ritenuto soloapparentemente omogenee ma in realtà diverse atteso che solo la legge Scelba richiede il rischio di riorganizzazione del partito fascista che è invece assente nella legge Mancino. Un altro apprezzabile profilo di chiarezza della sentenza in esame è dato dalla considerazione relativa alla presunzione, per la legge Scelba, iuris et de iure che le organizzazioni e i movimenti neofascisti hanno una ideologia discriminatoria e razzista, finalità queste che quindi non devono essere provate contrariamente alle organizzazioni non nominate di cui alla legge n. 654 del 1975 (ora 604 bis c.p.). L’art. 4 comma 2, in riferimento alla apologia del fascismo, dispone infatti che “se il fatto riguarda idee e metodi razzisti la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni”. E’ stato giustamente rilevato 43 che il ricorso “”forse non proprio ortodosso”, alla legge Mancino, anziché alla Scelba, per sanzionare le manifestazioni usuali fasciste potrebbe essere stato determinato dal fatto che la legge Mancino consente l’applicazione del c.d. DASPO e non ha subito interventi manipolativi della Corte Costituzionale per cui l’accertamento del reato sarebbe più agevole. Dinanzi, quindi, al sospetto che il ricorso alla legge Mancino sia una sorta di escamotage (uguale e contrario all’interpretazione che di fatto rende ineffettiva la legge Scelba stante l’improbabile prova del pericolo concreto di riorganizzazione del partito fascista) per facilitare l’accertamento del reato sul presupposto che il pericolo richiesto sia astratto, bene ha fatto la Cassazione in quest’ultima sentenza a chiarire con fermezza che il pericolo richiesto anche dalla Mancino deve essere concreto.

 

[1] Laura Ronchetti, Il Nomos Infranto, Jovene editore 2007 pag.226.

[2] F. LAFFAILLE, Mythologie constitutionnelle : le chef de l’État, neutre gardien de la stabilité du régime parlementaire italien, Revue française de droit constitutionnel 2016/4 (N° 108).

  1. SILVESTRI, La separazione dei poteri, I, Milano, 1979, II, Milano, 1984.
  2. BARBERIS, Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso (1988. Il Mulino, Bologna)
  3. CECCHETTI, S. PAJNO, G. VERDE, Dibattito sul Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato nell’ordinamento costituzionale italiano, Due punti Edizioni, Palermo, 2012, spec. pp. 65 ss.

AA.VV. La Dittatura della Maggioranza (coautori: Aldo e Giuseppe Bozzi, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Pancho Pardi, Federica Resta), Chimienti editore, 2008

[3] Silia Gardini.  L’effettività del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nei piccoli comuni (nota a Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 62). www.giustiziainsieme.it/

 

[4] L. Ferrajoli Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, 2022.

[5] Corte Cost. sentenza n. 45 del 2005.

[6] Corte Cost. sentenza n. 15 del 2008.

[7]Su 193 costituzioni che si possono leggere, alla data odierna, 149 contemplano norme che definiscono i principi e i valori per la tutela dell’ambiente (ci sono delle gravi eccezioni, come gli USA, il Canada e l’Australia; non senza che nei singoli Stati che formano tali federazioni vi siano costituzioni regionali che riconoscono espressamente questi principi).

[8] 5 S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Riv. quad. dir. amb., 2017, p. 7

[9] Questo passaggio della sentenza della Corte cost. n. 126/2016 recita espressamente:  «L'espressa individuazione,  a  seguito  della  riforma  delTitolo V, e della materia  “tutela  dell'ambiente,  dell'ecosistema”,all'art. 117, secondo comma,  lettera  s),  Cost.,  quale  competenzaesclusiva  dello  Stato,  fotografa,   dunque,   una   realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come desumibile dal  complesso  deivalori e dei principi costituzionali».

 

[10] Corte cost n. 641 del 1987.

[11] Corte cost. n. 126 del 2016.

[12] Peculiare rilievo assume, in questo ambito, la Dichiarazione ONU sui diritti delle popolazioni indigene (2007) che all’art. 29 riconosce il diritto dei «popoli indigeni … alla conservazione e protezione dell’ambiente e della capacità produttiva delle loro terre o territori e risorse. Gli Stati devono avviare e realizzare programmi di assistenza ai popoli indigeni per assicurare tale conservazione e protezione, senza discriminazioni».

[13] S. Grassi, Ambiente e Costituzione, cit..

[14] Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza del 20 febbraio 2020, n. 6626.

[15]  Ossia 599 (fonte Ministero dell'Interno dal 2011 al 2016) con riferimento alle due sigle più famose di quella “galassia”, cioè Casa Pound Italia e Forza Nuova (altre sigle sono Comunità militante Avanguardia nazionale, Dora - comunità militante dei dodici raggi,  Fortezza Europa, Generazione identitaria, Hammerskin, Lealtà Azione , Movimento fasci italiani del Lavoro, Rivolta Nazionale, Skin4skin, Veneto fronte skinhead).

[16] Venendo poi alla previsione delle singole fattispecie di reato:

Art. 2. - Sanzioni penali.

Chiunque promuove, organizza o dirige le associazioni, i movimenti o i gruppi indicati nell'articolo 1, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 10.329 .

Chiunque partecipa a tali associazioni, movimenti o gruppi è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 516 a euro 5.

Se l'associazione, il movimento o il gruppo assume in tutto o in parte il carattere di organizzazione armata o paramilitare, ovvero fa uso della violenza, le pene indicate nei commi precedenti sono raddoppiate.

L'organizzazione si considera armata se i promotori e i partecipanti hanno comunque la disponibilità di armi o esplosivi ovunque custoditi.

(Fermo il disposto dell'art. 29, comma primo, del codice penale, la condanna dei promotori, degli organizzatori o dei dirigenti importa in ogni caso la privazione dei diritti e degli uffici indicati nell'art. 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del codice penale per un periodo di cinque anni. La condanna dei partecipanti importa per lo stesso periodo di cinque anni la privazione dei diritti previsti dall'art. 28, comma secondo, n. 1, del codice penale.)

[17] Alcuni corollari della disciplina penale sono:

Art. 3 - Scioglimento e confisca dei beni.

Qualora con sentenza risulti accertata la riorganizzazione del disciolto partito fascista, il Ministro per l'interno, sentito il Consiglio dei Ministri, ordina lo scioglimento e la confisca dei beni dell'associazione, del movimento o del gruppo.

Nei casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo, sempre che ricorra taluna delle ipotesi previste nell'art. 1, adotta il provvedimento di scioglimento e di confisca dei beni mediante decreto-legge ai sensi del secondo comma dell'art. 77 della Costituzione.

Art. 5 - Manifestazioni fasciste.

Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da euro 206 a euro 516.

Art. 4. - Apologia del fascismo

Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell'articolo 1 è punto con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da euro 206 a euro 516 .

Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da euro 516 a euro 1.032 .

La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da euro 516 a euro 2.065 se alcuno dei fatti previsti nei commi precedenti è commesso con il mezzo della stampa .

La condanna comporta la privazione dei diritti previsti nell'articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del c.p., per un periodo di cinque anni.

Art. 5 - Manifestazioni fasciste.

Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da euro 206 a euro 516.

 

[18] Si ricordano in particolare: 

Art. 2 - Disposizioni di prevenzione.

  1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 258.
  2. È vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno.

(3. Nel caso di persone denunciate o condannate per uno dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, o per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 del presente decreto, nonché di persone sottoposte a misure di prevenzione perché ritenute dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica, ovvero per i motivi di cui all'articolo 18, primo comma, n. 2-bis)  della legge 22 maggio 1975, n. 152 si applica la disposizione di cui all'articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e il divieto di accesso conserva efficacia per un periodo di cinque anni, salvo che venga emesso provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento o provvedimento di revoca della misura di prevenzione, ovvero se è concessa la riabilitazione ai sensi dell'articolo 178 del codice penale o dell'articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327)

Art. 5. - Perquisizioni e sequestri.

  1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 , e dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, l'autorità giudiziaria dispone la perquisizione dell'immobile rispetto al quale sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, di deposito o di rifugio o per altre attività comunque connesse al reato. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l'autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore.
  2. È sempre disposto il sequestro dell'immobile di cui al comma 1 quando in esso siano rinvenuti armi, munizioni, esplosivi od ordigni esplosivi o incendiari, ovvero taluni degli oggetti indicati nell'articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110. É sempre disposto, altresì, il sequestro degli oggetti e degli altri materiali sopra indicati nonché degli emblemi, simboli o materiali di propaganda propri o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alle leggi 9 ottobre 1967, n. 962 , e 13 ottobre 1975, n. 654 , rinvenuti nell'immobile. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 324 e 355 del codice di procedura penale. Qualora l'immobile sia in proprietà, in godimento o in uso esclusivo a persona estranea al reato, il sequestro non può protrarsi per oltre trenta giorni.
  3. Con la sentenza di condanna o con la sentenza di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale, il giudice, nei casi di particolare gravità, dispone la confisca dell'immobile di cui al comma 2 del presente articolo, salvo che lo stesso appartenga a persona estranea al reato. É sempre disposta la confisca degli oggetti e degli altri materiali indicati nel medesimo comma 2.

Art. 7 - Sospensione cautelativa e scioglimento.

  1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell'articolo 3 o per uno dei reati previsti dall'articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l'attività di organizzazioni, di associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente, ai sensi dell'articolo 3 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, la sospensione di ogni attività associativa. La richiesta è presentata al giudice competente per il giudizio in ordine ai predetti reati. Avverso il provvedimento è ammesso ricorso ai sensi del quinto comma del medesimo articolo 3 della legge n. 17 del 1982.
  2. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengono meno i presupposti indicati al medesimo comma.
  3. Quando con sentenza irrevocabile sia accertato che l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi abbia favorito la commissione di taluno dei reati indicati nell'articolo 5, comma 1, il Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, ordina con decreto lo scioglimento dell'organizzazione, associazione, movimento o gruppo e dispone la confisca dei beni. Il provvedimento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

 

[19] Trovasi scritto in sentenza, infatti, che “secondo il radicato orientamento di questa corte di legittimità il confronto tra le fattispecie in apparente convergenza va realizzato con riferimento alla struttura delle medesimi tramite la comparazione dei rispettivi elementi costitutivi e non riguarda il modus interpretativo di ciascuna di esse o elementi esterni alla dimensione della tipicità.... si tratta di insegnamenti più volte ribaditi dalle sezioni unite di questa corte per cui in caso di concorso di disposizioni penali che reggono la stessa materia il criterio di specialità richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse alla cui verifica deve procedersi mediante confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (sezioni unite numero 1235 del 28 ottobre 2010);  ed ancora nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall'articolo 15 del codice penale che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme effettuata dalla legislatore ( sezioni unite numero 20664 del 23 febbraio 2017)... solo la esistenza di un rapporto di continenza derivante dal confronto strutturale tra le fattispecie nel cui ambito si individui in una delle due disposizioni un elemento specializzante impone dunque di applicare esclusivamente la disposizione speciale e non di scegliere se applicare la disposizione generale o quella speciale, salvo che sia altrimenti stabilito; negli altri casi la quaestio iuris va risolta applicando il generale principio di tipicità/tassatività dell'illecito e le norme in tema di concorso di reati (articolo 81 con la deroga di cui all'articolo 84 codice penale). Calando tali principi di diritto nel caso in esame va anzitutto precisato che la Corte di Appello di Milano fa ricorso, nella operazione di qualificazione giuridica del fatto secondo una “pretesa” specialità ... ad un criterio rappresentato dalla connotazione interpretativa di “pericolo concreto” (legge Scelba) o “pericolo presunto” (legge Mancino) del reato, che non rientra affatto nel perimetro di obbligatorio confronto di cui all'articolo 15 cod. pen. (la struttura astratta delle due fattispecie) perché attiene al profilo della interpretazione dei profili estrinseci della punibilità delle condotte.

In realtà le due disposizioni incriminatrici hanno possibile aspetti di convergenza fattuale ma non possono essere ritenute collocabili nella dimensione della specialità.

L'articolo 5 della legge scelba inquadra una condotta di rievocazione storica del <disciolto> partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico.

L'articolo 2 del d.l. numero 122 del 1993 incrimina a determinate condizioni l'utilizzo di emblemi o simboli “propri o usuali” di organizzazioni o gruppi che, all'attualità, incitino alla discriminazione o violenza per motivi razziali etnici nazionali o religiosi.

Dunque se da un lato vi è un aspetto di possibile interferenza (il fascismo ha promosso storicamente discriminazione e violenza anche per motivi razziali, fermi restando altri concorrenti disvalori),  dall'altro nel confronto tra le fattispecie astratte non vi è continenza, sia in ragione della maggiore ampiezza delle connotazioni ideologiche negative del fascismo sia per l'essenziale diversità di ambito applicativo rappresentata dalla correlazione tra l'uso dei simboli e la identificazione di un gruppo/movimento/associazione oggi esistente (secondo la legge dei 75) che persegua il particolare finalismo discriminatorio.

E' dunque ben possibile che un gruppo oggi esistente, strutturato in modo da risultare punibile ai sensi dell'attuale articolo 604 bis cod. pen., si richiami all'ideologia fascista,  utilizzi la medesima simbologia e ostenti in pubbliche riunioni la simbologia o le manifestazioni fasciste, facendole proprie. In tal caso ci si troverebbe di fronte alla possibile applicazione di entrambe le disposizioni incriminatrici (ove riscontrata, per la legge Scelba, la dimensione di idoneità della condotta a porsi come fattore causale di ricostituzione del partito fascista)  secondo quanto previsto dall'articolo 81, primo comma, cod. pen., ma lì dov'è la dimensione fattuale descritta nella contestazione risulti incentrata esclusivamente sulla manifestazione esteriore del disciolto partito fascista - in un contesto commemorativo - senza previa identificazione e connotazione del gruppo o della associazione esistente oggi, cui accedono le condotte (rientrante nel cono applicativo dell'art. 604 bis, secondo comma, cod. pen.), l'unica disposizione incriminatrice applicabili è proprio quella dell'articolo 5 l. n. 645 del 1952, in forza delle ricadute del principio di tipicità e tassatività delle norme penali descritte dall'illecito”.

 

[20] “Con questa interpretazione, continua il Collegio, coerente a quella che la Corte Costituzionale ha dato nella sentenza n. 1 del 1957 in merito all'art. 4 della l. Scelba, l'art. 5 l. n. 645 del 1952 si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, nè contravviene al principio dell'art. 21, primo comma, della Costituzione.

Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicchè quando questi requisiti sussistono l'ipotesi di cui all'art. 5 della legge citata è costituzionalmente legittima.

Questo principio è, d'altra parte fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sè ogni singola disposizioni di cui si compone la legge 20 giugno 1952, n. 645.

La selezione tra norma generale e norma speciale opera, dunque a livello di concretezza del pericolo che, nel caso della legge Scelba riguarda la ricostituzione del partito fascista, mentre nel caso della legge numero 205 del 1993, abbraccia ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate sulla discriminazione, l'odio razziale ecc., sicché, ove manchi il pericolo di ricostituzione del partito fascista, la pubblica manifestazione simbolica della ideologia fascista deve essere apprezzata quale violazione dell'art. 2 l. n. 203 del 1993.

L'elemento selettivo introdotto dalla legge Scelba è costituito dal pericolo di ricostituzione del partito fascista e delle sue idee, pericolo che.... è accompagnato dalla presunzione di pericolosità delle organizzazioni fasciste e naziste che consente al giudice di operare una semplificazione del ragionamento probatorio. 

Così chiarito che la manifestazione esteriore osteggiata dall'art. 5 l. n. 645 del 1952 attenta allo Stato democratico attraverso il pericolo di ricostituzione del partito fascista, realizzato attraverso la pubblica diffusione delle sue idee e simboli, è utile sottolineare che la legge Scelba introduce altresì una presunzione iuris et de iure di illiceità di dette idee che trova un duplice fondamento: il primo, di natura normativa super primaria, nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione; il secondo, di origine storico sociale, che si poggia sulla condivisa esperienza della disumanità dell'ideologia fascista e nazista, consapevolezza storica che è stata acquisita dalla comunità internazionale nel corso di oltre vent'anni di regime tirannico e di guerra mondiale e che è stata specificamente sofferta dal popolo italiano e perciò trasfusa in un divieto espresso contenuto nella Carta costituzionale....viceversa la legge numero 205 del 1993 rimette all'accertamento del giudice la verifica della natura discriminatoria razzista negazionista delle organizzazioni vietate dalla legge numero 654 del 1975.

La presunzione introdotta dalla legge Scelba porta con sé quindi un elemento di specialità (la natura fascista e nazista delle ideologie)  che opera anche a livello di semplificazione probatoria, essendo indubbio che le ideologie fasciste naziste osteggiate dalla legge Scelba e da essa nominativamente individuate come vietate, rientrano ex se,  per i contenuti  ideologici  e le azioni materiali poste in essere nel periodo storico cui si è fatto riferimento, tra quelle indicate dalla legge numero 654 del 1975 (ora art. 604 bis cod. pen.);  viceversa, per le organizzazioni <non nominate> sarà compito del giudice di verificare dimostrare che sono ispirate da ideologie discriminatorie razziste ect.., e che compiono o invitano a compiere gli atti illeciti indicati nella norma.

Ne consegue che allorquando il giudice penale sia chiamato da applicare l'art. 2 l. n. 203 del 1993, con riguardo a un gruppo od organizzazione che si richiama alle ideologie fasciste naziste, sarà esonerato dalla necessità di procedere all'accertamento della natura vietata dell'organizzazione investigata - al quale deve invece dedicarsi alla luce delle disposizioni della legge Mancino che non evocano nominativamente le organizzazioni vietate - potendosi affidare alla presunzione legale introdotta dalla legge Scelba.

 

[21] Si veda l’intervista rilasciata al quotidiano “Libero” dal leader di CasaPound, Gianluca Iannone, il quale dichiara: “(Il fascismo è stato) un grande padre, severo e giusto. E responsabilizzante. Mussolini era troppo buono, ha dato una seconda chance a gente che non lo meritava. Per esempio a Badoglio, che poi lo tradì…Noi ai tempi del Duce non c’eravamo, non possiamo provarne nostalgia. Siamo fascisti perchè siamo convinti che avesse ragione lui ma siamo giovani. Nessuna nostalgia, lavoriamo al futuro” .

Dichiarazioni dello stesso tenore sono state rese nel mese di marzo di quest’anno dal candidato Sindaco di Lucca, che alla domanda: “Fabio Barsanti fascista doc. Come biglietto di presentazione le può andare bene?” risponde: “Sì, perché lo sono, però, sono anche sempre stato non nostalgico proprio perché la storia del fascismo insegna che bisogna andare avanti e incarnare un'avanguardia. Quindi lo sono come un liberale può essere liberale e un comunista può essere comunista. Rivendico il diritto, che per me è anche un dovere di italiano, potermi rifare a questa esperienza come ad altre esperienze italiane e quindi di vedere in quella dottrina e in quella idea di stato una stella polare. Io, però, vivo nel 2017 e guardo al futuro”.

I suoi sostenitori, come è prevedibile, si esprimono negli stessi termini: “Rossi: Noi ci reputiamo fascisti, ma lo facciamo contestualizzandolo al giorno d’oggi” .

Ancora, in un’intervista a Simone Laurenzi, responsabile di CasaPound nella regione Abruzzo, si legge: “Come CasaPound Italia non abbiamo mai fatto mistero di vedere nel Fascismo il nostro punto di riferimento ideale”.

In termini altrettanto chiari si è espresso anche il responsabile bergamasco dell'associazione, il quale nel 2012 ha dichiarato: “Siamo fascisti del terzo millennio, come un giornalista ha scritto pensando di darci un'etichetta negativa. Da quel che ne so nessuna legge ci vieta di dire la nostra” .

 

[22] Soltanto per rendere l’idea dell’ampiezza del fenomeno, si elencano alcune delle aggressioni registrate negli ultimi anni (evidentemente, l’elenco non può essere completo):

1 - 22 Aprile 2010, attivista di Ostia viene aggredito da alcuni fascisti mentre attaccava manifesti sul 25 aprile;

2 - Settembre 2011, aggressione agli studenti del liceo “Anco Marzio”; 

3 - 10 Gennaio 2012, aggressione agli attivisti di “Rifondazione Comunista”; 

4 - 23 Febbraio 2012, aggressione agli attivisti del Teatro del Lido di Ostia;

5 - 11 Maggio 2015, colpito ragazzo perchè indossava una maglietta della "Spartak Lidense"; 

6 - 25 Aprile 2016, aggressione fascista presso EXDEPò di Ostia;

7 - Maggio 2016, aggressione studenti del liceo “Democrito”; 

8 - 24 Maggio 2016, testata in volto al rappresentante d'istituto del liceo “Labriola”. 

 

 

[23] (http://94.23.251.8/~casapoun/images/unanazione.pdf).

[24]Disponibile su https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104721.pdf  

[25]Cfrhttps://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52016DC0587&from=IT

[26] https://www.corrierecomunicazioni.it/telco/giacomelli-agcom-allitalia-dellera-5g-serve-un-nuovo-piano-bul/

[27]Entro il 2030 almeno l'80% della popolazione adulta dovrebbe possedere competenze digitali di base e 20 milioni di specialisti dovrebbero essere impiegati nell'UE nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, con un aumento del numero di donne operative nel settore.

[28]Entro il 2030 tutte le famiglie dell'UE dovrebbero beneficiare di una connettività Gigabit e tutte le zone abitate dovrebbero essere coperte dal 5G; la produzione di semiconduttori sostenibili e all'avanguardia in Europa dovrebbe rappresentare il 20% della produzione mondiale; 10 000 nodi periferici a impatto climatico zero e altamente sicuri dovrebbero essere installati nell'UE e l'Europa dovrebbe dotarsi del suo primo computer quantistico.

[29]Entro il 2030 tre imprese su quattro dovrebbero utilizzare servizi di cloud computing, big data e intelligenza artificiale; oltre il 90% delle PMI dovrebbe raggiungere almeno un livello di base di intensità digitale e dovrebbe raddoppiare il numero di imprese "unicorno" nell'UE.

[30]Entro il 2030 tutti i servizi pubblici principali dovrebbero essere disponibili online, tutti i cittadini avranno accesso alla propria cartella clinica elettronica e l'80% dei cittadini dovrebbe utilizzare l'identificazione digitale (eID).

[31]Cfr: https://www.agcom.it/documentazione/documento?p_p_auth=fLw7zRht&p_p_id=101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE&p_p_lifecycle=0&p_p_col_id=column-1&p_p_col_count=1&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_struts_action=%2Fasset_publisher%2Fview_content&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_assetEntryId=21763414&_101_INSTANCE_FnOw5lVOIXoE_type=document

 

 

 

[32] Per avere un’idea del fenomeno, dalla ventesima edizione dell’Ericsson Mobility Report 2021 il ritmo attuale al quale sta viaggiando il 5G è di un milione di nuovi abbonamenti al giorno che prevede per la fine del 2021, le sottoscrizioni saranno 580 milioni sottoscrizioni al mondo, arrivando a 3,5 miliardi (il 40% del totale) e una copertura del 60% della popolazione mondiale entro il 2026.

[33] I mercati più convenienti sembrano essere quelli delle Smart Cities (circa 190 miliardi).

[34] Per un approfondimento sulla definizione e sui vari tipi di IA si veda: https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20200827STO85804/che-cos-e-l-intelligenza-artificiale-e-come-viene-usata

[35] https://www.abiresearch.com/market-research/service/ai-machine-learning/

[36]Cfr. pag 89 Amazon dietro le quinte M. Angioni Raffaello Cortina Editore, Milano 2020.

[37]https://avanzamentodigitale.italia.it/it/progetto/spid

 

[38] L'acronimo con cui individuarle nasce in quegli ambienti open-source che promuovono la consapevolezza della distorsione politico-economica conseguente. Ma è soprattutto in Francia che questo acronimo è associato ad una campagna di sensibilizzazione contro gli abusi della concentrazione.

[39]https://www.savethechildren.it/blog-notizie/scuola-e-covid-19-pensieri-e-aspettative-degli-adolescenti

 

[40] Acronimo inglese di (Young people) Neither in Employment or in Education or Training, o anche " Not (engaged) in Education, Employment or Training", indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione. Usato per la prima volta nel 1999 in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito, come termine di classificazione per una particolare fascia di popolazione, di età compresa tra i 16 e i 24 anni. In seguito, l'utilizzo del termine si è diffuso in altri contesti nazionali, a volte con lievi modifiche della fascia di riferimento: in Italia, ad esempio, l'utilizzo di né-né come indicatore statistico si riferisce, in particolare, a una fascia anagrafica più ampia, la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni, anche se in alcuni usi viene ampliato per i giovani fino a 35 anni, se ancora coabitanti con i genitori

[41] In base al Considerato 59 della Direttiva 20218/1808 con il termine “alfabetizzazione mediatica” ci si riferisce “alle competenze, alle conoscenze e alla comprensione che consentono ai cittadini di utilizzare i media in modo efficace e sicuro. Al fine di consentire ai cittadini di accedere alle informazioni, usare, analizzare criticamente e creare in modo responsabile e sicuro contenuti mediatici occorre che essi dispongano di un livello avanzato di competenze di alfabetizzazione mediatica. L'alfabetizzazione mediatica non dovrebbe essere limitata all'apprendimento in materia di strumenti e tecnologie, ma dovrebbe mirare a dotare i cittadini delle capacità di riflessione critica necessarie per elaborare giudizi, analizzare realtà complesse e riconoscere la differenza tra opinioni e fatti. È pertanto necessario che sia i fornitori di servizi di media sia i fornitori di piattaforme per la condivisione di video, in cooperazione con tutti i soggetti interessati pertinenti, promuovano lo sviluppo dell'alfabetizzazione mediatica in tutti i settori della società, per i cittadini di tutte le età, e per tutti i media, e che se ne verifichino attentamente i progressi.”

[42] Tratto da “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, libro basato su di una serie di lezioni preparate da Italo Calvino nel 1985 in vista di un ciclo di sei lezioni da tenere all'Università di Harvard, nell'ambito delle prestigiose "Poetry Lectures" - intitolate al dantista e storico dell'arte americano Charles Eliot Norton. Il ciclo, previsto per l'autunno di quello stesso anno, non si è mai tenuto a causa della morte di Calvino avvenuta nel settembre 1985.

[43]In “Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione”, Guerini e Associati, Milano, 2003 raccolti, a cura di G. Paolucci, degli atti del convegno su «Rapidità. La contrazione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana», tenuto presso l’Istituto Universitario Europeo (Firenze) nel gennaio del 2002.

[44] Per un approfondimento si rinvia al Par. 5 “Il lato passivo della libertà di informare: a) la libertà di informarsi/essere informati (interesse a ricercare notizie e diritto di accesso);” del Cap. I “L’art. 21 Cost. e la libertà di informare” del manuale Diritto dell'informazione e della comunicazione di R. Zaccaria, A. Valastro, E. Albanesi XI ed. CEDAM 2021.

[45]Corte di giustizia dell’Unione europea sentenza 24 novembre 2011, C-70/10, Scarlet Extended SA c. SABAM).

[46] Sentenza 12 luglio 2011, C-324/09, L’Oréal SA c. eBay International AG.

[47]Sentenza 3 ottobre 2019, C-18/18, Eva Glawischnig-Piesczekc.Facebook Ireland Limited

[48]Corte di Cassazione Civile (Prima sezione) sentenza 19 marzo 2019, n. 7708.

[49]Si tratta delle delibere 102/20/CONS, 103/20/CONS e 104/20/CONS irrogate, rispettivamente a Mywayticket, Viagogo, e StubHub per un totale di 5.580.000 euro, e diffidando allo stesso tempo tali piattaforme dal porre in essere ulteriori comportamenti in violazione delle disposizioni di legge.

[50]Con il provvedimento 541/20/CONS l’Autorità ha sanzionato Google Ireland, titolare del servizio Google Ads (servizio di indicizzazione e promozione di siti web) il quale ha consentito, attraverso il servizio di posizionamento pubblicitario online, la diffusione, dietro pagamento, di link che indirizzano verso determinati siti (landing page), in violazione delle norme di contrasto al disturbo da gioco di azzardo.

[51] XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it).

[52] Gazzetta ufficiale di sabato 26 giugno: delibera del Senato recante "Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul gioco illegale e sulle disfunzioni del gioco pubblico", proposta da una nutrita schiera di senatori, a iniziare da Mauro Maria Marino (Iv-Psi).

[53] Regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online.

[54]Art. 2 par. 1 del regolamento: “un privato che agisce nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali o una persona giuridica che offre beni o servizi ai consumatori tramite servizi di intermediazione online per fini legati alla sua attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale”;

[55]Art. 2, par. 2 del regolamento: “servizi che soddisfano tutti i seguenti requisiti: a) sono servizi della società dell’informazione ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio (12); b) consentono agli utenti commerciali di offrire beni o servizi ai consumatori, con l’obiettivo di facilitare l avvio di transazioni dirette tra tali utenti commerciali e i consumatori, a prescindere da dove sono concluse dette transazioni; c) sono forniti agli utenti commerciali in base a rapporti”.

[56]Art. 2, par. 5 del regolamento: “un servizio digitale che consente all utente di formulare domande al fine di effettuare ricerche, in linea di principio, su tutti i siti web, o su tutti i siti web in una lingua particolare, sulla base di un interrogazione su qualsiasi tema sotto forma di parola chiave, richiesta vocale, frase o di altro input, e che restituisce i risultati in qualsiasi formato in cui possono essere trovate le informazioni relative al contenuto richiesto”;

[57]Art. 2, par. 5 del regolamento: “persona fisica che agisce per fini che esulano dall’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale di tale persona”.

[58] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0825&from=en

[59] Durante la sua recente audizione in Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi Rai lo scorso 13 aprile 2021 disponibile su https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=12116

[60] EUR-Lex - 52020PC0842 - EN - EUR-Lex (europa.eu)

[61] L. Aria in “L’attività delle piattaforme tra DSA e Direttiva SMAV. La frontiera di una nuova regolazione?”  del 29.01.2021 in MediaLaws http://www.medialaws.eu/lattivita-delle-piattaforme-tra-dsa-e-direttiva-smav-la-frontiera-di-una-nuova-regolazione/

[62] In una sua intervista «Un “new digital deal” per regolare le big tech: le azioni Agcom nel contesto Ue» su https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/un-new-digital-deal-per-la-regolazione-delle-big-tech-le-azioni-agcom-nel-contesto-ue/ illustrando in particolare l’indagine conoscitiva relativa ai servizi offerti sulle piattaforme online, avviata con delibera n. 44/21/CONS.

[63] http://presidenti.quirinale.it/Pertini/documenti/per_disc_31dic_82.htm

[64] Citazione da ultimo del documentario “the social dilemma” di Jeff Orlowski e scritto dallo stesso Orlowski insieme a Davis Coombe e Vickie Curtis e presentato il 26 gennaio 2020 al Sundance Film Festival, oggi distribuito da Netflix

[65] https://www.lapaginagiuridica.it/wp-content/uploads/2019/10/A_74_48037_AdvanceUneditedVersion.pdf

[66] Articolo 9 del GDPR

Trattamento di categorie particolari di dati personali

  1. È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.
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  5. c) il trattamento è necessario per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica qualora l’interessato si trovi nell’incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso;
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  7. e) il trattamento riguarda dati personali resi manifestamente pubblici dall’interessato;
  8. f) il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali;
  9. g) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato;
  10. h) il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3;
  11. i) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato, in particolare il segreto professionale;
  12. j) il trattamento è necessario a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici in conformità dell’articolo 89, paragrafo 1, sulla base del diritto dell’Unione o nazionale, che è proporzionato alla finalità perseguita, rispetta l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.
  13. I dati personali di cui al paragrafo 1 possono essere trattati per le finalità di cui al paragrafo 2, lettera h), se tali dati sono trattati da o sotto la responsabilità di un professionista soggetto al segreto professionale conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti o da altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti.
  14. Gli Stati membri possono mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riguardo al trattamento di dati genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute.

 

[67] Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979 e ratificata dall’Italia con legge 132/1985, rappresenta lo strumento giuridico

internazionale fondamentale in tema di diritti delle donne. L’attuazione della Convenzione viene monitorata dal Comitato il quale ai sensi dell’art. 21 della Convenzione stessa adotta le General Recommendations, atti con i quali offre un’interpretazione della Convenzione volta a fornire agli Stati indicazioni utili a ben definire il contenuto degli obblighi così da facilitarne l’applicazione. A questo proposito è utile ricordare che la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che si "dovrebbe attribuire particolare peso" alle interpretazioni fornite del Comitato per i diritti umani in relazione al Patto internazionale sui diritti civili e politici. Per analogia, la medesima rilevanza deve essere attribuita anche alle General Recommendations, del Comitato CEDAW. M. A. Freeman, Oxford Commentaries on International Law: Un Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women: a Commentary, Oxford, 2012

[68]  Basti pensare alle numerose pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di violenza contro le donne, alcune delle quali sono di condanna dell’Italia. In particolare sono identificabili 2 ambiti entro i quali la Corte ha adottato decisioni relative a fatti oggetto di giudizio da parte delle nostre corti nazionali e cioè in primis le valutazioni compiute dall’autorità giudiziaria italiana in tema di capacità genitoriale di madri vittime di violenza domestica, e talune situazioni di  inerzia o ritardo della magistratura italiana nella concessione di misure di protezione in favore di donne vittime di violenza domestica. Si tratta di interventi della Corte. I principali obblighi positivi degli Stati membri in materia di lotta alla violenza contro le donne affermati dalla giurisprudenza della Corte Edu, concernono l’interpretazione degli articoli 2, 3, 8 e 14 della Convenzione. Altre disposizioni convenzionali, rilevanti sono previste agli articoli 4 e 13. Per una disamina sintetica della giurisprudenza della Corte europea in materia di violenza si veda: https://www.coe.int/it/web/portal/-/implementing-echr-judgments-new-factsheet-on-domestic-violence-cases.

[69] v. rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta 17.6.2021, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf -

[70] v. rapporto della Commissione Parlamentare di inchiesta 17.6.2021, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/361580.pdf -

[71] COM (2022) 105 definitivo, 8 marzo 2022. La lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica rientra tra le attività della Commissione europea in materia di protezione dei valori fondamentali dell'UE e e rispetto dei diritti previsti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. La necessità di prevenire e combattere la violenza contro le donne, proteggere le vittime e punire gli autori di questi reati rientra nella Strategia per la parità di genere 20202025. L’intento di considerare queste tematiche è presente trasversalmente nella Strategia dell'UE sui diritti dei minori (2021-2024), nella Strategia dell'UE sui diritti delle vittime (2020-2025), nella Strategia di uguaglianza LGBTIQ 2020-2025 e nella Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030. Il Piano d'Azione sulla parità di Genere III fa della lotta alla violenza di genere una delle priorità dell'azione esterna dell'Unione. La presente proposta si basa sul combinato disposto dell'articolo 82, paragrafo 2, e dell'articolo 83, paragrafo 1, del TFUE. L'articolo 82, par. 2, del TFUE fornisce la base giuridica per stabilire norme minime riguardanti i diritti delle vittime di reato relativamente al riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale per questioni di dimensione transnazionale. L'articolo 83, par. 1, del TFUE interessa invece le norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni riguardanti lo sfruttamento sessuale di donne e minori e i reati informatici. L’1 giugno 2023, l’Unione Europea ha inoltre concluso, con due decisioni del Consiglio, il processo di adesione alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, processo che aveva incontrato molteplici ostacoli, non da ultimo la necessità di attendere il parere della Corte di giustizia dell’Unione europea, reso nel 2021 su richiesta del Parlamento europeo. La ratifica da parte dell’UE è espressamente prevista dalla Convenzione di Istanbul (art. 75) ed era tra le priorità dell’attuale Commissione come emerge dalla Strategia per la parità di genere 2020-2025. A questo proposito va rilevato che, la direttiva, una volta adottata a maggioranza qualificata, obbligherà tutti gli Stati membri dell'UE a rispettare le sue disposizioni, che riflettono in parte la Convenzione del Consiglio d'Europa e che continua ad essere contestata quei paesi europei nei quali la retorica anti-gender rappresenta una minaccia diretta ai progressi in materia di parità di genere. Va anche considerato però che l'UE può essere vincolata dalle disposizioni di un testo internazionale nei limiti delle sue competenze perciò la ratifica della Convenzione Europea da parte dell’UE (in vigore per l’Unione europea dal 1° ottobre 2023) riguarda de facto solo le disposizioni che rientrano nelle sue competenze, ossia la cooperazione giudiziaria in materia penale, l’asilo e il non respingimento. Per gli Stati membri dell’UE che non hanno ratificato la Convenzione di Istanbul, quest’ultima “entrerà” nel loro sistema giuridico perciò nei limiti delle competenze attribuite dai Trattati, del diritto derivato dell’Unione europea. Ciò implica che in materia di criminalizzazione, fatti salvi altri interventi legislativi a livello UE, gli Stati che non sono parte della Convenzione di Istanbul non avranno alcun obbligo giuridico, ma avranno pur tuttavia un obbligo di attuare misure di protezione delle vittime dei reati di cui alla Convenzione che costituirà per tutti uno strumento interpretativo del diritto europeo già in vigore.

[72] Ricordiamo che il 28 giugno la Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere e la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo hanno votato la loro posizione sulla Proposta di DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, Strasburgo, 8.3.2022  COM(2022) 105 final 2022/0066 (COD), chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52022PC0105

[73] Al riguardo la Cassazione sembra però ferma nella sua  posizione del tutto negativa ,si veda al riguardo Cass. Sez.1 30 gennaio 2017 ,n.2224.

[74] Attuale anche dopo la riforma Cartabia ( II comma art. 473 bis-11) applicazione delle disposizioni ni generali sulla competenza salvo che si tratti di minori.

[75] Si veda  al riguardo, ad esempio, in Veneto la Legge di data 23 aprile 2013 al n.5 .

[76] Tra gli altri,   Ancona.

[77] Per vero, un trojan o trojan horse (cavallo di Troia) è una tipologia di malware. L'allegorico epiteto di "trojan horse" deriva dalla sua modalità di inoculazione: esso viene infatti nascosto all'interno di un altro programma apparentemente innocuo; eseguendo o installando quest'ultimo programma installa o esegue di conseguenza anche il codice del malware. Quindi, il software viene comandato da un soggetto terzo, e può eseguire delle operazioni all’interno del dispositivo infettato.

In realtà, il metodo di inoculazione del malware può essere vario. E’ pertanto tecnicamente incorretto chiamare tale metodo di investigazione “trojan”.

[78] Si veda il comunicato dei docenti universitari rinvenibile al link https://www.unito.it/sites/default/files/documento_captatori_informatici_0.pdf

[79] Si veda, ex plurimis, CEDU, Klass and others v. Germany, (Application n. 5029/71), 6 settembre 1978, § 50.

[80] Rinvenibile al link https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0050160.pdf

[81] Si veda, a titolo di mero esempio, FR, Code de Procédure Pénale, Artt. 706-102-1, 706-102-2.

[82] Decreto ministeriale 20 aprile 2018 – Disposizioni di attuazione per le intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico e per l’accesso all’archivio informatico a nor- ma dell’articolo 7, commi 1 e 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216.

[83] La Corte di cassazione, con sentenza n. 31604/20, depositata l’11 novembre, ha rilevato come  il captatore informatico non possa in inquadrarsi tra "i metodi o le tecniche" idonee ad influire sulla libertà di determinazione del soggetto, vietati dall’art. 188 c.p.p. poiché «non esercita alcuna pressione sulla libertà fisica e morale della persona, non mira a manipolare o forzare un apporto dichiarativo, ma, nei rigorosi limiti in cui sono consentite le intercettazioni, capta le comunicazioni tra terze persone, nella loro genuinità e spontaneità».

[84] Tale bene giuridico, specificazione informatica del domicilio comune, è da intendersi – secondo interpretazioni più attente al valore sociale che il dato digitale ha acquisito nel tempo – sia come spazio fisico contenente dati riservati, sia come spatium vitae et cogitationis attraverso cui la personalità umana si estrinseca. Il bene giuridico tutelato si esprimerebbe quindi nella libertà di condurre, all’interno del luogo-sistema informatico, qualsiasi attività che non si ponga in contrasto con l’ordinamento di diritto. Ne discende che la tutela penale si concreterebbe nel momento di esercizio dello “ius excludendi alios” del dominus loci, estendendosi, al pari della tutela del domicilio fisico, sin dove la voluntas excludendi si spinga (posto il necessario rispetto di eventuali norme che autorizzino l’accesso).

[85] Si veda: GER, Bundesverfassungsgericht, Urteil des Ersten Senats vom 15. Dezember 1983 - 1 BvR 209/83;  Bundesverfassungsgericht, Urteil des Ersten Senats vom 27. Februar 2008, 1 BvR 370/07 u. a. – Online-Durchsuchung/Computer-Grundrecht

[86] Si veda in particolare il D.Lgs. 51/2018 di attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorita’ competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonche’ alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio.

 

[87] Ud. 21 dicembre 2017, Presidente Canzio, Relatore De Amicis

[88] Ma si veda poi anche la più nota sentenza Spano del 7 dicembre 1995 causa C-462/93 Spano e a.

[89] Baldini&Castoldi, 1995.

[90] "The Future of Employment", pubblicato da Oxford University Programme, 2013.

[91] Global Chief Investment Officer di Ubs Wealth Management. Il dato è contenuto nella ricerca di Ubs "Workforce Future 2016".

[92] «Gli studi di Arntz, Gregory e Zierahn chiariscono molti aspetti e mostrano in modo evidente come la ricerca di Frey e di Osborne (e quelle successive, basate su simili supposizioni) sia poco attendibile. Stando a quanto riportato dai tre ricercatori del “Center for European Economic Research” di Mannheim….esaminando 21 paesi della zona OCSE (tra cui anche l’Italia), gli autori evidenziano come –in generale– solo il 9% degli attuali occupati sia ad alto rischio “sostituzione”. In particolare, il pericolo del progresso tecnologico sembra essere minore in tutti quei paesi avanzati che investono di più nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), che spendono maggiormente nell’educazione terziaria», Giovanni Caccavello, research fellow in European Policy presso EPI Center ed Institute of Economic Affairs. Qual è il vero rischio dell’automazione del lavoro? Econopoly, 30 gennaio 2017.

[93] Il tasso di interesse nell'eurozona (e in generale nei paesi più industrializzati) è quasi a zero, da circa nove anni https://voxeu.org/article/evidence-low-real-rates-will-persist. Tra l’altro, per quanto attiene l’Italia, i tassi bassissimi non hanno avuto effetti significativi neanche sugli investimenti https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economia-italiana-in-breve/index.html. Il che, naturalmente, non significa che le politiche monetarie siano inutili o ininfluenti, ma solo che non sono di per sé sufficienti in relazione a disoccupazione ed impoverimento.

[94] I lavoratori part time sono aumentati in Italia di circa 10 punti, passando dall’8% a oltre il 18% dei lavoratori. Il numero delle ore lavorate medie  è, conseguentemente,  sceso (dati Istat).

[95] Il dato è notevolissimo, e va tenuto presente quando si leggono i numeri della disoccupazione. L’Italia conta il 50% in più della Germania, e il 66% più della Franca, di self-employed persons, vale a dire lavoratori autonomi. Una larga parte di questi autodichiarati autonomi lo è diventato per carenza di altri sbocchi lavorativi.

[96] Dati della Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2016/index.html.

[97] Medesima indagine Bankitalia del 2016: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2016/index.html.

[98] Dati Istat (https://www.istat.it/it/archivio/226611).

[99] Éditions du Seuil, 2013.

[100] Si veda in merito anche Povertà, a cura di Carlo Cefaloni, con testi di Leonardo Becchetti, Maurizio Franzini, Alberto Mingardi, Chiara Saraceno, Vittorio Pelligra, Città nuova, Roma 2016.Nel testo si ricorda come in Italia negli ultimi dieci anni la povertà si sia allargata a macchia d’olio, mettendo in ginocchio intere famiglie. La povertà è cresciuta in modo notevolissimo: più 141%, con l’8% della popolazione residente in Italia che vive nell’indigenza assoluta (4,6 milioni di persone).

[101] Il piano inclinato del capitale: crisi, competizione globale e guerre, Luciano Vasapollo, Editoriale Jaca Book, 2003.

[102] In Italia, tuttavia, per non farci mancare nulla, sono scesi mediamente anche i salari: https://medium.com/@OECD/what-happened-to-wage-growth-8df7b6dfe9b4

[103] E sempre ammesso che non si cada in quella che sopra abbiamo definito la ‘trappola dell’automazione’.

[104] È chiaro infatti che gli effetti di un aumento dei consumi sul lavoro si disperdono in larga parte, laddove una buona parte dei beni sul mercato provenga dalle importazioni. Anche se ciò non deve scoraggiare dall’intraprendere queste politiche, che non solo sono valide, ma che sostenendo anche i paesi in via di sviluppo, contribuiscono al buon andamento dell’intera economia mondiale.

[105] All’interno dei Giuristi Democratici occorre dare conto di una diversa posizione:

Nel documento si afferma che il reddito di cittadinanza “resta una soluzione di passaggio”. Lo si presenta come l’unica adeguata “risposta al cambiamento epocale che abbiamo vissuto” e se ne cita, tra i fondamenti culturali, Hegel, per cui «l'uomo è l'essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso» e come fondamento giuridico la Costituzione all’art. 4, ”laddove è scritto che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. L’equivoco è tutto nel fatto che laddove è scritto “attività” e “costruzione” viene letto “lavoro” e “orario”. Deve infatti essere riconosciuta come rilevante l’attività di cura dei propri cari e dell’ambiente in cui si vive, quella svolta nella coltivazione di se stessi o nella dimensione ludica e sociale, in favore della scelta di prevedere la necessità di un “lavoro” formale. Dunque dissentiamo dalla proposta, in quanto, lungi dall’essere una "risposta al cambiamento", difetta proprio nel non saper guardare all’oggi, al momento storico in cui il lavoro ha toccato il suo picco assoluto di sofferenza, svalorizzazione ed insensatezza relativamente alla capacità di favorire la “libera” espressione della propria personalità.

È cioè una proposta obsoleta e —nella misura in cui punta alla piena occupazione con un lavoro formale— tanto impossibile quanto indesiderabile. E che per altro ha il difetto, involontariamente, di volgere le spalle alle lotte delle nuove generazioni per inventare un mondo davvero nuovo e sostenibile ipotizzando altri milioni a pendolare ogni giorno tra quartieri dormitori e posti di “lavoro”, affossando in prospettiva il mercato delle attività culturali e assistenziali che sarebbe bruciato da un esercito di lavoratori di cittadinanza non specializzati da impiegare. Se poi invece essa sottende a una reindustrializzazione di massa avrebbe —per pura ipotesi di realizzabilità— delle conseguenze devastanti dal punto di vista ecologico, in quanto presupporrebbe un massiccio ampliamento dell’apparato produttivo che per funzionare dovrebbe dragare risorse energetiche, e produrre quantità di scarti, tali da accelerare l’orizzonte autodistruttivo del pianeta. Alla fine tutto ciò che di progressivo resterebbe è la natura “pedagogica” della proposta che rinvia alla parte meno libera e feconda delle esperienze del socialismo reale, dimenticando come già Marx invitasse alla lotta contro l’alienazione del lavoro salariato e il conseguente furto del valore prodotto, valore che —dagli operaisti in poi— abbiamo appreso essere estratto proprio da quelle libere “attività” di cui parla l’art. 4 della Costituzione e rispetto a cui il reddito si configura già come dovuto salario sociale senza bisogno di inventare elefantiache organizzazioni pubbliche di messa in produzione, sorveglianza e controllo dei disoccupati.

Per queste ragioni abbiamo espresso disagio nel riconoscerci nel lavoro di cittadinanza, e l’aspetto straordinario e unico dei Giuristi Democratici è che è stato ritenuto non solo possibile ma arricchente l’invito ad esprimere le ragioni del nostro dissenso, che si illustrano con queste righe unitamente ai motivi della rinnovata adesione.

 

[106] Umberto Terracini, La Costituzione e i diritti del lavoro, in Costituzione della Repubblica, Roma, 1948, da Dalla monarchia alla repubblica. 1943-1946, la nascita della Costituzione italiana a cura di Enzo Santarelli, L'Unità-Editori Riuniti.

 

n produzione, sorveglianza e controllo dei disoccupati.

Per queste ragioni abbiamo espresso disagio nel riconoscerci nel lavoro di cittadinanza, e l’aspetto straordinario e unico dei Giuristi Democratici è che è stato ritenuto non solo possibile ma arricchente l’invito ad esprimere le ragioni del nostro dissenso, che si illustrano con queste righe unitamente ai motivi della rinnovata adesione.

 

[106] Umberto Terracini, La Costituzione e i diritti del lavoro, in Costituzione della Repubblica, Roma, 1948, da Dalla monarchia alla repubblica. 1943-1946, la nascita della Costituzione italiana a cura di Enzo Santarelli, L'Unità-Editori Riuniti.