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L'avvocatura: prospettive di rilancio o crisi irreversibile della professione?
Redazione 2 febbraio 2009 10:45
Riflessioni di Roberto Lamacchia, Presidente dell'associazione nazionale dei Giuristi Democratici.

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La trasformazione, sia quantitativa, sia qualitativa, che sta vivendo, in questi anni, il ruolo e la professione dell’avvocato è sotto gli occhi di tutti.
Sotto il profilo quantitativo, basti pensare che, a fronte di circa 80.000 avvocati nel 1980, si è passati a 129.000 nel 2000 ed a 210.000 nel 2007; si tratta del più rilevante aumento tra le varie categorie libero-professionali.
Infatti, pur se la crescita riguarda tutto il mondo libero professionale, l’incremento maggiore si registra proprio nella categoria degli avvocati. Tra il 1999 ed il 2002, le professioni che hanno registrato la maggiore crescita sono state, infatti: avvocati (+58,2%), architetti (+25,2%), psicologi (+21,6%), assistenti sociali (+14,8%), ingegneri (+14%) e consulenti del lavoro (+10,1%).
E’ evidente che un simile aumento non può che determinare una profonda modifica della categoria, nella sua composizione, nella sua percezione all’esterno, in definitiva nel suo ruolo sociale.
Si tratta di un fenomeno, quello dell’aumento esponenziale degli avvocati, che non trova corrispondenza nel resto di Europa, se solo si pensa che in Gran Bretagna i legali sono 117.000, uno ogni 342 abitanti ed in Francia, addirittura, 44.000, uno ogni 1.465 abitanti, mentre in Italia il rapporto è di un avvocato ogni 283 abitanti.
Come dire che quasi in ogni famiglia o agglomerato di famiglie si può annoverare un avvocato e questo porta come conseguenza che anche il prestigio sociale, che ha sempre caratterizzato la professione tende a scemare via via che l’avvocato diventa un soggetto “a portata di mano”; ciò dico non per sostenere e rimpiangere i bei tempi andati, ma semplicemente per segnalare le ragioni di una diversa percezione della figura e del ruolo dell’avvocato.
L’incremento massiccio degli esercenti la professione legale è stato, in buona parte, determinato dall’esposizione mediatica che i ruoli dell’avvocato e del magistrato hanno avuto al tempo dei processi di Tangentopoli; il richiamo che quei fatti hanno avuto sui giovani che dovevano iscriversi all’Università è stato evidentemente irresistibile e così il numero di iscritti a Giurisprudenza ha avuto, per anni, un’impennata; poi, la maggior complessità dell’accesso in Magistratura, il numero limitato di posti a concorso e la conseguente maggior aleatorietà del risultato di un impegno pluriennale hanno fatto sì che la stragrande maggioranza dei neolaureati optasse per l’iscrizione alla pratica forense.
Si è venuto, così, a creare un vero e proprio esercito di praticanti, attirati dall’immagine, diffusa dai media, dell’avvocato in carriera, rampante e ricco, oltre che dallo stimolo, questo positivo, del ruolo di difesa dei diritti dei cittadini svolto dall’avvocato.
Mancano dati precisi sul numero di praticanti, dati che non sono facilmente reperibili sia in relazione ai praticanti abilitati che a quelli senza patrocinio: da una sommaria ricerca presso i siti di alcuni Consigli dell’Ordine, da cui non è, peraltro, sempre consentito comprendere a quale categoria di praticanti quei dati si riferiscano, comunque, è emersa una situazione inquietante: i praticanti, infatti, sono 5.308 a Roma; 515 a Bologna (ma in questo caso si tratta solo di praticanti con il patrocinio); 2.542 a Napoli e 2.065 a Torino (di cui 1.086 con patrocinio e 979 praticanti “semplici”).
Come si vede, si tratta di numeri imponenti che non fanno intravedere miglioramenti, a breve, della situazione.
Il numero di iscritti all’esame annuale è andato sempre aumentando, negli anni: per la prima volta, nel 2007, pare vi sia stato un calo degli iscritti rispetto all’anno precedente e ciò potrebbe significare l’esaurimento dell’onda lunga partita negli anni ’90, ma è certo che ancora per lunghi anni si assisterà ad un ulteriore rilevante aumento degli iscritti agli albi.
La situazione dei praticanti era già difficile prima del boom degli anni ’90, ma si è aggravata in modo consistente, sia per il numero di praticanti, che a volte non riesce nemmeno a trovare una vera collocazione che consenta una pratica effettiva, sia per l’abuso che molti avvocati hanno attuato nei confronti dei giovani, utilizzandoli, a volte a costo zero, per lavori di segreteria e/o per commissioni, limitandosi a fornire al praticante la copertura per poter affrontare l’esame, ma senza effettuare alcun vero controllo, né tanto meno addestramento, sulle sue competenze giuridiche e professionali; leggende metropolitane narrano di un avvocato che, negli anni ’90, era giunto ad avere 24 praticanti, dai quali riceveva un compenso annuo di £.1.000.000 ciascuno per il disturbo!
La situazione era così tesa che sono sorte associazioni di tutela dei praticanti che, però, non hanno ottenuto grandi risultati, anche perché gli iscritti vivono l’esperienza associativa in un’ottica assolutamente individualistica, sperando, ovviamente, di affrancarsi il più presto possibile e disinteressandosi, poi, del problema, non appena divenuti avvocati.
Solo gli interventi di alcuni Consigli dell’Ordine hanno fatto sì che si creasse una situazione più controllabile e più seria, anche se, ovviamente, il controllo esercitato non può estendersi al rapporto dominus-praticante.
Ad aggravare il fenomeno, poi, si è inserita la questione dei criteri di selezione agli esami, il conseguente turismo verso le sedi di maggior semplicità della prova, ed una diversa incidenza percentuale del numero dei nuovi avvocati nei vari distretti.
Si è, così, venuta a creare una situazione variegata in cui, pur partendo ogni realtà da un consistente e generalizzato incremento numerico degli iscritti, si hanno realtà giunte a livelli esplosivi.
Emblematica è la situazione di Napoli, con circa 11.000 avvocati (e 25.000 in tutta la Campania) ed anche quella di Roma, con circa 20.000 avvocati iscritti (i praticanti non sono considerati in questi numeri), così come quella di Bologna con circa 4.100 avvocati, assai anomala se paragonata, ad esempio, con Torino, ove gli iscritti sono circa 4.700 con una popolazione quasi doppia.
Insomma, si marcia inesorabilmente verso quella che è stata definita la proletarizzazione della categoria che capovolge quella che era la posizione sociale degli avvocati sino al 1944, data in cui con D.Lgs. Lgt. 7 settembre 1944 n. 215 venne “temporaneamente” (!) sospeso l’accesso programmato alla professione, sospensione che, come d’abitudine in Italia, è ancora vigente, al punto che nessuno ricorda più che un tempo l’ accesso alla professione era programmato.
Ovviamente, una simile situazione sta determinando la formazione di uno sterminato mercato, all’interno del quale il cittadino dovrebbe poter liberamente scegliere, in base alla qualità della prestazione fornita ed alla convenienza economica.
Tutto ciò ha finito per trasformare l’esercizio della professione nella gestione di un’impresa, il cliente in un consumatore e, in ultima analisi, l’accesso alla giustizia nell’acquisto di una merce di consumo da parte del cittadino-utente.
Figlia di questa stortura e, nello stesso tempo, causa del rafforzamento della stessa è stata la normativa stabilita dalla Legge-Bersani, che ha sposato in pieno quell’impostazione.
Ma l’avvocato non è (o non è solo) un imprenditore, come pare emergere da quella normativa.
Egli è lo strumento attraverso il quale il cittadino può far valere i suoi diritti o in relazione alla pretesa punitiva dello Stato, o nei rapporti privatistici con gli altri cittadini: in tutti e due i casi, l’avvocato deve, utilizzando gli strumenti che la legge gli consente, garantire il rispetto del rito, nell’ottica del raggiungimento del risultato più favorevole al proprio cliente.
Ed i confini entro cui può muoversi sono ben chiariti dal preambolo al Codice Deontologico che stabilisce “l’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia. Nell’esercizio della sua funzione, l’Avvocato vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti Umani e dell’Ordinamento Comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e l’inviolabilità della difesa; assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela di questi valori.”.
Appare subito evidente, dalla lettura del brano che precede, come sia fondamentale, per un corretto esercizio della professione, che il rispetto dei principi sanciti dal Codice Deontologico venga controllato dagli Ordini Professionali che devono perseguire disciplinarmente chi li viola, e ciò nell’interesse non solo dei cittadini, ma anche di quegli avvocati che quelle regole rispettano.
Ciò, purtroppo, non sempre avviene; vi sono zone d’Italia dove, da anni, i Consigli dell’Ordine non celebrano un procedimento disciplinare; altre, in cui nei sei mesi precedenti le elezioni per il rinnovo dei Consigli, “per prudenza”, i giudizi disciplinari vengono sospesi e, e siccome le elezioni avvengono ogni due anni…….!
E’ evidente che, in una situazione di superfetazione del numero di avvocati, di spinta verso una presenza visibile sul mercato, di assenza di controlli sul come si persegue il risultato più favorevole al proprio cliente, i comportamenti non conformi alle regole tendono ad aumentare ed a contribuire a dare dell’avvocato quell’immagine negativa, agli occhi dell’opinione pubblica (e di cui gli avvocati si lamentano), che anche una recente indagine del CENSIS ha confermato.
L’apertura alla pubblicità (che alcuni Consigli cercano di limitare strettamente ad una corretta informazione al cittadino) fa sì che, anche nel campo legale, conti, a volte, molto di più l’apparire che l’essere.
L’abolizione, poi, del divieto del patto di quota-lite con il cliente sancita nel ricordato Decreto Bersani, venduta come una conquista per il cliente in quanto sposterebbe il rischio di causa sull’avvocato (“paghi solo se vinci”), si presta ad utilizzazioni discutibili, pur nel rispetto della norma, da parte di avvocati callidi, che stipulino il patto di quota-lite (magari in misura ampiamente superiore a quanto avrebbero potuto ottenere anche con una parcella calcolata sui massimi tariffari!) solo nei casi di vittoria pressoché certa, e magari pubblicizzando anche la propria disponibilità a stipulare simili convenzioni.
Insomma, l’elevato numero di avvocati, che dovrebbe almeno favorire la libera concorrenza e, dunque, la clientela, non porta, in ultima analisi, alcun vantaggio per il “cittadino-consumatore”, mentre riduce la possibilità di guadagno del legale.
Intendiamoci: in astratto, l’aumento del numero di avvocati non è, di per sé, un male, posto che l’evoluzione della società ha portato ad un notevole incremento della domanda di giustizia.
Occorre, d’altra parte, esaminare se, a sua volta, l’incremento della domanda di giustizia sia un fattore di per sé positivo; lo è indiscutibilmente, quando è la conseguenza dell’affacciarsi, sul piano della tutela giudiziaria, di nuovi diritti, in precedenza mai affermati (si pensi all’ambiente, alla bioetica, alle pari opportunità, alle discriminazioni di sesso e/o di razza, alle stesse class actions), o quando porta sulla scena processuale soggetti che, fino a quel momento, ne erano sostanzialmente esclusi (i diseredati, gli extracomunitari, i “diversi”): in questi casi, l’aumento del numero degli avvocati potrebbe costituire valida valvola di sfogo del surplus di domanda.
Diverso è, invece, il discorso quando l’incremento della domanda è determinato da un cattivo e anomalo utilizzo dello strumento giudiziale da parte di avvocati “ingegnosi” capaci di far scaturire da una stessa situazione giuridica, che consentirebbe un unico giudizio, più segmenti di cause, con locupletazione di altrettante parcelle.
In secondo luogo, l’incremento di cause non si distribuisce equamente sull’intero arco dell’Avvocatura: ci sono settori “rigidi”, in cui la concorrenza non opera (o, per lo meno, non opera a livello generale) e sono i casi delle controversie che hanno come soggetti compagnie di assicurazione, banche, organizzazioni sindacali, associazioni varie, in cui è assai improbabile che un aumento del contenzioso significhi il conferimento di incarichi a “nuovi” avvocati, diversi da quelli tradizionali.
Dunque, una consistente fetta della “torta” della domanda di giustizia è insensibile, sotto il profilo del coinvolgimento dei nuovi avvocati, all’incremento della domanda di giustizia stessa.
Pertanto, i nuovi avvocati, o riescono ad inserirsi sul mercato nel campo dei nuovi diritti, o riescono ad intercettare nuovi canali di clientela rivolgendosi a quei soggetti prima esclusi dalla scena processuale, o sono chiamati ad entrare in una feroce concorrenza per la ripartizione di quella residua parte di domanda che non rientra nella fetta “rigida” della torta.
Tutto ciò finisce per provocare veri e propri problemi di sopravvivenza, per il momento ancora allo stato embrionale, ma inevitabilmente destinati ad accrescersi, anche in virtù del fatto che manca il ricambio generazionale: gli avvocati, già tendenzialmente alieni dall’andare in pensione, sono oggi costretti, dall’innalzamento dell’età pensionabile, a restare sulla breccia sino, normalmente, a 70 anni e ciò costituisce un ulteriore motivo di iperaffollamento del “mercato forense”.
V’è, peraltro, da dire che una consistente parte dell’Avvocatura si sta orientando, in questi anni, verso sbocchi occupazionali più vicini al rapporto di lavoro dipendente, che alla libera professione.
Ciò è stato il portato dell’affermarsi, anche in Italia, di quel fenomeno, da anni presente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, costituito dai grandi studi, formati da uno o più avvocati affermati che assumono alle loro dipendenze avvocati giovani (e meno giovani) retribuiti in misura fissa.
E’ evidente che la posizione di questi avvocati, dipendenti di studi con centinaia di legali, è profondamente diversa, sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza, da quella degli avvocati più tradizionali; in compenso, essi godono di quella sicurezza economica, oltre che di un buon livello retributivo, propria dei lavoratori con rapporto di lavoro subordinato.
A questa sottocategoria di avvocati si contrappone, invece, quello stuolo di professionisti che hanno piena indipendenza e autonomia, ma che non hanno clienti (e magari nemmeno uno studio)!
E’ a questi che si fa riferimento quando si parla di proletarizzazione (tendenziale, ma in alcuni casi, già in atto) della professione.
E’ evidente che in una simile situazione, in cui l’avvocato non è certo nemmeno di potersi garantire la sopravvivenza, le regole deontologiche, e persino quelle della concorrenza, rischiano di essere violate, a volte per scelta, ma a volte anche per esasperazione e necessità.
Non dico certo questo per giustificare atteggiamenti e comportamenti da condannarsi, ma solo per spiegare la drammaticità della situazione e la necessità di un rigoroso controllo da parte dei Consigli dell’Ordine del rispetto delle norme deontologiche.
La “povertà” di una consistente fascia di avvocati è ormai fatto notorio, al punto che, recentemente, il Presidente del CNF ha rilevato che ben 35.000 avvocati hanno dichiarato un reddito inferiore ai 7.000,00 Euro annui (e di questi ha proposto la cancellazione dagli albi professionali).
Ora, pur escludendo gli evasori fiscali, il dato è significativo circa il livello di impoverimento della categoria e, francamente, allarmante.
Ed allora, prima di “scremare” (come dice elegantemente il Presidente del CNF) gli albi dagli avvocati “poveri”, forse sarebbe bene cominciare la scrematura da chi non rispetta le regole deontologiche che, come detto, richiamano la nostra Costituzione, la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e l’Ordinamento Comunitario.
In proposito, si dimentica che quelle norme deontologiche sono, come ha ancora recentemente statuito la Corte di Cassazione “fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio Nazionale Forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato” (Cass. S.U. 20/12/2007 n. 26810).
Dunque, si tratta di norme che non possono e non debbono essere aggirate (nemmeno in nome di una presunta libera concorrenza), perché poste a tutela dei clienti e degli stessi avvocati.
Se questa è la situazione, parlare di soppressione dell’Ordine, in nome di una liberalizzazione completa della professione, come si è più volte ventilato, anche in sede comunitaria, mi pare il modo più sicuro per ridurre la tutela del cliente, il quale si troverà ad avere a che fare con un imprenditore spregiudicato che si muoverà secondo le logiche di mercato.
In un mercato così difficile, da parte di molti avvocati si è pensato che la soluzione ai problemi economici potesse essere ricercata nella creazione di nicchie di specializzazione, addirittura in singole materie.
Ora, la specializzazione è certamente elemento sempre più importante in una società sempre più complessa e, dunque, ben venga; ma essa non deve diventare ragione di separazione e di differenziazione in seno alla categoria degli avvocati.
In questo senso, anche le già attuali divisioni tra penalisti, amministrativisti e civilisti, se hanno un valore nel momento in cui si traducono nell’impegno alla formazione specifica in una determinata branca, possono diventare pericolose nel momento in cui tendono a porsi come vere proprie categorie autonome, dunque con interessi e finalità proprie.
In altri termini, più si differenziano tra loro gli interessi degli avvocati, più si perdono di vista quei caratteri peculiari che hanno caratterizzato e devono caratterizzare la professione, primo fra tutti l’attenzione a quel ruolo di mediazione tra il rigoroso rispetto delle leggi dello Stato e il dovere di difendere il proprio assistito, che rischia di essere dimenticato, in nome di interessi individuali e particolari, perseguiti nell’ambito della materia trattata.
Questo discorso porta inevitabilmente ad affrontare il tema della rappresentanza politica della categoria.
Devo dire che, sul punto, regna una grande confusione tra i concetti di rappresentanza istituzionale e di rappresentanza politica.
Come è noto, il Consiglio Nazionale Forense costituisce il massimo punto di rappresentanza istituzionale della categoria, ma non ha funzioni di rappresentanza politica.
Forse per ovviare a ciò, il C.N.F. ha indirettamente attribuito una parvenza di rappresentanza politica ad un organismo, l’O.U.A. (Organismo Unitario dell’Avvocatura), attraverso l’assegnazione allo stesso dello specifico compito di organizzare il Congresso Nazionale Forense.
Da una simile, e relativamente minimale, attribuzione di compiti, l’O.U.A. , che è e resta un organismo associativo privato, al pari di molte altre associazioni forensi, si è, di fatto, arrogato il diritto di rappresentanza politica dell’Avvocatura.
E’ da rilevare che le elezioni dei delegati che partecipano all’assemblea nazionale dell’O.U.A. avvengono senza presentazione di programmi e sono elezioni pochissimo partecipate: la stragrande maggioranza degli avvocati ignora, addirittura, l’esistenza di questo organismo o, se ne ha sentito parlare, non ne conosce la natura e le finalità e, in ogni caso, non partecipa alle elezioni dei delegati.
In questo senso, è in corso da qualche anno una difficile battaglia per far risaltare la necessità di una vera rappresentanza politica dell’Avvocatura; ed in questo senso, vanno viste le decisioni di espungere dai bilanci di alcuni Ordini, quali Torino, la posta relativa al finanziamento dell’O.U.A., finanziamento che finiva per ratificarne la rappresentatività.
Dunque, esiste un problema di rappresentatività politica degli avvocati, che va risolto attraverso la creazione di un organismo nel quale possono essere rappresentati, sulla base di un aperto confronto sui programmi, tutte le correnti di pensiero e di impostazione presenti all’interno dell’Avvocatura e che possa rappresentare un valido interlocutore delle istituzioni su problemi specifici del settore giustizia.
Siamo, dunque, in presenza di una categoria sfrangiata, divisa, non animata da comuni intenti di gruppo e che sta sempre più perdendo le sue caratteristiche etico-sociali, con ciò perdendo la stima e il riconoscimento dell’indispensabilità del proprio ruolo da parte della società.
Pertanto, pur in uno scenario ormai definitivamente modificato quanto alla composizione numerica, si dovrebbero cercare elementi unificanti che non possono che essere individuati nel pieno, rigoroso rispetto di quelle prerogative e di quelle funzioni che l’ordinamento e il codice deontologico hanno indicato.
Certo, all’interno dell’ambito delineato da quei principi si può, poi, svolgere la professione in maniera e con finalità tra loro diverse; ed è in questo senso che possono e devono operare le associazioni forensi, privilegiando e sottolineando ideali e modelli di comportamento.
Sono convinto, infatti, che sia necessario far comprendere ai giovani che intraprendano la professione che si può fare l’avvocato, e sempre nei limiti tracciati dalle regole deontologiche, in vario modo, anche in maniera difforme da quello stereotipo dell’avvocato cui ho già sopra accennato, avendo riferimento costante a quegli ideali etico-sociali che devono indirizzare le scelte professionali dell’avvocato.
Ritengo che svolgere la professione occupandosi, in particolare, della difesa dei cittadini meno abbienti e meno tutelati, proponendo sempre interpretazioni delle norme costituzionalmente orientate, sia un modo ancora più efficace per rivalutare il ruolo e la funzione dell’avvocato.
Non occorre, poi, molto: basta avere come riferimento costante, nel proprio comportamento, la ricerca di applicazione del principio fondamentale di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
Un’impostazione che rivendichi, in nome dei principi fondanti il ruolo professionale e dei propri ideali, una posizione autonoma, anche fuori dai canali tradizionali attuali, ancorata ad un garantismo non strumentale, che consenta di fornire risposte identiche ad analoghi problemi, indipendentemente da chi sia il soggetto interessato, consentirebbe all’Avvocatura di recuperare unitarietà e riconoscimento sociale, nonché di riaprire un dialogo con la Magistratura, assolutamente indispensabile se si vuole evitare la completa paralisi della giustizia.
Il dialogo con la Magistratura, che si è dimostrato così difficile ed impervio in questi ultimi anni, è, invece, ben possibile sulla base del recupero di una comune cultura della giurisdizione, che contempli, cioè, al suo interno, sia la cultura delle indagini, cioè dell’accusa, sia quella della difesa, che quella del giudicare.
E’ ovvio che un tale obiettivo non può che passare attraverso una formazione almeno in parte comune, nella quale vengano principalmente evidenziati quei principi base, di rispetto, da un lato, del rito e, dall’altro, dell’inviolabilità dei diritti della persona, che devono essere elemento unificante di entrambe le categorie.
Il discorso è particolarmente rilevante, in questa fase storica, a fronte delle proposte legislative di riforma dell’attuale Governo, in buona misura sostenute anche dal Partito Radicale, nelle quali si sottolinea la necessità della separazione delle carriere all’interno della Magistratura, motivandola proprio con la diversità delle culture che dovrebbero, a dire dei proponenti, informare l’attività del P.M. e quella del Giudice.
Non si deve confondere la tecnica con la cultura; è pacifico che il P.M. ha necessità di acquisire capacità investigative specifiche, ma ciò non significa che egli non possa, anzi, non debba muoversi nell’ottica di ricerca della verità, almeno di quella processuale, che contempla, in pari grado, la possibilità dell’innocenza o della colpevolezza dell’imputato.
Analogamente, il difensore deve affinare la sua capacità di individuare e sottolineare gli aspetti tecnici più favorevoli al suo assistito, ma sempre rispettando la regolarità e la sacralità del rito in quel ruolo di mediazione, già sopra ricordato, tra dovere di difesa e rispetto della legalità.
Insomma, deve trattarsi di un confronto, da svolgersi il più possibile ad armi pari, nel quale entrambe le parti accettino che la decisione avvenga, da parte del Giudice, solo ed esclusivamente sulla base di quanto emerso nel processo, senza condizionamenti esterni.
Di fronte allo sfascio della giustizia in Italia e alla paralisi che si preannuncia, occorre, dunque, che sia l’Avvocatura che la Magistratura, che le forze politiche elaborino un progetto comune di rinnovamento del sistema giustizia improntato all’esigenza di fornire al cittadino quel servizio cui ha diritto: un processo giusto, nel pieno rispetto delle garanzie di ognuno, in tempi ragionevoli, e con elevato livello qualitativo, in materia penale; un processo rapido, con assoluta parità di trattamento tra le parti e di elevata qualità, nel processo civile.
A questi risultati si può pervenire solo attraverso un progetto complessivo che, a differenza di quello proposto dall’attuale maggioranza politica, non abbia come obiettivo la riduzione dell’importanza del ruolo di uno dei Poteri dello Stato e lo stravolgimento degli assetti costituzionali, ma il mantenimento dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura, finalizzato al pieno rispetto e/o al soddisfacimento dei diritti di ogni cittadino.
Se l’avvocato saprà fare la sua parte, in questa difficile opera di ricostruzione, allora, forse, potrà recuperare il suo ruolo nella società e potrà far rivivere quella figura di avvocato, che oggi può apparire superata e fuori moda e alla quale, invece, ogni avvocato dovrebbe costantemente ispirarsi, così ben tratteggiata da Piero Calamandrei: “l’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione, di carità. Nel suo cuore l’avvocato deve mettere da parte i suoi dolori, per far entrare i dolori degli altri. Un imputato alla vigilia della sentenza può avere rimesso il suo destino nelle mani del suo difensore; ma l’avvocato in quella vigilia non può essere tranquillo: la tragedia dell’imputato si è trasfusa in lui, lo logora, lo agita, lo lacera.”.
Torino, 26 settembre 2008

Roberto Lamacchia
Avvocato in Torino
Presidente Associazione Nazionale Giuristi Democratici