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La politica di genere nelle istituzioni: la composizione delle giunte - Massimo Clara
Redazione 1 marzo 2013 12:13
Relazione tenuta al convegno “Lo stato e le prospettive dei diritti civili: il ruolo propulsivo degli enti locali” – Milano 19.01.2013.

Anzitutto, in relazione al settimo comma dell’art. 117 Cost., occorre soffermarsi sul concetto di democrazia paritaria avendo particolare riguardo al contesto ordinamentale regionale.
La disposizione costituzionale stabilisce infatti che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alla cariche elettive”. La Corte costituzionale ha precisato che si tratta di disposizione che, ponendo esplicitamente “l’obiettivo del riequilibrio”, stabilisce “come doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni” (sent. Corte cost. n. 49 del 2003, n. 4 Cons. dir.).
Se è pur vero che la Corte costituzionale si riferiva, in quel caso, allo specifico ambito dell’accesso alle cariche elettive e non anche quello dell’accesso agli uffici pubblici, occorre comunque ritenere che grava sulla Repubblica adottare azioni promozionali per raggiungere l’obiettivo del “riequilibrio” dei generi.
Occorre inoltre rilevare che le Regioni hanno introdotto, negli Statuti di nuova approvazione a seguito della recente riforma costituzionale, disposizioni che prevedono il riequilibrio di genere per le scelte riguardanti la composizione delle Giunte nonché degli enti e degli organi la cui nomina è attribuita alle Regioni.
La Regione Lombardia, in particolare, ha fissato all’art. 11 dello Statuto l’obiettivo della promozione della “democrazia paritaria” “nella vita sociale, culturale, economica e politica”. Il comma secondo riguarda la parità dell’accesso alle cariche elettive, mentre il comma terzo, che qui maggiormente interessa, stabilisce che “la Regione promuove il riequilibrio tra entrambi i generi negli organi di governo della Regione e nell’accesso agli organi degli enti e aziende dipendenti e delle società a partecipazione regionale per i quali siano previste nomine e designazioni di competenza degli organi regionali”.
In particolare l’art. 11 comma terzo rientra per sua natura nell’ambito della “forma di governo” e dei “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” la cui disciplina è demandata dall’art. 123 Cost. proprio alla fonte statutaria.
La disposizione in esame è, dunque, pienamente produttiva di effetti giuridici.
A questo riguardo è utile soffermarsi sulla natura del contenuto eventuale e programmatico degli Statuti regionali, non prima di avere brevemente richiamato quanto stabilito dalla nota sent. n. 1 del 1956 della Corte costituzionale: “la nota distinzione fra forme precettive e norme programmatiche può essere bensì determinante per decidere della abrogazione o meno di una legge, ma non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche, tanto più che in questa categoria sogliono essere comprese norme costituzionali di contenuto diverso: da quelle che si limitano a tracciare programmi generici di futura ed incerta attuazione, perché subordinata al verificarsi di situazioni che la consentono, a norme dove il programma, se così si voglia denominarlo, ha concretezza che può non vincolare immediatamente il legislatore, ripercuotersi sulla interpretazione della legislazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa; vi sono pure norme le quali fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sull’intera legislazione”.
Lo Statuto delle Regioni ha rappresentato per queste un momento di “esplosione” della loro autonomia. Per questa ragione si sono inserite varie disposizioni che sembravano fuoriuscire dagli ambiti costitutivi del contenuto necessario dello Statuto stesso.
Queste disposizioni, programmatiche, esprimevano valori politici, sociali e culturali cui la Regione avrebbe dovuto ispirare la propria azione.
Le posizioni più radicali in dottrina definivano queste disposizioni programmatiche incostituzionali o prive di ogni efficacia. Le ritenevano in particolare lesive del principio democratico: impedivano infatti ai futuri consigli regionali di esprimere scelte di valore diverse. Inoltre, si poneva un ulteriore profilo problematico poiché queste norme pretendevano di orientare l’attività legislativa regionale con ciò “usurpando” il ruolo delle leggi statali-cornice.
Posizione più cauta riteneva che le stesse disposizioni ponessero dubbi di legittimità solo quando imponevano all’amministrazione regionale di assicurare o attuare qualcosa che non rientrava nella sua competenza.
Nessun problema o dubbio di legittimità si poneva invece per le disposizioni che si limitavano a promuovere o favorire.
In ogni caso comunque, sempre secondo questo orientamento restrittivo, le disposizioni programmatiche poiché troppo generiche non avrebbero potuto costituire un vincolo effettivo verso il legislatore regionale. Le disposizioni programmatiche dunque erano considerate disposizioni inefficaci e velleitarie.
Un’altra tesi vedeva nelle disposizioni statutarie parte integrante della normativa in vigore, essendo pienamente legittime. Anzi, esse svolgevano un ruolo tutt’altro che marginale, poiché riproducevano principi già consacrati in Costituzione. Non si poteva delineare alcun tipo di effetto collaterale rispetto a queste disposizioni, poiché il legislatore regionale e le leggi cornice avrebbero dovuto sempre rispettare quei principi espressi in Costituzione.
Coerentemente con l’ orientamento restrittivo, nelle difese regionali si è sostenuto che la norma statutaria ha natura di principio e non precettiva (vengono richiamate a tal proposito le sentt. nn. 372, 378 e 379 del 2004 e 365 del 2007, Corte cost.). Oltre alla stessa collocazione dell’art. 11 dello Statuto lombardo che avrebbe portato ad escludere una sua efficacia giuridica diretta, la difesa della giunta Formigoni ha sostenuto che la stessa formulazione testuale conferma come non si possa parlare di norma percettiva: la Regione infatti “promuove”. Da questa considerazione deduceva che questa opera di promozione richieda che gli obiettivi enunciati debbano essere perseguiti con modalità e tempi adeguati.
Addirittura si diceva che “non è chi non veda […] come si tratti all’evidenza di obiettivi generali di matrice culturale e politica che lungi dal costituire norme precettive, individuano delle finalità verso cui deve orientarsi tendenzialmente e progressivamente l’azione regionale”.

Democrazia paritaria: la portata e il contenuto dell’art. 51 Cost.
L’art. 51 Cost. stabilisce che “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Si tratta di un principio la cui attuazione compete non solo allo Stato, bensì a tutti i livelli decentrati, comprese dunque le Regioni.
Per quanto concerne la portata e il contenuto precettivo della disposizione costituzionale, la Corte costituzionale ha affermato che essa non si “limita più a disporre che «la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa e quindi costituire una sorta di specificazione del principio di uguaglianza enunciato, a livello di principio fondamentale, dall’art. 3, primo comma, Cost. …» ma assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini” (ord. N. 39 del 2005).
Ed ancora, con la sent. n. 4 del 2010, si conferma come l’art. 51 ed il comma settimo dell’art. 117 Cost. siano espressivi del principio di uguaglianza sostanziale. In particolare, si afferma che “il quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese”.
Impugnate su questi presupposti le varie composizioni delle giunte regionali lombarde succedutesi nel tempo, la Regione Lombardia ha insistito nella tesi che tutte le disposizioni costituzionali hanno piena efficacia normativa e vincolante, al di là della distinzione tra norme precettive e norme programmatiche, ma che tale efficacia “opera in maniera diversa, o meglio, su piani diversi”, ovvero riconoscendo la mancanza di differenze sostanziali tra norme che in modo diretto modificano l’ordinamento e quelle programmatiche, ma affermando che “non è il valore normativo che distingue le norme precettive da quello programmatiche, ma il modo di esplicarsi di tale efficacia normativa”. L’art. 51 Cost. rientrerebbe, secondo questa prospettazione, tra le norme la cui valenza normativa non sta nell’esplicare effetti immediati nella realtà, ma nell’individuare obiettivi e fini da perseguire secondo la discrezionalità politica. La difesa regionale infatti concludeva che tra gli obiettivi di questa non vi sia “certamente quello della individuazione di quote a favore delle donne negli organi rappresentativi o comunque di governo”.
“In definitiva, l’art. 51 Cost. è una norma costituzionale certamente vincolante, ma non nel senso di regolare direttamente la materia, ma in quello di individuare l’esigenza costituzionalmente rilevante che l’ordinamento deve soddisfare”.

Profilo comunitario.
Per quanto riguarda la giurisprudenza comunitaria in tema di accesso agli uffici pubblici e parità tra uomini e donne, si può rilevare come i principi di riferimento siano costituiti dall’uguaglianza, dalla promozione della parità fra i due sessi e dalla possibilità che gli Stati membri adottino misure che facilitino o comunque supportino l’attività professionale per il sesso sottorappresentato (Carta di Nizza, artt. 21 e 23; Trattato UE artt. 2 e 3).
Occorre osservare come nelle norme nazionali che apprestino una tutela assoluta e incondizionata alle donne (quale sesso sottorappresentato) si rivelano in contrasto con il diritto comunitario poiché questa sostituisce all’obiettivo un risultato preciso e certo (sent. Kalanke, 17.10.1995). Così, misure dirette alla promozione delle donne nei settori del pubblico impiego devono tenere conto della situazione personale di tutti i candidati.
Si segnalano la risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 27 marzo 1995, riguardante la partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini al processo decisionale, e la raccomandazione 96/694/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 2 dicembre 1996, riguardante la partecipazione delle donne e degli uomini al processo decisionale.
La prima afferma che “l’effetto di un’equilibrata partecipazione di donne e uomini al processo decisionale e una divisione delle responsabilità tra donne e uomini in tutti i campi costituisce una condizione importante per la parità tra donne e uomini”.
La seconda raccomanda agli Stati membri di “adottare una strategia integrata complessiva volta a favorire la partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini al processo decisionale e a sviluppare o istituire misure adeguate, quali eventualmente misure legislative e/o regolamentari e/o di promozione, per realizzare tale obiettivo”.
La decisione della Commissione del 19 giugno 2000 afferma che “la parità fra uomini e donne è essenziale per la dignità umana e per la democrazia e costituisce un principio fondamentale della legge comunitaria, delle costituzioni e delle leggi degli Stati membri e delle convenzioni internazionali ed europee”.
E’ interessante fare riferimento alla raccomandazione del Comitato dei Ministri del 12 marzo 2003 sulla partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini ai processi decisionali politici e pubblici, che delinea anche le riforme costituzionali e legislative di alcuni ordinamenti degli stati europei.
Nella comunicazione della Commissione del primo marzo 2006 si afferma, nella parte I, art. 3.1. sulla partecipazione delle donne alla politica (inserito nel più ampio contesto della promozione della pari partecipazione delle donne e degli uomini al processo decisionale), che “è necessario incoraggiare maggiormente la cittadinanza attiva e la partecipazione delle donne alla vita politica e all’alta dirigenza dell’amministrazione pubblica a tutti i livelli (locale, regionale, nazionale ed europea). La disponibilità di dati comparabili e affidabili resta una priorità”.
Con la decisione del Parlamento europeo del Consiglio del 17 maggio del 2006 si delinea fra gli obiettivi dell’anno europeo quello di stimolare “il dibattito sulle possibilità di incrementare la partecipazione alla vita sociale dei gruppi vittime di discriminazione nonché una partecipazione equilibrata alla vita sociale di uomini e donne”.
Da ultimo va segnalata la relazione della Commissione relativa alla parità fra donne e uomini del 2009, laddove dice che “occorre incoraggiare i partiti politici e i parlamenti europeo e nazionali, secondo le loro responsabilità rispettive, ad adottare misure adeguate affinché le donne si impegnino maggiormente e la presenza delle donne e degli uomini sulle liste elettorali e nelle nomine a cariche pubbliche sia più equilibrata”. La pari partecipazione di donne e uomini ai processi decisionali è considerata, inoltre, quale “necessità democratica ed economica”.
Inoltre è utile richiamare la Convenzione delle Nazioni Unite relativa all’eliminazione di ogni discriminazione contro le donne, laddove all’art. 3 si dichiara che “gli Stati parte devono prendere ogni misura adeguata, incluse le disposizioni legislative, in tutti i campi, ed in particolare in campo politico, sociale, economico e culturale, al fine di assicurare il pieno sviluppo ed il progresso delle donne, per garantire loro l’esercizio e il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali su una base di uguaglianza con gli uomini”.

Sulla portata precettiva della norma statutaria che impone di formare Giunte nel rispetto dell’equilibrio di genere
L’ impugnativa della composizione della giunte Formigoni, dopo un primo pronunciamento negativo del TAR Lombardia, sono state accolte.
Il Consiglio di Stato ha infatti chiarito che il risultato del “riequilibrio” di genere previsto dalla norma statutaria di sostanzia nella “uguaglianza, o sostanziale approssimazione ad essa, di uomini e donne nelle posizioni di Governo regionale”.
E’ evidente allora come la presenza di 2 sole donne in una Giunta composta da 16 membri non si avvicini minimamente a tale parametro.
La presenza maschile era 7 volte più numerosa di quella femminile. Non solo: fatta eccezione per il settore dell’Istruzione, il secondo assessorato nonché il sottosegretario attribuito a componenti di genere femminile riguardavano deleghe di peso politico esiguo, non certo caratterizzanti l’indirizzo politico di maggioranza.
Lo stesso può dirsi con riferimento alla composizione di Giunta frutto dei rimpasti voluti dal Presidente della Regione Lombardia intervenuti nelle more del giudizio.
Ed infatti, coerentemente con l’ indicazione data dal Consiglio di Stato, il TAR Lombardia, con recentissima sentenza (dicembre 2012) ha dichiarato illegittima la composizione della “nuova” giunta Formigoni.

Sulla sindacabilità degli atti di nomina degli assessori regionali per violazione dei principi in materia di pari opportunità
A mettere chiarezza su questo punto è stata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 81 del 2012, con la quale è stato dichiarato inammissibile il conflitto elevato da Regione Campania avverso le decisioni dei Giudici amministrativi che avevano annullato i decreti di nomina della Giunta (in cui era presente 1 sola donna), e che, nella prospettiva della Regione, avrebbero così leso una competenza rimessa alla esclusiva ed insindacabile valutazione politica e fiduciaria del Presidente della Regione.
In questa decisione la Corte ha in primo luogo chiarito, in via generale, che gli spazi di discrezionalità politica trovano sempre un limite nei principi di natura giuridica, ai quali la politica deve attenersi “in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”; e ha poi fugato ogni dubbio in ordine alla riconducibilità delle norme dettate in materia di pari opportunità (dalla Costituzione, dal legislatore e dagli Statuti regionali) alla categoria dei principi, appunto, di natura giuridica vincolante. Così, quando lo Statuto della Regione (come avviene nel caso lombardo quanto nel caso campano) impone di formare la Giunta secondo il canone dell’equilibrio di genere, “la discrezionalità spettante al Presidente risulta arginata dal rispetto di tale canone, stabilito dallo statuto, in armonia con l’art. 51, primo comma, e 117, settimo comma, della Costituzione”.
Massimo Clara