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Pianificazione delle cure e direttive anticipate di trattamento - Mario Riccio
Redazione 4 marzo 2013 20:14
Relazione tenuta al convegno “Lo stato e le prospettive dei diritti civili: il ruolo propulsivo degli enti locali” – Milano 19.01.2013.

Come ha dimostrato nel 2008 uno studio dell’Istituto Mario Negri,più del 90% dei pazienti che viene ricoverato in una rianimazione italiana non è già più in grado di intendere e volere (non competent nella accezione inglese) al momento dello ingresso.
Anche se è opinione comune che i pazienti delle rianimazioni siano quasi esclusivamente acuti (intesi come traumatismi maggiori, patologie cardiache o cerebrovascolari), spesso invece i pazienti che vengono ricoverati in rianimazione sono invece affetti da lungo tempo da patologie croniche degenerative sia neurologiche che respiratorie o metaboliche.
Il ricovero in un reparto di rianimazione è pertanto spesso dovuto al peggioramento di una malattia - a volte più malattie concomitanti - di cui il paziente è affetto da anni e la cui evoluzione degenerativa dovrebbe essere conosciuta dal paziente stesso.
Il condizionale in questo caso è d’obbligo e la questione – cioè l’effettiva conoscenza della malattia e della sua evoluzione da parte del malato – non è certo secondaria.
Infatti, se correttamente informato, il malato potrebbe innanzitutto decidere – o meglio, aver precedentemente deciso e già messo per iscritto - a quali ulteriori terapie intenda sottoporsi e quali invece vuole rifiutare.
Da ciò deriva che un soggetto, la cui patologia cronica–degenerativa comunque porterà ad una grave insufficienza d’organo tale da essergli proposto un ricovero in aria critica, potrebbe aver già deciso di non essere ricoverato in tale ambiente.
Ad esempio, in caso di una patologia degenerativa respiratoria, è inevitabile che si giunga all’indicazione clinica di una ventilazione meccanica invasiva, cioè al collegamento ad un ventilatore.
La cronaca degli ultimi anni ci ha presentato vicende di soggetti che - pur uniti da malattie sostanzialmente simili - hanno assunto decisioni diverse al termine della vita: Luca Coscioni, Papa Wojtyla, Piergiorgio Welby ed in ultimo, in ordine temporale, il cardinale Martini.
Luca Coscioni scelse di non andare neanche in ospedale durante una ennesima crisi respiratoria e morì a casa propria, senza alcuna assistenza sanitaria.
Papa Wojtyla accettò solo alcuni trattamenti come la tracheotomia ed il sondino naso gastrico, rifiutandone però altri quali la ventilazione meccanica e la nutrizione artificiale. Tale legittima decisione lo portò a morte in pochi giorni.
Piergiorgio Welby – come noto - accettò per 10 anni il ventilatore meccanico, che infine decise di rifiutare. Cardinale Martini ha invece atteso serenamente di perdere anche la minima attività respiratoria, facendosi solamente sedare – come risulta dalle cronache – poco prima di morire.
Il problema si pone invece per quei pazienti che – privi di una volontà precedentemente espressa - vengono ricoverati in rianimazione senza essere più in grado di intendere e volere, non competent. Questi sono più del 70% .Infatti solo il 20%, di quel 90% che entra in aria critica non competent, aveva precedentemente espresso le proprie volontà rispetto ai trattamenti sanitari.
Anche negli Stati Uniti, si ferma al 20% l'adesione dei cittadini alle varie forme di testamenti di vita ( living will ).
Il problema del rifiuto dei trattamenti non è ovviamente limitato alla sola terapia nutrizionale per via enterale, come si potrebbe dedurre dall’annoso dibattito sul caso Englaro e dal relativo corto circuito mediatico sondino naso-gastrico/proposta di legge Calabrò.
Infatti in rianimazione ogni trattamento può essere correttamente definito una forma di sostegno vitale. La ventilazione a mezzo di una macchina, così come la dialisi in sostituzione della funzione renale, i farmaci che sostengono l’attività cardiaca, gli antibiotici per combattere gravi infezioni, le continue trasfusioni di sangue, sono tutte terapie ordinarie e necessarie in rianimazione per sostenere un paziente critico. L’interruzione o anche la sola riduzione di uno dei precedenti trattamenti porta a morte il paziente, alcuni immediatamente, altri in un tempo più lungo.
Sempre nello stesso studio già citato dell’Istituto Mario Negri, è riportato che in Italia il 62% dei decessi in rianimazione è dovuto alla decisione clinica di ridurre, interrompere o non iniziare del tutto una delle precedenti terapie. L’insieme di questi comportamenti è definito desistenza terapeutica.
Queste decisioni vengono adottate dai sanitari talvolta in assoluta solitudine, spesso assieme ai familiari con i quali si tenta di ricostruire la volontà del paziente. Operazione comunque complessa e delicata. Anche perché i familiari del paziente, a differenza di quanto si creda o venga presentato, non sempre risultano essere fra loro concordanti ed univoci nelle posizioni. Altresì tendono spesso ad anteporre le loro personali convinzioni, invece che sforzarsi a ricostruire la presunta volontà del loro congiunto. Il tutto – particolare non secondario – senza un reale titolo giuridico.
Per capire la portata del problema, confrontiamoci con alcuni numeri. In Italia vi sono circa 150.000 pazienti ricoverati annualmente in reparti di cure intensive. Di questi, un quinto muoiono, cioè 30.000 pazienti. Quindi circa 16.000 pazienti muoiono annualmente nelle sole terapie intensive per una decisione di desistenza terapeutica, cioè quel già citato 62%.
Questo fa ben comprendere che non è possibile appellarsi ad un concetto di morte naturale, semplicemente perché la stessa non esiste. L’evoluzione di una patologia sia cronica che acuta può sempre essere modificata, rallentata, combattuta dalla moderna medicina, ovviamente se il paziente lo desidera. Tutti noi moriamo con una diagnosi, una prognosi e una terapia, almeno nel mondo occidentale.
Ed ancor più inutile sarebbe, in questo scenario, cercare di stabilire un concetto condiviso di accanimento terapeutico. Semplicemente perché – datasi la sua assoluta soggettività – non è oggettivabile. Ed infatti tale termine non è usato nel dibattito bioetico, giuridico e politico di nessun altro paese occidentale.
Un altro rischio, che secondo alcuni incombe sui pazienti nelle corsie italiane, sarebbe l'abbandono terapeutico. In verità è assai difficile che nei nostri ospedali vi siano forme di ridotta attività terapeutica. Il sanitario di oggi è infatti ossessionato dalle eventuali conseguenze giuridiche del suo operato. Difficilmente pertanto si asterrà da una terapia o da un ulteriore esame diagnostico. Anzi, convinto che ciò potrà escluderlo da un possibile iter risarcitorio, tenderà ad aumentare l'intervento terapeutico e diagnostico anche senza un reale motivo. Compromettendo però ulteriormente il già precario equilibrio economico in materia sanitaria. Tutto ciò è ben noto come medicina difensiva.
Gli ospedali odierni inoltre sono gestiti come una azienda, in tal senso sono così denominati. Le direzioni strategiche ospedaliere - stante un sistema di rimborso a prestazione – hanno tutto l'interesse che il paziente sia trattato nella maniera più invasiva possibile. Infatti questo atteggiamento si tradurrà in un maggior compenso.
In conclusione, la morte appare sempre meno un evento puntuale, preciso, istantaneo. E’invece un processo lungo, complesso, di cui sempre più spesso si può procrastinare la fine. Frequentemente questo processo continua anche in una condizione di incapacità cognitiva del paziente, talvolta temporanea, spesso permanente.
E’ in questa ampio spazio che si troverebbe appunto l’utilità - se non addirittura la necessità- dello strumento giuridico delle Direttive Anticipate di Trattamento ( DAT ).


Dott. Mario Riccio, medico, specialista in anestesia e rianimazione
Consulta di Bioetica di Milano