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Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media e del ceto politico - Pier Luigi Panici
Redazione 26 febbraio 2012 17:59
Pubblichiamo l'intervento di Pier Luigi Panici sulle modifiche al mercato del lavoro ed all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori

Art. 18, ovvero la gigantesca opera di disinformazione dei mass media
e del ceto politico: la lezione di Goebbels è ancora viva?


Fa davvero impressione notare che tutti coloro che discutono dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori non richiamano mai il tenore letterale della norma, esattamente come i giornalisti non ne illustrano mai il suo reale contenuto.
Da qui la gigantesca opera di disinformazione e manipolazione dell’opinione pubblica di questi giorni finalizzata a favorire, di fatto, la eliminazione della fondamentale tutela contro tutti i licenziamenti : sia quelli illegittimi con la sanzione dell’art. 18 (reintegrazione e risarcimento danni), sia quelli discriminatori con la sanzione di diritto civile (nullità, inidoneità ad interrompere il rapporto di lavoro, prosecuzione dello stesso con diritto del lavoratore a percepire tutte le retribuzioni).
Cito l’ultimo imbarazzante ed emblematico caso accaduto a Ballarò il 21.02.2012.
L’on. Finocchiaro, parlamentare molto autorevole politicamente e con una solida preparazione giuridica (proviene dalla Magistratura) ha affermato che non deve essere eliminata la tutela dell’art. 18 per i licenziamenti discriminatori, anzi deve essere estesa a tutti i lavoratori.
Il furbo on. Sacconi si è detto d’accordo, il conduttore dr. Floris nulla ha obiettato.
Ma, come vedremo, per i licenziamenti discriminatori c’è la tutela prevista dalla Costituzione, dal codice civile e da specifiche leggi; tali normative si applicano a tutti i lavoratori, a prescindere dall’art. 18.
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1. Il dato normativo
L’art. 18 l. 300/70 è estraneo alla “libertà di licenziare” ma in parte anche alla materia dei licenziamenti discriminatori.
La norma, titolata “reintegrazione sul posto di lavoro” così delimita l’ambito della sua applicazione: “…… il Giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’art. 2 della predetta legge – (n.d.r.: l. 604 del 1966, licenziamento intimato verbalmente) – o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo……” , ordina la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e condanna il datore a risarcirgli i danni.
Come è dunque evidente:
A) la libertà di licenziamento è garantita dalle norme generali dell’ordinamento (Costituzione e codice civile) e poi, in particolare, questa “libertà” è disciplinata dalla legge 604 del 1966 e 223/91 (e non dall’art. 18).
Tali leggi prevedono che il licenziamento individuale può essere liberamente intimato sia per motivi oggettivi di carattere economico (ragioni tecniche organizzative e produttive, nelle quali sono normalmente richiamati motivi economici, crisi, calo di domanda, diminuzione dei costi, riorganizzazione, ecc.) sia per motivi soggettivi dovuti al notevole inadempimento agli obblighi contrattuali del lavoratore o ad una colpa grave costituente “giusta causa” (le mancanze disciplinari del lavoratore).
Questo è previsto dagli artt. 1 e 3 della l. 604 del 1966.
Vi è poi la possibilità, ampia ed incondizionata, di riduzione del personale con i licenziamenti collettivi previsti dalla l. 223/91: tale normativa richiede solamente il rispetto di una procedura per eliminare tutti i lavoratori che l’azienda ritiene in esubero.
Queste leggi consentono dunque una ampia, generalizzata e largamente praticata, “libertà di licenziare” a tutti i datori di lavoro.
B) L’art. 18 interviene esclusivamente quando il licenziamento, impugnato dal lavoratore nei termini stretti di 60 giorni, é annullato: e ciò accade SOLAMENTE 1) se le ragioni invocate nel licenziamento individuale, ai sensi della l. 604/66, non sono vere oppure se il licenziamento è intimato verbalmente (ma oramai tutti i datori di lavoro…… sanno scrivere) o per motivi di credo politico e sindacale; 2) nel caso in cui la procedura di licenziamento collettivo prevista dalla l. 223/91 non si è svolta regolarmente: tale procedura – è bene precisarlo - richiede unicamente il rispetto di criteri obiettivi di scelta dei licenziandi e di adeguate comunicazioni, senza che vi sia alcuna possibilità di valutazione, da parte del Giudice, sia del merito decisione imprenditoriale, sia della reale necessità della riduzione di personale, sia del numero dei dipendenti da licenziare .
Le sentenze di cui all’art. 18 sono poche centinaia l’anno in tutta Italia a fronte di molte decine di migliaia di licenziamenti.
Dunque: c’è piena “libertà di licenziare” , al pari di tutte le altre libertà (di pensiero, di stampa, di circolazione, di associazione, ecc.): l’art. 18 interviene solo a sanzionare gli ABUSI, esattamente come, nell’esercizio delle altre libertà, è regolata la censura, c’è il divieto di correre contromano in autostrada, di diffamare e calunniare il prossimo, di costituire associazioni segrete o armate, ecc.
Insomma, nessun diritto, anche costituzionale, è privo di limiti o di regolamentazione.
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2. I licenziamenti discriminatori (di razza, di opinione, di sesso, di religione, ecc.)
E’ una sciocchezza affermare che “nessuno vuol toccare l’art. 18 per i licenziamenti discriminatori anzi bisogna estendere la tutela a tutti” .
Essi infatti, da sempre , i licenziamenti discriminatori sono affetti da nullità, sulla base di altre norme dell’ordinamento.
Il divieto di discriminazione e l’obbligo di parità di trattamento, è posto, in generale dalla Costituzione e dal codice civile (che sanziona con la nullità – e quindi la loro inidoneità ad estinguere il rapporto - gli atti negoziali fondati su motivi illeciti) e quindi, in particolare , da leggi ordinarie: D.Lvo 286/99, art. 44; D.Lvo 215/2003, art. 4; D.Lvo 216/2003, art. 4; l. 67/2006, art. 3; D.Lvo 198/2006, art. 55 quinquies.
Vi è poi una apposita - ed efficace - procedura di legge per far cessare ogni discriminazione e rimuoverne gli effetti (oggi art. 28 D.Lvo 150/2011, in precedenza altre norme); l’art. 18 non è nemmeno richiamato dalle normative antidiscriminatorie: non ce n’è, giuridicamente, alcun bisogno .
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2bis. La verità vera, sconosciuta o nascosta da quasi tutti i politici e giornalisti che discutono dell’art. 18, è desumibile da queste semplici ed oggettive considerazioni:
a) togliere l’art. 18 per i soli “licenziamenti economici illegittimi” (per quelli legittimi non c’è ovviamente nessuna sanzione ma la inevitabile condanna del lavoratore non solo alla disoccupazione ma anche a pagare le spese legali al datore) significa avallare, di fatto, i licenziamenti discriminatori. Se infatti le ragioni oggettive e soggettive invocate nei licenziamenti individuali non sono vere, o se i criteri di scelta in quelli collettivi sono violati, un motivo sottostante c’è sempre, ma è inconfessabile, non può essere esplicitato: è per l’appunto quello discriminatorio, che quindi potrebbe liberamente essere intimato, togliendo l’art. 18 ai licenziamenti per“motivi economici” nei quali è sempre mascherato .
Nella esperienza giudiziaria i licenziamenti discriminatori (per razza, sesso, opinioni politiche e religiose, ecc.) sono sempre motivati con ragioni tecniche, organizzative e produttive, crisi economica, riduzione dei costi, ecc: non c’è nessun caso, tra i milioni di licenziamenti degli ultimi 40 anni, in cui il motivo é esplicitato: “Ti licenzio perché ebreo, donna, comunista, negro, cattolico, gay, ecc.!” : le sentenze che annullano i licenziamenti discriminatori sono per questo rarissime, anche perché l’onere di provare il motivo illecito è a carico del dipendente e questa è una “prova diabolica” .
b) Senza l’art. 18 per “i licenziamenti con motivi economici illegittimi” tutti gli altri diritti (ma proprio tutti: rispetto della professionalità, tutela dal mobbing, giusta retribuzione, diritto ai contributi assicurativi e previdenziali, tutela della integrità psico-fisica sul lavoro e dalle molestie sessuali, ecc.) verranno, di fatto, poco o nulla tutelati : quale lavoratrice o lavoratore si rivolge al Giudice per il loro riconoscimento se poi può perdere definitivamente il posto di lavoro per un “licenziamento per motivi economici ” anche se illegittimo?.
Davvero pochissimi eroi, destinati però a sicura sconfitta.
Tolto quindi il “diritto stipite” costituito dall’art. 18, tutti gli altri diritti posti a tutela del dipendente crollano inevitabilmente: sono scritti sulla sabbia.
Questo è l’unico vero motivo dell’assalto finale all’art. 18: tornare al dominio incontrastato del datore, alla pratica non sanzionabile in concreto di ogni abuso, al lavoro servile dei secoli passati.
Ritengo sia doveroso per una corretta informazione dare conto di ciò: anche perché i giornalisti o conduttori sgraditi all’editore saranno tra i primi a farne le spese, con un licenziamento per motivi economici che, anche se illegittimo, mai può comportare la reintegrazione del posto di lavoro, senza l’art. 18 .
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Una ultima notazione.
Una gigantesca ipocrisia accompagna questo assalto finale all’art. 18, indicandolo come ostacolo alla maggiore occupazione, soprattutto per i giovani: l’assioma secondo cui con più licenziamenti arbitrari (senza art. 18) – per quelli legittimi, ripetesi, il datore non ha niente da temere – si avrà più occupazione e meno precarietà, è chiaramente falso: anche la legge c.d. “Biagi” è stata approvata con questi fini e gli esiti disastrosi sono ora sotto gli occhi di tutti.
Esattamente come è teorema ancora indimostrato che più diffusione del cancro aumenti la salute dei cittadini.
Gli slogan ossessivamente ripetuti in questi giorni: l’art. 18 non è “tabù intoccabile” ; ovvero bisogna “riformare”contro il “conservatorismo” , appaiono privi di senso.
La vita, la salute, la libertà, la sicurezza, la dignità, il diritto al lavoro e ad una esistenza libera e dignitosa sono “tabù intoccabili”? .
No, diritti costituzionali; volerli conservare non é bloccare le riforme o lo sviluppo economico: semplicemente mantenere un accettabile livello di civiltà di coesione sociale, di garanzia, anche i lavoratori, dei diritti costituzionali.
Parliamo pure dell’art. 18, ma dicendo la verità, magari, affiancando ai soliti politici e giornalisti qualcuno delle migliaia di giuslavoristi che conoscono la materia: è ciò per evitare che ripetere ossessivamente una menzogna, la trasformi in verità.
Joseph Goebbels, ministro della propaganda hitleriana, spiegava che la politica delle notizie è un’arma di guerra: serve a fare la guerra non a diffondere informazioni.
Oggi c’è la guerra all’art. 18 ma, fortunatamente, il nazismo è stato bandito dalla umanità.

Pier Luigi Panici