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20 maggio, note a margine d'una duplice ricorrenza
Redazione 25 maggio 2020 22:15
Pubblichiamo un post di Pierluigi Panici, una nota di Domenico Gallo e una riflessione di Carlo Guglielmi sui significati odierni di questa data

DUE GRANDI DELITTI

 

Oggi 20 maggio si commemorano due vittime: lo Statuto dei diritti dei lavoratori, una delle più importanti leggi dell'Italia repubblicana, e Massino D'Antona, uno dei più grandi giuslavoristi del dopoguerra. Lo Statuto, commemorato addirittura da alcuni dei suoi assassini, con gigantesca ipocrisia (gli Ichino, Treu e altri che insieme a Renzi e Confindustria gli hanno dato il colpo di grazia nel 2015) dopo l'eliminazione dei diritti fondamentali dei lavoratori, e cioè l'art. 18 che prevede la reintegrazione a seguito del licenziamento illegittimo, gli artt. 4 e 13 che sanciscono il divieto di controllo a distanza a fini disciplinari e il divieto di dequalificazione, è ridotto a uno "statutino" dei diritti dei sindacati maggiormente rappresentativi. Massimo D'Antona è stato tradito nel suo alto insegnamento e nel suo più importante monito contenuto nel bellissimo libro del 1979 dedicato all'art. 18: «... È lecito affermare che la tutela reintegratoria costituisce l'unica risposta possibile ai bisogni di tutela che l'abuso del potere dei licenziamenti mette in evidenza... Retrocedere, anche surrettiziamente, verso un sistema di garanzia risarcitoria, restituendo all'imprenditore l'ultima parola nella vicenda del licenziamento ... costituirebbe un sintomo grave ... una sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor più, una sconfitta per la civiltà giuridica di questo Paese».

 

Pierluigi Panici

 

 

LO STATUTO DEI LAVORATORI E LA PANDEMIA

 

Il 20 maggio sono decorsi cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, non a caso, si intitolava “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. L’oggetto principale della legge riguardava proprio la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà dell’attività sindacale. Con esso, la Costituzione riuscì a superare lo steccato dei poteri privati e a penetrare in territori dai quali era stata lungamente e tenacemente esclusa.

Lo Statuto si rivolgeva al settore principale dell’universo del lavoro, quello del lavoro subordinato, però poneva dei principi che superavano tale ambito, costituiva un punto di orientamento nei rapporti economico sociali mirante al riconoscimento della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art.35Cost), quale espressione della centralità della persona umana. Insomma il valore insuperabile dell’elemento umano che rende il lavoro un fattore di produzione non assimilabile ad una merce.

Non si trattò di una riforma indolore: essa incise con il bisturi sul bubbone di pratiche discriminatrici dure a morire e segnò l’avvento di una stagione di maggiori diritti, maggiori protezioni, migliori condizioni di vita per l’homofaber.

Da molto tempo questa stagione si è rovesciata per vicende relative alle modalità di sviluppo della globalizzazione, incentrata su un insensato modello di competizione al ribasso fra gli ordinamenti. La libertà di circolazione dei capitali, la delocalizzazione delle attività produttive alla ricerca delle condizioni ambientali di miglior favore per gli investitori, l’utilizzo esasperato della tecnologia per sostituire il lavoro umano, l’eliminazione progressiva dei vincoli che la politica utilizzava per mediare il conflitto economico-sociale, le privatizzazioni e l’affermazione della incontestabile egemonia del mercato sulla società, hanno portato ad una progressiva mortificazione dell’elemento umano.

“Ad ogni innovazione tecnologica – ha scritto Vittorio Emanuele Parsi (Vulnerabili: come la Pandemia cambierà il mondo) – ad ogni modifica legislativa, ad ogni peggioramento delle condizioni contrattuali, ad ogni richiesta di maggiore impegno, maggiore dedizione, maggiore flessibilità, maggiore velocità, maggiore spirito di adattamento che veniva richiesto all’homo faber, sono corrisposti minori compensi, minori diritti, minori protezioni, minore vita per l’homo vivens.”

A poco a poco la tutela del lavoro umano incentrato sul modello del lavoro subordinato è stata ridimensionata svuotando il contenitore del lavoro a tempo indeterminato attraverso l’invenzione di una miriade di forme contrattuali a titolo precario, fino alla quasi totale liberalizzazione del lavoro a tempo determinato. Alla fine, grazie al Job’sAct di Renzi, è stata rimossa anche la garanzia che teneva in piedi tutto l’impianto dei diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori attraverso la sostanziale cancellazione dell’art. 18, la norma che reprimeva il licenziamento illegittimo, assicurando un regime di cosiddetta stabilità reale.

Il 20 maggio ricorre anche il XXI anniversario dell’assassinio del giuslavorista Massimo D’Antona che nel 1979 pubblicò un’importante monografia dedicata all’art. 18, di cui vogliamo ricordare queste parole:

…È lecito affermare che la tutela reintegratoria costituisce l’unica risposta possibile ai bisogni di tutela che l’abuso del potere dei licenziamenti mette in evidenza… Retrocedere, anche surrettiziamente, verso un sistema di garanzia risarcitoria, restituendo all’imprenditore l’ultima parola nella vicenda del licenziamento …costituirebbe un sintomo grave …una sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor più, una sconfitta per la civiltà giuridica di questo Paese“.

Oggi di fronte ai disastri provocati in tutto il mondo dalla pandemia, dobbiamo prendere atto che il modello economico sociale e produttivo della globalizzazione fondato sulla ricerca del profitto e dell’efficienza a qualunque costo si è dimostrato vulnerabile proprio a partire dal fattore critico per definizione: quello umano. Il sistema non si è inceppato per un virus informatico, ma per un virus biologico che ha colpito l’anello debole: l’uomo. I diritti del capitale hanno dovuto cedere di fronte all’esigenza di tutela del fattore umano ed è emerso anche il valore insostituibile di lavori che la macchina produttiva aveva sempre considerato di scarto: dai rider agli infermieri.

Se vogliamo salvarci dobbiamo dare di nuovo valore al fattore umano, rovesciando quel processo che ha trasformato il lavoro in merce.

 

Domenico Gallo

 

 

I 50 ANNI DELLO STATUTO DEI LAVORATORI

“Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzarne i suoi sogni” (W. Benjamin)

Ragionare oggi sui cinquant’anni dello Statuto significa certamente ragionare su una crisi rispetto a cui si corre un doppio rischio che va assolutamente evitato. Il primo è unirsi ai futuristi che, anche da sinistra, lo descrivono come un ferrovecchio che ha cessato da tempo di avere aderenza con una società mutata che non sa più cosa farsene delle garanzie fordiste. Ed il secondo è quello di unirsi ai passatisti per rimpiangere nostalgicamente i bei tempi andati. E allora voglio subito introdurre due ipotesi di lettura. La prima è che la crisi, innegabile, dello Statuto non è figlia dell’evoluzione del paradigma produttivo che anzi ha più bisogno che mai di essere costituzionalizzato, ma nasce dalla vittoriosa reazione (chiamata amichevolmente neoliberismo) che la classe dei finanzieri e degli industriali, con le dirigenze di tutti i maggiori partiti, hanno condotto contro l’antropologia giuridica e culturale dell’emancipazione del —e tramite il— lavoro, nata dalle lotte operaie e studentesche dagli anni cinquanta sino alla fine degli anni '70, e dentro cui va calato anche lo Statuto. Come sempre una buona chiave di valutazione sull’efficacia di uno strumento di lotta è la valutazione che ne da il nemico contro cui lo si dovrebbe usare. Si può allora comparare l’oggi con le riflessioni fatte 10 anni fa per il 40o anniversario. Allora si affermava come lo Statuto fosse divenuto pressoché inutile in quanto svuotato dall’esterno tramite la diffusione di nuovi “lavori” ed era la fase della proposta dello Statuto dei Lavori in cui, sulle linee guide della flexsecurity chiesta dall’Unione Europea, si abbandonava ogni velleità di trasformare tramite la dignità il lavoro fotografando normativamente la segmentazione del mercato produttivo. Ebbene nel decennio successivo, e cioè quello che abbiamo alle spalle, ci hanno pensato Draghi, Trichet, Barroso, Monti e giù giù fino al PD a mostrarci come ciò che faceva problema per il capitale non era il mutato paradigma sociale e produttivo ma proprio ciò che di immutabile vi era dentro lo statuto, e cioè i rapporti di forza e la non completa calpestabilità della dignità umana di cui  parlava l’art. 18, ma anche la tutela delle mansioni ed i controlli a distanza di è stato chiesto (ed ottenuto con il Jobs Act) lo scalpo. Insomma la crisi dello Statuto non nasce dalla sua obsolescenza ma dalla sua bruciante attualità. Quanto invece alla nostalgia mi rifaccio a quanto diceva Waler Benjamin per cui “non si tratta di conservare il passato, ma di realizzarne i suoi sogni”. Ciò che occorre fare cioè non è rimpiangere il livello altissimo del conflitto, culminato nell’autunno caldo del 1969, che ha preceduto lo Statuto, ma capire quali promesse non ancora mantenute portava con se e ripartire da quelle.  Di Vittorio, fin dall’inizio degli anni ’50, aveva sollecitato la redazione di uno statuto dei diritti dei lavoratori in linea con i giuristi di ispirazione marxista impegnati nell’affermare l’immediata applicabilità dei principi costituzionali di ciascun lavoratore, a partire da quello a non essere arbitrariamente licenziato. Ed essi   immaginavano come anche la libertà sindacale doveva venire certamente in considerazione, ma non come bene giuridico tutelato delle organizzazioni sindacali bensì  in quanto espressione di una fondamentale e costituzionalmente garantita posizione – positiva o negativa, in fase statica o in fase dinamica – propria di ogni singolo lavoratore. Ed a fronte di questa anima che potremmo chiamare costituzionalista, o neocostituzionalsita, vi era invece la posizione di astensionismo integrale della Cisl che nel 1966 si era addirittura battuta contro la legge 604 e cioè la prima legge che poneva un piccolo argine contro i licenziamenti ingiusti, in quanto ciò rompeva il monopolio sindacale ed arbitrale della gestione di tali controversie facendo entrare due pericolosi competitors (e cioè la legge e la magistratura in cui i lavoratori mostrarono da subito di aver ben più fiducia). A fronte di questo scontro lo Statuto nacque compromissorio (come la Costituzione di cui era attuazione) e quindi —affianco all’anima costituzionalista costituita per l’appunto dall’art. 18 sui licenziamenti, dall’art.13 sullo ius variandi, dall’art. 7 sulle procedure disciplinari e dall’art. 4 sui controlli— vi fu una seconda anima detta “promozionale” che non si occupava dei diritti dei lavoratori ma delle organizzazioni sindacali in linea con la posizione ufficiale cislina di allora riassunta nello slogan “il nostro Statuto è il contratto”. E questa seconda anima non solo non era costituzionale ma era programmaticamente anticostituzionale nel senso che era figlia di quella interpretazione che non considerava più gli artt. 39 e 40 Cost. come erano stati pensati e scritti e cioè come modello di pluralismo istituzionalizzato. Bensì  li considerava come se fossero amputabili per vizi genetici o sopravvenuti: l’art. 39 ridotto al solo suo primo comma e cioè “l’organizzazione sindacale è libera” (cancellando qualunque riferimento sia  alla democrazia interna di cui al terzo comma  sia alla democrazia esterna di cui al quarto comma) e l’art. 40 ridimensionato ad un puro e semplice riconoscimento del diritto di sciopero nella disponibilità delle organizzazioni sindacali che potevano quindi (come accaduto con l’accordo interconfederale del 1950 e poi di nuovo con il testo unico del 2013) disporne negozialmente a nome dei lavoratori. Ed ovviamente, rinunciando ad ogni pretesa di attualizzare la Carta, lo Statuto non aveva alcun modello di agente negoziale collettivo da proporre  e si limitava a prendere atto della realtà prevalente in cui lemma il sindacato  era traducibile pressoché senza residui con Cgil Cisl e Uil  che venivano fotografati all’art. 19 quali detentori naturali dei diritti sindacali. E questa linea promozionale fu ampiamente vincente nell’economia dello Statuto se si pensa che su 41 articoli di cui è composto lo Statuto solo 7 attengono esclusivamente a diritti individuali essendo tutti gli altri diritti contenuti nei restanti 34 articoli mediati in vario modo dal sindacato “riconosciuto”. E ciò portò ad esempio i Quaderni Piacentini nel novembre 1970 a pubblicare un commento sullo Statuto del lavoro dal significativo titolo  “uno  Statuto  per  padroni  e  sindacati”.  Ed anche i Giuristi marxisti di area Cgil commentarono con grande criticità il testo del compromesso (che per altro solo gli emendamenti parlamentari dotarono dell’art. 18  che invece mancava nella stesura dell’iniziale disegno di legge). A queste critiche rispose Giugni dicendo come in realtà non si poteva e doveva parlare di vincitori e perdenti tra le due linee (costituzionalista e promozionale) confluite nella legge perchè esprimevano una forte sinergia, nel senso che le garanzie attribuite ai singoli erano funzionali anche al rafforzamento del sindacato e viceversa. Ebbene dopo 50 anni è possibile e doveroso fare  un bilancio. Di certo furono comprensibili rispetto alle aspettative (era il 1970, l’anno in cui poteva accadere tutto) ma ugualmente erronee le parole di quanti, il PCI prima di tutti, attaccarono lo Statuto come legge retrograda che abbassava e non innalzava il livello di tutela del lavoro. La storia di questi cinquant’anni ed il drammatico scenario di quest’ultimo periodo ci hanno mostrato quanta importanza abbiano avuto questi sette articoletti di costituzionalizzazione del rapporto di lavoro  individuale, tanto che proprio quelli hanno voluto come riscatto nel 2011 la BCE ed il Fondo Monetario per proteggere l’Italia dalla speculazione internazionale. E però appaiono quasi profetiche le parole del più insigne dei giuristi che avevano sostenuto la linea della costituzionalizzazione del rapporto, Ugo Natoli (tra i padri fondatori dei Giuristi Democratici), che in un famoso convegno organizzato da RGL pochi mesi dopo l’approvazione dello statuto diceva che la parte promozionale si mostrava “totalmente inadeguat(a) al fine di una effettiva tutela delle libertà nelle fabbriche, ponendosi piuttosto, in funzione sostanzialmente limitativa di esse”  in quanto sembrava “spostare l’obiettivo verso un’assai opinabile istituzionalizzazione delle organizzazioni sindacali (sia pure per il momento al livello aziendale) e, conseguentemente, verso una regolamentazione, sotto vari aspetti, d’autorità della loro attività”. E infatti è purtroppo innegabile che non solo l’escamotage di evitare il problema della questione della democrazia sindacale è franato quasi subito (ricordiamo che la Corte Costituzionale ci mise pochissimo a rilevare la difettosità dell’art. 19 provvedendo già con la sentenza n. 54 del 6 marzo 1974 a dire che  occorreva prevedere il «riscontro di un’effettiva capacità di rappresentanza degli interessi sindacali»  e «una reale effettività rappresentativa»). Ma anche va detto che, finito il ciclo alto delle lotte, è stata proprio la progressiva istituzionalizzazione dei sindacati riconosciuti dalla parte promozionale che li ha portati, lungi dal fare sinergia con i diritti individuali, a trovare un nuovo ruolo ed una nuova remunerazione nell’addomesticare e  comprimere tali diritti, divenendo una funzione integrata dell’organizzazione aziendale al pari dell’ufficio del personale. Ed è appena il caso qui di evidenziare come questa non sia solo la storia della cosiddetta flessibilità governata che si è inaugurata con le causali di contratto a termine concordate dalla L.56/87, né la storia della concertazione degli anni '90, e neppure la stagione degli enti bilaterali del primo decennio del secolo, o ancora quella degli accordi in deroga degli anni 10, ma è prepotentemente la storia dell’oggi. Non ho qui davvero lo spazio di argomentare ma un piccolo esempio mi pare importante    per la sua capacità di evocazione. Meno di 3 mesi fa, Cisl, Uil e Cgil hanno emesso un appello scritto insieme a Confindustria con cui, cito testualmente, chiedevano di "procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate". Questo è accaduto il 27 febbraio, quando già gli epidemiologi avevano scoperto il secondo focolaio del mondo del Covid in Italia e il Governo aveva tardivamente chiuso le scuole. E non occorre aggiungere altro. E allora che fare? Come ho detto occorre ripartire dalle promesse non mantenute del 1970. Prima di tutto occorre ripristinare i diritti che ci hanno tolto, ma non come erano bensì come avrebbero dovuto essere. E qui mi richiamo alla critica avanzata allora dai Quaderni Piacentini, che quanto ai licenziamenti criticavano la soglia dei 15 dipendenti e  per i controlli attaccavano la possibilità di impiegare guardie giurate ed il controllo occulto (ancorché con l’autorizzazione del sindacato) in quanto attività rivolta, cito testualmente, a “scopi di spionaggio interno e intimidazione” e contestavano altresì, cito sempre testualmente, “la legittimità delle ignobili perquisizioni personali all’uscita dei luoghi di lavoro” rilevando come “ai lavoratori gli art. 2 e 13 della Costituzione, che ammette la perquisizione personale solo per atto motivato dall’Autorità Giudiziaria, non si applicano: prevale il “patrimonio aziendale”.

Poi occorre ribaltare i ruoli tra parte costituzionale e parte promozionale. Occorre infatti ricostituzionalizzare la legislazione sulla rappresentanza sindacale e sullo sciopero quale diritto di ogni singolo lavoratore di aggregarsi, contrarre e confliggere collettivamente. Occorre cioè rovesciare l’impostazione: passare dalla cancellazione degli art. 39 e 40 Cost operata con lo Statuto, alla cancellazione dell’art. 19 e ricostituzionalizzazione del diritto sindacale basato, come ha detto sin dal 1974 la Consulta, sul «riscontro di  un’effettiva capacità di rappresentanza degli interessi sindacali “ e su  “una reale effettività rappresentativa”.  Ed occorre infine passare ad una legislazione “promozionale” nel rapporto di lavoro a partire  dal dramma del lavoro povero con l’applicazione coatta di un salario minimo, con regole stringenti sulla continuità del rapporto in caso di cambio appalto e di contrasto al ricorso al part time involontario. E ciò va fatto  sapendo che purtroppo, se nel 1966 la prima legge contro i licenziamento arbitrari aveva come avversario la sola Cisl, oggi le norme promozionali per inverare l’art. 36 della Costituzione, e cioè per tornare a  far sì che il lavoro possa assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa,  hanno quali principali avversari tutte le tre maggiori confederazioni, a partire proprio dalla CGIL. I grandi avanzamenti della tutela del lavoro sono avvenuti in un periodo di sovrarappresentanza del lavoro, così come i più disastrosi arretramenti si sono verificati nel punto più basso di connessione tra il lavoro e le organizzazioni tradizionalmente chiamate a rappresentarlo. La sfida che abbiamo davanti allora è ricostruire  una alleanza di quella parte della cultura giuridica che crede ruolo di demercificazione del diritto ed in particolare dei valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore con quella parte organizzata dei lavoratori che crede nel ruolo della democrazia sindacale e del conflitto così come disegnato nella Carta costituzionale.

 

Carlo Guglielmi